Il pane e le rose

Silvio Antonini

27 maggio 2015

…Che sono cadute nella lotta armata nell’Italia dal post – Sessantotto ai giorni nostri, sarebbe stata l’aggiunta esplicativa da fare al sottotitolo di questa monografia di Paola Staccioli, romana, autrice di pubblicazioni di respiro storico, sovversivistico e di genere. Non avrebbe inficiato, del resto, con la tradizionale canzone socialista citata a titolo, che dice: “Crumiri col padrone son tutti d’ammazzar…”.

Infatti, il volume si presenta come una raccolta di biografie di donne che, a seguito della Contestazione e nella convinzione che fosse giunto il momento di dare quella spinta necessaria per mutare il corso della storia, hanno impugnato le armi, maneggiato esplosivi – o perciò incriminate – lasciandoci la vita. Una convinzione che ha superato gli anni dei movimenti e, pur riguardando segmenti sempre più risicati e minoritari di società, si è protratta sino a tempi recenti – si pensi che l’ultimo smantellamento di un’organizzazione accusata di voler rifondare, per così dire, le Brigate rosse risale al febbraio 2007 – e nessuno può escludere che si riproponga in futuro.

Qui, essendo esaminata l’altra metà della volta celeste, si prende spunto proprio dai pregiudizi riguardanti le donne che hanno invaso territori considerati di pertinenza maschile, come il mestiere delle armi. Una pregiudiziale solitamente espressasi in morbosità, ilarità e scherno che risale, almeno, alle brigantesse, passa per il movimento operaio, per la Resistenza, sino all’epoca nostra, per un argomento di non semplice trattazione come il lottarmatismo.

Dieci sono le vite ricostruite. Si parte da Elena Angeloni, l’attivista Pci saltata in aria dinanzi all’ambasciata statunitense di Atene mentre preparava un attentato per protestare contro il regime dei colonnelli, sino a Diana Blefari Melazzi, la “neo-brigatista” che si toglie la vita in carcere nel 2009. Fra questi due estremi erano, intanto, cambiati l’Italia e il mondo, eppure si era tramandata quella che Giorgio Galli ha definito la “leggenda delle Br”. Si tratta perlopiù, infatti, di brigatiste o comunque appartenenti alla sovversione che si richiamava teoricamente al marxismo – leninismo. Fa eccezione la vicenda di Maria Soledad Rosas, Sole, l’attivista anarchica, finita nelle indagini contro i No Tav, che si uccide mentre è assegnata ai servizi sociali, nel 1998. Un’appendice didascalica che, in realtà, occupa circa la metà del libro, descrive dettagliatamente le formazioni di appartenenza di queste donne.

Solo una storia a lieto fine è inserita, quasi a voler mitigare l’amarezza e quel, per forza di cose spontaneo, ragionare con i se (se avessero fatto altre scelte, preso altre decisioni…): quella di Silvia Baraldini, l’attivista imprigionata per venticinque anni negli Stati Uniti, per la cui scarcerazione sono state condotte tante battaglie negli anni Novanta, e che ora, finalmente libera, ricostruisce qui dei trascorsi che, per quanto si conoscesse il nome, erano rimasti pressoché inediti.

Per il resto, tante giovani vite spezzate in diverse circostanze, alcune va da sé mai chiarite, cadute in scontri a fuoco, in rapine, vittime degli attentati in preparazione o suicide. La Staccioli, con uno stile di scrittura vicino alla giallistica e al noir italiani, ci restituisce queste vite nella loro interezza, in una pubblicazione che indubbiamente inchioda alla lettura e che poggia, oltre che su una solida bibliografia, su corrispondenze e scritture di carattere diaristico. Materiale censurato, rimosso, perché qui a scorrere è un sangue dei vinti, delle vinte nello specifico, per nulla a buon mercato.

Baraldini e quelle donne in lotta per i diritti

L'esponente politica finita in carcere negli Stati Uniti ha raccontato la sua storia. Al Cartella di Reggio in occasione del 25 aprile

Alessia Candito

26 aprile 2015

REGGIO CALABRIA Non ha più i capelli grigi che ne hanno reso famosa l’immagine durante gli anni di detenzione negli Stati Uniti e di lotte per la sua liberazione. Forse anche per prendere le distanze da quell’immagine diventata un’icona di lotta, ma nello specchio simbolo anni di sofferenza, pressioni, torture, cure negate, ha deciso di tingerli di un rosso tiziano. Ma la voce di Silvia Baraldini è la stessa e ancora trema di indignazione, rabbia, voglia di lottare quando – nella cornice del centro sociale “Cartella” in festa per i 13 anni di occupazione – parla delle lotte che ha consapevolmente vissuto, del suo percorso politico, delle scelte – ponderate – che l’hanno portata per anni nelle peggiori carceri degli Stati Uniti. “Si è parlato molto delle condizioni carcerarie in cui ho vissuto ma oggi mi interessa spiegare il percorso politico che mi ci ha condotto a lottare”. Per questo, ha accettato l’invito di Paola Staccioli a contribuire alla stesura di “Sebben che siamo donne”, una raccolta di storie di donne che hanno imbracciato le armi e hanno perso la vita per costruire un mondo più giusto, “a prescindere da un giudizio di merito sulla lotta armata, sono donne che hanno dato la propria vita per amore della rivoluzione” dice l’autrice . Morte tragicamente in scontri a fuoco, agguati o dietro le sbarre, sono state progressivamente anche uccise dalla storia ufficiale, che le ha etichettate come “terroriste” cancellate o scomunicate, ma mai raccontate. Silvia Baraldini è l’unica sopravvissuta. Dopo anni di feroce riservatezza, passati a tentare di farsi dimenticare, ha deciso di prestare la propria voce e la propria storia alla tessitura di un progetto collettivo di consapevolezza e memoria, che rimetta al centro del dibattito il percorso di donne che hanno scelto la lotta armata all’interno di un percorso politico coerente. “Quando si parla di chi è finito in carcere – afferma – spesso ci si limita a relegarlo al rango di vittima. Questo è successo anche a me, ma oggi credo sia importante spiegare quella che è una scelta politica consapevole”. E la voce di Baraldini si scalda quando ritorna agli anni della sua militanza. “Il mio ruolo negli Stati Uniti è definito ‘spalla'”. Trasferitasi da adolescente negli Stati Uniti, nel 1971 è una delle attiviste del movimento Student for democracy all’università del Wisconsin negli anni in cui il governo degli Stati Uniti inaugura la cosiddetta “guerra segreta” – l’operazione Cointelpro – contro gli attivisti del Black Panther e quei movimenti come l’American Indian movement, gli Young Lords che ponevano al centro dell’agenda anche le rivendicazioni dei popoli afroamericani, latini e nativi da sempre relegati al rango di cittadini di serie B e in quell’epoca determinati a ribaltare “il sistema di supremazia bianca – dice Baraldini – che da sempre gestisce il potere. Questa è una questione fondamentale che ha avuto ripercussioni immediate sul movimento organizzato, che lì si è diviso sul metodo di lotta da utilizzare contro la guerra sporca del governo mirata all’eliminazione fisica dei militanti. E per me non c’è stato dubbio alcuno”. E così che Baraldini non esita a mettersi in gioco, entrando a far parte di un’organizzazione politica a trazione femminile di appoggio al Black Liberation Party. “Molto impegno – si spiega nel libro – fu diretto verso l’acquisizione e lo sviluppo di tutto ciò che permette a un apparato clandestino di funzionare: appartamenti, veicoli, documenti, soldi, armi, ma ciò che ci ha politicamente caratterizzato in quel periodo è stata la liberazione di alcuni detenuti politici, in particolare Assata Shakur”. Una scelta drastica, come lo sono state quelle di Mara Cagol, leader del nucleo storico delle Br, Elena Angeloni, militante comunista internazionalista morta nella lotta contro la dittatura dei colonnelli greci, Annamaria Mantini, militante dei Nap, Barbara Azzaroni, attivista di Prima Linea, Maria Antonietta Berna, espressione dell’autonomia di Thiene, Annamaria Ludmann, vittima del massacro di via Fracchie a Genova, in cui quattro brigatisti vennero trucidati dalla polizia dopo essersi arresi, Laura Bartolini, formatasi nel movimento dei familiari dei detenuti politici, Wilma Monaco, fondatrice dell’Unione comunisti combattenti, ma anche Maria Soledad Rosas, squatter argentina attiva nei primi embrioni del movimento No Tav, morta suicida dopo un’assurda persecuzione giudiziaria che aveva stritolato pochi mesi prima il suo compagno, e Diana Blefari Melazzi, logista delle nuove Br. Donne che hanno compiuto scelte estreme, in tempi diversi, in contesti diversi e per ragioni diverse. Senza alcun appiattimento o sdoganamento tout court della scelta della lotta armata, ribadisce Staccioli, “anche queste donne che hanno scelto la strada difficile, dolorosa di dare e ricevere sofferenze per costruire un mondo diverso, migliore, fanno parte di quel movimento mondiale che è battuto contro lo sfruttamento”. Ma soprattutto – spiega Baraldini – hanno tutte una linea comune “erano convinte che il riformismo non avrebbe mai cambiato questo Paese. È una cosa che fa pensare molto, anche perché viviamo in un Paese strano, in cui il riformismo viene presentato come soluzione per il futuro, quando in realtà è lo strumento di perpetuazione dello stato di cose presente. Esattamente quello che queste donne volevano rompere”.

www.corrieredellacalabria.it

I Circolo Experia ospita due esempi di donne, due esempi di Resistenza

Ivana Sciacca

25 aprile 2015

Sebben che siamo donne” è il titolo della raccolta di storie di rivoluzionarie, curata dalla scrittrice militante romana Paola Staccioli e presentata ieri al Circolo Experia.

Non è stato casuale l’aver fatto coincidere la presentazione di questo libro, impregnato del coraggio di alcune donne, con la vigilia della Festa della Liberazione. E’ stato voluto per sottolineare l’importanza della donna nei processi di cambiamento e (perché no?) di rivoluzione della società.

Alla serata è stata presente l’autrice e Silvia Baraldini, militante che ha scontato venticinque anni di carcere negli Stati Uniti per le sue attività in sostegno del Black Liberation Army e il movimento indipendentista di Puerto Rico.

Il titolo del libro è rivelatorio in qualche modo e la copertina riporta la fatidica frase usata spesso dai giornali di qualche decennio fa: “Nel commando c’era anche una donna”. E su quell’anche scatta l’amara ironia dell’autrice: come se il fatto che una donna compia una scelta ben precisa sia un evento di chissà quale eccezionalità.

Non dovete pensare che sia una scelta semplice anelare alla giustizia sociale e intraprendere nello stesso tempo la via della lotta armata. Ogni qualvolta è successo è stato solo perché è stato ritenuto inevitabile” Paola Staccioli lo dice con un tono chiaro e deciso che non tradisce minimamente la sua vocazione di attivista militante. Cominciano a scorrere fotografie storiche e la sua voce inizia a narrare senza pietismo le speranze, la forza, l’audacia di donne che nei movimenti rivoluzionari hanno trovato il sentiero della propria esistenza, anche quando sono state costrette a sacrificarla.

Come la storia di Maria Soledad Rosas, fotografata il primo aprile del ‘98 con le manette ai polsi con il dito medio di entrambe le mani alzato, mentre esce dall’obitorio dopo l’ultimo saluto al suo compagno Edoardo Massari, suicida nel carcere torinese Le Vallette. Qualche tempo dopo sarà lei ad impiccarsi con un lenzuolo al tubo della doccia.

Entrambi considerati ecoterroristi perché iniziatori del movimento Anti-Tav in Val Susa, volto ad impedire la devastazione del territorio mediante “sabotaggi contro mostri di ferro e cemento. Piccoli gesti contro grandi interessi”.

Chi decide di perseguire sino in fondo una scelta consapevole di come volesse fosse il mondo e lotta per ottenerlo sceglie di essere controcorrente, e chi sceglie di essere controcorrente lo fa per amore: amore della libertà, della giustizia e della rivoluzione. Elena, Margherita, Annamaria, Silvia e tante altre sono solo alcuni dei fiori nati sull’asfalto nell’immondezzaio che circonda…

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Ketty Bertuccelli

30 marzo 2015

Elena Angeloni, Fronte patriottico antidittatoriale
Margherita Cagol, Mara nelle Brigate rosse
Annamaria Mantini, Luisa nei Nuclei Armati Proletari
Barbara Azzaroni, Carla in Prima Linea
Maria Antonietta Berna, Collettivi Politici Veneti per il Potere Operaio
Annamaria Ludmann, Cecilia nelle Brigate Rosse
Laura Bartolini, militante rivoluzionaria
Wilma Monaco, Roberta nell’Unione dei Comunisti Combattenti
Maria Soledad Rosas, Detta Sole, militante anarchica
Diana Blefari Melazzi, Maria nelle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente.

Dieci donne, dieci nomi, dieci storie: l’altra metà del cielo e della lotta armata.
Dieci militanti politiche a cui Paola Staccioli nel suo “Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie” (Deriveapprodi, 2015, pp 256) ha deciso di dar voce. Dieci donne che hanno in comune la decisione della lotta politica e la morte: uccise nel corso di un’azione, per un errore nella sua preparazione, suicide.

“Sebben che siamo donne paura non abbiamo…” è un canto di protesta, sorto inizialmente nella valle Padana, tra il 1890 e il 1914, entrato ben presto nel repertorio delle mondine. Un canto di lotta che narra di giustizia, libertà e uguaglianza, gli stessi temi che, grazie alla narrazione di storie di donne cadute in combattimento durante la loro lotta contro una società ingiusta, attraversano le pagine di questo libro.

Un libro, corredato da schede storiche relative alle organizzazioni o aree di appartenenza delle protagoniste, che parlando di quelle storie, parla della storia del nostro Paese.
Gli anni ’70, quelli che furono noti come “gli anni di piombo”, rappresentano ancora oggi un momento storico ancora molto controverso: errori, lacerazioni, rabbia, fallimenti e speranza.
Ma anche gli anni a seguire sono caratterizzati per lotte, percorsi. Sono gli anni di chi aveva scelto la lotta per cambiare il mondo: c’è “tutto”.
Ma prima di quella complessità, di quel “tutto”, ci furono soprattutto le persone: gli uomini e soprattutto le donne di cui la Staccioli narra, le storie di quelle dieci figure femminili che hanno dedicato le loro vite a sostegno della lotta di liberazione.

Le donne, le vite, i corpi, il sangue, l’amore, le personalità, i pensieri, la radicalità, la forza, le loro scelte, per narrare il mondo, la fase storica e politica che hanno vissuto e in cui erano totalmente immerse, la coerenza estrema di queste combattenti.

Donne e il filo conduttore del mondo che le circonda, protagoniste delle loro vite e della vicenda collettiva che le ha riguardate. Donne che, attraverso questo libro, trasmettono non la storia singola di ognuna: pur leggendo delle loro vicende esistenziali queste non appaiono come esistenze slegate, ma raccontano di una coralità di una pluralità variegatissima di esistenze, tutte mosse dall’ardente desiderio di giustizia e di libertà, da rabbia e speranza.

Condividere o meno le vite di queste dieci donne? Raccontare cosa rappresenta questo libro oggi?

Ogni lettore, sfogliando le pagine di questo libro, volando con la mente fra quegli anni difficili, avrà un suo pensiero, ne trarrà le sue conclusioni. Indipendentemente dai giudizi personali il merito di “Sebben che siamo donne” è di raccontare una parte della storia, una visione, un percorso di lotta che, indipendentemente dal nostro giudizio, appartiene a chiunque, in ogni parte del mondo, si batte per una società senza classi.

E proprio per uno sguardo che vada oltre l’Italia nel libro è presente una undicesima storia, “una storia americana” una storia di classe ed internazionalista: è la testimonianza di Silvia Baraldini (attivista italiana che dagli anni ’60 agli anni ’80 ha fatto parte nel movimento rivoluzionario Black Panther Party, in difesa dei diritti civili dei neri negli Usa). Condannata negli Stati Uniti per associazione sovversiva ripercorre, nelle pagine di questo libro, la sua esperienza personale, le ragioni della sua militanza clandestina, la storia di una donna che ha liberamente scelto, come molte altre donne e uomini, di opporsi allo strapotere degli Stati Uniti.

La scelta libera e consapevole di una donna è il grande filo che lega la storia di lotta di queste donne, “Nel commando c’era anche una donna. Una delle tante azioni armate di organizzazioni clandestine della sinistra. Anche. Un mondo intero racchiuso in una parola” – scrive la Staccioli – “A sottolineare l’eccezionalità ed escludere la dignità di una scelta. Sia pure in negativo. Nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. Madre, moglie, figlia. Amante, al più”. Una citazione conosciuta afferma “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” ci racconta di un vecchio un luogo comune che, farà anche ridere qualcuno, ma che ha sicuramente stufato.

Le figure femminili presenti in questo libro hanno compiuto una scelta autonoma di chi con passione e sentimento imbocca la sua strada e la percorre con convinzione: non dietro nessuno ma al pari dei loro compagni di lotta (ed in alcuni casi di vita).

Moltissimi libri hanno trattato il fenomeno della lotta armata, “Sebben che siamo donne” è un omaggio alle donne che hanno lottato, un commovente ed intenso racconto sulla storia della lotta di classe e delle donne delle organizzazioni armate, perché per cambiare realmente il domani, per agire profondamente sull’oggi, bisogna conoscere e capire ciò che è accaduto ieri.

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… c’era “anche” una donna

Marina Zenobio

25 marzo 2015

“Sebben che siamo donne” è il titolo di una canzone di protesta nata in Val Padana presumibilmente tra il 1890 e il 1914. Oggi è “anche” il titolo dell’ultimo libro di Paola Staccioli, con una inedita testimonianza di Silvia Baraldini, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie (DeriveApprodi 2015, pp. 256, € 16,00)

“Anche” e mettiamo l’accento su questa congiunzione perché, secondo il desiderio dell’autrice, il libro è nato proprio per dare un volto e un perché a questa particella aggiuntiva che appariva spesso nei titoli dei giornali di qualche decennio fa in riferimento ad azioni di lotta armata: “Nel commando c’era anche una donna”. Che ci faceva una donna, armata, in quel commando? Il luogo più comune la poneva lì “per amore di un uomo”, altri perché plagiata da “cattive conoscenze”. L’ipotesi che quelle donne fossero lì per una libera e consapevole scelta, al di fuori del ruolo rassicurante storicamente assegnatole di figlia, sorella, moglie e madre non era (e forse ancora non è) contemplata. In questo libro le storie di alcune di esse riemergono dal recente passato “con la forza delle loro scelte”.

C’erano molte giovani donne fra i militanti delle organizzazioni clandestine dell’epoca che, scrive l’autrice, pur non definendosi femministe, “Impongono pari dignità irrompendo in un territorio maschile. Lottano per il potere come i loro compagni.”

Dieci le storie narrate nel libro, storie “assolute e definitive” di dieci donne che hanno in comune il tragico epilogo della morte: uccise nel corso di un’azione o per un errore nella sua preparazione, suicide. Tra le vite narrate, sette hanno un percorso simile. La militanza in una organizzazione armata in Italia e la morte conseguente a questa scelta: Margherita Cagol, (Mara nelle Brigate rosse), Annamaria Mantini (Luisa nei Nuclei armati proletari), Barbara Azzaroni (Carla in Prima linea), Maria Antonietta Berna (Collettivi politici veneti per il Potere operaio), Annamaria Ludmann (Cecilia nelle Brigate Rosse), Wilma Monaco (Roberta nell’Unione dei comunisti combattenti), Diana Blefari Melazzi (Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente).

Le altre tre storie raccontano invece vicende umane diverse, quelle di:

Elena Angeloni, del Fronte patriottico di liberazione greco. Nata a Milano nel 1939, morta ad Atene, nella Grecia dei colonnelli, nel 1970. Il suo nome cade nell’oblio dopo un primo accanimento della stampa di denigrare la sua figura e la sua dignità di donna. Scrive Staccioli “… I giornali italiani tornano a parlare di Elena nel 2001, dopo i fatti di Genova, quando un suo nipote finisce alla ribalta della cronaca… non ha mai conosciuto la zia, ma un filo li ha legati… il comune desiderio di giustizia, di libertà… Carlo Giuliani”.

Laura Bartolini, nata a Bologna nel 1955, morta a Bologna nel 1984. Militava nell’area dell’Autonomia operaia, si legge nel libro. Fu personaggio di spicco dell’Afadeco, l’Associazione familiari detenuti comunisti di Bologna. “Laura – scrive Staccioli – muove i primi passi politici. Come per molte altre ragazze di quegli anni, la crescita di una coscienza passa attraverso il sentiero del femminismo”. Sarà uccisa da un gioielliere durante un tentativo di rapina.

Maria Soledad Rosas, detta Sole, nata a Buenos Aires nel 1974, morta a Benevagienna (Cn) nel 1998. Siamo nella seconda metà degli ’90, tre giovani anarchici sono arrestati con l’accusa di sabotaggio al No-Tav Torino Lione, tra questi Sole (come la chiamavano gli amici) e il suo compagno Edoardo Massari, detto Baleno perché ha la mania della pulizia. Baleno rifiuta il regime carcerario e si uccide, la giovane argentina Sole lo seguirà pochi mesi dopo. “Nell’estare del 2014 – ricorda Staccioli nel suo libro – il movimento No-Tav ha dedicato a Sole e Baleno il presidio di San Giuliano, in Val di Susa, affermando che all’epoca dei fatti, non comprendendo la portata dell’attacco repressivo, non si schierò chiaramente a fianco degli anarchici arrestati”.

Infine il contributo di Silvia Baraldini, “Una storia americana”, una testimonianza che ripercorre la sua esperienza personale. Tra gli obiettivi di questo suo intervento stimolato da Paola Staccioli, Silvia Baraldini vuole mettere a tacere l’idea, abbastanza diffusa, che sia finita in carcere solo per reati di opinione e che quindi, in qualche modo, fosse una vittima innocente. “E’ importante per me – scrive Baraldini – anche per onorare i compagni e le compagne ancora detenuti, che questa percezione venga sconfitta. Essere vittima significa aver subito un torno, ma quando rifletto sulla mia storia vedo una donna che, con altre persone sparse per il mondo, ha liberamente scelto di opporsi allo strapotere degli Stati Uniti”.

Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, corredato da schede storiche relative alle organizzazioni o aree di appartenenza delle protagoniste, è un libro pieno di passione e sentimento, con un narrato dalla parte di chi quelle storie ha vissuto, cercando di ricostruirne senso, pensieri, azione. Scrive Paola Staccioli: “Si possono non condividere le scelte di queste donne, ma sicuramente sono interne al lungo percorso di progresso ed emancipazione sociale del proletariato e delle masse popolari. Sono parte di noi. Di chi nel mondo si batte per una società senza classi. Queste affermazioni a molti non piaceranno. Non è strano. Finché il divenire storico sarà caratterizzato dalla lotta tra le classi, la memoria non potrà essere condivisa. Ma nemmeno deve trasformarsi in un angolo idilliaco in cui rifugiarsi. Il paradiso degli ideali perduti. Dei pensieri cristallizzati. Deve essere libera da acritiche esaltazioni come da aprioristiche scomuniche. Il passato è materia viva, da modellare al presente”.

popoffquotidiano.it

L’altra metà della lotta armata

Vincenzo Scalia

11 marzo 2015

La sta­gione poli­tica degli anni set­tanta rap­pre­senta ancora oggi il con­vi­tato di pie­tra della poli­tica ita­liana. Per l’area della sini­stra radi­cale, gli errori, i fal­li­menti e le lace­ra­zioni di que­gli anni si con­no­tano come un trauma mai ela­bo­rato, che forse osta­cola più di ogni altro fat­tore lo svi­luppo di un nuovo movi­mento anta­go­ni­sta. Per l’area isti­tu­zio­nale, vice­versa, i cosid­detti «anni di piombo» si pon­gono ancora oggi come vera e pro­pria linfa rige­ne­ra­trice di una classe poli­tica esan­gue. Le recenti ispe­zioni in via Fani, la tre­pida attesa dell’estradizione di Cesare Bat­ti­sti, sono lì a dimo­strarlo.
Il libro di Paola Stac­cioli, Seb­ben che siamo donne (Deri­veap­prodi, pp.250, euro 16), tenta di supe­rare le rigi­dità e le cen­sure che cir­con­dano il tema. Adot­tando una pro­spet­tiva dia­cro­nica, che arriva ad inclu­dere anche vicende recenti, l’autrice si pone su un piano di ori­gi­na­lità, che si arti­cola in una plu­ra­lità di direzioni.

In primo luogo, sce­glie di nar­rare le vicende delle atti­vi­ste di orga­niz­za­zioni rivo­lu­zio­na­rie cadute nel corso della mili­tanza. Una scelta pre­gnante di signi­fi­cati pro­fondi, in quanto emer­gono le loro vicende esi­sten­ziali, che, come sot­to­li­nea l’autrice nelle pagine ini­ziali, scel­gono di sfi­dare gli uomini sul ter­reno della pra­tica rivo­lu­zio­na­ria. Ne emerge una nuova let­tura dell’impegno poli­tico, sce­vra sia dalla cor­re­la­zione tra impe­gno delle donne e movi­mento fem­mi­ni­sta, sia dal car­rie­ri­smo odierno, fil­trato da «Leo­polde» e «bunga bunga» a vario titolo.
La sog­get­ti­vità fem­mi­nile che le pagine ci resti­tui­scono è per­meata da un intrec­cio tra ten­sione indi­vi­duale e sen­si­bi­lità sociale radi­cal­mente diversa dalle logi­che da muc­chio sel­vag­gio che pre­va­le­vano tra la com­po­nente maschile, risul­tando in un agire impli­ci­ta­mente fem­mi­ni­sta, in quanto non subal­terno a logi­che di genere.

In secondo luogo, Paola Stac­cioli mostra di cono­scere e di uti­liz­zare sapien­te­mente le tec­ni­che let­te­ra­rie con­tem­po­ra­nee nella misura in cui ribalta il punto di vista della nar­ra­zione.
La let­tura domi­nante degli anni set­tanta, che riduce la lotta armata e il movi­mento anta­go­ni­sta ad un attacco cri­mi­nale allo Stato demo­cra­tico da parte di un pugno di fana­tici disa­dat­tati, perde ter­reno man mano che la nar­ra­zione incalza. I poli­ziotti spa­rano a san­gue freddo, anche davanti alle mani alzate in segno di resa. I giu­dici adot­tano stra­te­gie di inde­bo­li­mento e di repres­sione basate su un agire ves­sa­to­rio. Lo Stato non è tanto di diritto, ma gronda di legi­sla­zioni pre­miali, car­ceri spe­ciali, reparti spe­ciali, di fronte alle quali i corpi e gli ideali ritro­vano la loro fra­gi­lità e la loro fondatezza.

La scelta di nar­rare la lotta armata attra­verso le sto­rie indi­vi­duali, per­mette di rista­bi­lire i ter­mini della que­stione: si tratta di una vicenda col­let­tiva, che ha riguar­dato per­sone pro­ve­nienti da ogni strato sociale, di diverso grado di istru­zione, ani­mate da rab­bia e spe­ranza, mosse dalla presa di coscienza che le tra­sfor­ma­zioni capi­ta­li­sti­che sta­vano con­du­cendo ad una ristrut­tu­ra­zione col­let­tiva dell’impalcatura sociale, che avrebbe por­tato ad un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita degli strati subal­terni. Le die­tro­lo­gie e le cacce alle stre­ghe su cui si sor­regge la let­tura domi­nante sul «ter­ro­ri­smo», escono for­te­mente inde­bo­lite da que­sto libro.

Infine, all’autrice va rico­no­sciuto un merito che, a sini­stra, non è del tutto scon­tato. Le sto­rie che emer­gono dal libro non riguar­dano mili­tanti di una spe­ci­fica orga­niz­za­zione piut­to­sto che un’altra. L’elemento fem­mi­nile, il carat­tere col­let­tivo delle vicende, si pon­gono come una pos­si­bi­lità di ricom­porre le frat­ture interne ai movi­menti sociali radi­cali. La repres­sione sta­tale, infatti, non ha eli­mi­nato, anzi, ha accen­tuato, le distin­zioni rela­tive alla pre­sunta purezza di un’organizzazione rispetto ad un altra, tra­smet­ten­dole ai giorni nostri.

Que­sto aspetto rap­pre­senta un nodo fon­da­men­tale per il futuro svi­luppo di movi­menti o gruppi che vogliono met­tere in discus­sione l’ordine sociale e poli­tico esi­stente. Una società divisa in classi, nota l’autrice, non potrà mai avere una memo­ria con­di­visa. Una tesi ovvia­mente con­di­vi­si­bile. Il pro­blema, tut­ta­via, si pone, in tutta la sua gra­vità, quando la memo­ria non viene con­di­visa tra chi ha lot­tato dalla stessa parte della bar­ri­cata e ha patito la stessa scon­fitta e i mede­simi soprusi. È pro­prio tra que­ste ferite che si insi­nuano e attec­chi­scono ras­se­gna­zione e riflusso. Sarebbe ora di comin­ciarlo a capire.

ilmanifesto.info

Nunzio Festa

17 febbraio 2015

Un omaggio alle donne che hanno lottato, “Sebben che siamo donne”, curato dalla solita attentissima Paola Staccioli, invita a tenere in mente un ricordo che sia rinuncia alla rinuncia. Elena Angeloni, Margherita Cagol, Annamaria Mantini, Barbara Azzaroni, Maria Antonietta Berna, Annamaria Ludmann, Laura Bartolini, Wilma Monaco, Maria Soledad Rosas, Diana Blefari. Dieci nomi di militanti. Biografie sintetiche come fiori su tombe. Sulla tomba dell’abbandono della volontà e pratica della rivoluzione. Con, per la prima volta in assoluto, la testimonianza chiara e senza reticenze di sorta di Silvia Baraldini. “Donne che dagli anni Settanta all’inizio del nuovo Millennio, in Italia, hanno impugnato le armi o effettuato azioni illegali all’interno di differenti organizzazioni e aree della sinistra rivoluzionaria, sacrificando la vita per il loro impegno”, c’è spiegato. Staccioli, infatti, ragiona sul motivo del suo lavoro: “Questo libro è nato per dare un volto e un perché a una congiunzione. ‘Nel commando c’era anche una donna’, titolavano spesso i giornali qualche decennio fa. ‘Anche’. Un mondo intero racchiuso in una parola. A sottolineare l’eccezionalità ed escludere la dignità di una scelta. Sia pure in negativo. Nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. In un’epoca in cui sembra difficile persino schierarsi controcorrente, le streghe delle quali si racconta nel libro emergono dal recente passato con la forza delle loro scelte. Ché Margherita Cagol, per esempio, omaggiata dalla commovente “Chi ha portato quei fiori per Mara” della band Yo Yo Mundi, non fu soltanto la compagna di Renato Curcio. Come, ancora, la zia dell’assassinato dallo Stato Carlo Giuliani, quella Maria Angeloni trucidata da una bomba da lei stessa piazzata insieme al Giorgio Christou Tsikouris. Era pensato quale atto dimostrativo durante il regime greco dei Colonnelli ai tempi dei Papadopoulos. Era il 2 settembre 1970. Come si ricorda in terra greca. Sul perché proprio Elena non è chiaro. Ma è certo che Maria Elena Angeloni scelse da sola di lottare. Al pari delle altre. Al pari d’Annamaria Ludmann. Alla stregua di Mara. Morte quando mentre erano in resa assoluta. Loro condannate con processo sommario, addirittura.

www.nunziofesta.nelsito.it