La sintesi

(documento interno – 1983)

 

Il dibattito autocritico scaturito dal documento: “Elementi del bilancio politico della sconfitta del soggettivismo”, dibattito non privo di contraddizioni, ha avuto dall’inizio due presupposti fondamentali:

1) non si mette in discussione un caposaldo fondamentale sviluppatosi negli ultimi dodici anni, la Lotta Armata come strategia per la transizione al comunismo, come unica politica proletaria e rivoluzionaria; la guerriglia come: “….soluzione al bisogno strategico di mantenere l’offensiva”, come acquisizione più avanzata dello sconto di classe.

2) non si apre la porta allo scioglimento dell’avanguardia comunista combattente all’interno del movimento rivoluzionario, non ci proponiamo come “area di dibattito”, ma come OCC BR che con il suo patrimonio teorico pratico, nel bene o nel male, ha rappresentato il punto giù alto di direzione del processo rivoluzionario.

In questo senso, pur in una situazione che abbiamo definito di emergenza (peraltro niente affatto conclusa), abbiamo mantenuto istanze di dibattito, di lavoro, di direzione. Così come nel confronto con le avanguardie comuniste presenti nel movimento rivoluzionario, pur affrontando questioni di ordine teorico e strategico per la ridefinizione di un impianto generale, non abbiamo mai abbandonato i principi di: organizzazione che differenziano i membri effettivi, i membri candidati, dai contatti. Tuttavia era in inevitabile che questa riflessione, proprio per il suo carattere di messa in discussione dell’impianto strategico, producesse, insieme a posizioni positive, altre negative, contraddizioni, riserve, perplessità e sfiducia. Va quindi fatta una precisazione preliminare: dobbiamo imparare a correggere le impostazioni sbagliate che tendono ad emergere costantemente, come L’IPERCRITICISMO e LA CATTIVA STORICIZZAZIONE.

L’ipercriticismo mette sullo stesso piano in modo indifferenziato momenti principali ed aspetti secondari della contraddizione, concepisce l’autocritica approfondita come analisi di parte … isolare singoli problemi particolari (lavoro questo da cui potrebbe derivare tutt’al più un elenco di cose da fare) piuttosto che spingerla ad individuare la matrice politica di errori diversi che hanno attraversato tutto il corpo militante e tutta 1’O., e coinvolgerli nel lavoro teorico pratico di rifondazione di una strategia e di un impianto organizzativo adeguato. Riaffermiamo quindi che non è possibile ridurre od assolutizzare l’autocritica ad alcuni aspetti particolari dell’impianto e del lavoro d’O. Non si può, ad esempio, identificare nel burocratismo o nel militarismo la radice comune di problemi diversi.

Allo stesso modo, storicizzare schematicamente porta a considerare il manifestarsi delle contraddizioni legandole alla presenza o all’assenza di questo o quel compagno, porta a dividere la storia dell’Organizzazione in un periodo positivo e in uno negativo; in ultima analisi, concepire successi ed errori come intuizioni individuali piuttosto che come processi collettivi. Le contraddizioni in un’O. rivoluzionaria sono il riflesso dello scontro tra concezione borghese e concezione proletaria del mondo, tra idealismo e materialismo storico dialettico. Infiltrazioni ideologiche borghesi tendono a ripresentarsi in forme e con pesi diversi nel corso del processo rivoluzionario. Ciò che dobbiamo affermare è che nella fase della transizione, nella guerra di classe, nella fase dell’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata per il comunismo, della costruzione del Sistema del Potere Proletario Armato, le infiltrazioni di soggettivismo, la loro derivazione economicista militarista risultano antagoniste all’affermazione della linea proletaria rivoluzionaria.

 

PERCHé NELLA DIALETTICA CONTINUITÀ/ROTTURA ABBIAMO PRIVILEGIATO LA ROTTURA.

 

Ogni processo autocritico passa per una sconfitta (almeno finora) e la portata dell’autocritica dipende dall’entità della sconfitta. Ravvisare questo […] è sicuramente indice di maturità, soprattutto è condizione […] per individuare la natura dei problemi senza soffermarsi superficialmente al loro aspetto esterno, al modo in cui si presenta e ripresenta.

Sarebbe stato molto semplice, ad esempio, spiegare l’epilogo disastroso dell’operazione Dozier con la presenza degli infami, o dicendo di non aver mobilitato a sufficienza i Nuclei Comunisti Rivoluzionari, o teorizzando sbrigativamente di aver fatto un passo troppo lungo rispetto alle potenzialità del movimento antagonista, ancora con una preparazione militare inadeguata.

Molto meno semplice, anzi impossibile, sarebbe ricostruirci (attraverso questo tipo di bilancio) sia l’identità politica che la presenza ed il lavoro all’interno delle masse. Dunque bisognava guardare più a fondo il tipo di dialettica che aveva presieduto fino ad allora alla costruzione delle campagne, dei programmi, al rapporto con le masse, così come alla battaglia politica, alla costruzione del Partito e del Sistema del Potere Proletario Armato. Esattamente la rilettura critica di questi compiti che eravamo andati materializzando, in particolare dopo la DS 80, significava PRIVILEGIARE LA ROTTURA. Insomma, a poco sarebbe servito soffermarci più di tanto sui presupposti teorico pratici su cui le BR si sono costruite e la guerriglia si è sviluppata, avrebbe significato dare al dibattito un taglio di “conservazione”, riaffermandoci come patrimonio storico piuttosto che adeguarsi ai nudi compiti; non spiegare perché, dalla chiusura della fase della Propaganda Armata ad oggi, non si è ridefinito compiutamente un impianto adeguato nella direzione delle masse verso la guerra di classe dispiegata per il comunismo. D’altra parte è vero che una simile riflessione è complesso dirigerla, ed uscirne in positivo significa imparare a capire le contraddizioni e governarle (non certo mediando quelle antagoniste) individuandone la natura, il modo in cui entrano in dialettica, il modo in cui possono ripresentarsi su piani più avanzati; significa imparare a produrre teoria e pratica rivoluzionarie senza delegare a nessuno questi compiti. In questo lavoro si mettono a nudo, insieme al potenziale politico che vive nell’O, le sue debolezze, non solo, ma la situazione in cui si svolge questo lavoro è inizialmente di debolezza (debolezza di linea politica), all’interno di condizioni generali difficili da interpretare (e da vivere): rapporti di forza pesantemente sfavorevoli al Proletariato Metropolitano, vivace ripresa del movimento antagonista, presenza di grosso dibattito nel movimento rivoluzionario intorno alle teorie che da più parti vengono formate.

Ciò spinge alcuni compagni verso posizioni estremizzate: dal non vedere più punti fermi e confondersi nel marasma, al non voler criticare nulla, aggrappandosi all’unica certezza: ciò che si conosce, tutto ciò che è stato fatto.

Così, l’aver privilegiato la rottura ha fatto credere ad alcuni compagni che l’autocritica porta a considerare la Lotta Armata per il comunismo come una “forma di lotta”, e che 1’O. tendesse a negarsi aprendo la strada al movimentismo. Altri compagni, l’unità distinzione tra tattica e strategia, tra particolare e generale, ed inoltre tra il generale che vive in determinate fasi (e quindi all’interno di ogni sua specifica congiuntura) ed il generale processo rivoluzionario per il comunismo, hanno pesato che la sconfitta del Sistema del Potere Proletario Armato in costruzione dovesse essere definita tattica perché non costituiva sconfitta generale del processo rivoluzionario per il comunismo.

L’O. parlando di sconfitta generale non l’ha riferita al generale processo rivoluzionario di lunga durata per il comunismo; ciò che pure andava e va sottolineato, conferma l’influenza di questa sconfitta sugli attuali rapporti di forza complessivi, non perché questi derivino unicamente dalla guerriglia. La guerriglia tuttavia è un elemento non indifferente nella loro determinazione, come non indifferente è stata la sconfitta di una campagna del peso che aveva quella Dozier e il corollario di tradimenti, dissociazioni e carcerazioni. Inoltre la sconfitta non riguarda solo le BR e la concezione della campagna come “operazione politica” di O; seguiva, ad esempio, la sconfitta preventiva della campagna del Partito Guerriglia ed investiva fasce consistenti del SPPA [Sistema di potere proletario armato] in costruzione. Parlare di sconfitta tattica era ed è sbagliato, in quanto si esalta l’oggettività delle allusioni al comunismo e si sminuisce la necessità dell’autocritica delle Avanguardie Comuniste Combattenti rispetto agli errori generali, strategici commessi nel vivo dello scontro di classe.

Altri compagni ancora, per controbilanciare il portato dell’autocritica, pur riconoscendo nell’impianto generale il vizio di soggettivismo (che ha impedito di adeguarsi ai nudi compiti), salvano “alcuni aspetti” come le azioni di Roma del 79-80, la costruzione dei Nuclei Clandestini di Resistenza, la costruzione dei quadri dirigenti. Qui necessitano alcune precisazioni, altrimenti si appiattisce tutto in un unico calderone. Non intendiamo “buttare il bambino con l’acqua sporca”; cioè non diciamo che oggi inizia la battaglia contro il soggettivismo dopo un periodo di cupo torpore. Proprio la DS 80 ha rappresentato la prima sedimentazione di una battaglia che era vissuta nell’O. già negli anni precedenti, ripercuotendosi A FASI ALTERNE sulle iniziative di combattimento, così come nella linea di massa il dibattito interno (cellule o nuclei), ad esempio, rappresentava ancora l’incomprensione del salto nel modo di operare nel rapporto con la classe verso l’organizzazione delle masse e non più solo dei comunisti.

La contraddizione intorno alla frase famosa “….Organismi di Massa Rivoluzionari sono sorti e sorgono…”, se da una parte testimonia una critica alla concezione dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse come portato spontaneo dell’acutizzarsi della contraddizione BI/PM, dall’altra non si proietta verso i nuovi compiti, ma tendeva a conservare la funzione dell’O per quella che aveva nella fase precedente.

Le stesse direttive di combattimento rappresentano questa contraddittorietà: la separazione tra disarticolazione dello Stato e organizzazione delle masse, pur rispecchiando il massimo luogo di odio proletario, oscillando tra il tentativo di aprire una dialettica sui bisogni (come nella campagna sulle forze militari) e l’apparente ignoranza di una campagna in corso (come nelle azioni Bachelet e Minervini rispetto al movimento dei Proletari Prigionieri).

La DS 80, pur avendo rappresentato il primo punto fermo nella comprensione dei nuovi compiti, non ha tuttavia sconfitto definitivamente il soggettivismo, né immunizzato il suo ripresentarsi. In che senso ?

La comprensione dei nuovi compiti era prevalentemente assunzione della elaborazione teorica contenuta nell’“Ape..”, calata su un impianto ancora pesantemente influenzato dai compiti precedenti, che ruotava attorno alla centralità dell’O e stentava a rapportarsi con i differenti livelli di espressione delle lotte di massa. Non a caso l’esperienza maggiormente positiva è stata la campagna per la chiusura dell’Asinara, una campagna che già viveva in uno strato di classe che aveva maturato livelli di organizzazione e di antagonismo irripetibili meccanicamente in altre situazioni. Il dibattito intorno a “Nuclei o OMR” pur essendo tutto interno ai nuovi compiti (e rappresentando quindi un livello diverso di battaglia politica contro il soggettivismo, da quello che si esprimeva intorno a “cellule o nuclei”), rispecchiava un approccio ridotto alla problematica dell’organizzazione della masse, il cui referente di fatto erano quelli d’accordo con la linea politica e con le campagne dell’O, mentre scomparivano o venivano sottovalutati i movimenti di massa pur con contenuti e livelli di maturità differenti. Il SPPA risultava essere un modello stereotipato a cui adattare una realtà ricca di molteplici espressioni e forme di organizzazione. Il combattimento non era sintesi di una attività molto più complessa e vasta di direzione rivoluzionaria, non rilanciava in avanti la mobilitazione di massa, ma in parte la esaminava, inconsciamente cercava di compensare la debolezza della linea di massa. Aver introdotto nel dibattito la “questione del lavoro legale” non significa ripiegare dopo una sconfitta perché non siamo certo in presenza di riflusso del movimento rivoluzionario, quanto spingere la nostra attenzione ed il nostro referente non solo alle esperienze più mature ed organizzate clandestinamente, ma anche a quelle che si mobilitano a livelli di semilegalità.

Insomma si tratta di capire che i movimenti non sono un tutto piatto da cui emerge l’avanguardia rivoluzionaria, si tratta di imparare a rapportarsi ai livelli differenziati a cui si esprime la lotta di classe, senza per questo dire che ogni lotta ha lo stesso peso e lo stesso contenuto antistatuale ed anticapitalistico.

Un’ultima considerazione a proposito della costruzione dei quadri di partito. Anche qui non possiamo sopravvalutare ciò che si è trasformato da necessità in virtù. Un quadro politico formatosi sui documenti d’O, un quadro di propaganda armata, capace di “riportare la linea politica”, ma disabituato ad elaborare, certo proveniente dal vivo della lotta di classe e non dalle cattedre universitarie, ma ciò testimonia il radicamento dell’O e non di essersi dotata di strumenti adeguati a trasformare avanguardie di massa in quadri di partito. Alla luce di come il dibattito si sta sviluppando, dei contributi che tutti i compagni sono impegnati ad elaborare, dalla positività del confronto con le avanguardie comuniste non militanti dell’O e con realtà di massa interne al movimento proletario antagonista, oltre che dalle contraddizioni che da questo dibattito si sprigionano dando il polso della qualità del corpo militante, esprimendo gli elementi avanzati e quelli arretrati, possiamo riaffermare la giustezza e la necessità dell’impostazione che, nella dialettica continuità/rottura, ha privilegiato la rottura.

 

PERCHé ABBIAMO PARLATO DI DIFENSIVA STRATEGICA

 

La guerriglia nasce all’inizio degli anni ’70 dentro condizioni di controffensiva padronale e statuale, non tanto per rispondere ad una crisi che ancora non si manifestava concretamente come crisi generale del Modo di Produzione Capitalistico (MPC) (il cui primo segno premonitore è l’inconvertibilità del dollaro con l’oro, nell’agosto 1971), ma essenzialmente per mantenere l’offensiva dell’operaio massa sviluppatasi, se pur non linearmente e sempre per cicli di lotta, negli anni ’60 e culminata nel biennio ’68 69. La guerriglia, quindi, non aspetta il concretarsi del nesso crisi ristrutturazione per interpretare l’allusione al comunismo presente nelle lotte operaie. Se comunque, nel primo periodo della fase della propaganda armata (’71 ’74) l’offensiva guerrigliera si scagliava contro le gerarchie di fabbrica, con l’acuirsi di processi di crisi ristrutturazione e con l’evidenziarsi del dominio “politico” all’interno della Formazione Economico Sociale (FES), l’offensiva guerrigliera (in dialettica con 1’esigenza operaia di rompere lo accerchiamento della fabbrica) si pone sull’asse strategico dell’attacco al Cuore dello Stato (’74 ’78). La fase della Propaganda Armata si conclude grazie alla “Campagna di Primavera” del ’78, che non solo individua con più precisione rispetto al passato qual’é il “cuore dello Stato” da disarticolare, ma riesce a radicare ulteriormente la Lotta Armata per il comunismo tra le avanguardie del Proletariato Metropolitano (PM). Entrati nella fase di transizione dalla Propaganda Armata alla Guerra Civile dispiegata, l’offensiva guerrigliera non solo deve disarticolare il cuore dello Stato e propagandare la necessità della strategia della Lotta Armata per il Comunismo (LAxC), ma deve farsi carico di dirigere i1 processo di costruzione del Sistema del Potere Proletario Armato (SPPA) (PCC, Organismi di Massa Rivoluzionari OMR , Movimento di Massa Rivoluzionario MMR ).

Quindi l’offensiva guerrigliera è oggi reale ed offensiva soltanto se è adeguata ai compiti di fase. Di fronte ad una sconfitta del SPPA in costruzione, diventa vitale difendere strategicamente il processo di costruzione del SPPA. Questa difesa strategica è in primo luogo politica, cioè significa preparare nuove controffensive partendo da rettifiche e salti politici in dialettica con la classe. Ritirarsi nelle masse, cioè rifondare il processo di costruzione del SPPA in dialettica e all’interno stesso del movimento antagonista, significava e significa sviluppare una battaglia politica dentro il movimento rivoluzionario contro il soggettivismo, contro le sue varianti economiciste militariste che trasformano l’avanguardia rivoluzionaria non solo in apparato separato, ma soprattutto in retroguardia del PM!! Ritirarsi nelle masse e, colpendo le posizioni conquistate dal nemico all’interno del SPPA in costruzione, vuol dire individuare terreni unitari di lotta del movimento rivoluzionario al cui interno sviluppare questa battaglia politica.

Per tutto ciò abbiamo parlato di difensiva strategica. Dato che questi concetti si sono storicamente definiti come concetti militari, delle leggi della guerra sviluppate da Mao, probabilmente sono stati troppo “stretti” per esprimere compiutamente i contenuti politici ed i principi politici che intendiamo difendere strategicamente!

Quando abbiamo parlato di quadro strategico generale caratterizzato dalla difensiva, intendevamo ricordare ai soggettivisti che il rapporto di forza generale tra BI e PM è favorevole alla BI, che non è sufficiente ad esempio – un’azione contro i CC per affermare che già esiste un SPPA. che processa il “sistema di potere imperialista”. Intendevamo sostenere che il rapporto di forza generale tra il nesso crisi ristrutturazione per 1a guerra imperialista e il nesso crisi rivoluzione antimperialista per il comunismo, vede come aspetto dominante il primo nesso ed il secondo. come tendenza principale.

Volevamo rompere con l’ideologismo soggettivista, recuperando il metodo del materialismo storico e dialettico. Volevamo ricordare che – come su tutte le contraddizioni – la tendenza principale (in questo caso 1a rivoluzione) diventa aspetto dominante se distrugge l’aspetto dominante (in questo caso la ristrutturazione per la guerra imperialista).

Fatte queste considerazioni, entriamo nel merito di alcuni concetti e valutazioni espressi sopra che rappresentano inoltre un primo punto sul dibattito in corso, questo documento vuole essere però anche un primo contributo sui nodi teorici e strategici che si agitano nel movimento rivoluzionario, spesso plasmate da concezioni ultrasoggettiviste e metafisiche come nel caso del Partito guerriglia. L’obiettivo politico è lavorare all’arricchimento della teoria e della pratica della rivoluzione comunista nella metropoli imperialista; rimettere il materialismo storico e dialettico con i piedi per terra, riaffermare il metodo scientifico di analisi della crisi, la centralità della fabbrica e della produzione di merci, il rapporto dialettico fra Forze Produttive (FP) e Rapporti di Produzione (RP), tra guerra e politica.

 

LA DOMINANZA DEL POLITICO NELLA FES. FUNZIONE E CUORE DELLO STATO

 

Con la crisi le diverse regioni della FES hanno movimenti caotici e differenziati e si […] definitivamente, il POLITICO domina sulle altre regioni, crescentemente all’interno delle altre regioni stesse (nell’economico, nel giuridico, nel culturale, nel religioso, ecc..). In ultima istanza il dominio del politico è dettato […] regione economica del Modo di Produzione Capitalistico (MPC) proprio per favorire la riproduzione del rapporto di produzione capitalistico. Mentre ai tempi di Marx e Lenin era soprattutto “gendarme” “banda amata” per difendere i rapporti di produzione capitalistici, nella fase dominata dal capitale monopolistico multinazionale lo Stato diventa Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) che favorisce la riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici in qualità di Stato “capitalista collettivo” di Stato, “banca” di Stato, “capitalista reale”. Col dispiegarsi della crisi generale del MPC lo Stato accentua i processi di controrivoluzione preventiva e di statalizzazione della “società civile”, per questo lo stato si caratterizza come “Stato sociale” (che è il contrario dello Stato “riformista”). La militarizzazione della società civile, 1a statalizzazione dei sindacati, dei partiti politici, dei mass media, ecc. sono il riflesso del caratterizzarsi delle Stato come “Stato sociale”, sono il riflesso della dominanza del politico. Infatti il movimento Stato fabbrica è dominante rispetto al movimento fabbrica-Stato, così come è dominante il movimento più generale Stato società civile rispetto al movimento società civile Stato. Con la crisi il capitale non mantiene il suo dominio in maniera forzosa (come puro capitale…. come diceva PL), ma per poter superare la crisi stessa e poter nuovamente estendere il suo dominio riprendendo il ciclo economico, necessita di ristrutturazione per la guerra imperialista. La legge del valore lavoro non si estingue con la crisi è imposta, “forzosamente” dà l’intervento della violenza statale, ma al contrario dimostra la sua impietosa validità suscitando processi di ristrutturazione per la guerra imperialista IN BASE ALLA LEGGE DEL VALORE LAVORO, legge inesorabile del capitalismo la crescita del capitale che determina l’estensione del dominio capitalistico con l’estensione multinazionale della massa del lavoro salariato. Perciò l’estensione del dominio non è la semplice moltiplicazione dei centri di controllo e di comando, ma è in primo luogo estensione di un rapporto sociale che si dà a partire da quello principale, la produzione di plusvalore. È la stessa legge del valore lavoro in dialettica con la legge di caduta tendenziale del saggio di profitto (che ne è parte integrante) a rendere possibile e necessaria, cosi come è la stessa legge del valore lavoro, l’uscita dalla crisi attraverso i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista. È la stessa legge del valore lavoro, è la regione economica, il MPC a promuovere la dominazione del politico mediante la rifunzionalizzazione dello Stato.

Lo Stato in qualità di macchina del dominio capitalistico, quando il capitale necessita e sviluppa processi di ristrutturazione per la guerra imperialista (per favorire la ripresa del ciclo economico), è reale organizzazione del rapporto sociale esistente fra le classi: nel favorire la riproduzione del Rapporto di Produzione Capitalistico (RPC) si funzionalizza in termini di Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista, La funzionalizzazione concreta dello Stato in questo senso è qui data dal “partito della guerra imperialista”, insieme di consorterie presenti nei partiti (in particolare nella DC e nel PSI), nei ministeri (in particolare quelli più importanti dal punto di vista della politica economica oltre che in quelli squisitamente militari), oltre che dalle associazioni padronali (Confindustria, Intersind), nei mass-media la […] si é ormai impossessata dello Stato, cioè dall’insieme degli apparati di dominio. E questo partito è espressione organica di questa frazione dominante della borghesia e delle sue determinazioni sovrannazionali.

Per questo possiamo affermare che il “partito della guerra imperialista” in questa fase è il CUORE DELLO STATO che guida e tenta di egemonizzare i molteplici fronti della ristrutturazione secondo i ritmi e le priorità di questa tendenza in atto, la guerra imperialista in atto, non a caso questo “partito” si contrappone frontalmente al PM in quanto non essendo possibile un allargamento della base produttiva, garantisce peggiori condizioni di riproduzione della forza lavoro (fl) complessiva comprimendo i costi di tale produzione (ad esempio il taglio della spesa sociale, l’aumento delle spese militari e dei fondi per le multinazionali), fornendo una nuova organizzazione del lavoro con cui intensificare lo sfruttamento ed espelle fl eccedente; favorendo la ristrutturazione del mdl per spezzare la rigidità della forza lavoro e per sviluppare mobilità.

Lo Stato come “Stato sociale” il cui cuore è il “partito della guerra imperialista” favorisce l’accelerazione-sviluppo dei processi di ristrutturazione per la guerra imperialista all’interno della società civile e, quindi, prepotentemente contro il PM. Per questo far vivere il “generale”, cioè le direttrici del “partito della guerra imperialista” sempre di più in ogni particolare […] di diversi settori del PM (anche se non tutti i particolari “hanno lo stesso peso specifico” e diverso è il loro rapportarsi con il “generale”).

In questa fase, infatti, dominanza del politico significa anche massima polarizzazione politica tra BI e PM in quanto anche i Bisogni Immediati (favorendo “pesi specifici diversi”) si scontrano con il Modo di Produzione Capitalistico (MPC) e lo Stato; pertanto lo SIM si caratterizza come Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista, nella misura in cui è Stato della controrivoluzione preventiva scatenata.

In questo quadro la contraddizione principale; 1a contraddizione BI PM arriva ad una maturità superiore diventando contraddizione antagonista; il rapporto SIM PM, la lotta di classe, si materializzerà sempre di più in termini di scontro di potere in guerra di classe. Venutesi a creare nuove condizioni favorevoli alla rivoluzione proletaria ria stante i processi internazionali di crisi ristrutturazione per la guerra imperialista che partono dalle metropoli e stante la controrivoluzione preventiva scatenata, è possibile e necessario trasformare lo scontro di potere in scontro per il potere, la guerra di classe. in. guerra. rivoluzionaria antimperialista per il comunismo.

 

SULLA GUERRA E SULLA POLITICA

 

Ogni società divisa in classi ha sostanzialmente alla sua base la guerra, pertanto è sbagliato dire che oggi “la guerra informa la politica” perché ciò potrebbe essere inteso come dominanza del militare sul politico; in eguale misura é scorretto separare il politico dal militare. Separando il politico dal militare lo stesso processo rivoluzionario verrebbe ricondotto ad una interpretazione terzointernazionalista, dividendo ciò che è tendenzialmente unito nel PM e che da ora è unito dall’avanguardia comunista. combattente e dai livelli più significativi dell’antagonismo proletario. Inoltre si metterebbe in secondo piano la politica rivoluzionaria necessaria per trasformare la guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo, per trasformare l’attuale antagonismo del PM in “inimicizia assoluta” del PM nei confronti della BI.

Se affermiamo che già esiste “l’inimicizia assoluta” (che per Lenin è la guerra dispiegata della classe) a cosa servirebbe la politica rivoluzionaria?

Nella guerra di classe metropolitana la guerriglia è la forma di guerra rivoluzionaria che riunendo il politico ed il militare sulla base della “politica che guida il fucile” fa unire la strategia della LAxC per trasformare 1’autonomia proletaria in “inimicizia assoluta” con la borghesia e lo Stato. Cioè la guerra civile dispiegata di lunga durata per il comunismo.

Per questo la politica rivoluzionaria non é una semplice appendice di una “inimicizia assoluta” di una “guerra sociale totale”: la politica rivoluzionaria serve proprio per poter realizzare la trasformazione verso la “inimicizia assoluta” (comunque) per favorire la costruzione del SPPA deve canalizzare scientificamente le lotte proletarie ed il combattimento proletario contro lo Stato. Non si tratta di colpire i “mille cuori” del potere sociale, ma di dirigere e organizzare la lotta ed il combattimento proletario contro il potere politico, contro lo Stato ed in primo luogo contro il suo cuore [….] “partito della guerra imperialista” a livello centrale e periferico.

In questa fase solo attaccando il “partito della guerra imperialista” il PM può trasformare i rapporti di forza nel sociale. Solo attaccando le determinazioni di questo “partito” a livello centrale e periferico il PM può avere un peso politico reale in questa società.

Il PM non deve avere un generico “potere sociale” ma proprio per i contenuti sociali della necessità/possibilità della transizione al comunismo deve conquistare ciò che la borghesia vuole negargli: il potere politico che per il PM è esclusivamente potere politico rivoluzionario per il comunismo. La politica rivoluzionaria non […] il politico ed il militare sin da ora, ma il politico, il militare e il sociale vive nella società soltanto nella misura in cui esiste progettualità rivoluzionaria. Progettualità rivoluzionaria è sapere condensato per la transizione al comunismo, è memoria storica della possibilità/necessità dell’arricchimento maturo del marxismo leninismo nella metropoli imperialista: è progettualità basata sul metodo del materialismo storico e dialettico; è lotta contro l’ideologismo e il soggettivismo, la metafisica. Comunismo non è un ideale, è una comunità reale, cioè una società senza classi da costruire non mediante una “metafisica rivoluzionaria permanente totale” di trotskiana memoria, ma attraverso la rivoluzione realizzata per tappe storicamente determinate. La guerra di classe non è un concetto dell’avanguardia comunista combattente per meglio definire le molteplicità dei compiti presenti nel processo rivoluzionario e per definire particolarmente la sua attività. L’avanguardia comunista combattente del PM non è solo soggetto portatore di teoria rivoluzionaria, ma è parte e direzione della guerra di classe per trasformala in una guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo. La LAxC non è più soltanto come nella fase della propaganda armata la strategia che l’avanguardia politica pratica o propaganda tra le masse, ma sempre nelle lotte che si proiettano verso il comunismo; la strategia della LAxC è sempre più l’unica e reale politica rivoluzionaria e proletaria.

La possibilità/necessità della trasformazione della guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo è un movimento, un rapporto dialettico con i processi di crisi/ristrutturazione per la guerra imperialista che fanno del nostro paese un anello debole proprio quando cerca di saldarsi meglio alla catena imperialista ed in primo luogo agli usa. L’attività dispiegata dall’antagonismo del PM maturato da profonde cause oggettive non si ricompone “oggettivamente” né tanto meno questa attività può essere ricomposta a livello superiore un [….] operato dell’avanguardia comunista combattente (che in questo caso viene relegata al ruolo di retroguardia).

L’attività generale del PM determinata dalla contraddizione principale (BI/PM) […] e non vivendo allo stesso livello dei rapporti di forza si trasforma e riduce la società con la modificazione dei rapporti di forza generali.

In questo processo il Partito in costruzione all’interno del SPPA in costruzione ha un’importanza fondamentale. Il Partito non deve “riassumere” tutto ciò che dalle masse si sviluppa. Non tutti i contenuti dell’antagonismo alludono al comunismo, molti bisogni immediati alludono ad un comunismo povero!!!

Il movimento di attività generale che le masse proletarie svolgono è un movimento complesso perché differenziato al suo interno dalla scomposizione operata dalla BI: compito del Partito è ricomporlo al livello più alto dentro la strategia della LaxC. L’attività generale delle masse va colta per intero in tutta la sua “scomposizione”, in tutti i suoi diversi livelli di antagonismo e contemporaneamente il Partito deve individuare i livelli più significativi che nella fase tendono alla ricomposizione della classe in classe per sé.

Dentro l’attività generale delle masse si colloca l’iniziativa molteplice dell’avanguardia comunista combattente per dirigere il processo di costruzione del SPPA; le attività, i contenuti, gli obiettivi più significativi espressi dall’antagonismo proletario vanno ricomposti-unificati dal Partito mediante il Programma Politico Generale (PPG) che in questa fase è necessario per la disarticolazione proletaria dei processi in atto sviluppati dalla BI per la costruzione di nuovi rapporti di forza. Il rapporto di forza esistente tra BI e PM, tra guerra imperialista in atto e rivoluzione proletaria si può ribaltare soltanto trasformando i rapporti di forza generali, solo con la conquista del potere politico. La trasformazione dei rapporti di forza generali mediante la conquista proletaria del potere politico, quindi con l’abbattimento dello Stato e la disarticolazione del MPC è tappa preliminare rispetto alla possibilità necessità della dittatura rivoluzionaria per il comunismo. Solo con la conquista proletaria del potere politico, solo con il raggiungimento di questa tappa preliminare è possibile trasformare quello che è l’aspetto dominante della contraddizione principale in questa fase e cioè il processo di guerra imperialista in atto, in aspetto secondario, e la rivoluzione proletaria da tendenza principale in concreto aspetto dominante della contraddizione principale. CONTRADDIZIONE CHE PUO’ MORIRE SOLO CON IL COMUNISMO, SOLO CON LA SOCIETA’ SENZA CLASSI.

 

MOVIMENTO PROLETARIO ANTAGONISTA, COSTRUZIONE DEL SPPA INTORNO AD UN PROGRAMMA POLITICO GENERALE.

 

Con la crisi il capitale non riesce a procedere ulteriormente alla propria valorizzazione complessiva, la lotta di classe, stante il dominio del capitale monopolistico multinazionale, si accentua a livello mondiale. Possiamo affermare che oggettivamente in ogni diversa FES, sia in quella in cui il capitale “domina realmente” come nelle metropoli, sia in quella in cui domina (in)formalmente come nella periferia imperialista, la lotta di classe ha in sé i contenuti latenti della possibilità/necessità della transizione al comunismo. Malgrado la lotta di classe si esprima in modi diversi a livello quantitativo e qualitativo, malgrado la diversità dei processi rivoluzionari, malgrado le diverse tappe dei processi rivoluzionari nelle periferie rispetto a quelle dei processi rivoluzionari nelle metropoli, possiamo affermare che la possibilità/necessità della transizione al comunismo viva latentemente a livello mondiale […] in un nuovo internazionalismo proletario.

Nella nostra FES la lotta di classe ha raggiunto un alto livello di maturità e si esprime in termini di rapporto di guerra; in questa fase i processi in atto di ristrutturazione per la guerra imperialista, pur dentro rapporti di forza sfavorevoli congiunturalmente al PM, costituiscono condizioni oggettivamente favorevoli per la rivoluzione proletaria in quanto costituiscono la causa della contraddizione Stato/PM. Sono nel [….] della lotta di classe in termini di scontro di potere, di guerra di classe. Quando la lotta proletaria ai sviluppa e tende a generalizzarsi e ramificarsi non è recuperabile in alcun modo dalla BI e non può essere finalizzata ad un ulteriore sviluppo del capitale, cosa che poteva avvenire in una fase di crisi ciclica del MPC.

La guerra di classe è dunque il risultato dell’approfondimento della contraddizione FP/RP nella crisi a partire dai punti focali dove più forte e maturo è l’antagonismo: la grande fabbrica metropolitana. I processi di crisi-ristrutturazione per la guerra imperialista fanno aumentare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia che essendo DENTRO i rapporti di produzione capitalistica e crescentemente CONTRO questi stessi rapporti possiede le maggiori potenzialità dell’antagonismo assoluto e complessivo del modo di produzione borghese: fanno peggiorare le condizioni di vita e di lavoro del proletariato marginale; fanno aumentare le quote di proletariato emarginato a cui appartiene il proletariato extralegale inteso in senso stretto (perché le attività extralegali tendono a coinvolgere tutti i diversi settori del PM) ed il proletariato prigioniero in senso stretto (cioè aumentano i PP “stabili” relativamente al PP “instabile”). Il proletariato emarginato possiede la forza lavoro che il capitale non può più impiegare né esportare e quando si nega come forza lavoro […] il proletariato extralegale; ciò non vuol dire che i proletari emarginati ed in particolare i proletari extralegali siano di per sé antagonisti assoluti e complessivi del MPC. Da questo punto di vista è sbagliato parlare di una enorme massa di capitale variabile vagante che il capitalismo stesso non può più impiegare né esportare e che a sua volta si nega come forza lavoro, affermando se stessa come antagonista assoluto e complessivo del MPC (crisi, guerra internazionalismo proletario. PG, Palmi) Infatti all’MPC e allo Stato si contrappone un movimento proletario antagonista caratterizzato dalla resistenza attiva a partire a dalla lotta DENTRO e CONTRO i rapporti di produzione capitalistici, FUORI e CONTRO lo Stato.

A differenza della resistenza passiva della disobbedienza civile “LA RESISTENZA ATTIVA È RESISTENZA OFFENSIVA” in quanto il movimento proletario antagonista oltre a resistere contro i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista è offensivo per 1’allusione della transizione al comunismo esistente nel vivo della lotta al MPC e allo SIM. Le lotte proletarie che tendono a generalizzarsi con difficoltà relative stante una controrivoluzione preventiva scatenata, non sono le lotte economico politiche, ma le lotte proletarie contro lo Stato! Il no operaio al tetto antinflazione sugli aumenti salariali imposti dal governo Spadolini; il no! operaio all’attacco della confindustria della scala mobile; il no! operaio alla politica economica dello Stato basata sul taglio delle spese sociali e sull’aumento delle spese militari e dei fondi destinati alle imprese multinazionali in testa; il no! proletario alla NATO e ai blocchi militari in generale e complessivamente alla guerra imperialista. Queste lotte hanno contenuti molto avanzati e fanno parte del movimento proletario antagonista, la base sociale in cui è possibile e necessario costruire le basi sociali rivoluzionarie e cioè il SPPA con le tre determinazioni: il Partito, gli OMR, i MMR.

Il SPPA si costruisce a partire dalla lotta proletaria e si estende DENTRO e CONTRO i rapporti sociali di produzione capitalistici, FUORI e CONTRO lo Stato. Se invece si credesse possibile costruire tale sistema esclusivamente fuori e contro i rapporti di produzione capitalistici, non solo mancherebbe la centralità operaia, ma addirittura si arriverebbe a riproporre un programma immediato unico per tutto il PM basato sull’esproprio proletario, si privilegerebbe la lotta alla distribuzione capitalistica dei redditi e delle merci. Nella contraddizione valore d’uso valore di scambio si privilegerebbe l’aspetto esistente nella distribuzione senza capire che i rapporti di distribuzione e di scambio sono determinati in ultima analisi dai rapporti di produzione. Inoltre con il concepire la costruzione del SPPA separatamente dai rapporti di produzione capitalistici è frutto di un’analisi del MPC in cui le forze produttive ed i rapporti di produzione non vengono evidenziati come un’unità di opposti anche quando raggiungono il massimo livello di tendenza divaricante, ma esclusivamente come rapporto tra elementi separati.

Così come gli elementi più avanzati di lotta del PM si sviluppano dentro e contro i rapporti di produzione capitalistici, fuori e contro lo Stato, nelle metropoli imperialiste ed in particolare in questa fase costruire il SPPA non vuol dire costruire le “basi rosse”, le “zone rosse in cui esercitare il potere rosso, perché non ci sono zone liberate, territori da difendere e non esistono, come è stato in Cina, territori da difendere e masse armate: basi sociali rivoluzionarie non significa neanche “basi rosse invisibili” perché l’ambiguità del concetto di invisibilità ha pontato e porta il SPPA in costruzione a diventare invisibile alla classe, la clandestinità in riferimento agli OMR in costruzione, non deve significare invisibilità al movimento rivoluzionario e al movimento antagonista, ma esclusivamente clandestinità rispetto allo Stato.

I1 SPPA non si costruisce per linee esterne al movimento antagonista, si può costruire solamente per linee interne al movimento antagonista e a partire dall’alto, cioè dai livelli di lotta più alti in termini di contenuti e forma che debbono essere “condensati” dalla guerriglia mediante un Programma Politico Generale (PPG) per dirigere, mobilitare organizzare la lotta ed il combattimento proletario contro lo Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista. (Le campagne non sono “campagne d’O” bensì campagne per organizzare l’offensiva proletaria nelle nuove condizioni di controrivoluzione preventiva scatenata.)

Nella dialettica masse Partito-masse si dà possibilità concreta di costruzione della linea di massa rivoluzionaria per attaccare il cuore dello Stato partendo dai contenuti più avanzati presenti nelle lotte del PM. Il rapporto masse/Partito/masse è storicamente determinato e attualmente si esprime come rapporto: movimento proletario antagonista/Partito in costruzione. Movimento proletario antagonista in cui è possibile e necessario costruire il SPPA e trasformare le scontro di potere in scontro per il potere.

A proposito del SPPA vanno fatte alcune doverose precisazioni. Se con la DS 80 si superava l’idealismo presente in certe tesi sviluppate nel ’79, come quella in base alla quale “gli OMR sono sorti e sorgono in conseguenza del divenire oggettivo della crisi” (2° delle 20 tesi finali pubblicate nell’Ape e il comunista), perché in realtà gli OMR non nascono spontaneamente come ci dimostrano questi ultimi anni di pratica sociale, oggi è fondamentale battere sempre nel vivo della pratica sociale tutte le concezioni soggettivistiche del SPPA alla cui base c’è sempre l’idealismo. L’esistenza di un SPPA in costruzione. non deve, ad esempio, far considerare la costruzione del PCC come già realizzata, l’esistenza del movimento di massa rivoluzionario come già DATA, come se fosse qualcosa di statico e non invece unito/distinto dal movimento proletario antagonista, e gli OMR in costruzione come “anello permanentemente mancante”, o meglio “permanentemente mancante” anche quando esistono migliaia di OMR […] allora a SPPA costruito e considerato le tre determinazioni (PCC – OMR – MMR) essendo in continuo mutamento nel loro reciproco e nel rapporto con il movimento antagonista, da un lato, e nel rapporto con lo Stato e con il MPC, dall’altro lato sarebbero permanentemente mancanti! Costruzione del PCC e OMR sono processi distinti ma in stretta unità dialettica, tanto che non si dà PCC senza la costruzione direzione e conquista degli OMR; così come non si dà costruzione degli OMR senza una loro direzione del movimento di massa antagonista in movimento di massa rivoluzionario.

In questa fase: trasformare lo scontro di potere in scontro per il potere, trasformare la guerra di classe in guerra rivoluzionaria antimperialista vuol dire costruzione del SPPA intorno ad un programma generale che, congiuntura dopo congiuntura, disarticolando lo Stato della ristrutturazione per la guerra imperialista e della controrivoluzione scatenata, si costruisce in dialettica con i contenuti più avanzati delle lotte del PM (contro la guerra, la cassa integrazione, la nuova organizzazione del lavoro, contro la ristrutturazione del mercato del lavoro, contro lo Stato del terrore e della tortura) che alludono, in continuità con le lotte degli anni ’70, ad un programma generale di transizione al comunismo.

Il Programma Politico Generale vive all’interno dei diversi settori di classe del PM mediante il Programma Politico Immediato, e in questa fase di transizione dalla propaganda armata alla guerra civile dispiegata ha come obiettivo la CONQUISTA DEL POTERE POLITICO. Conquistare il potere politico vuol dire costruire rapporti di forza generali favorevoli al PM; vuol dire distruzione abbattimento dello Stato e disarticolazione del MPC; conquistare il potere politico come tappa preliminare per la possibilità necessità del suo movimento rafforzamento ATTRAVERSO LA DITTATURA RIVOLUZIONARIA DEL PM nella prospettiva dell’abolizione insieme alla classe di ogni potere dell’uomo sull’uomo.

Nelle metropoli imperialiste la dittatura rivoluzionaria del PM può e deve darsi soltanto sul terreno politico mediante la POLITICA RIVOLUZIONARIA, può e deve materializzarsi in ogni rapporto sociale caratterizzandosi come dittatura rivoluzionaria integrale (a livello economico culturale, ecc) per la CONTINUA DISTRUZIONE del MPC e quindi per la costruzione della società senza classi. La dittatura rivoluzionaria del PM, periodo storico ineliminabile per la transizione dal capitalismo al comunismo, considerando sempre che il comunismo o è per tutti o non è comunismo, non può esistere senza eliminazione globale dell’intero sistema imperialistico mondiale. (Da questo punto di vista internazionalismo proletario, che per altro non concede spazio ad alleanze tattiche con nessuna forza imperialistica specie per il proletariato delle metropoli dell’est e dell’ovest, è elemento centrale e decisivo del programma rivoluzionario.)

 

 

SULLA CENTRALITÀ DELLA PRODUZIONE DI MERCI

 

La legge del valore lavoro, legge fondamentale del MPC, dimostra da un lato l’origine dello sfruttamento nell’estrazione capitalistica di plusvalore (grazie all’uso capitalistico della forza lavoro) e, dall’altro, dentro una tendenza verso zero del valore, la necessità capitalista dell’aumento tendenziale del saggio di plusvalore (o saggio di sfruttamento pv/v); comunque la produzione di valore e plusvalore trova un limite nella riproduzione capitalistica allargata, nella accumulazione capitalistica in cui vive la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto (pv/c+v) grazie al continuo aumento della composizione organica del capitale (c/v).

L’aumento tendenziale del saggio di plusvalore e la caduta tendenziale del saggio di profitto costituiscono la causa oggettiva in ultima istanza della necessità e sviluppo del dominio reale del capitale (basato sulla produzione di plusvalore relativo) e del suo attuale stadio superiore dettato dal CAPITALE MONOPOLISTICO MULTINAZIONALE e dal suo processo MULTI PRODUTTIVO.

Infatti è questa la pausa dello sviluppo a fianco e dentro le due branche della produzione (produzione di mezzi di produzione e produzione di beni di consumo di massa in cui sono compresi anche i beni di lusso), della produzione di “modelli di consumo” e di “sistemi ideologici”. Questa produzione non è una nuova branca di produzione finalizzata esclusivamente alla “realizzazione riproduzione del plusvalore relativo, del rapporto sociale dominante”. La produzione delle forme della coscienza si divide in due: infatti lavoro produttivo di plusvalore e lavoro improduttivo di plusvalore necessario alla sua realizzazione riproduzione, vivono ora nella produzione delle forme della coscienza e quest’ultima si sviluppa a fianco e dentro le due branche della produzione. Ciò è dimostrato, per esempio, dal rapporto multinazionali mezzi di comunicazione di massa (vedasi i diversi testi di Mattelart).

La produzione di sistemi ideologici e di sistemi di consumo non solo è finalizzata alla realizzazione riproduzione del plusvalore relativo, ma anche alla produzione diretta di plusvalore, stante una crescente mercificazione della produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

La produzione di merci non è esclusivamente produzione di merci salari ma anche – ad esempio di merci lezioni, come diceva Marx già un secolo orsono. La produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo non è esclusivamente produzione di nuovi bisogni e creazione di nuovi valori d’uso, ma anche produzione di merci, aventi come tutte le merci un valore d’uso ed un valore di scambio, originato dal valore incorporato.

Nelle metropoli l’estensione del lavoro improduttivo di plusvalore, necessario alla realizzazione riproduzione di plusvalore (a cui per esempio corrisponde l’estensione del proletariato dei servizi) si sviluppa grazie al gigantesco aumento di produttività di plusvalore del capitale monopolistico multinazionale).

I1 lavoro produttivo di plusvalore non si riduce però alla sola produzione di merci salari, ma si diversifica nel continuo processo multiproduttivo del capitale monopolistico multinazionale fino a coinvolgere la stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo grazie ai processi intestini di mercificazione dettati dal crescente dominio reale del capitale.

Nel dominio reale del capitale non esiste una branca produttiva di merci ed una produttiva di nuovi bisogni e di nuovi valori d’uso, proprio perché non solo la produzione di merci è egemone e centrale, ma anche perché la produzione di merci si estende e diversifica coinvolgendo la stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

In caso contrario la tendenza oggettivamente divaricantesi valore d’uso – valore di scambio verrebbe considerata metafisicamente come tendenza realizzata stante l’esistenza di una vera e propria branca produttiva di nuovi valori d’uso […] come sembra credere chi, cercando di “forzare l’orizzonte” non fa che rispolverare le vecchie tesi marcusiane della “società dei consumi” e dell’uomo ad una dimensione, questa volta è chiamato uomo merce.

Nella fase del capitale monopolistico multinazionale, essendo ormai creato il mercato mondiale, non solo si deve sviluppare una nuova qualità del rapporto produzione/consumo, per continuare l’espansione economica, ma si devono avviare processi di mercificazione della stessa produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo. Questa mercificazione è il riflesso storico della divisione interna alla produzione di merci, del lavoro in lavoro manuale e intellettuale, della generale divisione sociale del lavoro. Col dominio reale del capitale sul lavoro, sulle forze produttive, non solo il lavoro intellettuale domina e controlla il lavoro manuale ed il lavoro morto domina sul lavoro vivo, ma si mercifica la produzione di sistemi ideologici e di modelli di consumo in cui il lavoro si divide, anche qui, in lavoro manuale ed intellettuale, Quindi, dominio reale del capitale, dominio del lavoro intellettuale sul lavoro manuale e del lavoro morto sul lavoro vivo significa anche e crescentemente mercificazione imposizione di sistemi ideologici e di modelli di consumo.

Per questo la contraddizione valore d’uso valore di scambio anche nella fase del dominio reale del capitale, anche nel suo stadio di ulteriore sviluppo dominato dal capitale monopolistico multinazionale, deve essere analizzata a partire dalla produzione di merci, produzione che possiamo anche definire produzione multinazionale e multiproduttiva di merci.

 

SULLE CAUSE OGGETTIVE DELLA CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE ASSOLUTA DI CAPITALE

 

La contraddizione fondamentale del MPC è la contraddizione valore d’uso valore di scambio (forma fenomenica del valore) insita nel duplice carattere della merce, tendenza all’illimitato sviluppo del valore d’uso e tendenza verso zero della produzione di valore. Tale dinamica divaricante trasferita al capitale sociale rimanda ad un’altra contraddizione, cioè la contraddizione tra il contenuto materiale della produzione in rapporto a tutta la società e le forme in cui si distribuisce il prodotto che ne risulta.

A partire dalla produzione capitalistica la contraddizione valore d’uso-valore di scambio si esprime come contraddizione nella diversa dinamica tra le determinazioni nella concreta esistenza delle singole categorie del capitale (composizione tecnica del capitale) e loro composizione in valore, cioè tra mezzi di produzione, forza lavoro e plusprodotto da un lato e capitale costante, capitale variabile e plusvalore, dall’altro; quindi anche nelle contraddizioni: mezzi di produzione/capitale costante, forza lavoro/capitale variabile, plusprodotto/plusvalore. Ma nella dinamica dello sviluppo capitalistico si manifesta una contraddizione anche nelle diverse dinamiche delle singole categorie tra loro.

“In altre parole mentre il capitale costante si riproduce su scala allargata, con una dinamica di sviluppo tendente verso l’alto, il capitale variabile, relativamente a quello costante, tende a decrescere. Già questo fatto ci impone di considerare la composizione organica del capitale sia dal punto di vista della sua composizione in valore, che da quello della sua composizione tecnica. E’ importante richiamare la duplice determinazione della composizione organica di capitali perché è da questi rapporti che scaturisce il plusvalore e, data la diversa dinamica con cui questi elementi si riproducono, ne risulta che il capitale non è da parte sua riproducibile all’infinito, ma è limitato nella riproduzione di tali rapporti. Se è vero che il plusvalore si realizza nell’ambito della circolazione è pur vero che esso ha alla sua base un plusprodotto che risulta dal processo di produzione […] Nel modo di produzione capitalistico il tempo di lavoro necessario tende verso zero, ne deriva che il plusvalore aumenta in rapporto inversamente proporzionale. Da qui sorge un’altra barriera: poiché il plusvalore è la base di un diverso rapporto, ossia è la base su cui si fonda il profitto, ne consegue che, mentre il saggio di plusvalore in quanto saggio di sfruttamento tende ad aumentare, nella sua metamorfosi, nella sua proiezione, il saggio di profitto tende verso la caduta. È proprio qui la diversa dinamica del rendimento del valore, unica determinazione del profitto, motore principale dello sviluppo capitalistico, sta la ragione ultima, oggettiva della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali”. (da Corrispondenza Internazionale: la FES in Lenin pag. 241)

Nella fase dominata dal capitale monopolistico multinazionale (nelle due varianti: multinazionali occidentali e società miste internazionali a polo dominante russo) la produzione, a partire dalle metropoli diventa essenzialmente produzione di PLUSVALORE RELATIVO, anche se permane la produzione di plusvalore assoluto, essenzialmente nella periferia del sistema imperialista mondiale. Il capitale monopolistico multinazionale è capitale il cui livello sociale risiede nelle metropoli, vive e si realizza nelle metropoli a livello intermetropolitano e nell’intreccio metropoli periferia del sistema imperialista mondiale. Pertanto le metropoli non possono essere definite “fabbrica totale” perché oltre a non produrre e realizzare esclusivamente plusvalore relativo, non esauriscono in sé i rapporti di produzione, distribuzione e scambio capitalistici multinazionali: in caso contrario si arriverebbe a credere, con schemi tardo luxemburghiani, all’esistenza di “aree capitalistiche” e di “aree non capitalistiche”. In eguale misura, le metropoli non sono “fabbriche diffuse” perché altrimenti non si distinguerebbe più il lavoro produttivo di valore da quello improduttivo; inoltre le metropoli non sono basate sul “decentramento produttivo” perché altrimenti si scambierebbero alcune controtendenze alla caduta del saggio di profitto, quali l’estensione del lavoro salariato produttivo di tipo nero e/o precario, per controtendenze principali e quindi si arriverebbe ad affermare più o meno indirettamente che nelle metropoli la produzione di plusvalore e principalmente produzione di plusvalore assoluto grazie al massimo prolungamento della giornata lavorativa, ed ai salari bassissimi, caratteristica peculiare delle fasce produttive di proletariato marginale.

Fatte queste dovute precisazioni possiamo riaffermare che, a partire dalle metropoli, la produzione capitalistica diventa essenzialmente produzione di plusvalore relativo, diventa produzione di […] centralità della classe operaia e delle grandi concentrazioni industriali all’interno del PM, il quale è la forma principale del movimento antagonista e rivoluzionario.

La diminuzione del tempo di lavoro necessario avviene mentre aumenta il tempo di lavoro superfluo, il tempo di lavoro che origina il plusvalore: il tendenziale aumento del saggio dì plusvalore avviene nell’ambito di una crescente diminuzione del tempo e il lavoro astratto socialmente necessario cristallizzato nelle merci e cioè nell’ambito di una tendenza verso zero del valore.

Poiché la forza lavoro è l’unica fonte del valore e del plusvalore, nel processo di accumulazione capitalistica, con l’aumento della composizione organica del capitale, il plusvalore prodotto è troppo piccolo relativamente al valore del capitale complessivo accumulato, cioè non riesce a valorizzare l’intero capitale e non riesce a fargli compiere il necessario salto di composizione organica. Pertanto si ha una caduta tendenziale del saggio di profitto.

L’aumento tendenziale del saggio di plusvalore e la caduta tendenziale del saggio di profitto, nella fase in cui, principalmente a partire dalla metropoli, domina realmente il capitale sul lavoro, sulle forze produttive sociali, nella fase dominata dal capitale monopolistico internazionale, portano con sé contraddizioni esplosive. Per questo la tendenza oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto è in ultima analisi, la causa oggettiva della possibilità necessità della CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE DI CAPITALE (sopra tutto in termini di capitale costante e variabile ed in misura del tutto secondaria come sovrapproduzione di merci) […] così come era stata 1a causa oggettiva della nascita, sviluppo e dominio del capitale monopolistico multinazionale.

 

CRISI DEL RAPPORTO FORZE PRODUTTIVE CAPITALISTICHE/RAPPORTI DI PRODUZIONE CAPITALISTICI

 

La crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale tende a portare al limite la contraddizione valore d’uso valore di scambio, lavoro necessario pluslavoro, lavoro vivo lavoro morto, lavoro concreto lavoro astratto, lavoro manuale lavoro intellettuale, sapere sociale generale espropriazione culturale del lavoro salariato, lavoro alienato mezzi di produzione e merci, cervello: sociale braccio manuale […] e più in generale la contraddizione forze produttive rapporti di produzione (FP/RP) si sviluppa ad un livello superiore all’interno del dominio dei rapporti di produzione capitalistici, non solo sulle FP (con il rapporto di proprietà privata dei mezzi di produzione), ma soprattutto e crescentemente, dentro le FP stesse.

È il passaggio dalla produzione di plusvalore assoluto a quella di plusvalore relativo, è il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, è il passaggio storico dall’operaio professionale dei tempi di Gramsci allo operaio massa attuale, elemento centrale del proletariato metropolitano, in quanto figura centrale della classe operaia. Nella contraddizione FP/RP capitalistici, i rapporti di produzione capitalistici non sono stati mai esterni alle FP (anche nella fase del dominio formale del capitale sul lavoro) e, quindi le FP non sono mai state neutrali o progressive (così come credevano i revisionisti Kautsky e Bukharin).

Come già diceva Marx un secolo fa: “il capitale produce essenzialmente altro capitale; e lo fa nella misura in cui produce plusvalore. Analizzando il plusvalore relativo così come la conversione del plusvalore in profitto, abbiamo visto come questo principio sia alla base del modo di produzione proprio dell’era capitalistica; forma particolare dello SVILUPPO DELLE FORZE PRODUTTIVE SOCIALI DEL LAVORO, ma in quanto FORZE AUTONOME DEL CAPITALE, CONTRO L’OPERAIO ed in opposizione diretta con il suo sviluppo proprio” (dal Capitale, libro III°). Nello stesso capitolo leggiamo che: “….. la tendenza a ridurre i costi di produzione al loro minimo diventa il mezzo più potente per soffocare la forza produttiva sociale del lavoro; ma questa crescita risulta essere la crescita delle forze produttive del capitale.

La separazione che il capitalismo opera tra lavoro e mezzi di produzione costituisce la possibilità del rapporto di produzione capitalistico. Quindi la forza lavoro è la prima ed essenziale forza produttiva in qualità di rapporto di produzione capitalistico, forma salariata del lavoro sociale.

Per una concezione metafisica della realtà una forza produttiva non può al contempo essere anche rapporto di produzione e viceversa. Per una concezione metafisica della realtà le forze produttive sono viste come separate dai rapporti di produzione. Con la crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, il rapporto FP/RP è sempre più contraddittorio pur rimanendo una contraddizione interna al MPC in quanto la loro dinamica divaricante può essere realizzata soltanto dalla vittoria rivoluzionaria del PM sul capitale. Tra la contraddizione FP/RP e la lotta di classe esiste un legame dialettico e non meccanico determinista come vedono i soggettivisti metafisici. Pertanto è sbagliato richiamarsi esclusivamente al Manifesto del 1848 “la forza motrice della storia è la lotta di classe”, o esclusivamente alla prefazione di “Per la critica dell’economia politica” dove si afferma che “….. ad un certo grado di sviluppo le FP entrano in contraddizione crescente con i RP ed allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”. La lotta di classe è il reale motore della storia e la sua base è la contraddizione FP/RP.

Nella fase del dominio reale del capitale sul lavoro, sulle FP essendo il capitale un rapporto sociale di produzione: il rapporto di produzione capitalistico, le FP sono sempre plasmate dai rapporti capitalistici grazie alla divisione del lavoro imposta dall’organizzazione capitalistica in forma scientifica del lavoro (è bene ricordarlo a tutti gli operaisti soggettivisti e a tutti i neosoggettivisti “schizometropolitani” ).

Per questo la contraddizione FP/RP non deve essere analizzata in maniera meccanicista determinista, ma dialettica (logica dialettica, quindi metodo dell’astrazione con analisi della tendenza o del limite) e questa dialettica deve planare verso il concreto, dall’astratto bisogno arrivare al concreto, al concreto storico.

 

“Le tendenze oggettive che emergono dalla dinamica contraddittoria fra le FP/RP possono REALIZZARSI solo grazie alla lotta di classe, all’interno della classe rivoluzionaria. In tal modo il marxismo perde qualsiasi carattere evoluzionistico fatalistico e dimostra non solamente una SPIEGAZIONE (materialistica) della storia, ma uno strumento con cui FARE la storia.

Al contrario se le teorie che privilegiano unicamente la contraddizione oggettiva fra FP/RP finiscono con l’attribuire alla rivoluzione un carattere di INEVITABILITA’ OBIETTIVA ed alla sociologia un’impronta meccanicista, l’accentuazione soggettiva o volontaristica del ruolo della lotta di classe, oltre a rimandare ad una concezione del comunismo “ideale” o a comportare una perdita di scientificità della analisi storica, si prelude ogni capacità di incidere completamente sulla situazione storico sociale.

Infatti qui il carattere arbitrario dell’intervento soggettivo affonda le sue radici in un modello teorico conoscitivo che, ignorando e sottovalutando la struttura fondante MATERIALISTICA della sociologia marxista finisce per ricadere nell’idealismo”.

(da C.I. pag.7 “La fes in Lenin”)

Attribuire alla rivoluzione un carattere di inevitabilità obiettiva vuol dire essere metafisici così come si è metafisici parlando di “rivoluzione permanente” (da Trotskij ai neosoggettivisti invece di RIVOLUZIONE ININTERROTTA PER TAPPE. È invece possibile battere una concezione metafisica, idealistica della rivoluzione; è possibile e necessario attribuire alla rivoluzione un carattere STORICAMENTE DETERMINATO se dall’astratto, dalle tendenze al limite, si arriva al concreto, al concreto storico mediante l’analisi delle controtendenze di quegli anelli di congiunzione tra astratto e concreto che sono i processi in atto, mediante la leninista analisi concreta di cose concrete.

 

CRISI, TENDENZA AL LIMITE E CONTROTENDENZA

 

Con la crisi il capitale tende al limite alla distruzione delle forze produttive pur di mantenere dominanti i rapporti di produzione capitalistici. Con la crisi diventa più chiaro che “il limite del capitale è il capitale stesso”, che l’imperialismo delle multinazionali è superputrescente; la crisi dimostra che 1’imperialismo delle multinazionali è tendenzialmente sulla difensiva pur non perdendo la capacità di attaccare e offendere il proletariato internazionale; l’imperialismo delle multinazionali è una tigre di carta ma con i denti (bombe) al neutrone, perché è […] guerra al proletariato.

Poiché la contraddizione FP/RP materializzandosi storicamente conduce alla lotta di classe reale motore della storia e determina la base materiale da cui, in ultima analisi la lotta di classe si emana, quando con la crisi il capitale tende al limite della distruzione delle forze produttive, nella lotta di classe la BI tende al limite all’annientamento del proletariato internazionale […] e così tende al limite alla propria distruzione, perché senza proletariato internazionale […] niente BI! Il capitale monopolistico multinazionale, quindi, tende al limite al crollo, ma ciò non significa, e non deve significare terrorizzare la crisi-crollo come fanno al di là delle buone intenzioni i soggettivisti di ogni specie presenti nel movimento rivoluzionario. “Mentre per i soggettivisti il concetto di TENDENZA è pura proiezione in avanti della realtà fenomenica, per Marx è RIFLESSO ANTICIPANTE DELLA REALTA’ EMPIRICA. Marx, in altri termini, spinge la simulazione concettuale del MPC al PUNTO LIMITE in cui le contraddizioni giungono alla loro piena maturità, si mette nella condizione migliore per fissare, a partire dalla previsione dì una situazione futura, i criteri adeguati alla prassi rivoluzionaria. Il modello della tendenza al limite pone le condizioni dell’agire cosciente che costruisce il proprio scopo senza abbandonarsi al fatalismo deterministico, senza abbandonarsi all’ubriacatura irrazionale dell’utopia” (Ape e il comunista, pag.59).

Tra la tendenza al limite del modello teorico e la realtà storica ci sono scarti da colmare. Dall’astratto al concreto ci sono degli anelli di congiunzione che chiamiamo controtendenze o processi in atto controtendenziali. Tendenza al limite in base al materialismo dialettico (logica dialettica) non vuol dire immediatamente materialità storica perché esistono di fatto le controtendenze. Le controtendenze sono gli unici anelli di congiunzione che ci consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. Le controtendenze non devono servire per negare l’oggettiva tendenza al limite, al crollo del MPC, ostacolando momentaneamente la fine del MPC, ma nello stesso tempo confermano e rafforzano la validità della legge valore lavoro e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Analizzare le tendenze a1 limite senza analizzare le controtendenze, significa passare dall’astratto al concreto in modo soggettivista, antimarxista, anche se lo si nega formalmente è proprio il metodo soggettivista di analisi delle contraddizioni capitalistiche a condurre sostanzialmente a teorie della crisi come crisi crollo. L’analisi delle tendenze al limite dell’MPC nella fase del dominio del capitale monopolistico multinazionale non porta, e non deve portare, a fatalistiche teorie della possibilità necessità della rivoluzione proletaria per il comunismo: il comunismo è possibile e necessario!

Perciò, ricapitolando possiamo affermare che la causa della crisi strutturale dell’MPC va individuata a partire dalle tendenze oggettivamente divaricantesi fra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Ogni teoria della crisi che separa, più o meno evidentemente, produzione capitalistica e accumulazione capitalistica, legge del valore lavoro e legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, porta ad analisi soggettiviste: da qui il soggettivismo inizia ad essere nudo, pazzo e nelle migliori delle ipotesi “schizometropolitano”. Privilegiare, più o meno rozzamente, nell’analisi della crisi la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto (come si fa nelle tesi di fondazione del PG) porta inevitabilmente al di là delle buone intenzioni ad analisi soggettiviste, porta necessariamente a teorie della crisi come crisi crollo: in ogni caso la tendenza al limite al crollo del capitale, diventa meccanicisticamente tendenza realizzata. Dobbiamo ricordare a chi se ne fosse dimenticato quanto segue: “il fascino dell’estrapolazione logico dialettica di Marx ha scatenato molte fantasie, non ultima quella degli operaisti soggettivisti che hanno pensato dì individuare nella realtà fenomenica dei nostri giorni elementi di conferma empirica del modello: la tendenzialità. ” (Ape e comunista, pag. 59).

La crisi è necessitata di fatto da una caduta reale del saggio di profitto, ma questa caduta reale del saggio del profitto stimola la rigenerazione ad un livello superiore della sua stessa causa, e cioè la dinamica oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Inoltre nel dispiegarsi della crisi si accorciano i cicli, si fanno più ravvicinate le diverse ed ulteriori cadute reali del saggio di profitto sempre dentro la dinamica divaricante tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto.

La crisi, nel favorire il dispiegarsi di controtendenze non porta ad una caduta reale lineare, una caduta crollo del saggio di profitto ma a processi di ristrutturazione per la guerra imperialista per riplasmare rimodellare le forze produttive, distruggendo forze produttive sovrapprodotte sovraccumulate; distruggere forze produttive sovrapprodotte sovraccumulate riplasmando e rimodellando forze produttive […] per creare e alimentare il saggio di profitto. II MPC distrugge par produrre e produce per distruggere, per cercare di aumentare i saggio di profitto.

I1 MPC spinge, per cercare di uscire dalla crisi, al dispiegarsi scatenarsi della guerra imperialista in atto (dentro cui si nascondono in primo luogo le due superpotenze). Il carattere di crisi generale si è evidenziato con molta chiarezza con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro con l’oro (agosto 1971), che fino a quel momento fungeva da moneta equivalente generale. Comunque le controtendenze economico finanziarie che da allora si sono materializzate non hanno portato al superamento della crisi stessa; in ultima analisi hanno favorito una più violenta concentrazione centralizzazione capitalistica nelle multinazionali più forti e competitive, ma anche in questo caso, il plusvalore prodotto ha valorizzato soltanto una parte del capitale complessivo accumulato.

Pertanto la guerra imperialista è l’unico sbocco capitalistico alla crisi. La tendenza alla guerra mondiale imperialista non è una semplice tendenza perché la guerra imperialista è già in atto, sia pure in nodo ancora non dispiegato. La guerra delle Falkland tra Argentina e Gran Bretagna è una guerra dietro cui hanno manovrato le due superpotenze, non solo per interessi “politici”, ma soprattutto economici in riferimento al continente Antartico.

La guerra in Libano tra israeliani e libanesi falangisti da un lato, e palestinesi e siriani, dall’altro, è anch’essa manovrata dalle due superpotenze per una nuova divisione del medioriente in zone d’influenza. L’appoggio della Siria ai palestinesi è formale: alla Siria non interessa realmente la causa della rivoluzione palestinese, per cui il genocidio del popolo palestinese e il ridimensionamento di questo focolaio di “terrorismo”, come 1o definisce il presidente degli USA, non è in contraddizione con la formalità dell’appoggio siriano. Dietro 1a Siria si nasconde 1’URSS, che, minacciando Israele, in realtà intende difendere esclusivamente i propri interessi di superpotenza nell’area mediorientale.

I processi di guerra imperialista in atto mettono a nudo il revisionismo (ad esempio la direzione dell’OLP) e fanno sviluppare la tendenza rivoluzionaria. Così nella metropoli i processi di crisi ristrutturazione per la guerra imperialista, generano la tendenza opposta: crisi rivoluzione antimperialista di lunga durata per il comunismo.

Altri compagni affermano quanto segue: “l’evolvere del processo della crisi assume forme diverse per ogni ordine dì contraddizione e configura nella sua manifestazione fenomenica una chiara tendenza a tramutarsi in guerra mondiale imperialista. Occorre tuttavia ricordare che all’interno di questa tendenza generale alla guerra, la contraddizione principale è quella fra proletariato e borghesia imperialista e, allo interno di quest’ultima è la tendenza rivoluzionaria ad avere una posizione dominante” (crisi, guerra e internazionalismo proletario, Brigata Palmi PG).

Poiché la guerra mondiale imperialistica non è una semplice tendenza, ma un processo in atto, è sbagliato affermare che la tendenza rivoluzionaria ha una posizione dominante, mentre è giusto sostenere che la tendenza principale è la rivoluzione e la contraddizione principale è quella tra il proletariato e la BI, e 1o sviluppo della rivoluzione in qualità di tendenza principale, è dovuto ad un livello “più basso” cioè alla contraddizione FP/RP che nella crisi porta i rapporti di produzione capitalistici a distruggere le forze produttive sovrapprodotte come unico sbocco capitalistico alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali e cioè ai processi dì crisi ristrutturazione per la guerra imperialista.

La contraddizione fondamentale FP/RP si manifesta nella crisi mediante processi di ristrutturazione per la guerra imperialista: e questa contraddizione fondamentale acutizza la contraddizione principale tra proletariato e borghesia imperialista. La guerra si sviluppa all’interno stesso della BI, la quale sì fa sempre la guerra per interposta persona, attraverso i proletari, contemporaneamente si estende contro tutto il proletariato mondiale per piegarlo alle necessità dell’MPC. Questi due aspetti che hanno forme e sviluppi diversi, non coincidono materialmente, ma ugualmente interagiscono a partire dalle metropoli in un unico processo, quello di ristrutturazione per la guerra imperialista. La crisi genera infatti processi di ristrutturazione per la guerra imperialista nell’illusione capitalista di risolvere la causa della crisi e superare la tendenza oggettivamente divaricantesi tra aumento tendenziale del saggio di plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto nell’illusione di aumentare le ragioni sociali della tendenza principale presente nel mondo, da essa stessa accelerata: la rivoluzione proletaria per il comunismo.

Con la crisi il capitale monopolistico multinazionale “tende al limite” alla distruzione delle forze produttive ed al contempo favorisce la materializzazione concreta di “controtendenze”. Per non distruggere complessivamente le forze produttive il capitale monopolistico multinazionale determina la materializzazione di controtendenze che, nel concreto, distruggono forza produttiva sovrapprodotta sovraccumulata. Da un lato, la tendenza al limite della distruzione delle forze produttive non deve essere intesa come pura precisazione in avanti della realtà fenomenica, delle controtendenze: per questo è sbagliato parlare di crisi ristrutturazione distruzione delle forze produttive. D’altro canto, le contraddizioni contrastando in maniera relativa la tendenza al limite non fanno che confermare la validità, le controtendenze […,] relativa ad un livello chiaramente contraddittorio di materializzazione dialettica e non meccanico della tendenza al limite e ciò è evidente in un periodo di crisi assoluta del MPC.

Le controtendenze alla tendenza limite al crollo del capitale, sono i processi in atto operati dalla BI e cioè i processi di ristrutturazione per la guerra imperialista. Infatti ristrutturazione e guerra imperialista vivono concretamente una strettissima unità dialettica in quanto i processi di ristrutturazione si sviluppano in funzione della guerra imperialista: non c’è una guerra interimperialista, è una guerra esterna poi, perché non esista separazione tra guerra esterna e guerra interna.

Sicuramente il nostro paese è ben lontano dall’essere pacificato sul fronte della lotta di classe nel polo tra BI e PM, comunque ciò non ha impedito ad esempio che il governo mandasse una task force nel Sinai a far rispettare l’accordo antipalestinese di Camp David tra Egitto e Israele, così come avevano deciso organi sovrannazionali.

La guerra non essendo esterna rispetto alla contraddizione fondamentale del MPC (FP/RP), produce due movimenti opposti che accentuano la contraddizione principale, cioè la contraddizione BI/PM. La guerra imperialista è guerra per stabilire il ciclo della valorizzazione ed accumulazione del capitale distruggendo notevoli quote di forza lavoro e mezzi di produzione eccedenti, stabilendo una diversa divisione del mondo in sfere di influenza (conquistando nuovi mercati ed accaparrandosi materie prime), ed una diversa divisione internazionale del lavoro; è guerra per difendere l’imperialismo in crisi e poter mantenere i putrescenti rapporti di produzione capitalistici; è guerra per il mantenimento del potere della BI sul proletariato internazionale.

I processi di ristrutturazione per la guerra imperialista fanno della lotta dì classe tra BI e PM una guerra di classe, uno scontro per il potere.

Nella guerra di classe, il PM tende a sviluppare la guerra rivoluzionaria antimperialista per il comunismo. La guerra rivoluzionaria del PM col suo sviluppo accelera l’agonia del MPC; la guerra rivoluzionaria, all’opposto della guerra imperialista, nasce e si dispiega per distruggere definitivamente la guerra stessa abolendo la causa che in questa epoca storica genera 1a guerra e, cioè, il MPC.

Mentre la sostanza della guerra imperialista è distruggere per mantenere in vita il MPC, cioè per tornare nuovamente a distruggere, la sostanza della guerra rivoluzionaria sta nel distruggere il MPC, cioè per tornane nuovamente a distruggere, la sostanza della guerra rivoluzionaria sta nel distruggere il MPC, e costruire un nuovo e diverso ordinamento sociale: LA COMUNITà REALE, LA SOCIETA’ SENZA CLASSI.

 

Fonte: Atti del processo Ruffilli

Per il partito – N.1

Cellula comunista per la costituzione del PCC
Aprile 1989
PRESENTAZIONE

La cellula comunista per la costituzione del PCC è formata da compagni provenienti da diverse ipotesi organizzative, che si collocano all’interno dell’esperienza storica del movimento comunista internazionale e, nel particolare di questi ultimi 20 anni fanno riferimento agli insegnamenti prodotti dall’avanguardia comunista combattente nel nostro paese, alla quale, nel bene e nel male, ed ai vari livelli della loro coscienza un contributo hanno dato. Individuando come asse centrale della propria riflessione oggi, la valorizzazione dell’esperienza delle B.R. che nel panorama delle varie OCC degli anni ’70, hanno rappresentato la componente M.L., ed oggettivamente l’unica alternativa credibile al progetto revisionista (al di là di ogni tipo di scelta che può aver maturato oggi la maggioranza dei suoi ex dirigenti).
Il naufragio delle prospettive di costituzione del P.C.C., il non aver saputo adeguarsi alle nuove condizioni economico/politiche, il non aver superato gli errori di “giovinezza” del movimento rivoluzionario, sono state le principali cause della sconfitta politica del movimento rivoluzionario dei primi anni ’80, e la non soluzione di questi problemi rimane la principale “impasse” per la ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
Sulla base di queste considerazioni e dell’omogeneità di fondo a cui sono pervenuti sulle tematiche centrali ed essenziali, i compagni della Cellula hanno preso l’iniziativa di rilanciare la proposta di costituzione del partito nell’odierna situazione.
Rilanciare questo disegno vuol dire per la Cellula reagire a quella sconfitta contrastando il clima liquidazionista e revisionista che essa ha prodotto in parte del movimento rivoluzionario, nella certezza che le sorti della lotta di classe e della lotta armata in Italia non si sono decise in quella congiuntura, per quanto grave e drammatica essa sia stata.
I problemi politici che questa ambiziosa scadenza – la fondazione del P.C.C. – pone, sono di grande dimensione e richiedono la definizione di un quadro di riflessione di grande respiro; necessitano quindi di allargare il confronto al maggior numero di compagni possibile, al fine di approfondire il dibattito per valorizzare l’esperienza passata collocandola all’interno del patrimonio storico del movimento comunista internazionale, in modo da poter articolare una posizione politica complessiva capace di costituire la base di un vero e proprio apparato di tesi per il congresso di costituzione del partito. Necessita inoltre una grande battaglia politica nel movimento rivoluzionario al fine di superare le tesi soggettiviste e battere con decisione il risorgente revisionismo, ipotesi queste che confondono le prospettive e chiudono il dibattito in un vicolo cieco, incapaci entrambe di dare una risposta politica da un punto vista marxista e rivoluzionario, che permetta ai comunisti di riprendere l’iniziativa.
Queste profonde convinzioni ci hanno portato a decidere di pubblicare una rivista periodica, contenente articoli di approfondimento teorico/programmatico che riesca ad essere strumento di battaglia politica e veicolo del dibattito precongressuale.
I compagni della Cellula sono ben consci delle difficoltà a cui un tale lavoro va incontro, e che pertanto quanto da essi prodotto non può dirsi, allo stato in cui si trova, esauriente. Gli stessi temi affrontati in questo numero dovranno essere approfonditi ed altri vasti temi affrontati. Ciò si darà all’interno del dibattito e riguarderà la pubblicazione dei prossimi numeri.
Per la realizzazione di tale progetto (il necessario lavoro teorico/programmatico e organizzativo che comporta la costituzione del P.C.C.), i compagni della Cellula si augurano di poter contare sul più grande numero di compagni rappresentativi della realtà di classe, siano oggi in parte organizzati o più o meno dispersi e privi di collegamenti fra di loro, ma risoluti a tenere alta la bandiera del comunismo nel nostro paese.
Dalla capacità, volontà, impegno concreto di questi compagni, dipende il fatto che si possa uscire dall’attuale crisi del movimento rivoluzionario italiano; che si possano recuperare i ritardi e gli errori commessi in questi anni (da cui certo non ci esentiamo); che le tappe per arrivare alla costituzione del partito vengano percorse nel più breve tempo possibile e che il partito possa cominciare ad agire come tale. Questo è l’obiettivo della Cellula e questa rivista è uno degli strumenti per perseguirlo.

CELLULA COMUNISTA PER LA COSTITUZIONE DEL P.C.C.

L’AMNISTIA “DI SINISTRA” E LE NUOVE INFLUENZE REVISIONISTE
NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO ITALIANO

Ci sembra che nel corso dello scorso anno (88) sulle posizioni che vanno dal dissociazionismo stile Negri/P.L. alla più recente operazione Curcio-Moretti-Balzerani, il dibattito abbia fatto sufficiente chiarezza. Una linea di demarcazione netta fra questi ex militanti ed il movimento rivoluzionario si è evidenziata. Non è perciò di queste posizioni che vogliamo qui parlare. In questo documento vogliamo invece riferirci a quell’area che “utilizzando” i problemi concreti che l’avanguardia comunista si trova di fronte e gli stessi errori del movimento rivoluzionario, propone tesi all’apparenza “piene di buon senso”, che si richiamano formalmente ai principi del M.L., alla lotta contro il soggettivismo, ecc., ma che in sostanza si rivelano liquidazioniste ed opportuniste. Si tratta delle posizioni di alcuni noti militanti detenuti delle U.C.C., della rivista “POLITICA E CLASSE”, ecc., insomma di quell’area che propone l’amnistia “di sinistra”, la ridefinizione di una “sinistra di classe” nella quale si confondano i confini fra riformisti, revisionisti e rivoluzionari, le alleanze con i “sinceri democratici” e con i partitini legali (con o senza braccio armato). Quell’area nella quale si dibatte di un “movimento politico unitario” con le forze della sinistra non socialdemocratica, nella quale si predica il realismo delle situazioni difficili e la difesa a parole dell’esperienza degli ultimi 20 anni di L.A. in Italia, nonché la necessità di trarne un bilancio per riprendere l’iniziativa. Ma di fatto non di valorizzazione si tratta, nei fatti ed a un esame accurato dei testi, questa pretesa “valorizzazione” si riduce ad una semplice “storicizzazione”. Di bilancio non si tratta, ma di un abbandono definitivo dello strumento della L.A., ingombrante per quelle alleanze che ricercano nell’ambito della “sinistra nella sua accezione più ampia”.
In vero un dibattito già avvenuto venti anni fa in Italia e non solo in Italia, fra l’ipotesi riformista/revisionista e quella rivoluzionaria, un dibattito già risolto nei fatti dal movimento rivoluzionario, nella assunzione del principio dell’unità del politico/militare nell’agire dei comunisti anche nella fase non rivoluzionaria.
Si dice spesso che nodo cruciale da sciogliere è quello della coniugazione tra il patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale e gli insegnamenti estraibili e generalizzabili dell’esperienza della L.A. in Italia. Ciò è giusto. Ma siamo sicuri che questi ultimi costituiscano davvero una novità sostanziale o non siano piuttosto una forma specifica, caratteristica della organizzazione rivoluzionaria di classe nelle metropoli imperialiste? Quando diciamo che elemento di valore storico di quest’esperienza è l’aver riattualizzato la via rivoluzionaria, il nodo del potere politico nei paesi del centro imperialista ed in questo periodo storico, non diciamo implicitamente che essa, pur con alcune caratteristiche proprie, ha sostanzialmente ripreso contenuti di principio che intanto si confermano validi in quanto sono chiavi di lettura scientifica di un’intera epoca e dei modi e tempi della transizione? Insomma se il punto fondamentale è stato il riaffermare l’esigenza per il proletariato di costituirsi in classe per sé, dotandosi di indipendenza ideologica, politica e militare, la scelta della forma combattente ne è un derivato ed ha trovato ragion d’essere, legittimazione nella prima e non viceversa. Con questo si vuol dire che non ha senso contrapporre l’uso delle armi per come si è caratterizzato nella recente esperienza a quello fatto nella tradizione terzinternazionalista. Questa contrapposizione, che viene rimarcata col fatto per cui l’esperienza nostra non avrebbe precedenti nella storia dei P.C., non fa che indebolire la proposta. È semmai l’elemento di continuità, di affinità, di approfondimento, che va ripreso e che può darci forza nel dimostrare la necessità, la praticabilità e l’utilità di un P.C.C. E non è un caso poi il verificare che proprio nel tentativo di sostanziare questa “originalità” non si riesca a produrre lo sforzo di elaborazione desiderato e si registri l’attuale impasse. In effetti un bilancio della L.A. e del M.R. degli anni ’70/80 è maturo da tempo e si tratta di recuperarne i contenuti generalizzabili, che più conseguentemente hanno valorizzato la tradizione storica del Movimento Comunista Internazionale.
Ciò su cui va posto l’accento non è tanto il fatto che il P.C.C. si fonda sull’aspetto centrale dell’uso delle armi, quanto sul fatto che nel processo di costituzione in classe indipendente, il partito utilizza tutti i mezzi possibili e che tra questi, la L.A. ha valore centrale perché esplicita nel modo più chiaro ed efficace il programma comunista, perché incanala nel miglior modo le energie proletarie, scongiurando sia gli avventurismi sconsiderati, sia il riflusso nel puro contrattualismo e riformismo. E questo è un punto su cui ci si ricollega al miglior Lenin del “Che fare?”. Anche allora, infatti, ci si poneva il problema dell’organizzazione di combattimento e sono note le polemiche contro chi pensava di poterne fare a meno, accusando i bolscevichi di cospirativismo e terrorismo. Se è vero che l’attività militare non fu centrale, è certo comunque che tutto l’impianto politico-organizzativo era formato alla lotta per il potere, clandestinità e L.A. compresi.
Si tratta cioè di applicare la teoria ed i principi del M.L. alla nostra epoca (esperienze soggettive, fatti materiali, acquisizioni….) e, al contempo, di definire quindi la tattica, la strategia, la linea politica ed il programma politico adeguato per affrontare questa situazione.
Tutto ciò, come si può ben capire, non ha niente a che vedere con presunte innovazioni della teoria M.L. o con i dibattiti relativi alla crisi della sinistra. Si tratta di una discussione tutta interna al movimento comunista rivoluzionario e deve quindi avere a nostro avviso due precise discriminanti: il riconoscimento dei principi M.L. ed il carattere combattente del partito nella fase attuale. Solo in questo si può parlare di valorizzazione dell’esperienza passata, solo in questo modo è possibile rilanciare una proposta di progetto politico forte e di ampio respiro e costruire l’organizzazione rivoluzionaria capace di guidare le masse nel nostro paese alla rivoluzione proletaria ed alle successive tappe sino al comunismo, salvaguardando l’unità del politico/militare, evitando così sia deviazioni che vedono negli aspetti parziali della lotta di classe o nel lavoro politico di massa e legale, il fine dell’agire del partito, tanto quanto le posizioni militariste che vedono nel solo combattimento (nello sparare per resistere) il fine ultimo dell’agire del partito.
Fingere di non vedere questa situazione, l’affermarsi cioè di queste posizioni opportuniste/revisioniste all’interno del movimento rivoluzionario, rifiutarsi di capire che l’affermazione di queste posizioni è estremamente legata all’assenza di una presenza chiara e forte da parte dei comunisti rivoluzionari ed ai problemi che tale assenza ha prodotto, pensare quindi che in fondo basta andare avanti come prima, “continuare a combattere per dimostrare di esistere” perché ogni autocritica del passato, ogni risoluzione dei problemi posti dalla sconfitta porta all’opportunismo e alla liquidazione dell’esperienza passata, o a limitare la critica a queste posizioni a un dibattito ristretto, ad un’area limitata di simpatizzanti o militanti del proprio gruppo, rifiutando di dargli da subito in tutte le situazioni la necessaria battaglia politica e rinviando ciò alla futura costituzione del partito, o non considerare importante la lotta politica a queste posizioni in quanto già sconfitte storicamente, ci sembrano posizioni perdenti, che in ultima istanza permettono proprio l’affermarsi di queste posizioni.
Sebbene la sconfitta di queste posizioni si darà in forma piena nella capacità dei comunisti di costituire il P.C.C., noi crediamo che la battaglia politica a queste posizioni sia necessaria sin da subito e vada svolta sia con i mezzi illegali propri di un dibattito tra comunisti sulla ripresa dell’iniziativa politico/militare e la fondazione del P.C.C., sia con tutti i mezzi legali possibili atti a smascherarli nelle situazioni di movimento e di lotta nel nostro paese dove essi cercano di inserirsi, saper dare questa battaglia al di là delle forze limitate che si possono avere e che fan sì che oggi non si evidenzi una forza marxista rivoluzionaria capace, per autorità politica e strumenti organizzativi, di unificare tutti i comunisti nella costituzione di un solo polo rivoluzionario, cioè del partito, necessariamente oggi un P.C.C., vuol dire lavorare nella direzione della costituzione del partito, far chiarezza, battere le idee errate, far emergere la linea giusta. Questa è attività che ci si dà sin da ora e non è rinviabile alla futura attività del partito, in quanto è premessa del necessario lavoro di costituzione dello stesso, momento di confronto che riguarda tutti i comunisti.
Vediamo quindi di affrontare con ordine la questione, di vedere in cosa consiste il loro revisionismo ed opportunismo, di vedere qual è la parabola che ha dato vita a quest’area in cui si trovano oggi uniti ex militanti rivoluzionari e vecchi opportunisti incalliti. Per avere una riprova di questa unione basti vedere l’associazione di firme ed interventi nel primo e secondo numero della rivista “Politica e Classe”.
Per procedere con ordine non si può che riferirsi al dibattito in corso da diversi anni nel movimento rivoluzionario italiano in seguito alla sconfitta dell’82.
Sconfitta che, vorremmo precisare onde non lasciar spazio ad equivoci, fu dovuta ad elementi di ordine oggettivo, la mutata situazione concreta e l’offensiva padronale in atto, e di ordine soggettivo: l’impreparazione dei comunisti ad adeguare il proprio impianto politico a questa situazione. Ogni riflessione che colga uno solo di questi due elementi si dimostra oggi incapace di prospettive durevoli alla ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
A partire da questa situazione, l’avanguardia comunista si trova di fronte alcuni problemi che la realtà si era incaricata di far emergere in tutta la loro gravità e che erano già precedentemente interni all’esperienza combattente in Italia: il giovanilismo, il soggettivismo, l’economicismo, ecc.
Per superare questi limiti era innanzi tutto necessario trarre un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni di lotta rivoluzionaria nel nostro paese e condurre una riflessione politica e teorica sulla esperienza della L.A. in Italia.
Esperienza che si era posta nei fatti come unica alternativa concreta all’ipotesi revisionista, e ciò soprattutto nella sua componente M.L., le BR. Quindi collocare questa esperienza all’interno del patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale.

I termini essenziali del dibattito
Negli ultimi venti anni infatti assumevano carattere dominante due ipotesi sulla possibilità di trasformazione sociale. O la strada indicata dalle BR o quella indicata dal PCI. Se, come abbiamo visto, la sconfitta tattica dell’ 82 aveva ragioni oggettive e soggettive, bisognava analizzare la realtà alla luce del bilancio quali erano stati gli errori dell’impianto precedente che non gli avevano permesso di adeguarsi alla realtà e di rispondere a quell’urgente richiesta di direzione politica proveniente da ampi strati di proletariato. Ciò significava discutere di tattica e di strategia, del rapporto crisi/tendenza alla guerra imperialista, guerra di lunga durata/insurrezione, della centralità operaia, di quale forma di partito, del legame con l’esperienza del movimento comunista internazionale, del rapporto partito/masse, ecc. Tutti problemi tutt’oggi più che attuali e dalla soluzione dei quali dipende la possibilità di rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria in Italia. In merito a queste problematiche si può dire che il dibattito e la riflessione, e quindi le risposte da parte del movimento rivoluzionario si sono divise in un certo modo in due posizioni dominanti all’interno del movimento rivoluzionario (altre posizioni come PG, COLP ecc. si sono infatti sciolte come neve al sole, dimostrando l’inconsistenza delle loro proposte, alcuni constatando la sconfitta delle loro ipotesi sono confluiti nel fronte della dissociazione e della resa, altri, i più onesti che non sono passati al soldo della borghesia, propongono oggi di riunificare i vari cocci delle passate O.C.C. in una sorta di ampio fronte anti-imperialista, come se niente fosse successo). Le due posizioni dominanti a cui ci riferiamo sono quelle note come la Prima e la Seconda posizione, nate in seguito alla spaccatura delle BR nell’ 84.
Intendiamo evidentemente queste posizioni in senso largo, ovvero non riferito ai soli militanti delle BR che hanno aderito all’una o all’altra di queste posizioni, ma nel senso dell’area di riflessione e di dibattito che intorno all’una o all’altra si sono costituite.
Possiamo dire in modo schematico (in quanto in modo più approfondito demandiamo ai documenti precedentemente prodotti sull’argomento dalle varie posizioni) che il dibattito si è incentrato su due diversi modi di concepire la ritirata strategica e quindi la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria. Da un lato i compagni della Prima posizione che affermano sufficiente liquidare gli aspetti più eclatanti del soggettivismo presenti nelle BR degli anni 80, come loro stessi sostengono: “Quel modo fallimentare di analizzare i fenomeni sociali sostituendo al movimento reale storico concreto i movimenti tendenziali dati come già realizzati…”, senza però mettere in discussione la scelta strategica della lotta di lunga durata come processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste e senza mettere in discussione l’idea gradualista di costruzione del partito, irridendo al necessario lavoro politico di educazione delle masse, fino ad arrivare oggi a proporre la costituzione del fronte antimperialista.
Fronte basato sulla strategia della L.A. assunta come guerra di lunga durata contro la NATO ed i vari centri decisionali dell’imperialismo con sede nei vari stati nazionali dello stesso, operazione politica questa che permette così di unificare chi intende la L.A. come lotta in favore del Terzo Mondo, chi lotta in dialettica con i paesi “socialisti” e con chi crede che questi paesi non siano per niente socialisti. Relegando così le masse e la situazione politico/sociale come aspetti marginali del conflitto (preoccupandosi al massimo che comunque esistono le contraddizioni sociali e trovando in ciò le proprie legittimazioni).
La guerra di lunga durata e la strategia della L.A. ad essa collegata si trasformano quindi in impianto teorico/ideologico-tattico/strategico, sostituendo principi e programma e trovando così la legittimazione del loro esistere e si pongono così in modo talmente generico da porsi al di là del conflitto sociale per come esso è dato, neutralizzando così nei fatti la loro attività soggettiva.
L’attività politica non è vista in funzione delle contraddizioni sociali che si manifestano. Le lotte delle masse non sono importanti per il livello di esperienze che acquistano e per le forme organizzative che producono e che manifestano l’autonomia di classe di fronte alla borghesia e alle direzioni revisioniste. Semmai interessano solo in quanto servono ad incrementare l’area della guerriglia e a sprigionare nuove forze disponibili alla guerra di lunga durata (quanto poi questa sia una pia illusione è la realtà stessa a dimostrarlo, escluse alcune eccezioni individuali che non fanno certo testo).
In realtà la disponibilità delle masse alla L.A. non è data dal convincimento individuale, ma viene da momenti di lotta contro la borghesia in cui esistono le condizioni complessive entro cui è possibile l’insurrezione di massa e la conquista del potere politico; condizione che a nostro avviso per i paesi imperialisti restano valide per come indicate da Lenin (nota 1).
Come si può capire, una tale impostazione indica un modo assai strano di concepire il partito leninista ed i principi leninisti sia sui compiti e sull’agire pratico del partito, sia sulle forme che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti, sia sul rapporto partito/masse, ecc.
Una posizione quindi che, nonostante le dichiarazioni di principio di voler superare l’economicismo ed il soggettivismo precedenti alla ritirata strategica, nei fatti propone una sorta di continuismo che non riesce a risolvere i problemi posti dalla crisi dell’ 82, anche se si propone di colpire i progetti politici dominanti della borghesia imperialista (come nel caso Ruffilli), si trova poi incapace di assumere una gestione politica adeguata, inseguendo il fronte unico antimperialista e, per conseguenza, non comprendendo la possibilità/necessità di staccare l’Italia dalla catena imperialista, ma immaginandosi un’interconnessione assoluta tra i vari paesi imperialisti (una sorta di super imperialismo mondiale), elude i compiti necessari a tale scopo.
Dall’altro lato si è sviluppato il dibattito della Seconda posizione, che ha prodotto prima il libro “Politica e Rivoluzione”, sebbene i suoi autori per un eccesso di tatticismo e pragmatismo di cui vedremo in seguito a quali posizioni approdi, non abbiano sostenuto fino in fondo la battaglia politica prodottasi nelle BR nell’84, ma anzi al contrario al momento della spaccatura si siano schierati a fianco della posizione che in modo chiaro avevano criticato nel suddetto libro.

Gli sviluppi della Seconda posizione
Poi l’uscita del libretto rosso della Seconda posizione che cercava di sistematizzare e definire quali fossero i compiti dell’avanguardia comunista oggi nel nostro paese; primo fra tutti la necessità di ricollocare l’esperienza italiana nell’esperienza più generale del movimento comunista internazionale, quindi di ridefinire l’impianto politico informandolo ai principi del M.L.
Cercava quindi di definire le differenti strategie e le differenti forme conseguenti che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti e nei paesi dominati, il diverso rapporto che ha quindi il partito là dove deve occuparsi della “strategia” del sale e del riso, della gestione delle zone liberate in rapporto ad un partito che opera nel cuore del centro imperialista.
Cercava quindi di affrontare, valutando le condizioni oggettive e soggettive createsi negli anni 70 in Italia, la questione della fondazione del P.C., superando quel concetto gradualista di costruzione dello stesso, parimenti legato all’ipotesi della strategia della guerra di lunga durata.
Come si può ben capire, questa seconda tesi che sostenevamo al tempo, pur non essendo militanti BR, e che ancora oggi sosteniamo come unica soluzione per riprendere in modo durevole e continuativo l’iniziativa politica dei comunisti nel nostro paese richiedeva e richiede un enorme sforzo di elaborazione teorica e di analisi della società, soprattutto in un movimento rivoluzionario dove, a causa della degenerazione revisionista del PCI (che ha rinnegato del tutto le tesi su cui si era costituito) si è interrotto, o quanto meno si è offuscato, quel filo rosso di continuità nel movimento comunista del nostro paese. Infatti la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria negli anni ’60 ha subito sin dal suo nascere questa pesante ipoteca ed ha fatto sì che assumessero valore dominante o comunque significativo le teorie operaiste e le concezioni fochiste e tupamaros all’interno del nascente movimento rivoluzionario italiano.
A partire da queste considerazioni molti compagni (noi tra loro) iniziarono quel necessario lavoro di approfondimento tecnico/programmatico che la realtà poneva come non più rinviabile, e di ricostruzione di legami politici/organizzativi che consentissero di arrivare alla fondazione del P.C.C. Questo lavoro, pur tra difficoltà ed errori, è continuato e continua come questa rivista dimostra, coscienti come siamo che la fine della ritirata strategica si darà solo sapendo adempiere a quest’obiettivo.
Per quanto riguarda invece le BR-P.C.C. pensiamo sia a tutti i compagni noto come perseverino, seppur combattendo in modo deciso contro lo Stato, nella concezione antimperialista e della guerra di lunga durata e quindi ripropongano tesi a nostro avviso soggettiviste, incapaci di condurre le masse del nostro paese verso il socialismo.
Vi è invece quel gruppo di detenuti ex U.C.C. interno all’area “amnistia di sinistra” che, viste le difficoltà che tale percorso di ridefinizione e riorganizzazione teorico/strategico richiedevano e richiedono, ha via via abbandonato i principi per cui si era operata la rottura dell’84 nelle BR, arrivando non a un rinnovamento dell’esperienza che ne rappresentasse la continuità e la valorizzazione, ma ad un rinnovamento che la ha storicizzata e ne ha profondamente mutati i principi, giudicandoli troppo ingombranti e quindi dichiarati a parole, ma immediatamente messi ai margini nella pratica, in quanto inconciliabili con l’impianto politico che andava via via delineandosi e con le relative proposte politiche.
I primi sintomi di questa tendenza si sono infatti manifestati con le U.C.C. che, se da un lato si dichiaravano “diretta discendenza della esperienza BR”, nonché la sua componente “realmente M.L.” e quindi, era sottinteso, l’unica in grado di contrastare e dare battaglia politica alle posizioni arroccate e soggettiviste della BR/PCC del dopo 84, nei fatti di contro mettevano insieme ipotesi e tesi fra le più strampalate, senz’altro estranee al ML. In merito basti vedere il documento “Nuove prospettive del movimento rivoluzionario” ed il documento di rivendicazione Giorgieri, dove leggiamo della lotta per la vera pace e gli appelli agli intellettuali onesti su tale terreno (invece di una analisi di classe sugli intellettuali e sulla guerra), il filosovietismo (invece di una battaglia contro ogni imperialismo e di approfondire l’analisi marxista sul social-imperialismo), la proposta di costituzione della base legale della L.A. (invece di una seria analisi che distingua natura e clandestinità del partito e rapporto con la classe, ecc.).
Come la pratica si è incaricata di confermare, invece di operare un passo in avanti, si immettevano nel movimento i primi germi di revisionismo ed avventurismo armato che portavano un anno dopo le UCC, o quanto meno molti tra i suoi più illustri esponenti prigionieri, a dichiararsi a favore dell’amnistia.
Anche in questo caso, con la classica caratteristica del voler utilizzare un linguaggio pseudomarxista, si fa propria questa indicazione (l’amnistia) che viene proposta all’intera sinistra di classe, prendendo atto che in ogni caso l’area curciana e il blocco di potere legato alla DC si pongono su questo terreno.
Per questo motivo pare loro “rivoluzionario” e “sensato” contrapporsi a questi ultimi con una proposta di amnistia “di sinistra” ricercando per questo i propri interlocutori nella sinistra nella sua accezione più ampia e ciò nell’interesse di tutte le forze rivoluzionarie, nonché dei movimenti di massa.
L’amnistia quindi non viene colta per il suo carattere di ennesima operazione tesa al recupero/integrazione di una parte di ex rivoluzionari da giocare contro il futuro del movimento rivoluzionario; ennesima operazione per veicolare un messaggio di resa e, più in generale, l’improponibilità di oggettive trasformazioni radicali della società, nonché dell’abbandono della LA che si dà oggi come il perno centrale dell’attività dei comunisti che rende possibile questa trasformazione.
Essa viene colta solo nell’aspetto dichiaratamente filodemocristiano, proprio dell’area Curcio-Moretti. Il messaggio è quindi abbastanza chiaro: trovare una soluzione che permetta di non “sporcarsi del tutto la faccia”, pur essendo disponibili al progetto amnistia, individuando quindi gli interlocutori nell’area della sinistra revisionista e a essi rapportandosi come il “figliol prodigo” che dopo anni di estremismo e lotta armata ritorna a casa riproponendosi come forza politica di sinistra matura e responsabile.
Come si vede tutto ciò non ha niente a che vedere con il movimento rivoluzionario che ogni mutamento politico, amnistia compresa, affronta sempre tenendo presenti le condizioni politico/sociali presenti, gli interessi in campo in rapporto agli interessi generali del proletariato ed alla strategia rivoluzionaria di ogni singolo paese. Sostenere infatti che tale strumento (l’amnistia) è stato spesso utilizzato dai vari movimenti rivoluzionari, erigere ciò a principio significa non cogliere la differenza tra un’amnistia concessa da un regime in crisi ed un’amnistia come quella attuale, tesa a sancire l’impossibilità della LA nel nostro paese.
Significa porre il problema della prigionia politica come ceto politico, senza capire che essa è parte del generale processo di emancipazione proletaria, quindi un portato della lotta di classe e risolvibile all’interno del decisivo ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi.
Come si vede quindi, né le forze rivoluzionarie né il proletariato hanno alcun interesse al progetto amnistia nel nostro paese e nelle condizioni attuali, se non quello di farlo fallire nel modo più deciso possibile.
Che cosa infatti poteva significare la tesi UCC sulla ricerca di un blocco sociale interessato ad una svolta sostanziale nella direzione politica della società che in blocco comprende più classi, se non l’abbandono di categorie marxiste che vedono nei paesi imperialisti solo il proletariato come classe sociale interessata non a una svolta sostanziale ma ad una vera e propria rivoluzione, che modifichi gli attuali rapporti di produzione, abbatta lo Stato borghese, instauri la dittatura del proletariato. Poteva significare solamente inseguire e dialettizzarsi con forze dell’estrema sinistra piccolo-borghese, come DP, forze interclassiste, su cui, per avere un’idea chiara, basta vedere il loro atteggiamento di sostegno alla dissociazione, di politica estera filo-imperialista, di disarmo della classe (rifiuto della violenza, ecc.).
Significa inseguire il movimento sempre più al ribasso, sino a concordare oggi per l’essenziale con le posizioni di “Politica e Classe”, che nel movimentismo e nel rifiuto della LA ha il suo fondamento.

Questioni “piene di buon senso”
Quali sono le questioni in apparenza “piene di buon senso”, anti soggettiviste, anti settarie ecc. che dapprima le UCC in modo ambiguo, e quest’area oggi in modo dichiaratamente revisionista propongono?
Prendiamo ad esempio le più significative: dapprima le UCC e poi quest’area insistono sulla svolta reazionaria avvenuta negli anni 80 nel nostro paese (che loro definiscono reazionario-moderata) e ad essa associano sia la crisi della sinistra istituzionale e dei vari movimenti riformisti (proletari e non) sia la crisi del movimento rivoluzionario, e nell’uscita da questa crisi vedono possibilità-necessità comuni tra la sinistra nella sua accezione più ampia (rivoluzionari e riformisti insieme), senza cogliere la diversa natura e gravità dei vari soggetti politici, confondendo così crisi tattica e crisi strategica.
Se è chiaro infatti che il processo di ristrutturazione imposto dalla crisi, ed il conseguente attacco subito dal proletario e della sua avanguardia rivoluzionaria nel nostro paese agli inizi degli anni 80, come ogni fenomeno economico-sociale, ha informato e ridefinito il ruolo delle varie forze sociali e politiche e dei vari partiti, e quindi vi è uno stretto legame tra questa situazione determinatasi e l’eventuale crisi della sinistra “nella sua accezione più ampia”, per dei rivoluzionari si tratta però di definire i motivi e la natura di questa crisi che per quanto riguarda il movimento rivoluzionario consideriamo tattica e dovuta all’incapacità di adeguarsi alle condizioni attuali, ma di contro strategica per quanto riguarda il partito comunista e le varie forze vecchie e nuove di stampo riformista e socialdemocratico, in quanto si è dimostrata impossibile ed utopica la loro strategia di via pacifica al socialismo nel nostro paese.
Con la crisi infatti sono crollate le illusioni borghesi di un capitalismo che sapesse garantire a tutti nei paesi imperialisti, seppur a scapito dei paesi del Terzo Mondo, il diritto ad una casa, un lavoro, a dei servizi decenti ecc.
È crollato quindi il modello del welfare su cui si basavano le social-democrazie europee e lo stesso PCI, in questa fase di crisi infatti l’intervento statale si attua sempre più a sostegno delle imprese private e deve per contro tagliare sempre più la spesa sociale.
La lotta “per gli asili nido, la lotta per la scuola di massa”, la lotta quindi pacifista e democratica di un polo progressista-riformatore, che con questa sua pressione intende modificare l’intervento dello Stato (senza mettere in discussione la sua natura di classe) si trova quindi di fronte al venir meno di un surplus che concedeva a queste stesse forze uno spazio di mediazione tra le esigenze della borghesia e del capitale e le esigenze immediate dei proletari nella fase di sviluppo economico. Su questa capacità di mediare si è infatti retta, e solo oggi inizia a sgretolarsi, la direzione dei partiti e sindacati riformisti sui movimenti di massa. La fine delle condizioni economiche che rendevano possibile questa mediazione coincide con la perdita di ruolo, credibilità e strategia di queste ipotesi riformiste, riducendosi, dove sono nell’area governativa a gestire in prima persona il taglio dell’occupazione, la ristrutturazione ed il taglio delle spese sociali (come ad esempio il partito socialista e quello comunista francesi), sia spostandosi sempre più a destra e sostenendo la politica dei sacrifici, le campagne antiguerriglia ecc. , o mantenendo una posizione “responsabile” come il partito comunista ed i sindacati in Italia, abbandonando quindi via via ogni idea di trasformazione socialista della società (seppur per via pacifica) come dimostrato dalle tesi del PCI.
Il venir meno delle possibilità di mediazione tra gli interessi borghesi e proletari e quindi la crisi strategica della sinistra riformista.
Come si vede niente a che vedere con la crisi tattica del movimento rivoluzionario che della crisi della sinistra riformista, al contrario, ha tutto da guadagnare.
Per dei comunisti non è possibile alcuna confusione a questo proposito (come pare faccia spesso e volentieri l’area politica che stiamo criticando), salvo ricadere nel peggior riformismo.
La crisi strategica della socialdemocrazia e dei partiti revisionisti va infatti analizzata con estremo interesse, non certo per aiutarli a superarla (cosa peraltro impossibile, in quanto essa, come abbiamo visto, ha origini oggettive, sulla base di precise leggi economiche nel rapporto di capitale), ma per cercare di acutizzarla e di denunciare alle masse l’impraticabilità del progetto revisionista, lavorando a scalzarne la direzione nei movimenti di massa. Oggi infatti, in presenza dell’enorme crisi e delle laceranti contraddizioni che attanagliano il PCI e la CGIL, illuderli di poter costruire alleanze con quella parte (cossuttiani, bertinottiani ecc.) che rendendosi conto della crisi di progettualità degli stessi e dell’abbandono totale sia delle richieste di socialismo (sia pur per via pacifica), sia il sindacato “conflittuale”, rilanciano l’ipotesi riformista degli anni passati (il PCI di Togliatti, o il sindacato anni 70), significa non capire come la crisi attuale stia proprio alla base degli impianti strategici di queste forze e sia proprio alla base del togliattismo e del sindacato anni 70, che trovava la sua legittimazione nelle capacità di mediare e contenere la conflittualità di classe.
Il referente e la posizione che i comunisti devono assumere di fronte a questa crisi non può essere quindi un’alleanza con gruppi politici e apparati burocratici “riformisti tradizionali” contro la destra del PCI o del sindacato (questi giochi li lasciamo fare all’onorevole Ingrao). Quello che invece ci deve interessare ed a cui bisogna lavorare è, da un lato, un lavoro dal basso (da ciò l’importanza di essere presenti con i propri militanti in tutte quelle organizzazioni di massa, seppur a direzione riformista e socialdemocratica, come i sindacati confederali in cui comunque le masse ancor oggi si riconoscono) per fare il massimo di chiarezza sulle origini di questa crisi e sull’improponibilità delle soluzioni proposte dalla cosiddetta “sinistra PCI o sindacale”, costruendo un ampio fronte dal basso su problemi concreti capaci di unificare nella lotta i vari proletari al di là delle tessere di partito di appartenenza, masse che solo nell’esperienza pratica quotidiana riusciranno sempre di più a verificare l’inconsistenza e l’inconseguenza dei gruppi revisionisti vecchi e nuovi; dall’altro, rappresentando dall’alto nel rapporto con i partiti, col governo e con le forze della borghesia la vera opposizione comunista attraverso una politica rivoluzionaria che inserendosi con puntualità e con decisione nella vita politica del paese e difendendo con intransigenza gli interessi di classe sappia rappresentare una valida alternativa alla crisi della sinistra.
Quando invece l’area del “realismo politico” propone alleanze ibride tra i vari rottami della estrema sinistra, con i cossuttiani, con DP, ecc., sostenendo che solo in questo modo è possibile ricostruire un’organizzazione rivoluzionaria adatta alla situazione attuale, in realtà non fa altro che creare un’ulteriore confusione, proponendo un cartello sotto il quale dovrebbero convivere le posizioni più disparate, forse accumunate da un solo odio comune, quello contro la LA per il comunismo.
Le motivazioni che costoro danno per il formarsi di tale cartello è la necessità di superare i limiti del settarismo, del minoritarismo, della subalternità politica, dell’avventurismo ecc.
Concordiamo senz’altro con loro sul fatto che questi limiti sono stati presenti più o meno in grande misura in tutte le forze del M.R. in Italia, ma non pensiamo certo che si risolvano associando le più svariate tesi, tantomeno scendendo a compromessi sul piano dei principi tra marxisti rivoluzionari e riformisti.
Come possono infatti convivere nella stessa struttura organizzativa forze che hanno tolto dalle proprie tesi la necessità della dittatura del proletariato, come ad esempio DP, forze che sostengono il social-imperialismo ed ancor peggio il processo di liberalizzazione dell’economia avviato recentemente in URSS, forze che negano il partito leninista o comunque che intendono rinnovarlo in modo da renderlo irriconoscibile, forze che sostengono l’ipotesi togliattiana del partito nuovo ecc., con forze rivoluzionarie?
Inoltre all’interno di queste stesse forze rivoluzionarie quante tesi, ipotesi ed orientamenti diversi esistono?
L’ipotesi quindi di unificare tutto questo in un solo cartello, unificato forse nel trovarsi d’accordo per mobilitarsi su singole questioni della lotta di classe, ci sembra una vera e propria follia, peraltro un dibattito per niente nuovo, ma già tentato più volte negli anni passati con risultati ogni volta catastrofici.
Pensare di risolvere i problemi prodotti dalla sconfitta tattica dell’ 82, ricostituendo il “movimento”, questo grande ombrello sotto cui possono convivere le più disparate posizioni è in ogni caso una tesi opportunista e revisionista che ha come conseguenza pratica lo sviare il dibattito dai temi propri dell’avanguardia comunista, primo tra tutti il ruolo centrale che assume la L.A. nella politica rivoluzionaria dei comunisti oggi. Ciò significa svilire e non comprendere il significato né del partito né della necessaria lotta politica che si deve fare nel costituirlo.
Prima di unificarsi i comunisti devono demarcarsi, confrontarsi sui problemi di tattica, di strategia ecc. L’unità dei comunisti infatti si può dare solo nel partito e significa il prevalere delle idee giuste su quelle sbagliate, unità tra le avanguardie più avanzate per esercitare egemonia su quelle più arretrate (non certo per scendere sul piano dei principi a compromessi con esse): quindi costituzione di un punto di riferimento generale.
Il fatto che oggi il punto di vista rivoluzionario possa essere minoritario e controcorrente, non modifica di una virgola il problema.
Pensare di risolvere questa situazione con i compromessi sopra citati, significa solo annacquare il punto di vista rivoluzionario e rimandare all’infinito la risoluzione dei problemi di fondo di questa crisi.

La riaggregazione dei movimenti di massa
In stretto legame con l’ipotesi del cartello quest’area sostiene che la riaggregazione rivoluzionaria si dà solo dopo una riaggregazione dei movimenti di massa.
Ancor più, in questo caso, ci si allontana dal leninismo, che ha sempre separato con estrema chiarezza il problema dell’aggregazione rivoluzionaria (decisione soggettiva) dall’aggregazione dei movimenti di massa, che da un lato ha leggi propriamente oggettive e che in modo durevole non può darsi che sul terreno politico, che non nasce certo spontaneamente dalle lotte. In questa ipotesi, da un lato la politica diventa secondaria, la riaggregazione intorno alla politica è messa da parte, la costituzione del partito, la definizione della strategia e della tattica necessaria per il processo rivoluzionario nel nostro paese, viene ricercata nelle espressioni spontanee delle masse. I comunisti invece di portare la coscienza dall’esterno e invece di adempiere al ruolo di direzione politica delle masse nel rapporto dialettico masse/partito/masse, vanno a cercare una soluzione ai problemi teorico/politico/organizzativi dell’avanguardia nel movimento spontaneo.
Secondo queste ipotesi i comunisti si troverebbero così a costituirsi in organizzazione rivoluzionaria in funzione dei flussi e riflussi della lotta di classe, invece di intervenire per lavorare alla riaggregazione dei movimenti di massa, attenderebbero di intervenire in funzione di questa avvenuta aggregazione.
Come si è visto un tale impianto si allontana sempre più dai principi del M.L. (che svende nel mercato della politica), come dalla più importante acquisizione di questi ultimi 20 anni : l’unità politico-militare nell’agire del partito. Coloro che dall’esperienza della L.A. arrivano ad adottare un’ipotesi di tale tipo non possono infatti far altro che utilizzare questa esperienza per imbalsamarla, sia in cambio di una mobilitazione di questa aggregazione di forze in favore dell’amnistia, sia come riconoscimento di lealtà “democratica e progressista” all’interno di questo cartello.
Cercare infatti di mettere insieme le forze più disparate impone questi scambi, inoltre in un tale progetto la L.A. non avrebbe alcun senso rivoluzionario, come infatti ha dimostrato l’esperienza UCC. Il venir meno dei principi ML, il cercare strane alleanze neo frontiste tra proletariato, ricercatori onesti e piccola borghesia rovinata dalla crisi, tenendo insieme all’interno della stessa organizzazione le posizioni più disparate, non può che portare da un lato all’avventurismo e ad una pesante sconfitta militare, dall’altro a rendersi conto che in un tale impianto sconfusionato e revisionista la L.A. diventa più un ingombro che altro.
Vediamo infatti (anche se era già chiaro da tempo) come nel numero 2/3 della rivista “Politica e Classe”, sia un raggruppamento di prigionieri, sia il contenuto della rivista insistono decisamente sulla necessità di considerare chiusa l’esperienza della L.A. nel nostro paese, per poterla tranquillamente storicizzare e renderla inoffensiva.
Un passo dei prigionieri ci sembra significativo a tale proposito:
“ Gli obiettivi di una simile svolta storica (si riferiscono all’abbandono della L.A.) sono il contribuire a rimuovere il ricatto della prassi emergenziale nei confronti dei movimenti di massa e rivendicativi e, al contempo, l’apertura di una più matura riflessione unitaria nella sinistra di classe tale da favorire l’incontro tra la nostra e le altre esperienze di lotta”.
Nelle prime appare chiaramente la presunzione e l’illusione ben poco materialistica che vede la fine dell’ “emergenza” o del ricatto emergenziale in relazione con la cessazione dell’iniziativa combattente nel nostro paese, ignorando completamente come l’emergenza sia la conseguenza di un patto sociale ormai irrimediabilmente interrotto, di quella mediazione tra interessi proletari e interessi borghesi che la crisi non rende più possibile.
Porsi come forza politico-operativa significa, per contro, articolare la proposta politica di fondazione del PCC sul piano della tattica, della politica congiunturale: analisi concreta ed indicazioni di massima sulle grandi questioni al centro dell’attenzione nella fase, come mezzi, ponti, per “agganciare” nuove avanguardie ed avvicinarle alla proposta di partito e, quanto meno, per allargare, approfondire le nostre capacità di conoscenza reale sullo stato del M.R. e della classe: sarà banale, ma non inutile, sottolineare l’importanza dell’inchiesta e della prassi politica (unità di teoria-pratica) come strumenti di interazione con la realtà. La conquista delle migliori avanguardie comuniste può darsi nella misura in cui si offre anche un punto di vista tempestivo ed articolato, convincente, almeno sulle grandi questioni di congiuntura e degli sbocchi politico-organizzativi che non siano solo quello finalistico della fondazione.
L’attacco al diritto di sciopero, le nuove proposte di legge anti-droga, la repressione contro i lavoratori stranieri, la pratica quotidiana dell’emergenza sia in fabbrica che nella società, sono per l’appunto la conseguenza di quella crisi economica che l’assenza dell’attività politica dei comunisti, che l’assenza della L.A. come asse centrale di questa attività, rendono più facilmente realizzabili, non certo il contrario.
Il ragionamento si fa più evidente e pienamente conforme a quanto da noi detto e da tanti altri compagni sostenuto, sia dall’apparire della proposta “amnistia di sinistra”, ovvero che i giochi in merito alla realizzazione della stessa, la dialettica aperta tra questa area di prigionieri e le forze della sinistra nella sua accezione più ampia non potevano che vertere su un assunto di fondo, la rinuncia alla L.A., che, come scritto nel testo sopra citato, serve appunto a favorire tale dialogo.
La proposta di riportare l’esperienza B.R. sul terreno “della lotta politica, aperta di massa” è l’asse portante che segna l’alleanza tra la sinistra e quest’area di prigionieri, che dimenticano facilmente ciò che loro stessi hanno spesso detto in questi anni, cioè che la L.A. è per l’appunto il modo che assume la lotta politica dei comunisti e pertanto che rinunciare alla L. A. significa proprio rinunciare alla lotta politica. Per l’occasione viene scomodato il parallelo esempio del “movimento de liberacion nacional-tupamaros” uruguaiano ed il suo riciclaggio come formazione politico-legale, dimenticandosi però di dire che tale formazione negli ambienti della sinistra rivoluzionaria uruguaiana è considerata una formazione revisionista e che recentemente, in un comunicato stampa, questa formazione ha dichiarato: “Il movimento di liberazione nazionale tupamaros ribadisce la sua decisione e volontà di convivenza pacifica, di lotta politica chiara per una democrazia piena e partecipativa“.
In questo contesto si inserisce altresì la proposta di raggruppamento dei prigionieri politici di sinistra in un solo carcere, come dicono gli stessi autori della proposta “senza discriminanti relative alla diversità delle posizioni politiche e giuridiche”. Il neo frontismo proposto all’esterno del carcere con tutti i vari gruppi revisionisti, viene riproposto all’interno del carcere in una grande ammucchiata neo corporativa, estremamente legata al progetto stesso di amnistia, teso all’ulteriore isolamento e differenziazione dei comunisti dentro le carceri creando invece per i cosiddetti “prigionieri politici di sinistra” , “ragionevoli” aggiungiamo noi, condizioni di privilegio nella detenzione e di maggiori spazi al fine di elaborare meglio la loro posizione di delegittimazione della L. A., e formando così un luogo fisico dove far confluire le nuove reclute di questo fronte.
Si tratta, come si vede, di un’operazione per niente nuova, se non per la fraseologia pseudo marxista che utilizza, ed il coinvolgimento di molti ex dirigenti del movimento rivoluzionario (ed è ciò che la rende estremamente pericolosa), operazione per niente nuova in quanto ripropone il vecchio minestrone riscaldato delle aree omogenee nel contesto di un carcere omogeneo, e ciò al di là delle varie enunciazioni sul non porre alcuna discriminante che, come la pratica insegna, varranno solo per le diverse sfumature dei vari soggetti portatori del progetto di liquidazione o storicizzazione della L.A. in Italia. Per contro, porterà all’interno delle carceri ad una maggiore differenziazione ed al peggioramento delle condizioni di detenzione verso tutti i proletari rivoluzionari che di tale progetto sono acerrimi nemici.
Come abbiamo visto seppur in modo schematico e per l’essenziale, la proposta politica “amnistia di sinistra” è una pura espressione di revisionismo ed opportunismo, sia per quanto riguarda gli assunti di fondo della teoria M.L., sia per quanto riguarda la sua azione politica concreta.
Il loro allontanarsi dai principi del M.L. li ha portati via via a sostituire gli interessi generali del proletariato con gli interessi particolari e perciò corporativi dei prigionieri, ponendosi così come ceto politico; a sostituire con il politicantismo e i compromessi senza principi, la tattica dei comunisti che concepisce le mediazioni solo se queste avvengono senza mettere in discussione i principi stessi; a sostituire il necessario lavoro di bilancio, valorizzazione e riorganizzazione dei comunisti a partire dall’esperienza rivoluzionaria degli ultimi venti anni con la proposta di unità dell’intera sinistra sia rivoluzionaria che riformista, ecc.
Lasciando in questo modo irrisolti tutti quei problemi, tutti quei nodi politici dalla cui soluzione solo può riprendere l’iniziativa comunista con una proposta che come abbiamo visto ben lungi dal risolverli, svia unicamente il dibattito conducendolo in un vicolo cieco al fondo del quale non si può fare altro che consegnare l’esperienza della L. A. ad uso e consumo dei revisionisti e riproporre se stessi in forma di partitino o organizzazione legale completamente impotente, insomma ricacciarsi in quel pantano da dove con duri sforzi e col contributo e la stessa vita di molti compagni, il movimento rivoluzionario, ed in particolare le B.R. , oltre 20 anni fa erano uscite.
Ma, se tale è la deriva opportunistica raggiunta da questa posizione, non di meno e proprio per sconfiggerla è necessario affrontare con chiarezza le questioni di fondo tuttora irrisolte del movimento rivoluzionario, che permettono in un certo qual modo il prevalere di queste posizioni revisioniste nello stesso.
Se infatti la chiave di lettura principale di queste posizioni si evidenzia nell’abbandono graduale dei principi M.L. e nella liquidazione/storicizzazione della L.A., si tratta allora per noi di cogliere le interconnessioni tra questi due elementi al fine di ridefinire un progetto ed un’ impianto politico rivoluzionario nel nostro paese.
La lotta armata e la questione dei principi
Un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni ci dimostra che senza una solida base di principi non vissuti come dogma, ma come guida per l’azione, la L.A. e l’intervento dei rivoluzionari viene svilito, diventa incomprensibile e porta inevitabilmente alla sconfitta.
La L.A. senza questi solidi principi viene intesa come strumento di pressione contrattuale e come dimostrazione della propria, o come tante altre cose, tranne per quello che è, lo strumento centrale della politica rivoluzionaria comunista nella metropoli imperialista.
In una prima fase (quella che da più parti è stata definita fase della propaganda armata) la L.A. ha potuto evitare di affrontare sin da subito questo problema, in quanto segnava la rottura definitiva con l’eredità revisionista che aveva ormai imputridito i partiti comunisti dei paesi imperialisti usciti dal Comintern e diventava il vettore fondamentale, il mezzo di rappresentazione più efficace della determinazione di una nuova leva di avanguardia proletaria e ripercorrere la via rivoluzionaria, dava voce all’antagonismo proletario, ne amplificava la portata, ne esaltava i contenuti più avanzati, indicava uno sbocco politico e tracciava, pur faticosamente e tra molte contraddizioni, un percorso per porre di nuovo la questione del potere politico.
In questa fase quindi indubbio è stato il suo valore nel discriminare in modo chiaro tra il campo che si poneva conseguentemente la questione rivoluzionaria, ed il tempo “extraparlamentare” che scivolava via via nel parlamentarismo e nel pacifismo. All’interno di essa vi erano però diversi limiti teorici e deviazioni estranee all’impianto M. L., in particolare il peso di alcune influenze internazionali, come il guevarismo ed i tupamaros, determinava un fondamentale eclettismo teorico, e dall’altro l’influenza dell’operaismo. L’ibrida composizione del movimento rivoluzionario, la forte presenza di settori d’aristocrazia proletaria influivano su molte future degenerazioni. Tra le quali la stessa generale sopravvalutazione di lotte operaie che, per quanto radicali e massificate, erano ancora espressioni di un ciclo capitalistico espansivo e quindi di un’autonomia proletaria relativa. Sopravvalutazione che portava ad anticipare i tempi di una situazione rivoluzionaria ancora di là da venire ed a fare un grosso errore di soggettivismo. È il contesto stesso in cui matura la scelta della L.A. a spingere verso certe deviazioni. L’esigenza di farsi largo tra varie posizioni del M.R. determinava, in ultima istanza, una sua assolutizzazione. Così la L.A. diventava la principale discriminante (che, se necessaria, non era e non è per questo sufficiente), su cui si cercava il consenso e si aggregava: solo così si può capire il formarsi di un vero e proprio coacervo di posizioni politiche ed ideologiche dietro questa comune discriminante e le aperture verso formazioni europee che, pur praticando questo terreno di lotta, sono motivate da programmi e prassi molto diversi.
Il periodo di “accelerazione concorrenziale della fine anni 70”, senza dar risposta all’esigenza che la realtà imponeva di agire soggettivamente da partito, dopo aver agito oggettivamente da partito con la campagna di primavera ed il sequestro Moro, innescava anche nelle B.R. una spirale inarrestabile per cui l’aspetto militare prevaleva sempre più a scapito della complessità necessaria, nonché del rapporto con la classe, con cui pure si erano raggiunti buoni rapporti di dialettica.
Parole d’ordine come “la conquista delle masse alla L.A.” o “la guerra sociale totale” o “l’organizzazione del contropotere sul territorio” sopravvalutano la disponibilità delle masse che, per quanto radicalizzatesi nelle lotte, non erano certo sul punto di mettere conseguentemente in discussione la vivibilità nel MPC.
Al tempo stesso le organizzazioni non davano risposta a quella richiesta di direzione politica che dalle stesse masse emergeva. Il non aver saputo dare risposta a questa richiesta, il non aver saputo rapportarsi con la nuova situazione politico/sociale che da un lato lo sviluppo della crisi, e dall’altro la stessa esperienza di 10 anni di lotte operaie e proletarie e di L.A. dei comunisti nel nostro paese (soprattutto con la sconfitta del progetto di solidarietà nazionale) avevano creato, portarono alla sconfitta dei primi anni 80.
Con il dibattito apertosi in seguito nelle B.R., con la polemica sulla strategia della guerra di lunga durata, si rimetteva al centro della giusta dialettica tra le condizioni soggettive del processo rivoluzionario e condizioni oggettive, su cui non si può incidere e che esprimono caratteri diversi nelle fasi storiche, definendo le possibilità ed i limiti dell’iniziativa soggettiva. Cioè l’impostazione leninista, laddove definisce tre presupposti oggettivi fondamentali caratterizzanti una situazione rivoluzionaria e la concezione dell’insurrezione come punto di incontro eccezionale, all’interno delle tre precedenti condizioni, tra l’iniziativa politico/militare del partito e l’attività delle masse.
In altre parole l’aspetto militare prevale e diventa decisivo nella dinamica della lotte di classe solo in periodi relativamente brevi, mentre nei periodi non rivoluzionari, la L.A. assume un altro peso e significato.
Significato e peso di una più precisa e dialettica visione del processo storico che porta all’insurrezione, all’interno di una visione del processo rivoluzionario per tappe in cui va ribadita prima di tutto la centralità del partito e dell’impianto teorico M.L. che, soli, possono permettere la conduzione di un corretto rapporto avanguardia-masse e più in generale del processo rivoluzionario.
La necessità di riprendere il filo storico dei fondamentali principi M.L. è dimostrata proprio dalle ultime esperienze che ne hanno riconfermato in modo eclatante la validità e vitalità nei movimenti in cui essi ci permettono di basare scientificamente il processo di costruzione del proletariato in classe per sé, indipendente, cioè, ed armata ideologicamente, politicamente e militarmente, mentre il loro abbandono o travisamento riporta verso le più svariate deviazioni già sofferte in altri cicli di lotta.
Come abbiamo visto nell’ipotesi UCC ecc., questi principi non possono essere concepiti solo come statuto e, peggio, come materiali d’archivio, sorta d’icone da rispolverare di tanto in tanto, ma ben altrimenti come sostanza viva, scheletro e cuore intorno ai quali solamente può ricostruirsi l’organizzazione di classe rivoluzionaria. Nel loro insieme costituiscono un tutt’uno indivisibile, una visione unitaria, un contenuto ed un metodo che, attivati nella prassi politica, possono renderla più scientifica ed aderente alla realtà. Attivazione nella prassi politica significa il far vivere i principi in relazione alle mutevoli forme del M.P.C. alle sue particolarità storiche e geografiche, ben tenendo presente che, per quanto mutate e “complessificate”, queste rimangono forme di un contenuto immutato da quanto esiste il M.P.C.
In questo senso i principi (come fissazione dei nessi economico/politici del M.P.C. nel loro divenire storico e nel processo del loro superamento e come fissazione del relativo processo politico di accelerazione e direzione di questo processo), rimangono la chiave di lettura fondamentale ed imprescindibile, capace di centralizzare, omogeneizzare e unificare le avanguardie delle più disparate e lontane situazioni di classe contro la puntuale tendenza centrifuga e disgregatrice insita nella prevalenza delle forme particolari e specifiche di singole esperienze, per quanto di vasta portata. Proprio perché essi costituiscono la lettura profonda della nostra epoca, nel suo divenire, la loro mediazione con una realtà specifica e parziale non può mai essere che “dall’alto in basso”.
La tattica da praticare non è neutra, indifferente, ma organicamente legata alla nostra visione del processo storico rivoluzionario, dunque discende dai principi. Solo ponendosi su questo terreno si può affrontare, seppure con i dovuti rischi, il campo della tattica: con sufficienza chiarezza sui risultati che si vogliono ricavare dalla situazione particolare, per consolidare il percorso strategico. Significa subordinare in via di principio e nella pratica l’iniziativa politico/militare di congiuntura agli obiettivi strategici, verificare costantemente la compatibilità di iniziative locali o parziali con la finalità massima, raccogliere i risultati politici in vista di quest’ultima.
Generalmente lo scadimento verso deviazioni “tatticistiche” si dà nel momento in cui questa finalità massima, questi obiettivi strategici, pur formalmente riconosciuti, vengono accantonati lasciando il posto centrale alla campagna congiunturale di turno, i cui obiettivi e caratteristiche finiscono per informare gli sviluppi successivi della forza politica che se ne fa carico, in una spirale auto-alimentantesi.
Il bilancio ampiamente svolto in questi anni della recente esperienza italiana, la sua collocazione dentro la tradizione del movimento comunista internazionale (MCI), la sintesi operante per ricavarne i contenuti validi e generalizzabili, oltre lo specifico periodo della sua esistenza, ci hanno condotto alla riconferma ed alla ripresa dei principi M.L., coniugandoli all’unica fondamentale “innovazione” costituita dalla forma combattente del partito.
Questi principi vertono attorno ad una precisa visione della crisi generale storica del M.P.C., ed i suoi passaggi obbligati per il proletariato ai fini della fuoriuscita dal M.P.C. stesso: costituzione in classe per sé, partito, presa del potere politico, dittatura proletaria.
Porre al centro questi principi significa che ad essi deve riferirsi il risultato di qualsiasi soluzione tattica, dell’agire congiunturale, che ovviamente si sostanzia di parole d’ordine parziali, del fare politica in generale.
L’ordine di priorità/subalternità stabilito tra principi e tattica, tra principi e politica rivoluzionaria, dipende dalla scelta a monte che ogni forza politica fa e, gli esempi non mancano, le varie deviazioni nascono già nell’impianto teorico, di principio, a monte. Lo stesso riconoscimento formale dei principi M.L., seguito dal loro accantonamento, è la realtà scelta di altri obiettivi centrali, che poi finiscono gradualmente per esautorare totalmente anche quel simulacro di principi formali.
Ed in questo abbandono dei principi si trovano infatti sia coloro che negano la LA, sia coloro che la propongono come strategia. Entrambi, infatti, negano il ruolo politico della LA, negano la necessità di fare politica per il partito nella fase non rivoluzionaria, riproponendo una vecchia deviazione della sinistra comunista italiana degli anni 20 a proposito della partecipazione al parlamento, sostenendo che o la situazione è rivoluzionaria, e allora i mezzi legali sono inutili, oppure la situazione non è rivoluzionaria e quindi la stessa partecipazione al parlamento è inutile in quanto il partito non si pone sulla scena politica come forza agente e che la determina in prima persona, ma si limita alla propaganda teorica ed alla formazione dei propri militanti.
Questa tesi aspramente combattuta e sconfitta da Lenin e dalla Internazionale Comunista, come si vede ci viene riproposta oggi in relazione alla L.A. Noi al contrario pensiamo che il partito comunista deve fare politica sia nella fase rivoluzionaria sia in quella non rivoluzionaria, utilizzando ogni forma di lotta in rapporto ai livelli politico istituzionali del paese ed a livello di conflittualità e di autonomia di classe espressi nella realtà al fine di rappresentare gli interessi di classe nella scena politica determinata, scompaginando i progetti della borghesia, orientando e facendo crescere la coscienza di classe nei movimenti di massa, e aprendo spazi crescenti all’autonomia proletaria.
La L.A. quindi come azione politica del partito che contribuisce a scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendone problematica l’attuazione, evidenziando ed acutizzando le contraddizioni del fronte borghese, individuando il progetto borghese che assume la valenza di nemico principale in quella congiuntura, al fine di farlo fallire e realizzare l’interesse congiunturale della classe, aprendo spazi all’autonomia proletaria ed elevando la consapevolezza delle masse dalla lotta difensiva, alla capacità offensiva, in un rapporto costante con l’agitazione/propaganda che svolge “dal basso” con la presenza dei suoi militanti nei movimenti di massa.
Il PCC quindi, come un qualsiasi partito, entra nell’arena politica e nella vita del paese per come essa è, e non come ci piacerebbe che fosse, gradua quindi il combattimento ed il suo agire complessivo in funzione della situazione reale come si presenta e degli obiettivi politici che il partito si pone in funzione di questa ultima analisi della realtà, che per non cadere nel politicantismo devono però essere sempre legati alla sua linea politica ed alla sua strategia. La critica al soggettivismo e la sconfitta del neo revisionismo rinascente, la sconfitta delle varie ipotesi di liquidazionismo e storicizzazione della L.A. in Italia, sono parte integrante e non rinviabile del percorso alla costituzione del PCC, in quanto la dialettica marxista ci insegna che le posizioni giuste si affermano solamente combattendo quelle sbagliate.
A partire da questi assunti di fondo, la validità dei principi M.L., la L.A. come asse centrale della politica rivoluzionaria, la necessità oggi di costruire il partito, va allora affrontato il problema tra comunisti per uscire dalla crisi del movimento rivoluzionario, solo questa è la base di partenza di ogni dibattito che non voglia cadere nell’opportunismo, ricercando improbabili alleanze con riformisti, confondendo così la necessaria unità dal basso nei movimenti di massa, con l’unità tra proposte politiche differenti. Si tratta allora di dedicare tutti gli sforzi e tutte le energie per questo scopo, da un lato approfondendo tutti gli aspetti teorici e programmatici relativi, definendo quindi: linea politica, linea di massa ecc., attualizzando l’analisi economica sulla società, capendo quali siano i cambiamenti veri, per esempio nella composizione di classe, e quali le apparenze, ecc. Dall’altro ricostruendo presenza, rapporti, strutture logistico/organizzative che permettano al partito di agire come tale.
Senza questi cambiamenti obiettivi, indipendenti dalla volontà, non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti obiettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche rivoluzionarie in occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché?
Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni obiettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si farà cadere”.

Nota 1) Lenin ha affrontato in diversi testi il problema della definizione della “situazione rivoluzionaria” la citazione che noi riportiamo è tratta da: (il fallimento della seconda internazionale), Opere, vol. 21, Editori Riuniti
“Per il Marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Certamente non sbagliamo indicando i tre sintomi principali seguenti: 1) l’impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificare la forma; una qualche crisi negli “strati superiori”, una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che (gli strati inferiori non vogliano), ma occorre anche che (gli strati superiori non possono) vivere come per il passato; 2) un aggravamento, maggiore del solito, della angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento della attività delle masse, le quali, in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi (strati superiori), ad una azione storica indipendente.

PER IL DIBATTITO NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO EUROPEO

Nel marzo 82 il PCE(r) – Partito Comunista di Spagna (ricostituito) – ha pubblicato un opuscolo intitolato: “Textos para el debate en el movimiento revolucionario europeo” che ci fornisce una buona occasione per esporre il nostro punto di vista su alcune questioni importanti, per evitare confusioni con linee e pratiche politiche di altre organizzazioni europee, e per fornire elementi di dibattito al movimento in Italia ed in Europa, in vista di una ripresa della iniziativa rivoluzionaria nella situazione presente.

1
Il contenuto dell’opuscolo
L’opuscolo si divide in tre parti. Nella prima (in tre articoli dell’85/86) il PCE(r) esprime il suo punto di vista sugli argomenti del partito e della lotta armata. Nella seconda (in tre articoli dell’85/87 il PCE(r) svolge una polemica mirata contro la politica del c.d. “fronte antimperialista” ed in particolare contro la RAF. Nella terza parte sono pubblicati un articolo di F. Oriach (85), uno delle CCC belghe (85) ed due articoli di Azione Proletaria (Germania Occidentale) dell’85 e 86, articoli che i compagni spagnoli ritengono in sostanziale accordo con la loro posizione.
Ci soffermeremo sulla prima parte, dato che le altre due presentano un minore interesse ai nostri fini. Quindi cercheremo di sviluppare il più chiaramente possibile il nostro punto di vista.
Fin dalla breve prefazione viene posto in evidenza che per i compagni spagnoli la strategia della guerra di lunga durata costituisce uno degli assi portanti intorno a cui realizzare momenti essenziali di unità all’interno del movimento rivoluzionario in Europa. Sempre nella prefazione si chiarisce che ad avviso dei compagni spagnoli, l’obiettivo della insurrezione va inserito entro la strategia della Guerra di Popolo di Lunga durata (pagg. 3 e 4). Su questi temi concentreremo essenzialmente la nostra attenzione.
Il primo articolo, del novembre 86, è costituito da un attacco contro l’articolo di un certo P.B. Becker pubblicato dall’organo del MRI (in Italia nel 1985) con il titolo: “La falsa via della guerriglia urbana in Europa Occidentale”. Nel punto 2 di questa nota esamineremo particolarmente l’argomentazione contro Becker. Ora ci interessa soprattutto evidenziare quanto emerge da questo articolo sulla concezione propria dei compagni spagnoli della lotta armata.
A p. 5 si afferma che il dibattito/polemica in corso negli ambienti rivoluzionari dell’Europa Occidentale coinvolge in modo crescente operai, studenti e altri democratici a causa della persistenza e grande estensione del c.d. “fenomeno terrorista”, e cioè della incapacità degli Stati imperialisti di annientare il movimento di resistenza popolare che si innalza da ogni parte contro i loro mezzi di sfruttamento ed oppressione.
Ciò vorrebbe dire che da ogni parte si sviluppa (nov.86) la lotta armata (il c.d. “fenomeno terrorista”) come manifestazione di resistenza popolare allo sfruttamento ed all’oppressione, coinvolgendo l’interesse crescente di operai, studenti ed altri democratici. Sviluppo della L.A. che gli Stati imperialisti non riuscirebbero ad annientare.
Due osservazioni: che la L.A. in Europa Occidentale abbia mai avuto (dopo la fine della resistenza partigiana) il carattere di una resistenza democratica allo sfruttamento e all’oppressione, è una pura invenzione. Che a parte ciò, la L.A. in E.O., nel novembre 86 ed a tutt’oggi si stia innalzando da ogni parte, è una pura fantasia. Se la seconda affermazione (quella dello sviluppo da ogni parte della L.A. nei nostri giorni) fa parte di una ben nota retorica trionfalista, sulla quale non merita soffermarsi, la prima affermazione, quella sul carattere della L.A. in Europa di lotta di operai, studenti e altri democratici contro lo sfruttamento e l’oppressione, ci sembra importante perché estremamente caratteristica delle posizioni dei compagni spagnoli che assumono, come in seguito vedremo confermato, che la L.A. in E.O. è una continuazione della resistenza antifascista (che ha degli obiettivi suoi propri, di necessità, distinti da quelli del partito comunista).
Nel secondo articolo (marzo 85, scritto dai prigionieri di Soria), si afferma esplicitamente (in questo contesto si parla particolarmente della Spagna) che il conflitto odierno fra masse popolari e Stato è la continuazione della distruzione da parte del fascismo del potere popolare nel 1936 (p.17) e che la strategia della guerra di popolo di più lunga durata (inaugurata in Spagna negli anni 70) è una continuazione della esperienza della lotta quotidiana del movimento rivoluzionario da quando il fascismo si è imposto con le armi (p.18). (Nell’Italia del secondo dopoguerra si sarebbe parlato di una visione politica tipo quella della Volante Rossa o, negli anni 70, di una visione politica tipo quella dei Gap/Feltrinelli).
Questa conclusione è coerente con quanto si dice del “blocco sociale” su cui poggerebbe oggi il processo rivoluzionario in Spagna. Pag.21: “tutti quei settori della popolazione che oggi si scontrano col fascismo e lo sfruttamento monopolistico, difendendo i propri interessi di fronte al fascismo e al monopolismo… i contadini, i piccoli commercianti, i settori popolari delle nazionalità oppresse dello Stato spagnolo, gli intellettuali democratici e progressisti e la gioventù lavoratrice e studentesca, le donne lavoratrici e le grandi masse popolari, insieme alla classe operaia…”.

È naturale che la contraddizione principale avendo oggi questo carattere, sia su questo terreno che, secondo i compagni spagnoli, si legittima il più alto livello di antagonismo, quello espresso dalla lotta armata. Pag. 25 “In Spagna il carattere fascista del regime monopolista, imposto con le armi al popolo nel 39 e mantenuto col terrore per più di 40 anni, ha legittimato l’uso della lotta armata rivoluzionaria, come complemento essenziale del movimento di massa; grazie a questa lotta violenta il movimento popolare ha potuto e può svilupparsi e avanzare verso la conquista dei suoi obiettivi.” Vale la pena di sottolineare che recentemente, anche in Italia, specialmente da parte della UCC, una tesi sul “blocco sociale” e sul carattere di “basso profilo” della iniziativa politica “rivoluzionaria” nel nostro paese, sono state più o meno chiaramente avanzate. Nella nota precedente abbiamo cercato di disegnare il quadro politico generale in cui queste posizioni si sono venute collocando. Infine nel terzo articolo (del febbraio 86, sempre dei prigionieri di Soria), si affronta tematicamente la questione del rapporto fra politico e militare.
Fin dalle primo righe dell’articolo (pag.33) emerge il concetto fondamentale, pienamente coerente con tutto quanto esposto: “la forma superiore di organizzazione politica del proletariato rivoluzionario è il Partito Comunista.
Ad altro livello si trova la organizzazione militare che, nella sua forma attuale di guerriglia urbana, gioca un ruolo di prima importanza nel Movimento Politico di Resistenza delle grandi masse operaie e popolari.” Subito dopo si aggiunge che il Partito deve esercitare un ruolo di direzione politica sulla guerriglia. Dal che deriva la netta distinzione fra il politico (ruolo del Partito) e il militare (ruolo delle organizzazioni del Movimento Politico di Resistenza).
Ma cos’è questo M.P.R.? qui l’analisi dei compagni spagnoli estende a tutta l’Europa Occidentale gli elementi già identificati per la Spagna. Infatti (pp. 35/36): “Ciò che è più caratteristico di questo nuovo movimento rivoluzionario che si estende per tutta Europa è di aver acquisito la forma di Movimento Politico di Resistenza: una combinazione originale di movimento di massa e azioni guerrigliere che sono fra loro complementari e che di giorno in giorno confluiscono sempre più l’uno nell’altro…”. Questo movimento ha imposto “metodi di lotta violenti, scioperi radicali, manifestazioni fuori dal controllo dei sindacati e partiti riformisti, picchetti per estendere la lotta e il sabotaggio, la disobbedienza civile e altri tipi di resistenza…”
“In questa situazione generale si sviluppa la lotta armata nella forma della guerra di guerriglia, di piccoli gruppi o distaccamenti di combattenti che mettono in scacco più di una volta il potente Stato dei monopoli.” La tesi della continuità fra le forme di violenza di massa e la L.A. è palese ed applicata a tutta l’Europa Occidentale.
Pag. 38: “Guerra di lunga durata e insurrezione sono due concetti complementari che non si escludono.” “Possiamo dire che la nostra rivoluzione passerà per due fasi: quella della difensiva strategica, dello sviluppo della guerra di popolo di lunga durata, e la fase della insurrezione.” “Poiché (p.42)”la guerra di guerriglia è una forma di guerra civile che, per quanto larvata, è presente e matura. Dunque la guerra civile è in atto – una guerra civile antifascista, in tutta Europa. Questa sarebbe l’analisi dello stato attuale del conflitto di classe. Dall’esempio spagnolo (PCE-r e GRAPO) si ricaverebbe la regola generale che il partito deve dirigere politicamente (ed in certa misura, anche militarmente) organizzazioni guerrigliere che si costituiscono a livello di massa, esprimono la contraddizione tra il popolo e il fascismo e (e si spera) si pongono all’orizzonte l’obiettivo del Governo Democratico Rivoluzionario (come previsto dal programma minimo del Partito del 1975). La distinzione fra il politico e il militare non è perciò solo una questione di funzioni, ma di livello politico diverso su cui si pongono da una parte il partito, dall’altra le organizzazioni della guerriglia. Si tratta molto di più di una teorizzazione della distinzione fra partito e suo “braccio armato”, stante che la organizzazione armata si costituisce su obiettivi politici che le sono propri e non si identificano con quelli del partito. Che a questa “teoria” corrisponda poco la realtà, lo confessano gli stessi compagni, quando dicono (p.45): “fino ad ora, il maggior numero di adesioni alla guerriglia è provenuto dalle file del PCE(r) e, in minor misura da altre organizzazioni democratiche antifasciste.” Ma, tant’è. Questa teoria dovrebbe interpretare il movimento rivoluzionario in tutta Europa.
Questo il contenuto della parte principale dell’opuscolo. Il secondo e terzo articolo si trovano in italiano rispettivamente a p.173 e p. 289 del volume “Dalla Spagna la voce del PCE(r) e dei GRAPO” – Maj Editore – Milano 1987.
La nostra numerazione delle pagine si riferisce alla edizione spagnola. Ugualmente dei tre articoli contro la RAF, due si trovano tradotti nel libro ora citato, rispettivamente a p. 263 e p. 317 (quest’ultimo in versione un po’ differente).

2
La questione fondamentale
I documenti del PCE(r) polemizzano essenzialmente contro due diverse posizioni: da una parte contro la posizione dello emmellismo più stantio che attribuisce significato strategico alla L.A. e nella sola forma dell’insurrezione nella situazione rivoluzionaria e nei paesi del centro imperialista, o nella successione “lotta armata delle masse – insurrezione” nei paesi della periferia, e nega di conseguenza ogni ruolo alla L.A. nella situazione non ancora rivoluzionaria. Il riferimento attuale è al MRI (più che al PCP peruviano di cui il MRI si pretende espressione, non si sa con quale legittimità); da un’altra parte nei confronti degli “antimperialisti” europei, per i quali la L.A. ha un valore strategico anche nella fase non rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che non è più e non sarà probabilmente mai più quella di classe. Il riferimento principale è alla RAF.
Il PCE(r) intende affermare (con i richiami alle posizioni di Oriach, delle Cellule Comuniste Combattenti –CCC– belghe e di Azione Proletaria):
1) che la L.A. ha attualmente in Europa un significato strategico nella fase non ancora rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che tende ad identificarsi con la contraddizione di classe.
2) che essa di fatto da diversi decenni si manifesta come momento avanzato della lotta contro il fascismo, lotta della quale il conflitto di classe è il momento centrale, benché coinvolgente strati popolari più ampi che non il proletariato in senso stretto.
A nostro parere sono errate, su questo punto, sia le posizioni del PCE(r) che quelle del tipo MRI o del tipo RAF. La nostra posizione su questo tema è, da molti punti di vista importanti, diversa e l’occasione fornita dalla pubblicazione dei “Textos” ci sembra utile per metterla in chiaro.
Giustamente i compagni del PCE(r) attaccano duramente l’articolo di Becker pubblicato dalla rivista del MRI nel 1985. L’emmellismo “stantio” (a prescindere dai dubbi sull’onestà politica e personale di Becker) si è andato caratterizzando in modo netto da ormai un ventennio, e con le sue caratteristiche tipiche è ben riflesso nell’articolo in questione.
Si tratta di quanto segue: a) contrapposizione corretta alla propaganda revisionista nei confronti delle masse, in merito a possibilità/necessità della instaurazione del socialismo, carattere necessariamente violento del processo rivoluzionario, necessario coinvolgimento delle grandi masse proletarie in questo processo; b) ma, d’altra parte, abbandono, implicito od esplicito, causa di gravi violazioni di questioni e di drammatiche inefficienze, dell’insegnamento leninista circa la necessità per il partito comunista di fare politica in prima persona (ed a prescindere dall’indispensabile opera di propaganda, agitazione e organizzazione tra le masse) anche nella fase che precede la situazione rivoluzionaria, nella quale ultima lo scontro di classe assume tendenzialmente la forma insurrezionale. Poiché in effetti le iniziative di carattere offensivo (ma anche difensivo) dei comunisti rivoluzionari in Europa, in questa fase storica, hanno assunto la forma della lotta armata, questo abbandono ha significato, da parte degli emmellisti stantii, essenzialmente il rifiuto della L.A. e della organizzazione clandestina del partito.
Non stiamo qui a discutere quale nesso ci possa essere tra questo emmellismo “stantio” del MRI e la teoria e la pratica del PCP a cui si richiamano. Questo è un problema che riguarda essenzialmente il PCP, e chi vivrà, vedrà. Intendiamo chiarire che il modo in cui i compagni del PCE(r) criticano l’articolo di Becker (e l’emmellismo stantio del MRI), a nostro parere, è fuorviante.
Becker afferma che la L.A. in Europa negli anni 70 non è stata espressione delle masse proletarie, ma di gruppi della piccola borghesia, e pone questa “constatazione” alla base della condanna di questa esperienza (ancor più se riferita agli anni 80). I compagni del PCE(r) rispondono sostenendo che la lotta armata degli anni 70 (e oggi) in Europa è stata espressione delle masse popolari (con al centro le masse proletarie), contro la continuità fascista dei regimi della borghesia europea, dopo la seconda guerra mondiale.
Naturalmente il loro riferimento particolare è alla Spagna, ma come abbiamo visto estendono questa interpretazione a tutta l’E.O. Noi riteniamo che questa interpretazione sia sbagliata. È senz’altro vero che la resistenza antifascista armata in Europa fino alla II guerra mondiale è stata espressione popolare, e principalmente proletaria e che questa realtà nella Spagna franchista ha avuto una propria continuità fino a metà degli anni 70 (come in Grecia e Portogallo). È anche vero che le divaricazioni interne ai partiti comunisti rispetto al problema della portata della L.A. antifascista ed al seguito da dare alla politica dei “fronti popolari” dopo il VII congresso del IC, sono stati elementi importanti nel dibattito per la formazione delle avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. Ma è arbitrario stabilire una continuità senza soluzione, fra la L.A. antifascista (la resistenza) e la L.A. dell’avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. E ciò in modo particolare per quanto concerne l’Italia. Innanzitutto per quanto riguarda gli obiettivi. Le avanguardie comuniste armate degli anni 70 in Italia hanno avuto fin dall’inizio avanti a sé chiaro l’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese e si sono qualificate per organizzazioni rivoluzionarie comuniste e non genericamente antifasciste, nelle componenti più importanti (BR) esplicitamente dirette a costituirsi in partito comunista e combattente. Non può essere messa in discussione la partecipazione di significativi strati di massa, basterebbe fare riferimento a quantità e qualità sociale degli arrestati. Ovviamente non è particolarmente rilevante, per il problema che qui ci interessa, la questione del numero in assoluto. La tesi del carattere “antifascista” (o non) di questo ciclo di lotte non si risolve attribuendogli (o non) un carattere più o meno vasto di massa. Quello che ci interessa è di evidenziare la qualità politica offensiva espressa dalle avanguardie rivoluzionarie e dalle avanguardie comuniste, come parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti. Dove Becker sbaglia (in buona o cattiva fede) non è nel giudizio sul carattere più o meno di massa della L.A. degli anni 70, ma nel non riconoscere il carattere che essa ha avuto di parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti, quanto meno da parte delle avanguardie comuniste che si muovevano in una prospettiva offensiva, in contrapposizione all’immobilismo impotente dell’emmellismo “stantio” di cui egli si fa portavoce. Negli esempi non solo della Spagna, ma anche della Grecia e del Portogallo, dove la L.A. “resistenziale” antifascista si è prolungata fino a metà degli anni 70, dopo la caduta dei regimi di Franco, Caetano e Papadopulos, le forze combattenti antifasciste hanno avuto la più grande difficoltà a riconvertirsi nei loro obiettivi politici ed anche nei loro metodi di lotta. In Italia, non a caso, esperienze come quelle dei GAP degli anni 70, si sono dissolte in quanto proposte politiche, di fronte alla maturazione delle nuove esperienze delle avanguardie rivoluzionarie che andavano formandosi. La soluzione semplicistica dei compagni spagnoli, per i quali nulla è cambiato dopo Franco e tutto continua come prima, ci sembra inaccettabile ed incapace di dare frutti concreti. Non è verosimile dire che Gonzales e Franco, Soarez e Caetano, Papandreu e Papadopulos sono la stessa cosa. Come era assurdo dire che Adenauer e Hitler, De Gasperi e Mussolini, erano la stessa cosa nell’immediato secondo dopoguerra. Gli strumenti di governo sulle masse, beninteso negli interessi di classe di sempre, cambiano (fra la repressione più pura, la manipolazione del consenso, la depoliticizzazione di massa, ecc.) e di conseguenza le forme politiche del dominio di classe, della resistenza di classe, della offensiva rivoluzionaria di classe, cambiano anche essi.
Dopo la caduta dei regimi fascisti in Europa, la resistenza armata antifascista ha perso di senso, e la L.A. ha assunto un nuovo senso come strumento decisivo (non come unica espressione dell’attività del partito, ma come fondamentale discriminante fra rivoluzionari ed opportunisti) dei partiti dei comunisti rivoluzionari nella lotta per il socialismo ed il comunismo. Questa differenza è oggi essenziale. Milagros Caballero dei GRAPO (la organizzazione che conduce la lotta armata oggi in Spagna sotto la direzione politica del PCE(r)) dice (al suo processo a Parigi il 21.5.87): “L’organizzazione (GRAPO) non ha un’ideologia definita. Essa è composta di comunisti, anarchici, democratici, antifascisti” (Bollettino dei Comitati contro la Repressione n. 28). Attribuire alla L.A. questa dimensione politica (il che non vuol dire ovviamente, disarmare le masse) comporta di privarla oggi del suo ruolo decisivo di strumento della lotta politica di partito. Altra questione è quella posta dalla L.A. di ETA e IRA, che in un quadro di lotte di liberazione nazionale, ha effettivamente carattere di massa, e che pone problemi che qui non possono essere sviluppati e per i quali rimandiamo ad altra occasione.
Più incisivi sono i compagni del PCE(r) nella loro polemica con il “fronte antimperialista” ed in particolar modo con la RAF. Nell’insieme ci sembra corretta la critica al concetto di “sistema unificato” (gesamtsystem) dell’imperialismo che caratterizza la RAF. Del pari corretta la critica all’estremismo soggettivista degli “antimperialisti”, per i quali ogni contraddizione di classe nel centro metropolitano si riduce alla inimicizia insanabile fra i soggetti coscienti (quale che sia la loro collocazione sociale) e la macchina criminale del sistema unificato dell’imperialismo. Questa concezione ha fatto strada anche in Italia, dopo la disgregazione delle principali organizzazioni combattenti, presso quei militanti che non hanno ceduto alla tentazione della resa, ma che non hanno saputo ridefinire il ruolo della avanguardia comunista nel contesto di una analisi di classe del presente momento storico. È tipico che questo estremismo soggettivista abbia avuto origine in Germania (non per nulla con echi in Francia dopo il disfacimento della “Sinistra Proletaria”, naufragata proprio sullo scoglio della L.A.), dove la tradizione comunista era stata brutalmente sradicata dal nazismo e dal postnazismo (comunismo=pericolo di aggressione da Est), e dove la ricerca di una decente identità nazionale occupa dal dopoguerra in vari strati di piccola borghesia e di proletariato privilegiato, una posizione “ideale” più o meno esplicita, privilegiata rispetto alla ricerca di una identità di classe. Così lo sdegno contro gli elementi di continuità nazista e contro la integrazione della Germania nel quadro dell’imperialismo americano (fatti strettamente legati fra loro) si costituiscono in “coscienza rivoluzionaria radicale” con riferimento al conflitto Nord/Sud. La L.A. in questo contesto vuole essere esempio destinato ad espandersi nel quadro di un “fronte”, esplicitamente neutrale rispetto a prospettive ideologiche più determinate eventualmente patrimonio delle sue componenti. La estrema semplificazione del meccanismo di identificazione degli obiettivi che questa concezione della L.A. comporta, la assenza di qualsiasi esigenza di verifica nel movimento di classe, la varietà delle possibili forme organizzative che consente (come, nell’insieme, i compagni del PCE(r) notano giustamente) avvicinano queste esperienze più a quelle dell’anarchismo rivoluzionario che a quelle del comunismo. Si spiega così la estensione di questo esempio fra i compagni dispersi delle OCC in Italia dopo la sconfitta dell’82,che hanno rifiutato la prospettiva della resa, ma hanno abbandonato l’analisi M.L. della realtà senza fare i conti col soggettivismo. Per noi questo orientamento è completamente fuorviante e dovrà essere riassorbito, in senso marxista, solo da una riaffermazione nei fatti delle prospettive di una iniziativa comunista, essendo altrimenti destinato a stagnare endemicamente nell’area del ribellismo destinata ad estendersi nella società borghese in disfacimento.

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Sintesi della nostra posizione

La nostra concezione della lotta armata è dunque diversa. Per noi non si può parlare di significato strategico della L.A. in se stessa, in quanto la strategia dei comunisti si definisce nell’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese, della istituzione dello Stato della dittatura proletaria per la costruzione del comunismo, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe, delle quali la prima tappa nel nostro paese è la rivoluzione proletaria condotta attraverso la L.A. delle masse contro lo Stato della borghesia, nella fase rivoluzionaria. La lotta armata delle avanguardie comuniste, nella fase che precede la situazione rivoluzionaria (fase che può durare più o meno a lungo) ha un carattere marcatamente diverso ed attribuirle un carattere strategico, non significa praticamente nulla. Non si tratta della L.A. delle masse proletarie (sempre non nel senso della quantità, ma del livello politico), benché nessuno ignori che esistono livelli di violenza spontanea delle masse (che come abbiamo visto per es. i compagni del PCE(r) confondono deliberatamente con la L.A. delle avanguardie) la cui importanza non può essere sottovalutata. Si tratta della lotta armata del partito ed ha come obiettivi propri gli obiettivi che caratterizzano la lotta politica in generale del partito nella fase che precede la fase rivoluzionaria. Cioè scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendo più acute le contraddizioni che la attraversano al di là di qualsiasi intervento soggettivo, rendendo più o meno inefficiente l’uso della macchina statale (il che non dipende dal volume di fuoco, ma dalla qualità politica del combattimento); orientare, dirigere ed organizzare il movimento di massa in qualunque forma esso si esprima, ed in definitiva aprire spazi alla crescita dell’autonomia proletaria. Contribuendo così (insieme alla attività di propaganda, agitazione ed organizzazione fra le masse) alla maturazione di quegli elementi soggettivi che andranno costituendo una delle componenti determinanti della situazione rivoluzionaria. L’abbattimento dello Stato borghese, nel senso leninista di distruzione della macchina statale della borghesia (vedi Lenin di “Stato e rivoluzione”), nei paesi del centro imperialista, non può essere realizzato, nella fase rivoluzionaria, che attraverso la lotta armata delle masse proletarie dirette dal partito e non può avere altro scopo che quello della sua sostituzione con lo Stato della dittatura proletaria.
La concezione che attribuisce un significato strategico alla L.A. in sé e per sé, tende a cadere nel vero e proprio “terrorismo”, avente per scopo quello di creare disordine, con l’inevitabile risultato di aprire spazi di credibilità alle ipotesi più autoritarie. Le grandi masse non chiedono disordine, ma una nuova organizzazione sociale. Le grandi masse, anche proletarie, di fronte al puro disordine, rischiano di farsi mobilitare in senso reazionario. La L.A. del partito, nella fase non rivoluzionaria, è quindi finalizzata, nei paesi imperialisti, al conseguimento di obiettivi politici determinati, che naturalmente mutano nel tempo, a seconda della situazione politica concreta. Non può essere ripetizione di azioni simboliche di antagonismo astratto ed assoluto, destinate (secondo i loro autori) a moltiplicarsi per virtù dell’esempio, ed a realizzare così gradualmente l’attacco allo Stato. Concezione quest’ultima che avvicina paradossalmente i compagni spagnoli, i compagni tedeschi e, come abbiamo visto, anche certi compagni italiani. La L.A. del partito, momento centrale della sua lotta politica, ha lo scopo di scompaginare i disegni politici della borghesia, smascherando il loro significato agli occhi delle masse e rendendone problematica la realizzazione, colpendo quei rapporti politici, quei quadri politici dirigenti concreti, nei quali le forze contraddittorie della borghesia trovano provvisori equilibri e connivenze (quello che è stato definito il cuore dello Stato). Così facendo evidenzia ed acutizza le contraddizioni del fronte borghese (che obiettivamente esistono), alza la consapevolezza delle masse e ne orienta il movimento, sviluppando contraddizioni nello stesso disegno repressivo, naturalmente anche con i metodi tradizionali del movimento rivoluzionario, che consistono nella eliminazione di spie e torturatori e nella distruzione di strutture della controrivoluzione. Innalza cioè il livello dell’autonomia proletaria. È ovvio che la lotta armata non è l’unico strumento di lavoro politico del partito. Abbiamo detto e ripetiamo che in questa fase storica e qui è però il metodo decisivo. Per comprendere la portata di questa affermazione bisogna considerare quella che Lenin chiamava la differenza fra azione dal basso e azione dall’alto del partito. Se è vero che dal basso, legalmente e/o clandestinamente, il partito educa attraverso la propaganda e mobilita ed organizza attraverso l’agitazione le masse, dall’alto il partito, come qualsiasi partito, attacca il partito avversario, i partiti avversari, le condizioni politiche, le solidarietà politiche della borghesia che la costituiscono in forza capace di governare lo Stato al servizio dei suoi interessi. Come conduce questo attacco dall’alto? La storia fornisce numerosi esempi che vanno dalla campagna scandalistica, all’azione parlamentare, al controllo delle autonomie locali, all’infiltrazione nei gangli più sensibili dello Stato (per es. le forze armate). Non esistono principi in proposito, ma solo scadenze concrete. Nessun metodo è stato, è o sarà adottato una volta per tutte. La scelta dipende da un’analisi della situazione storica e sociale, condotta sulla base dei principi del marxismo-leninismo.
L’antiparlamentarismo della “sinistra comunista” italiana è stato una linea errata di rifiuto dell’azione dall’alto, e come tale criticato da Lenin. Qui ed in questa fase storica il metodo di importanza decisiva dell’azione dall’alto del partito è la lotta armata. Non intendiamo escludere che si possano insieme ad esso impiegare altri metodi, ma quello che ci preme e ci discrimina è che quello della L.A. viene da noi assunto come metodo decisivo, nel senso che è quello che decide della capacità di sviluppare lo scontro di classe a partire da quel livello offensivo, che nella sua sostanza e nelle sue forme, si è andato determinando, al di là dei contingenti flussi e riflussi.
Nella fase dell’imperialismo lo scontro di classe si approssima sempre più al suo momento decisivo, e logicamente la controrivoluzione alza di conseguenza il tiro cercando di prevenire l’offensiva proletaria (e solo episodicamente manifestandosi come “conseguenza” degli attacchi subiti). Il modo tradizionale di fare politica per un partito comunista rivoluzionario – attraverso un accumulo di forze con metodi “pacifici”- trova spazi sempre più esigui. Prenderne atto e trarne le conseguenze è d’obbligo.
Non si tratta solo né principalmente di rispondere (cioè di reagire ad una repressione sofisticata) ma di tenere quel terreno che logicamente ed inevitabilmente deve essere tenuto, dato l’attuale sviluppo storico del conflitto di classe. Non ci sono perciò “spazi democratici” da recuperare con le armi, ma c’è da portare ancora più avanti il livello di scontro quale si è venuto storicamente determinando.
Dunque la nostra concezione della L.A. del partito non ha nulla a che vedere con la L.A. spontanea delle masse, con la L.A. delle avanguardie di massa contro il fascismo e la repressione, con la L.A. delle anime belle contro i criminali vecchi e nuovi, dell’imperialismo USA e/o europeo/asiatico, ecc. Non abbiamo nulla a che vedere neppure con le concezioni che dividono politico e militare e che sboccano in strutture tipo partito e suo braccio armato. Non nella versione dei compagni spagnoli, dove è palese la diversa valenza politica tra un PCE(r) e i GRAPO, ma neppure in diverse versioni che vorrebbero il “braccio armato” strettamente subordinato, come una pura funzione “tecnica” al partito. Dubitiamo che la L.A. possa essere considerata una funzione “tecnica” (semmai tal genere di funzione esistesse in generale) e siamo convinti che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato (per es. nella resistenza antifascista, ma anche nelle guerre di liberazione) che la pretesa di dirigere dall’esterno una tale “funzione”, non potrebbe in definitiva che condurre al suo abbandono al livello più basso del movimento di massa, quello egemonizzato politicamente da riformisti e revisionisti. Con l’inevitabile effetto di “rimbalzo” di dare legittimità e forza a questo livello per pretendere alla direzione delle strutture politiche.
Nulla abbiamo ovviamente infine a che vedere con l’extraparlamentarismo di quei gruppi che o, fatalmente, finiscono nel parlamentarismo più bieco (vedi DP), oppure restano in un extraparlamentarismo acefalo, nel quale il rifiuto della lotta parlamentare null’altro ha prodotto di diverso perché il partito non solo possa agire dall’alto, ma possa in definitiva anche agire coerentemente dal basso in mezzo alle masse (vedi MRI e proposte tipo “Politica e Classe”). Nel dibattito europeo, come presentato dal libro dei compagni spagnoli, la nostra è una posizione diversa, che intendiamo confrontare con tutte le esperienze politiche rivoluzionarie in Europa ed in particolare con tutti quei comunisti che oggi in Italia si pongono il problema della fondazione del P.C.C. al fine di realizzare la massima unità nella chiarezza dei principi, che ci permetta, attraverso un confronto dialettico teorico e pratico, di giungere quanto prima a realizzare, attraverso il contributo di tutti questi gruppi o singoli compagni, il comune obiettivo.

IN TEMA DI PROGRAMMA COMUNISTA

L’argomento della continuazione della lotta di classe sotto la dittatura del proletariato.
Le esperienze storiche e qualche considerazione di attualità

La necessità di giungere alla costituzione del partito impone non solo un bilancio delle esperienze del movimento comunista in Italia, limitandosi alle sue pretese originalità, ma deve inserirsi all’interno della tradizione del movimento comunista internazionale, e da esso trarre tutti gli insegnamenti che si sono prodotti, sia nelle esperienze positive che negative. Fingere che questo processo si sia svolto in modo lineare e senza arretramenti e sconfitte, e quindi non discutere di questi problemi prodottisi per superarli, è un modo ben strano di porsi per dei marxisti che non hanno mai avuto paura dei propri errori ed hanno sempre operato col metodo della critica ed autocritica. Solo un tale metodo può permettere di rilanciare oggi il programma dei comunisti senza falsi ottimismi sul “paradiso di bengodi” o di lasciare alla borghesia la descrizione della società socialista, come di un immenso “gulag”. Data la complessità del problema, questo vuol essere solo un primo contributo. Siamo ben consapevoli che esso è carente nell’analisi dei problemi della struttura economica di fondamentale importanza necessita certamente di un ampio approfondimento. Tutta questa grande questione potrà trovare una sua forma definita solo all’interno del partito e nel dibattito del movimento comunista internazionale. Questo non vuol dire che oggi possa essere ignorata.
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Ci sembra importante porre all’attenzione del dibattito il fatto che le rivoluzioni proletarie in Russia e in Cina hanno subito dei gravi rovesci sul terreno stesso della lotta di classe; cioè che attualmente sia in Russia che in Cina le conquiste politiche del proletariato, cioè il suo potere, sono state rovesciate, e che la borghesia sia in Russia che in Cina ha restaurato il suo potere. Non si tratta di sclerotizzazioni burocratiche di Stati operai, né di deviazioni di linea, più o meno gravi, di “partiti comunisti” nei due paesi. Ciò ci impedisce di usare ancora il concetto di “campo socialista”,come invece molti compagni continuano a fare. Inutile dire che nello stesso tempo assumiamo che in questi paesi la lotta di classe continua su livelli più elevati di prima e che nutriamo la più ferma convinzione che il proletariato, anche grazie alle lezioni derivate dai rovesci subiti, ribalterà nuovamente la situazione a suo vantaggio e riprenderà il potere nelle sue mani.

È di fondamentale importanza esaminare con la massima cura le contraddizioni attraverso le quali si è sviluppato il processo rivoluzionario in questi paesi, per trarne i dovuti insegnamenti per la rivoluzione nel nostro paese. Benché la situazione nella quale il processo rivoluzionario si è sviluppato in questi paesi sia molto diversa dalla nostra situazione, come traiamo gli insegnamenti positivi ed utili a noi da queste esperienze, così dobbiamo essere capaci di trarre anche gli insegnamenti derivanti dai limiti oggettivi e dagli errori soggettivi di queste esperienze. Sarebbe infatti criminale imboccare una strada che ciecamente ci portasse alle stesse tragiche conseguenze che oggi si possono osservare nel processo rivoluzionario in Russia e in Cina.
Cercheremo quanto meno di delineare le questioni fondamentali che il movimento comunista deve affrontare. Queste questioni sono:
➢    attualità della tesi sul “socialismo” e la “dittatura proletaria”
➢    la continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria
➢    lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato
➢    qualche insegnamento dalle esperienze storiche
➢    particolarità maggiori della nostra situazione attuale
Attualità della tesi sul socialismo e la dittatura proletaria
La tesi secondo la quale la “fuoriuscita” (come oggi si suol dire) dal capitalismo verso la società comunista deve avvenire attraverso una fase di transazione caratterizzata dallo Stato della dittatura proletaria, fase detta da Lenin “socialismo”, è già una tesi di Marx (vedi specialmente “Critica al programma di Gotha”). Essa si fonda sulla seguente elaborazione teorica: per costruire la società comunista è necessario trovarsi in presenza di un altissimo livello di sviluppo delle forze produttive e di una trasformazione soggettiva a livello di massa del proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di una completa coscienza del ruolo di governo della natura (e non più di una classe sull’altra) che la società comunista implica per l’intero proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di grandi capacità tecniche-scientifiche (elemento fondamentale dello stesso sviluppo delle forze produttive). La crisi capitalistica, crisi di carattere generale e storico, che implica un blocco ed a periodi sempre più ravvicinati una distruzione di massa delle forze produttive è destinata ad intervenire (e non può che essere così dato che è lo stesso processo di valorizzazione del capitale che ingenera la crisi, col conseguente processo progressivo di distruzione delle forse produttive), quando lo sviluppo delle forze produttive non sarà ancora al livello richiesto dalla società comunista, benché questo sviluppo sarà già relativamente elevato, all’interno del sistema capitalistico mondiale nel suo complesso, benché con sempre più profondi dislivelli all’interno dei singoli paesi e nelle diverse aree del globo, a seconda del modo in cui è avvenuta la penetrazione e la valorizzazione del capitale. Parimenti la crisi capitalistica interverrà in un momento in cui il proletariato come massa non avrà ancora raggiunto uno sviluppo soggettivo, nel senso sopra detto, quale la società comunista richiede, benché una consistente sua avanguardia (i comunisti) disporrà di un bagaglio culturale ricco e di una coscienza politica avanzata. Così il problema della fuoriuscita dal capitalismo si porrà prima che le condizioni per la costruzione della società comunista siano completamente presenti. Da ciò la necessità della fase di transizione, del “socialismo”.
Che nei casi concreti della Russia e della Cina questo fosse lo stato delle cose al momento dell’abbattimento dello Stato della borghesia, non vi è alcun dubbio. Anzi in questi paesi la prima fase del processo rivoluzionario consiste in una successione rapida di rivoluzione democratica e rivoluzione socialista. Il nostro problema è di verificare se un tale stato di cose si presenti anche oggi nei paesi a capitalismo avanzato, e particolarmente nel nostro paese.
Per quanto concerne lo sviluppo delle forze produttive anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed ancor più nel nostro paese, esso non è oggi tale da consentire la immediata applicazione del principio “a ciascun secondo i suoi bisogni”. È da una parte evidente che la semplice redistribuzione fra i proletari della ricchezza sociale consumata dai ceti abbienti, non innalzerebbe di molto il livello di vita complessivo dei proletari (chiunque può fare dei semplici calcoli). Anche da questo solo punto di vista si dimostra pericolosamente errata quella versione della tesi sulla “maturità del comunismo” che ha avuto ed ha ancora qualche popolarità, secondo la quale oggi nei paesi a capitalismo avanzato, il problema del soddisfacimento dei bisogni proletari sarebbe una pura e semplice questione di distribuzione, risolubile nella anticipazione costituita dal saccheggio delle salumerie e dei negozi di dischi. Ma da un’altra parte sta l’aspetto più complesso della questione. È stato detto sarebbe sufficiente riconvertire il processo produttivo, cambiando la natura dei prodotti (p. es. – ma gli esempi possono essere tanti – trasformando l’industria bellica in industria di pace) per dar luogo ad una vera e propria abbondanza di beni di consumo proletari, tale da costituire dal punto di vista della capacità produttiva, una solida base per l’edificazione della società comunista. Tale affermazione è errata perché fondata sul noto sofisma della “neutralità delle forze produttive”. Questo sofisma vorrebbe che la “semplice” volontà politica fosse in grado di riconvertire l’uso delle forze produttive presenti, le quali sarebbero perciò neutrali rispetto al sistema politico che le ha prodotte e organizzate. In realtà le forze produttive presenti nel sistema capitalistico sono essenzialmente informate alle finalità proprio del sistema, cioè la produzione di profitto. La loro riconversione al fine di produrre per il soddisfacimento dei bisogni proletari, implicherebbe (ed implicherà) un alto livello di distruzione della loro capacità produttiva (è molto difficile riconvertire una fabbrica di siluri in una fabbrica di formaggini). Ed ancora più lo sviluppo delle forze produttive in un paese a capitalismo avanzato è condizionato da un particolare tipo di “vincolo esterno” che è costituito dal fatto di essere funzionale al super sfruttamento imperialista della periferia, super sfruttamento attraverso il quale una buona parte dei bisogni proletari nei paesi a capitalismo avanzato, viene attualmente soddisfatta. Cessato il legame di super sfruttamento imperialista, buona parte della produzione orientata allo scambio con la periferia dovrà essere riconvertita. Il che richiederà un certo tempo.
Questione importante, poiché dalla possibilità di stabilire un rapporto di corretta collaborazione economica con i paesi progressisti ed antimperialisti dipenderà in buona parte la possibilità per il nostro paese di approvvigionarsi di materie prime e di prodotti alimentari, dei quali è (e certo resterà) deficitario. Tutto ciò senza considerare la facilmente prevedibile distruzione di forze produttive che un conflitto mondiale, lo stesso processo rivoluzionario, ed il sabotaggio interno ed internazionale della borghesia, provocherà. Non c’è dunque da farsi soverchie illusioni sullo stato del sistema produttivo che la rivoluzione si troverà dinnanzi. In special modo considerato il livello richiesto dalla edificazione di una società comunista. Per quanto concerne lo sviluppo della soggettività proletaria, l’aspetto della diffusione a livello di massa della conoscenza tecnico-scientifica (aspetto che ha molto a che vedere anche con lo sviluppo delle forze produttive, ed in particolare della forza-lavoro come la principale delle forze produttive) lascia molto a desiderare, poiché la scuola capitalistica e gli altri strumenti di diffusione della cultura nel capitalismo hanno come scopo principale la formazione di una umanità docile, duttile e polivalente, passivamente orientabile nei consumi e nei comportamenti: qualcosa che è l’esatto contrario di un altro livello di diffusione della conoscenza tecnico-scientifica, la quale ultima è invece riservata a ceti ristrettissimi di selezionati agenti del capitale. La coscienza proletaria di massa degli interessi storici della classe e del ruolo che il proletariato è chiamato a svolgere nella società comunista, benché a tratti presente e stabilmente presente nell’avanguardia comunista, a livello di massa non è per niente radicato e diffuso e non va confuso con la diffusa e radicata insoddisfazione nei confronti dello stato di cose presente e con lo spirito di ribellione che vi è connesso. Infine non bisogna dimenticare che il proletariato dei paesi capitalisti avanzati è abbastanza profondamente diviso in strati diversi sia dal punto di vista economico che culturale; una divisione che pone gravi problemi già nella fase pre-rivoluzionaria e che continuerà a porre gravi problemi nella transizione al comunismo.
Dunque anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro, la crisi del sistema capitalistico si verificherà fatalmente in circostanze in cui le condizioni per la edificazione della società comunista saranno ancora immature e sarà perciò necessario un periodo di transizione, il periodo della società socialista. In questo periodo il potere sarà esercitato dalle avanguardie del proletariato, in stretto legame con l’intera massa del proletariato ed all’interno di un processo orientato alla più ampia diffusione delle responsabilità di direzione politica e di gestione amministrativa ed economica fra tutti i proletari. In questo periodo di transizione lo Stato avrà la forma della dittatura proletaria. Sarebbe un errore considerare che la dittatura sia una forma del potere resa necessaria di per sé dall’arretrato livello di sviluppo delle forze produttive e dell’arretrato livello di sviluppo della soggettività proletaria a dimensioni di massa. Tali condizioni, benché possano dar luogo a contraddizioni nella società, non danno però luogo necessariamente a contraddizioni di tipo antagonista. Ciò che, come già Marx ed ancora più Lenin hanno messo in evidenzia, ed ancor più l’esperienza storica dalla Comune di Parigi ai nostri giorni, rende indispensabile l’esercizio della dittatura proletaria dopo la conquista del potere da parte del proletariato sotto la guida della sua avanguardia, è il fatto inevitabile che la borghesia non solo non scompare istantaneamente nella società, ma anzi si arrocca su posizioni di resistenza e di controffensiva, appoggiata da potenti alleati internazionali. Nei confronti della borghesia alla controffensiva, interna ed internazionale, si sviluppa una contraddizione altamente antagonista, che può facilmente evolversi in guerra civile (o anche esterna) più o meno prolungata. Il governo di questa contraddizione altamente antagonista è affidato alla dittatura del proletariato, il quale è diventato l’aspetto principale della contraddizione. Ma la dittatura del proletariato si rende necessaria anche per un’altra ragione. In tutto il periodo del socialismo non solo la lotta di classe continua contro i residui della borghesia reazionaria, ma anche contro le tendenze assolutamente prevedibili di formazione di nuovi strati di una nuova borghesia, come risultato delle contraddizioni che permangono nella società socialista e che possono facilmente degenerare in contraddizioni di classe, come la storia ha dimostrato.

La continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria

La lotta di classe continua dunque sotto la dittatura proletaria contro i residui della borghesia reazionaria e la dittatura del proletariato è, appunto, strumento di questa fase della lotta di classe che vede il proletariato divenuto l’aspetto principale della contraddizione. Ma ancora, contraddizioni proprie della società socialista (manifestazioni particolari del marchio borghese da cui non si è ancora liberata, come diceva Marx) possono diventare contraddizioni di classe. In particolare il rapporto fra proletariato e la sua avanguardia presenta diversi aspetti contraddittori. Innanzitutto tutto non si può identificare formalisticamente l’avanguardia del proletariato con il suo partito, il partito comunista. Il partito comunista è una struttura organizzata e formalizzata. L’avanguardia del proletariato è invece un concetto che allude agli strati del proletariato più avanzato politicamente, organizzati o no nel partito, benché per definizione il partito tenda razionalmente ad organizzare tutti gli elementi più avanzati del proletariato dotati di coscienza comunista. Nella società socialista partito, avanguardia e massa proletaria (come del resto anche nella società capitalista, sia nella fase pre-rivoluzionaria che nella fase rivoluzionaria), non sono concetti identici. Si tratta di realtà diverse fra le quali intercorrono dei rapporti. Il carattere contraddittorio di questi rapporti è costituito dal fatto che la direzione del lavoro politico, amministrativo ed economico è svolto dalla avanguardia del proletariato ed in particolare dal suo partito, che dirige politicamente gli organi dello Stato. Questa direzione ha, fra i suoi scopi principali, quello di innalzare le capacità tecniche e culturali e la coscienza politica del proletariato tutto intero, per farne il protagonista della società comunista, nella quale lo Stato stesso e con esso ogni forma di potere di uomini su uomini si sarà estinta. Dirigere a non essere più diretti costituisce un rapporto che contiene una palese contraddizione. L’evoluzione razionale e dialettica di questa contraddizione porta alla società comunista, dove non vi sono più dirigenti e diretti. Ma poiché non solo la borghesia mantiene delle posizioni economiche rilevanti nella società socialista (non fossero che quelle residuate dal monopolio della conoscenza tecnica e scientifica), ma mantiene anche delle forti posizioni nella cultura ed una grande capacità di diffondere la ideologia dell’individualismo e che influenze di questo genere vengono costantemente dal circostante mondo capitalistico, nonché dalla tradizione culturale borghese massicciamente presente nello stesso proletariato (il quale neppure da un punto di vista economico costituisce un tutto unico ed omogeneo), nulla è più facile che questa contraddizione invece di evolversi in senso razionale e dialettico, mostri tendenze anche assai pronunciate a trasformarsi in contraddizione di classe, in contraddizione antagonista. Non si tratta del fatto che le avanguardie proletarie che gestiscono il potere si possano trasformare in burocrazia pigra ed inerte. Questo sarebbe il meno e sarebbe un male ancora rimediabile in modo non troppo difficile, dato che la pigrizia può essere difficilmente ideologizzata. Il fatto è che nella realtà si verifica una tendenza di queste avanguardie a trasformarsi in classe che gestisce il potere nel suo proprio interesse, cioè in una nuova borghesia, che interiorizza e propaganda ideologicamente la vecchia e consolidata ideologia della classe borghese, con appena qualche modesto abbellimento. Non vale essere membri del partito per essere vaccinati da questa tendenza. Si tratta, ed in concreto in Russia ed in Cina si è trattato, di una tendenza concretamente emersa, fino agli esiti drammatici che conosciamo. Non esiste come abbiamo detto, un vaccino contro questa “malattia”. Alle avanguardie proletarie, dentro e fuori dal partito, consapevoli di questo pericolo, spetta il compito di condurre una lotta, che è lotta di classe, contro la vecchia e nuova borghesia, sia che essa costituisca le sue posizioni di potere fuori o dentro il partito. Su questa linea mobiliteranno le masse svolgendo appieno in senso razionale e dialettico il loro ruolo di dirigere a non essere più diretti, rinnovando il partito quando ciò si renda necessario. Il partito è strumento necessario alla lotta di classe, ma la sua integrità comunista non è garantita da nulla se non dalla capacità delle avanguardie proletarie che lo compongono e anche da quelle che si formano al suo esterno, di sottoporlo costantemente ad un processo di critica e rinnovamento, attraverso la mobilitazione delle masse. Così il martello è indispensabile per piantare i chiodi, ma nulla garantisce che col martello non ci si possa anche schiacciare le dita. Questa concezione della politica comunista è quell’elemento del patrimonio della cultura di classe che consente di tenere sempre aperto lo spiraglio della lotta di classe anche nelle situazioni più difficili, e che perciò deve essere oggetto di costante insegnamento. Cercheremo di vedere, per sommi capi, come storicamente questi problemi siano stati in concreto affrontati. È comunque preliminarmente evidente che questi problemi hanno un modo caratteristico di evidenziarsi. Questo modo è quello che riguarda il processo di transizione che investe lo Stato nella fase del socialismo.

Lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato

Nella società comunista lo Stato si estingue. Ma evidentemente non si estingue da un momento all’altro, per suo proprio decreto. Questo significa che lo Stato in senso proprio, organo dell’esercizio della dittatura di una classe su un’altra (e perciò caratterizzato dal diritto e dalla giustizia, da organi deputati alla repressione delle attività reazionarie, da costituiti livelli di centralità nella formazione delle decisioni politiche, amministrative ed economiche), è anche Stato in un senso speciale. La società socialista non corrisponde ad una formazione economico-sociale particolare, a fianco della società feudale, capitalista, comunista. La società socialista è soltanto una società di transizione dal capitalismo al comunismo. Dunque lo Stato nella società socialista, e fin tanto che essa rimanga tale, è caratterizzato dal essere uno Stato in costante trasformazione. In ogni momento di sviluppo della società socialista si deve evidenziare questa trasformazione in corso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale al lavoro per costituire e rafforzare istanze periferiche sempre più articolate alle quali trasferire i suoi compiti, mano a mano svuotando se stesso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale, per garantire il processo di cui si è detto, promuovere e rafforzare funzioni ed organismi di controllo dal basso del suo operato.
Gli organi della giustizia e della repressione professionali devono man mano trasformarsi in tribunali popolari ed in milizie proletarie non professionali ecc. O questo processo di trasformazione è concreto e visibile o non si tratta di una società socialista in transizione verso il comunismo. È chiaro che nello specchio costituito dalle strutture statuali si riflette nel modo più chiaro quella contraddizione di cui sopra si parlava fra funzione del dirigere ed obiettivo di superare l’esigenza stessa di direzione. Le strutture dello Stato socialista sono materialmente costituite da uomini: gli elementi di avanguardia del proletariato, e fra questi, in posizione di massima responsabilità politica, dai militanti del partito comunista. A questi uomini compete la grande responsabilità di guidare la transizione, che andrà avvenendo man mano che le grandi masse proletarie verranno portate alla assunzione delle responsabilità della direzione politica, della gestione amministrativa ed economica della società. Questo processo è contemporaneo, anzi strettamente intrecciato allo sviluppo delle forze produttive (nel senso di una reciproca dipendenza dei due elementi), su di un punto centrale (oltre che ovviamente sul contestuale sviluppo centralizzato della ricerca scientifica e tecnica, della pianificazione economica ecc.): lo sviluppo della forza produttiva principale: il lavoro umano, man mano emancipato dalla forma di forza-lavoro mercificata, e messo in condizione di dominare e sviluppare al livello più ampio e diffuso il processo produttivo, controllandone in modo determinante modalità e finalità.
È ovvio che questo tipo di trasformazione va contro senza sfumature agli interessi della vecchia borghesia, il cui potere è stato rovesciato, contro gli interessi del mondo capitalistico in generale, ma anche contro gli interessi che premono per costituire gli uomini che partecipano agli organi del potere politico della società socialista, in nuova borghesia, in nuova classe sfruttatrice. Sul terreno di queste trasformazioni si svolge dunque la lotta di classe nella società socialista. Nulla può garantire a priori l’esito di questa lotta.
Le esperienze storiche lo dimostrano in modo drammatico.

Qualche insegnamento delle esperienze storiche

Richiamiamo l’attenzione innanzitutto su alcuni passaggi dell’esperienza sovietica.
All’incirca fino alla fine degli anni 20, la società uscita dalla rivoluzione proletaria appare come un “capitalismo di Stato diretto dalla dittatura proletaria” (l’espressione è di Lenin). Ciò significa che l’economia è in parte nazionalizzata ed in parte controllata da uno Stato nel quale il potere è nelle mani dell’avanguardia del proletariato. Nel caso concreto gli organi di questo Stato sono rappresentati dai soviet elettivi (degli operai, soldati e contadini) che si centralizzano nel Congresso panrusso dei Soviet, il quale a sua volta esprime uno o più organi esecutivi centrali. Il partito svolge il ruolo politicamente dirigente in questi organi, in quanto per così dire “avanguardia dell’avanguardia”. Le imprese economiche, sia quelle nazionalizzate che quelle private, sono controllate dall’alto da un organismo centrale (Consiglio Nazionale dell’Economia) e dal basso dai comitati (operai e impiegati) di fabbrica, a loro volta centralizzati da un Congresso panrusso (apparato costituente nel suo insieme l’apparato del c.d. “controllo operaio”). Anche in questi organismi il ruolo di direzione politica spetta al partito. In sostanza si vede bene come lo schema fondamentale del potere, sia in campo più strettamente politico che in quello economico, è costituito da un rapporto dialettico fra un polo centrale ed una diffusione periferica di poli di base ai quali partecipano direttamente i lavoratori addetti alla produzione. Il partito raccoglie le avanguardie comuniste e dirige politicamente l’evoluzione di questo rapporto dialettico. Nel senso di una progressiva estensione del potere degli organismi di base e periferici. Questo processo si è verificato nella realtà? La risposta non può che essere negativa. Anche mano a mano che l’emergenza della ricostruzione economica veniva superata e che le forme giuridiche della proprietà privata venivano del tutto abolite (specialmente a partire dalla fine degli anni 20) e che un impetuoso sviluppo delle forze produttive veniva realizzato, non solo questo processo non si è verificato, ma si è verificato il contrario: gli organi del potere centrale si sono rafforzati e quelli periferici e di base si sono quasi completamente svuotati, se non sono del tutto scomparsi (come gli organi del c. d. “controllo operaio”, scomparsi ancora Lenin vivente). Un ultimo tentativo di promuovere una spinta di controllo dal basso, attraverso una struttura di vertice, fu tentato da Lenin nell’ultimo periodo della sua vita, attraverso un apposito ministero (il Commissariato all’Ispezione operaia e contadina, poi fuso con la Commissione Centrale di Controllo del Partito), esperienza fallita alla nascita.
A questo punto l’unico canale di esercizio del potere proletario è divenuto quello rappresentato dal ruolo dirigente del partito comunista, in quanto costituito dall’avanguardia comunista del proletariato. In questa situazione il partito ha manifestato da una parte la tendenza ad identificarsi con tutta l’avanguardia proletaria (con la conseguenza di un abbassamento del livello politico del partito) e dall’altra la tendenza ad identificarsi con gli organi del potere statale. Questa soluzione ha avuto il merito di evitare in un primo momento che la società socialista regredisse al capitalismo, attraverso l’ampliamento e la istituzionalizzazione della NEP ed anzi che nazionalizzazione e collettivizzazione dell’economia ed instaurazione della sua gestione pianificata, fossero portati a compimento (meriti particolari di Stalin).
Ma è certo anche che la trasformazione della società socialista in società comunista ha subito un pericoloso stallo, nel quale sono andate maturando le condizioni per una vittoriosa controffensiva della borghesia. In sostanza il partito, invece di promuovere la mobilitazione delle masse proletarie contro le classi reazionarie vecchie e nuove, elevandone la coscienza ed allargandone il ruolo dirigente sull’intera società (dirigendo così la lotta di classe nel socialismo), ha condotto la lotta contro la borghesia vecchia e nuova attraverso la occupazione dei gangli fondamentali del potere politico ed economico, con metodi prettamente amministrativi. Ammalandosi così della stessa malattia che pretendeva di curare. La arretratezza dello sviluppo delle forze produttive ereditata dal regime zarista, le distruzioni della guerra, l’accerchiamento internazionale ed il permanere di rapporti di produzione basati sulla piccola proprietà, sono stati i fattori materiali decisivi che hanno determinato questa situazione. La principale ragione soggettiva che ha condotto a questo risultato è stata la grande arretratezza politica del proletariato e degli strati inferiori delle campagne nella Russia della rivoluzione e la conseguente debolezza dello stesso partito bolscevico fuori dai grandi centri urbani. Questo fatto ha reso, specialmente nel primo decennio, estremamente difficile, se non impossibile, la mobilitazione di classe di grandi masse proletarie.
Ma si è trattato anche di ragioni dovute ad errori politici soggettivi del partito, ed al prevalervi di deviazioni economiciste più o meno esplicite (come quello che ha tenacemente affermato che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato ad un automatico adeguamento dei rapporti di produzione), con la conseguenza che poca o nulla attenzione fu posta allo sviluppo della coscienza politica proletaria anche quando le condizioni oggettive (cioè unificazione, generalizzazione e ed elevamento della condizione proletaria) andavano maturando (cioè durante gli anni 30). A correggere tali errori nessun contributo è venuto dalle varie “opposizioni di sinistra” degli anni 20, le quali si sono tenacemente arroccate su concezioni autogestionarie, corporativiste, particolariste ed in sostanza non meno economiciste di quelle della maggioranza, oscillando fra una difesa sindacalista degli interessi economici operai ed una concezione autogestionaria delle unità economiche, proprio e totalmente in contrapposizione frontale all’esigenza di portare l’avanguardia proletaria alla direzione di tutta la società. Il risultato inevitabile è stato il consolidamento di un forte strato di nuova borghesia nello stesso partito (oltre che in maggior misura nell’apparato statale) che, dopo la morte di Stalin, sarà in grado di imporsi apertamente come la nuova classe detentrice del potere.
La conclusione principale che ne possiamo trarre è che anche sotto la dittatura proletaria il ruolo del partito non può essere quello di rappresentare gli interessi proletari al posto del movimento proletario di massa, ma che il suo compito principale è proprio quello di suscitare il movimento proletario di massa sul fronte della lotta di classe.
Vediamo ora brevemente quali lezioni sono state tratte dai comunisti cinesi, ed in particolare da Mao, dalla evoluzione negativa del processo rivoluzionario in Unione Sovietica.
A metà degli anni 50 gli esiti verso i quali si dirigeva la situazione in URSS erano chiari per tutti. In quel periodo in Cina le strutture del potere politico ed economico ed il ruolo del partito comunista erano sostanzialmente modellati sul tipo sovietico, comportante perciò gli stessi rischi di degenerazione. Sotto l’impulso di Mao si scatenano, sotto la direzione di una parte del partito e contro un’altra parte, due grandi movimenti di massa sulla frontiera della lotta di classe: il primo è il Grande Balzo in Avanti (seconda metà degli anni 50), il secondo è la Rivoluzione Culturale (seconda metà degli anni 60). È completamente errato ritenere che si sia trattato di movimenti sociali di riforma economica o “culturale” in senso stretto. Si è trattato di autentici episodi di lotta di classe che hanno mobilitato imponenti masse proletarie, si sono svolti attraverso scontri anche assai cruenti ed hanno scosso tutto l’apparato del potere statuale e della gestione economica, coinvolgendo in profondità lo stesso partito. La caratteristica principale del Grande Balzo in Avanti è stata la costituzione delle Comuni Popolari nelle campagne e la lotta in tutti i campi contro il burocratismo ed i privilegi, in particolar modo quelli nascenti dalla separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, sia negli aspetti economici che soprattutto politici.
Senza entrare in dettagli si può limitarsi a sottolineare che la costituzione delle Comuni Popolari ha conciso con un vero e proprio capovolgimento della politica economica in merito alla priorità da attribuire allo sviluppo dei diversi settori, nel contesto di un processo di rapida collettivizzazione nelle campagne. Secondo il modello sovietico la priorità andava data alla industria pesante a scapito dell’agricoltura e dell’industria leggera. I cinesi decidono di capovolgere il modello dando luogo ad una spunta alla collettivizzazione nei campi nello stesso tempo in cui tentano di stabilire un rapporto equilibrato fra industria e agricoltura. Le Comuni Popolari sono strutture di gestione economica di unità cooperative molto grandi, altamente integrate di funzioni amministrative e dotate di larga autonomia rispetto al potere centrale.
Nello stesso tempo una forte campagna investe anche le città contro i burocrati staccati dalle masse e potenziali, se non già, elementi di una nuova borghesia. A ondate successive questa lotta continuerà fino a che nel 65 si scatenerà la Rivoluzione Culturale, conseguenza diretta del precedente movimento che porterà l’attacco della classe lavoratrice contro le strutture politiche più alte dello Stato, presidente della Repubblica compreso, comportando con la sua vittoria nei primi anni 70, una modifica della Costituzione dello Stato e degli stessi statuti del partito. Il carattere principale del movimento di lotta è costituito dal fatto che la frazione del partito diretta da Mao mobilita le masse proletarie, normalmente di senza-partito, contro i borghesi a tutti i livelli, ivi compresi i militanti di partito su posizioni reazionarie, destituendoli dalle loro funzioni e dando vita a nuovi organismi dirigenti delle unità economiche e di tutte le strutture politiche, a carattere elettivo e revocabili dal basso, detti Comitati Rivoluzionari, generalmente costituiti da un buon numero di quadri rivoluzionari senza partito. La frazione del partito diretta da Mao, mantiene sempre una funzione di direzione. Fino al 71 la vittoria della Rivoluzione Culturale e della frazione maoista appare completa. Ma all’interno stesso della frazione maoista andava maturando una grave contraddizione. Anche in questo caso (come già abbiamo visto in URSS), le difficoltà di mobilitare su un terreno di classe le grandi masse, specialmente contadine, è stata grande. Molti dei nuovi quadri non sono stati politicamente troppo solidi, mentre i vecchi quadri sinceramente (e non opportunisticamente) maoisti,  non devono essere stati proporzionalmente troppo numerosi.
Nello stesso quadro della Rivoluzione Culturale perciò si era creato uno spazio per delle tendenze opportunistiche mascherate dall’estremismo verbale più spinto, che fecero leva su errori di soggettivismo idealistico diffusi fra i nuovi quadri rivoluzionari. Queste tendenze si personalizzarono in Lin Piao (massimo dirigente del movimento) il quale, evidentemente non da solo, tentò di cristallizzare la Rivoluzione Culturale in una formalità rituale dietro la quale costruire una rigida gerarchia di potere di tipo burocratico, intorno alla quale coagulare nuovi e vecchi strati privilegiati, formalmente “riformati” dal culto della personalità di Mao. Fra il 71 e il 73 la frazione maoista si trovò in gravi difficoltà. Attaccata al suo interno, cercò una tregua con la vecchia frazione di destra sconfitta dalla Rivoluzione Culturale  (p. es. Deng Xiao-Ping) per liberarsi di Lin Piao. La probabile tendenza della vecchia destra a cercare una confluenza col bonapartismo linpiaoista fu così efficacemente spezzata, ma il prezzo pagato ai vecchi nemici della Rivoluzione Culturale era stato alto. Subito dopo la morte di Mao (76), la borghesia vecchia e nuova, non del tutto veramente sconfitta, riprende in mano le redini del potere. La principale conclusione che si può trarre da questi avvenimenti è che Mao ha certamente visto giusto nella necessità di mobilitare le grandi masse e di promuovere le avanguardie proletarie nella lotta di classe anche sul terreno della sovrastruttura ma, da parte degli stessi dirigenti comunisti a lui più vicini (come il cosiddetto gruppo dei quattro), è stata sviluppata una pericolosa deviazione che, non tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali il processo rivoluzionario andava svolgendosi, ha portato a sottovalutare l’impreparazione tecnica e la scarsa capacità politica di molti quadri rivoluzionari, l’arretratezza in genere delle forze produttive e il permanere di rapporti di produzione arretrati specialmente nelle campagne, consegnando così la soggettività volontaristica dei nuovi quadri nelle mani di opportunistici rappresentanti di frazioni della nuova borghesia, del tipo Lin Piao.
La rottura dello schieramento rivoluzionario ha lasciato via libera alla restaurazione borghese e la vittoria su Lin Piao si è rivelata alla fin fine una vittoria di Pirro.
L’insegnamento generale che possiamo ricavarne è che il partito anche nel condurre la lotta di classe nel socialismo, benché giustamente debba mobilitare le masse e non sostituirsi ad esse, promuovere le avanguardie ecc., non può prescindere da una progressiva e relativamente prudente formazione di quadri nella sovrastruttura politica, tenendo conto che la trasformazione dei rapporti di produzione diretta dalla sovrastruttura politica rivoluzionaria non può verificarsi senza un complesso sviluppo di capacità tecniche e politiche, le quali non possono essere sostituite da una generica “buona volontà”, da cui deriva più una tendenza all’inquadramento autoritario che una vera tensione alla crescita politica costante del movimento di massa nel suo complesso. In questo senso il “soggettivismo” non è un errore teorico, ma rappresenta la espressione di interessi di classe borghesi e piccolo borghesi tendenti a saldarsi in un fronte antiproletario. La differenza di classe, così, fra “ribelli” e “rivoluzionari” risulta illustrata in un esempio storico ricco di insegnamenti.

Particolarità maggiori della nostra situazione
Nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro paese, appaiono a vista d’occhio delle particolarità rilevanti, rispetto alle condizioni della rivoluzione sovietica e cinese.
Due sono particolarmente importanti: 1) il proletariato urbano, con tutte le sue stratificazioni anche rilevanti, è la classe sfruttata di gran lunga maggioritaria e dotata di un protagonismo politico consolidato da decenni, seppure di norma sotto l’egemonia dei suoi strati più privilegiati e della loro espressione politica, la socialdemocrazia ed il revisionismo; 2) il sistema produttivo ed il sistema politico che lo governa sono di gran lunga più complessi, già fortemente centralizzati ed internazionalmente collegati di quanto non fossero in Russia o in Cina al momento delle rispettive rivoluzioni. Nonostante queste differenze, dalle esperienze delle rivoluzioni sovietica e cinese dobbiamo e possiamo ricavare molti insegnamenti.
Da una parte alcuni insegnamenti relativi alla applicazione del programma comunista alla nostra realtà concreta dei nostri giorni. Innanzitutto in merito al ruolo del partito nel promuovere e condurre la lotta di classe nel campo della sovrastruttura attraverso una permanente mobilitazione delle masse proletarie.
Fare ciò, sotto la dittatura del proletariato, non significa solo (benché si tratti di un compito necessario) diffondere una formale e verbale adesione alla teoria marxista-leninista nell’ambito della letteratura, dell’arte, della scienza, dell’analisi politica, della morale (cioè nella cosiddetta “cultura” costituita da puri pensieri e pure parole), nel che consiste l’essenza stessa del linpiaoismo, fondamento di una struttura sociale autoritaria, che è l’esatto contrario della promozione del processo di estinzione dello Stato nella società comunista. La sovrastruttura è costituita da concreti rapporti che costituiscono il potere politico. I rapporti di produzione (elementi della struttura) si riproducono in forma capitalistica quale che sia lo sviluppo delle forze produttive, se la lotta di classe non aggredisce attraverso la mobilitazione delle masse i rapporti di produzione capitalistici. Quali sono questi rapporti politici che caratterizzano la sovrastruttura in paesi a capitalismo avanzato, come il nostro, e che costituiranno inevitabilmente l’obiettivo della lotta di classe, dopo l’abbattimento dello Stato della borghesia (abbattimento al quale necessariamente sopravvivranno)? Innanzitutto la professionalità del lavoro politico, riflesso dialettico (cioè reciproco) della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella struttura. Paradossalmente la società socialista erediterà una struttura politica d’avanguardia (il partito) fatta in gran parte di professionisti della rivoluzione, nel cui ceto si cristallizza in certo modo esemplarmente la divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Questa struttura non è stabile nel corso della trasformazione della società socialista. Il partito, nella fase che precede la rivoluzione e nella fase rivoluzionaria, è essenzialmente costituito da uno strato relativamente selezionato di avanguardie. Nel socialismo si allarga ad esempio il numero di avanguardie che sono nella produzione e che in questo processo acquisiscono coscienza comunista. Ugualmente lo Stato della dittatura del proletariato che eredita certi caratteri dello Stato della borghesia, come l’esistenza di un ceto di funzionari professionali, li abolisce progressivamente (e fin dall’inizio tende ad abolirne i privilegi a partire da quelli salariali), compatibilmente con i livelli di sviluppo economico e tecnico, per sostituirli con strutture collettive costituite da proletari della produzione. In generale le funzioni svolte da intellettuali di professione della società capitalista, vengono man mano trasferite ai lavoratori della produzione, la cui formazione intellettuale viene costantemente accresciuta. Gli intellettuali ricevono una nuova formazione inseriti nella produzione. È evidente che questo processo incide nello stesso tempo nell’apparato della burocrazia dello Stato (e del Partito), nella scuola, nelle forze armate, negli organi della ricerca scientifica e nella stratificazione delle funzioni nel processo produttivo. Dalla eliminazione di queste differenze dipende la eliminazione di una delle più potenti sorgenti di formazione della nuova borghesia. D’altra parte una pericolosa fonte di formazione di una nuova borghesia si trova anche nella complessa stratificazione dello stesso proletariato addetto al lavoro prevalentemente manuale, diviso fra addetti alla grande impresa ed alla media e piccola impresa, dell’industria e dei servizi, ecc., con livelli retributivi sensibilmente diversi, diversi sistemi di retribuzione, diversi livelli di intensità di sfruttamento e diversi contesti di vita comportanti livelli di consumo diversi per quantità e qualità. Questa stratificazione non potrà essere abolita immediatamente e “per decreto”. E neppure si può immaginare una immediata scomparsa delle diverse attività economiche basate sulla piccola proprietà.
Da queste differenze nascono dinamiche che spingono fatalmente all’ampliamento dello spirito individualista ed alla cristallizzazione dei privilegi. I meccanismi sovrastrutturali che conservano ed ampliano queste differenze devono essere attaccati, come quelli che riproducono la differenza fra lavoro manuale e intellettuale. A livello della contemporanea integrazione mondiale dell’economia e della società intera, nuove differenze e complessità funzionali alla riproduzione del privilegio dei nuovi strati borghesi, si presentano nella forma del caratteristico razzismo contemporaneo che investe ampiamente lo stesso proletariato dei paesi industrializzati. Si tratti del razzismo nei confronti degli immigrati o nei confronti dei proletari sfruttati nelle aree più povere del mondo. Si tratta ovviamente di differenze che trovano sede nel rapporto dialettico fra struttura e sovrastruttura e non di fenomeni meramente “culturali” in senso stretto, ma la cui aggressione deve avvenire anche a livello sovrastrutturale, in modo da contribuire in modo deciso alla ricomposizione del proletariato, sotto ogni aspetto. Dunque la lotta contro la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, la lotta per l’egualitarismo, contro il razzismo ed il sessismo, sono aspetti essenziali (anche se non esclusivi) della lotta di classe nella sovrastruttura sotto la dittatura del proletariato quale si presenterà nei paesi a capitalismo avanzato, dopo la sconfitta della borghesia. Altro insegnamento derivato dall’esperienza storica, pienamente valido in paesi come il nostro è naturalmente quello della necessità di condurre questa lotta sempre attraverso la mobilitazione di massa e mai con metodi amministrativi.
Da un’altra parte degli insegnamenti possono essere ricavati per quanto concerne l’azione del partito nella fase attuale, che pur non essendo nel nostro paese una fase rivoluzionaria, è tuttavia una fase in cui il partito agisce in vista della maturazione di una situazione rivoluzionaria. Non vi può essere contrasto insanabile fra il modo dell’azione del partito nella fase non ancora rivoluzionaria, nella fase rivoluzionaria e nella fase successiva alla presa del potere. Benché differenze e contrasti da superare (a costo altrimenti di fallire lo scopo) si presentino senza dubbio. Accenniamo a quegli aspetti di questa necessaria “continuità dialettica” che ci sembrano i più importanti e che danno qualche luce sui problemi della situazione più particolarmente attuale. Da una parte vi è una questione di primordiale importanza che riguarda il carattere clandestino e combattente, oggi, del partito ed il rapporto tra il partito e le masse proletarie. L’avanguardia comunista organizzata in partito fa politica in prima persona, prima, durante e dopo il processo rivoluzionario. Agisce direttamente (cioè non solo orientando l’iniziativa di massa, benché faccia ciò in ogni caso) nei modi e coi mezzi adatti al momento e alle circostanze. In questa fase l’esperienza storica nei paesi a capitalismo avanzato ha dimostrato che la forma clandestina e combattente del partito è la sola a consentire questa azione in prima persona del partito. Ciò non vuol dire naturalmente che nella società socialista il partito mantenga la forma clandestina e combattente. In questa fase il partito è legale e l’uso della forza è attribuito agli organi della dittatura proletaria. Per quanto concerne il rapporto tra il partito e le masse, in ogni caso e in ogni fase, il partito non dimentica mai che uno dei punti cardine di ogni disegno politico della borghesia (che è l’obiettivo che il partito attacca per scompaginarlo) è quello di condizionare il consenso o almeno la passività e la rassegnazione del proletariato come massa e di isolarne le avanguardie. È sempre ben conscio che l’intervento delle masse a livelli di consapevolezza man mano crescenti è condizione indispensabile perché si attraversino i momenti decisivi del processo rivoluzionario. Anche al livello più basso non vi è confronto di classe, se non nella misura in cui vi sono protagoniste le masse.
La distruzione dello Stato borghese nella situazione rivoluzionaria non avverrà mai se non in virtù della mobilitazione delle masse. La lotta di classe sotto la dittatura proletaria o coinvolge le grandi masse o di fatto finisce col non esistere proprio.
Dunque il partito nel suo fare politica deve avere in ogni momento presente la necessità di misurarsi col livello di mobilitazione di massa che il suo fare politica comporta. Questa mobilitazione di massa che il fare politica del partito comporta è sempre determinato da due lati. Da una parte il lato oggettivo, rappresentato dal livello raggiunto, momento per momento, dalla struttura (forze produttive e rapporti di produzione) realmente presente. Qui compresi i vincoli internazionali che sulla struttura incidono inevitabilmente, rendendo utopica la prospettiva del comunismo in un paese solo e di conseguenza decisiva politicamente la parola d’ordine dell’unità internazionalista del proletariato. D’altra parte il lato soggettivo, rappresentato dalla capacità del partito di saldare in una visione razionale del mondo gli interessi storici (e cioè obiettivi) del proletariato come classe, con il progetto politico portato avanti per tappe dal partito stesso. La possibilità di un tale rapporto dipende dal fatto che il partito comunista è esso stesso una parte (la parte più avanzata) del proletariato, e si costituisce per rispondere alle esigenze che obiettivamente e storicamente il proletariato si pone nella fase che porta verso la situazione rivoluzionaria e la società della dittatura proletaria prima e verso l’edificazione della società comunista, dopo. E non è – per contro – né una associazione blanquista, né – ancor peggio – anarchica, che rappresenti gli ideali e i progetti di se stessa. Sarebbe completamente errato ritenere che gli sviluppi qualitativi e quantitativi nella struttura, prima e dopo la rivoluzione, producano meccanicamente (come per riflesso) coscienza rivoluzionaria, costituzione del proletariato come classe per sé (autonomia proletaria) e coscienza dell’obbiettivo della ininterrotta trasformazione della società socialista in società comunista. Senza cioè un autonomo intervento di mobilitazione da parte dell’avanguardia nel campo della sovrastruttura. Intervento che costituisce in definitiva la messa in questione culturale dei rapporti di produzione, i quali informano in quantità e in qualità lo sviluppo delle forze produttive. Come del pari sarebbe completamente errato ritenere che questa messa in questione possa avvenire senza considerazione delle tappe che, invece, è necessario attraversare, sia prima che dopo la rivoluzione, tenuto conto di tutte le condizioni oggettive, interne ed internazionali, come se si trattasse di un processo continuo (o, peggio, istantaneo). Il primo errore corrisponde alle innumerevoli varianti dell’ economicismo-movimentismo, il secondo alle altrettanto innumerevoli varianti del volontarismo idealista.
Non è questa la sede per illustrare le deviazioni che la perdita di questa prospettiva comporta per l’azione del partito. Numerosi e attuali esempi sono sotto gli occhi di tutti. Da un’altra parte alcune considerazioni di primordiale importanza si pongono circa la qualità dei quadri chiamati a formare il partito comunista. Bisogna sempre tenere ben presente il carattere di struttura di massima responsabilità che il partito ha fino alla realizzazione della società comunista, e nello stesso tempo il carattere di struttura destinata ad estinguersi nella società comunista per la cui realizzazione esso stesso fortemente opera. Questa contraddizione costituisce per le avanguardie che lo formano un problema di identità, grave, un punto di equilibri permanentemente instabile che non consente per così dire “posizioni di riposo”.
La più grande cura nel selezionare i militanti del partito tra le avanguardie proletarie, non sempre negli esempi storici che abbiamo brevemente esaminato ha dato i risultati sperabili e sperati. Stalin (e prima di lui Lenin) fu costretto ad istituzionalizzare periodiche purghe del partito da elementi che vi si infiltravano, sempre più numerosi, con l’intento (più o meno evidente e persino più o meno consapevole) di costruirsi una situazione sociale privilegiata, almeno per il suo presunto carattere di stabilità. Ciò non toglie che questi elementi potessero ben essere delle avanguardie proletarie, nel senso limitativo di proletari capaci di comprendere l’importanza e di perseguire realmente le finalità di breve periodo poste dal partito. Ma d’altra parte del tutto impreparati a considerare il marxismo come un patrimonio di principi, un metodo, che implica la massima elasticità rispetto alle finalità di breve periodo e soprattutto una totale consapevolezza della direzione verso cui questa mutevolezza si orienta. Direzione che implica la stessa messa in questione del ruolo di direzione proprio del militante. Oggi si può riuscire ad ottenere l’adesione di militanti di ottima fede e ottima qualità che non riescono tuttavia ad andare al di là della identificazione di un obiettivo parziale e/o di breve periodo, caratteristico di una situazione relativamente temporanea, nel quale identificare la realizzazione di una propria socialità attraverso l’adesione all’ organizzazione rivoluzionaria. Una certa parte dei consensi più marcatamente proletari alle OCC in Italia negli anni 70 ha avuto questo carattere negativo. Il fenomeno può facilmente riprodursi ed in misura anche più grande in una situazione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria. Il partito ne risulta sclerotizzato e facile preda di disegni reazionari. Da un’altra parte, specialmente negli strati proletari più privilegiati, meno sensibili alle finalità di carattere parziale o immediato, l’ insofferenza verso lo stato di cose presente può manifestarsi come adesione verbale (ma anche allo stesso tempo di “spiritualità profonda”) a identità di cittadinanza utopica, la cui attualità è puramente predicatoria e le cui attuali realizzazioni si manifestano come testimonianze personali, capaci anche di grande spirito di sacrificio individuale, ma dal punto di vista della politica comunista, totalmente nulle. Anzi perfino tendenti più o meno consapevolmente al loro contrario, cioè alla realizzazione di piramidi gerarchiche moltiplicate all’ infinito e costituite (nella apparenza) sul grado di fedeltà ed abnegazione ad un’idea e (nella sostanza) sul grado di servitù a strutture sociali privilegiate. Nel caso del linpiaoismo storico abbiamo trovato un esempio (drammaticamente cresciuto all’interno di un gigantesco episodio di lotta di classe) che, nella nostra storia recente in misura più limitata, si è verificato nelle aree influenzate da OCC più marcate da una collocazione di piccola borghesia proletarizzata, tipo PL. È chiaro che da una religione all’altra il passo è breve e che il dissociazionismo ne è una pratica connaturata. La pericolosa vicinanza di questi generi di ribellismo di sinistra al ribellismo di destra è del tutto naturale e l’uso che la borghesia ne ha fatto nel passato non è facilmente dimenticabile. Anche attualmente si potrebbe con una certa facilità ottenere l’adesione di avanguardie proletarie o semiproletarie verbalmente “comuniste” di questo genere. Il partito che ne risulterebbe sarebbe una debole struttura che rapidamente si disgregherebbe sotto la pressione del’uso reazionario che la borghesia ne farebbe. I rischi presenti in certi filoni di antimperialismo, ecologismo, antinuclearismo attuali in Europa, caratterizzati dal più spinto ribellismo ed anche da un disinvolto uso delle armi, non dovrebbero essere fuori dalle nostre preoccupazioni. In ogni caso, ed in particolare nei confronti delle avanguardie in lotta inserite nella produzione, compito del partito non è quello di respingere i militanti che si avvicinano alla organizzazione, ma per contro quello di elevarne il livello con un lavoro di propaganda.
Il compito a cui non possiamo sottrarci, di delineare il nostro progetto futuro, che (inutile dovrebbe essere ripeterlo) in nulla si distingue dalla realizzazione dell’interesse storico del proletariato, ci obbliga al costante paragone con le esperienze storiche della rivoluzione proletaria, nei suoi successi e nei suoi fallimenti, ed al compito di trarre dalla esperienza storica gli insegnamenti qui ed oggi rilevanti. Le argomentazioni sopra esposte vogliono essere un contributo al dibattito su questi temi.
RISTRUTTURAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO, LOTTE PROLETARIE, INTERVENTO DEI COMUNISTI.
In questi ultimi anni, a partire dalla fine del periodo di espansione economica, con il manifestarsi della crisi mondiale dovuta alla sovrapproduzione assoluta di capitale, in ogni paese capitalista si è manifestata una precisa tendenza alla ridefinizione in senso reazionario dei rapporti economico/politico/sociali che regolano le democrazie borghesi. Ciò si evidenzia nel processo di accentramento dei poteri da parte dello Stato, nello svuotamento progressivo delle tradizionali forme di democrazia di base che la classe ha conquistato con anni di dure lotte, come il diritto all’organizzazione orizzontale nei luoghi di lavoro, nello smantellamento di una certa “rigidità” nell’organizzazione, nel mercato del lavoro, ecc.
Proprio in questo ultimo campo si assiste sempre più alla messa in discussione dei criteri che sino ad oggi hanno regolato la compravendita della forza lavoro ed alla loro riformulazione in senso ben preciso, consono alla tendenza generale dell’ involuzione reazionaria della società.
Entrando nel merito della questione, vediamo ad esempio che nel mercato del lavoro le leggi, i criteri e le condizioni che lo regolano, stanno progressivamente eliminando tutti quegli elementi di “rigidità” e tutte quelle conquiste ottenute dalla classe operaia e dal proletariato più in generale, con anni di lotta.
Infatti, se nel periodo di “espansione economica”, esistendo per i padroni relativi margini economici dentro cui fare concessioni (comunque sempre al di sotto delle rivendicazioni proletarie) lo scopo di leggi, accordi, ecc., era principalmente quello di “contenere” lo scontro sociale cercando di ingabbiare le grandi lotte proletarie sul terreno istituzionale, facendo a questo scopo concessioni atte a conseguire un se pur relativo “consenso” (è questo il caso dello statuto dei lavoratori); nei periodi di crisi, mancando questo margine di manovra, la mediazione tra interessi borghesi e interessi proletari diviene problematica ed il “consenso” lascia sempre più il posto alla coercizione, nonché ad un generale attacco sul piano ideologico ai valori di classe.
Questo processo di ristrutturazione del mercato del lavoro rende evidente il fatto che, in periodi di crisi, per la borghesia occorre ristabilire le regole del gioco in generale e nel particolare di questa questione, in quanto la concorrenza spietata tra capitali richiede un mercato del lavoro flessibile che permetta di aumentare costantemente la produttività ed abbassare i costi (in particolare quelli relativi alla forza lavoro); il capitalismo dal “volto umano” va allora messo in soffitta, i principi di egualitarismo eliminati ed in loro vece va posta l’esaltazione del profitto, dell’individualismo e della meritocrazia.
La crisi impone infatti sia ai singoli padroni che agli stessi Stati capitalisti, di adeguarsi a questa necessità, pena la perdita di competitività e la possibilità stessa di restare sul mercato mondiale.
Ciò comporta sia in rapporto al mercato del lavoro, che al processo lavorativo una tendenza a livello mondiale basata su un’accresciuta mobilità occupazionale e geografica della forza lavoro, adattamento della forza lavoro alle fluttuazioni della domanda (calcolo del tempo di lavoro su base annua, stagionale, ecc.), una liberalizzazione totale nell’assumere o licenziare, un’erogazione salariale legata al rendimento ed ai profitti, ecc.
Le conquiste operaie del precedente ciclo economico, le regole stabilite in una fase di espansione economica, quindi incompatibili con la fase in corso, diventano un intralcio alle esigenze di valorizzazione del capitale in questa fase, e vanno quindi spazzate via; questa situazione fa sì che la “garanzia” di un posto di lavoro per tutti (se pure ottenuto a spese dei popoli oppressi), grande miraggio dell’utopia capitalista e base di consenso della socialdemocrazia e dei revisionisti dei paesi occidentali, si dimostri irrealizzabile per lungo tempo all’interno del processo di valorizzazione del capitale e che ,in conseguenza della crisi mondiale, venga quindi messa in discussione “la possibilità di un lavoro per tutti”, dimostrando come sia impossibile sottostare alle leggi oggettive del movimento di capitale e garantire a tutti una casa, un lavoro, un diritto alla salute, ecc., come quindi le conquiste momentanee di un ciclo di lotte non garantiscano dei punti fermi, ma per garantirsi ciò, diritto al lavoro, alla casa, ecc., per il proletariato sia necessario prendere il potere, organizzare la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza sulla base del proprio potere e delle contraddizioni di sviluppo date, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe sino al comunismo.
La situazione sopra descritta, la tendenza mondiale alla flessibilità, evidentemente, non è uguale in ogni paese, essendo essa il prodotto delle condizioni economico/sociali all’interno della crisi in ogni singolo paese, nonché dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello stesso, ma assume alcune caratteristiche simili che fanno sì che nei vari paesi capitalistici si possano delineare alcune caratteristiche comuni che rappresentano già una triste realtà per milioni di lavoratori condannati ad una condizione di lavoro sottopagata e precaria, alternata a veri e propri periodi di disoccupazione. Alcuni dati in proposito ci dimostrano infatti che negli ultimi 15 anni nei paesi dell’area OCSE la disoccupazione è passata da circa 10 milioni di unità a circa 35 milioni, con una crescita costante al di là delle oscillazioni “tra ripresa e ricaduta” dovuta alle controtendenze all’interno della crisi. Tale tasso di disoccupazione dopo oltre 5 anni di costante salita non discende sotto l’11%.
In Italia negli ultimi 10 anni i disoccupati sono aumentati dell’84%: nel 1977 erano infatti poco più di un milione e mezzo, nel 1987 sono circa tre milioni.
Nel periodo tra il marzo 1982-1988 in Francia circa un milione di lavoratori ha perso il lavoro stabile, mentre altrettanti si sono trasformati in lavoratori precari, comprendendo in quest’area contratti determinati, lavoro occasionale, part-time, il “falso lavoro indipendente”, che comprende per lo più lavoro in appalto, ma per un cliente “dominante” che spesso è l’ex datore di lavoro. In Germania Federale nell’87 un terzo della popolazione attiva lavora part-time, a tempo determinato o in “proprio” (tenete presente l’esempio, sopra esposto, sul falso lavoro in proprio). In Gran Bretagna dall’81 all’87 i lavori a tempo pieno sono diminuiti di 1.070.000 unità, gli altri lavori sono aumentati di 1.700.000 unità rappresentando il 36% della manodopera. In Italia secondo il Censis due milioni di lavoratori hanno un lavoro discontinuo e irregolare, tenendo presente che tali dati sono al ribasso non contando i lavoratori stranieri, i minori e le “casalinghe” che ogni anno perdono e trovano il lavoro, contando i quali il numero si raddoppia. L’attuale situazione occupazionale nei paesi OCSE verte infatti sull’alternarsi di due fenomeni: precarizzazione generale del posto e delle condizioni di lavoro e aumento del numero dei disoccupati. Nel complesso i due fenomeni producono flussi di entrata e di uscita dal mondo del lavoro, che sono in realtà una mobilità forzata da una sottoccupazione all’altra, in un mix tra lavoro precario ma con i libretti, lavoro nero, extra legalità, ecc., con livelli sia di stagnazione nello stato di disoccupazione, nei confronti della forza lavoro più adulta e meno qualificata (con progressivo aumento dei disoccupati di lungo periodo per i quali non resta che il lavoro nero), sia con una elevazione dell’età in cui si accede al lavoro, con relativo impoverimento generale delle famiglie proletarie costrette a provvedere al mantenimento dei figli. Ed è proprio in virtù di questa doppia situazione che il fenomeno disoccupazione non ha ancora assunto la caratteristica di “esplosione sociale” che ci si attenderebbe, sebbene tale situazione prolungata nel tempo non può che acuire le contraddizioni di classe nella società. Questa situazione non è però dovuta come i padroni, i revisionisti, ed i ricercatori prezzolati del Ministero del Lavoro vorrebbero far credere da un’eccessiva rigidità delle regole del mercato del lavoro, (che impediscono un flusso regolare tra domanda e offerta), dall’espulsione oggettiva che sempre producono le nuove tecnologie, o errori in materia di politica del mercato del lavoro; in realtà essa è la conseguenza della crisi di valorizzazione del capitale, e la conseguenza di questa crisi delle controtendenze che la borghesia e i vari Stati attuano per restare nel mercato mondiale, e che vedono nell’utilizzo precario della forza lavoro, e nella disoccupazione di lunga durata, nella creazione di una fascia secondaria del mercato del lavoro con condizioni di sottosalario, (il sweat-shop americano) un loro cardine. Sia per attuare una produzione basata sulla flessibilità, sia attraverso un uso capitalistico delle nuove tecnologie che cercano di rendere sempre più manipolabile l’intero processo lavorativo con l’eliminazione dello stoccaggio, delle scorte, sviluppando un modello lavorativo legato alla variabilità delle differenti gamme richieste dal mercato, per cui il prodotto deve essere pronto nella quantità e nel momento richiesto, per cui in ogni ramo della produzione e dei servizi prevale la “filosofia” del meglio un lavoratore fisso in meno che uno in più, rispondendo alle esigenze produttive con aumento degli straordinari, assunzioni a termine, subappalto e lavoro nero, aumento delle prestazioni, degli orari, ecc.
Queste misure messe in atto dalla borghesia e dai vari Stati non servono però a superare la crisi ed a rilanciare un nuovo periodo di sviluppo, ma solo ad ingenerare (in alcuni casi per breve periodo) riprese circoscritte all’interno del periodo di crisi generale, amplificando così ogni qual volta la contraddizione iniziale; non è questa la sede per un esame approfondito della questione, ne basti un accenno per mettere in risalto che la logica con cui vengono messi in atto determinati processi di ristrutturazione, risulta in ultima istanza inutile a contrastare la tendenza di fondo della crisi.
In questa sede si vuole invece, alla luce di quanto sopra scritto affrontare nel particolare la questione delle modificazioni che sono avvenute e stanno avvenendo nel nostro paese nell’ambito del mercato del lavoro, nelle condizioni di lavoro e la loro connessione con l’atteggiamento dei padroni, del governo, dei sindacati e del proletariato in rapporto a queste modificazioni in corso.
Per cercare le origini di questa ristrutturazione, dobbiamo risalire all’incirca alla metà degli anni settanta (nei primi anni della crisi) allorché inizia a manifestarsi una certa inversione di tendenza nei criteri che regolano il mercato del lavoro; in questi anni, infatti, l’introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo comporta notevoli modificazioni sia rispetto all’organizzazione del lavoro, caratterizzati dalla segmentazione della catena, tramite il disaccoppiamento delle fasi di lavorazione con creazione di polmoni di scorte intermedi che consentono una certa autonomia delle diverse fasi di lavoro, razionalizzazione o il decentramento dei singoli segmenti, dell’automazione, ecc., che alle condizioni entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro: espulsione massiccia di forza lavoro; utilizzo sfrenato della Cassa Integrazione; blocco del “turn-over”, ecc.
A queste manifestazioni della tendenza che inizia a delinearsi in questi anni, il sindacato accettando i criteri di compatibilità , di fatto contribuì con l’adozione della cosiddetta “politica dei sacrifici”, la stipulazione degli accordi che concedevano ai padroni il massimo di disponibilità su mobilità, festività, ferie, ecc. e, più in generale, con l’accettazione del criterio padronale che vuole il salario operaio “variabile dipendente” dei profitti padronali e che si sviluppa anche sul piano ideologico con la sudditanza all’utilizzo strumentale dei nuovi processi innovativi in chiave sostanzialmente reazionaria che la borghesia fa (attacco ai valori egualitari da sempre patrimonio del movimento operaio, propaganda massiccia dei valori borghesi della meritocrazia, dell’individualismo, ecc.).
A proposito di questi processi innovativi negli ultimi anni si è fatto un gran parlare su un presunto venir meno della centralità della classe operaia e contemporaneamente su di una (sempre presunta) trasformazione qualitativa dell’organizzazione del lavoro in seguito alla introduzione delle nuove tecnologie.
Si rende perciò necessaria una breve parentesi, in realtà; Primo: la innovazione tecnologica non ha significato maggior professionalità per la maggioranza dei lavoratori, ma solo specializzazione per una cerchia ristretta di tecnici e sprofessionalizzazione per la stragrande maggioranza della forza lavoro, che poi questa oggi abbia maggiori titoli di studio, è dovuto alla scolarizzazione di massa, ma non riflette la mansione svolta. L’automazione cioè ha prodotto nuovi mestieri altissimamente qualificati (quali progettisti, analisti, ecc.) che interessano una parte minoritaria della forza lavoro impiegata, mentre per la stragrande maggioranza dei cosiddetti “nuovi lavori” si tratta di mansioni di operatore o controllore a basso livello di qualificazione. Le stesse esigenze di mobilità aziendale e di polivalenza interfunzionale di produzione (in cui tutti devono fare di tutto), la diminuzione degli aspetti di professionalità basati sul mestiere, dimostrano proprio questa avvenuta dequalificazione.
Si può quindi affermare che la sprofessionalizzazione, dovuta ai processi innovativi, allarga le file del proletariato industriale coinvolgendo professioni che godevano privilegi nella fase precedente.
Secondo: l’innovazione tecnologica che ha determinato l’espulsione di un gran numero di lavoratori, indebolendo la capacità di contrattazione di chi restava al lavoro, ha prodotto solo in parte un aumento di produttività, che è stato invece ottenuto (ancora una volta) con il peggioramento delle condizioni di lavoro ed il maggior sfruttamento della forza lavoro restante. Nell’ottantasei, ad esempio, l’aumento di produttività ha battuto ogni record superando il 4,5% ed in due anni più del 10%, questo dato è omogeneo a tutta l’industria, coinvolgendo perciò anche i settori non interessati, o interessati solo marginalmente all’automazione della produzione e dell’informatizzazione.
Alla Fiat la produzione è aumentata, ad esempio in tutte le aree anche nei reparti solo sfiorati dall’innovazione tecnologica, con aumenti del 30%, 50%, 80%. Come si vede, dunque, l’aumento di produttività è stato dovuto solo in parte ai processi di innovazione tecnologica, ma tale innovazione ha comportato una tale “rivoluzione” del processo produttivo, da determinare un aumento dello sfruttamento operaio tramite l’aumento dei carichi di lavoro, della mobilità interna ed esterna, dell’arbitrio dei quadri, con l’imposizione del recupero del tempo perduto anche in caso di guasti o carenze nell’organico (imposizione cioè di fornire la produzione “in ogni caso”), determinando oltre al notevole peggioramento delle condizioni di lavoro, un aumento considerevole degli infortuni a causa dei ritmi massacranti, nonché di macchinari spesso degradati, ecc. (si pensi che nel solo 1985 sono stati denunciati – dati INAIL – 2.012 casi di morte sul lavoro con una media di 6 al giorno; 905.088 infortuni “ufficiali” dato che la portata reale è spesso superiore di 4-5 volte quello ufficiale come rivelano per esempio chiaramente le varie denunce operaie sulle pressioni della Fiat affinché non si denuncino infortuni o li si declassi a malattia). Così come l’uso massiccio dello straordinario sia contrattato che selvaggio (giornate lavorative di 10/12 ore, compresi sabato e domenica e 3° turno), nonché l’attivazione dei premi salariali e dei “circoli di qualità” (aree con lavorazioni omogenee che vengono messe in competizione con altre del medesimo settore) sottoposte ogni mese ad una vera e propria gara di qualità “con premio finale”.
Gare e premi salariali, collettivi e legati ai vari indici tra cui la presenza, hanno l’evidente scopo di ingenerare una competizione continua all’interno dell’area e di creare una collaborazione nelle squadre contro l’assenteismo, spingendo gli operai a diventare “poliziotti” gli uni degli altri al fine di armonizzare automazione, flessibilità e lavoro operaio nella contraddizione controllo gerarchico e consenso. Ripristinando i reparti confino per i “meno prestanti” (le tristemente famose UPA del gruppo Fiat) come invalidi, ecc., e per gli operai più combattivi, allo scopo di isolarli dal resto dei lavoratori e col massiccio uso dei licenziamenti e dell’induzione “all’auto-licenziamento”, in particolare per quei lavoratori considerati dall’azienda improduttivi (in realtà di quegli operai che mostrano maggior resistenza all’offensiva padronale, basti ricordare il caso Fiat del 1980, che ha agito da capofila nel settore).
Sviluppando infine una tendenza al decentramento di fasi decisive del ciclo produttivo con il diffondersi di piccole e piccolissime aziende in cui il tasso di occupazione è di difficile controllo, operando per lo più al nero e con, nel contempo, un aumento delle ditte appaltatrici che lavorano all’interno delle grandi fabbriche, con ulteriore disgregazione degli operai.
I dati sopra riportati sinteticamente, su cui sarà necessario tornare in altri articoli per ragionare sull’attuale processo lavorativo in fabbrica, possono aiutare a comprendere come la classe operaia continui quindi a costituire il cuore della produzione capitalistica, il luogo in cui avviene l’estrazione del plusvalore, nonostante le riorganizzazioni e la ristrutturazione dell’organizzazione del mercato del lavoro: la sua centralità non è quindi messa in discussione da questi processi, ciò che invece lo è, è il modo entro cui avviene lo sfruttamento operaio. Questa riorganizzazione ha infatti determinato un peggioramento delle condizioni di lavoro e di quelle entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro. 
Riportando il discorso alla fine degli anni 70 e sino al 1983, si può dire che questi processi ristrutturativi si sviluppano sul terreno delle modifiche inerenti il processo lavorativo, i licenziamenti, la Cassa Integrazione ed il blocco del turn-over; l’attacco è portato in prima persona dal grande padronato (Fiat in testa) con un ruolo indiretto dello stato (mediazioni, finanziamenti alle aziende, ecc.) e la convivenza suicida del sindacato. Il sindacato infatti, dalla fatidica svolta dell’EUR, posto di fronte alla crisi, reagisce riconoscendo appieno le compatibilità capitaliste, le esigenze di mercato, ecc., allontanandosi sempre più dalla difesa, anche minima, degli interessi della gran parte del proletariato, sempre più burocratico e verticistica (esautora, cioè, in modo autoritario le strutture di base, i consigli di fabbrica, ecc.) inserito in organi collegiali pubblici e dunque sempre più ammanicato con il potere; illuso di poter cogestire le scelte di politica economica del grande padronato e dello Stato.
Un sindacato non solo riformista dunque, ma sempre più rivolto a compiacere governo e padronato, dando la sua disponibilità alla partecipazione della gestione della crisi a livello sociale, ricercando la propria legittimazione da parte dello Stato e dei padroni, e non in rapporto con i lavoratori. Un sindacato che all’interno della crisi economica non può più conciliare difesa del sistema e difesa delle condizioni operaie seppur al ribasso, e sceglie come strategia l’idea di conciliare difesa dell’economia nazionale e politica di sacrifici dei lavoratori nell’immediato, in compenso di un recupero futuro sia dal punto di vista economico, che politico. Come queste fossero pie illusioni la crisi attuale del riformismo e delle confederazioni che nel migliore dei casi cercano nelle teorie del “liberal Dahrendorf” nuovi orizzonti strategici, sta a dimostrarlo. L’originaria politica dei cedimenti si è infatti rivelata via via giustificazione per ulteriori cedimenti, ed in quanto a recuperi economici e politici per i lavoratori, il salario medio operaio e le discriminazioni sindacali alla Fiat la dicono lunga sul come ciò non è avvenuto.
Il 1983 rappresenta un anno di svolta nel processo di controriforma del mercato del lavoro in Italia, in quanto da un lato è l’anno in cui avviene una vera e propria svolta nell’utilizzo della cassa integrazione sia ordinaria che straordinaria, da allora in poi massicciamente adoperata da gran parte delle aziende italiane sia come forma di ammortizzatore sociale, (dal momento che garantisce un reddito se pur ristretto ai lavoratori, senza il quale il conflitto sociale tenderebbe a radicalizzarsi), sia come forma di ricatto sui lavoratori (se scioperi rischi la cassa integrazione) ed ancora come forma per espellere le avanguardie di lotta ed i lavoratori considerati poco produttivi (anziani, invalidi ecc.) e limitare il potere sindacale, ed infine come regolatore della produzione in funzione delle esigenze del mercato (è questo soprattutto il caso della cassa integrazione ordinaria).
Ma ancor più è un anno di svolta poiché lo Stato entra direttamente nel conflitto tra capitale e lavoro, tramite l’accordo Scotti dell’83 e con la legge 869 dell’84 di conversione dei vari decreti e di attuazione di altre clausole dell’accordo che sancisce il “diritto” dei padroni alle libere assunzione riducendo inoltre il salario e, più in generale, gli spazi di agibilità conquistati con anni di lotta.
Tale manovra governativa realizza questi obiettivi attraverso la revisione del meccanismo della scala mobile ed il contenimento degli aumenti retributivi (che con l’accordo Scotti taglia del 20% la contingenza sui salari e col decreto Craxi di tre punti cioè di un altro 40% la scala mobile); attraverso la definizione della durata minima di 3 anni e mezzo dei contratti nazionali contro i due precedenti, ed il blocco della contrattazione aziendale per un periodo di 18 mesi, ancora attraverso lo scardinamento dell’articolo 5 dello statuto dei lavoratori (controlli sulle assenze malattia) con l’imposizione di quella specie di “arresti domiciliari” che rappresenta l’obbligo di restare al proprio domicilio durante le fasce orarie, pena la sanzione disciplinare (anche nel caso venga riconosciuta la reale malattia) e la perdita di indennità di malattia per l’intero periodo di assenza: con la limitazione della cassa integrazione, per cui da “licenziato” con una forma di reddito si diventa licenziato a tutti gli effetti con reddito zero, infine con l’affossamento della chiamata numerica che costituisce un pesante attacco al “diritto al lavoro”, in quanto reintroduce una forma più palese di discriminazione nelle assunzioni, cioè in base alla discrezionalità dell’azienda; tramite la facoltà di assunzione nominativa per il 50% delle richieste numeriche, con i “contratti di solidarietà” e con i contratti di formazione e lavoro, questi ultimi permettono alle aziende il rinnovo del turn-over, con 2 anni di prova sul lavoratore, salario d’ingresso e una regalia di circa 2 mila miliardi l’anno da parte dello Stato e perciò non a caso sono diventati oggi la maggior forma d’assunzione (nota 1) riducendo nel complesso le assunzioni numeriche al 5% della totale forza lavorativa avviata al lavoro.
Inoltre l’ampliamento della possibilità di ricorrere al part-time ed alle assunzioni a tempo determinato, e le basi di una nuova legge sul mercato del lavoro che in seguito dovrà sancire anche in forma di principio ed attraverso determinati organi di gestione, la cosiddetta “deregulation” (osservatorio, agenzia del lavoro, ecc.).
L’accordo Scotti e la legge 863 si pongono perciò come secondo momento di attacco (nella fase di ristrutturazione del mercato del lavoro) delle conquiste proletarie ed indicano chiaramente i successivi passaggi a cui lo Stato e grande padronato si apprestano. L’approvazione della legge 56 del febbraio 87 (nota2) ed i vari provvedimenti presentati dal governo Craxi e poi ripresi in alcuni punti nel programma del governo De Mita rappresentano questo sviluppo.
Tutti i provvedimenti sinora accennati, gli organismi istituiti ed i processi di ristrutturazione messi in atto, rappresentano una vera e propria modifica del mercato del lavoro e del collocamento in particolare che, da organismo con funzioni assistenziali, clientelari, mediatrici, diviene tendenzialmente strumento di controllo-orientamento del mercato del lavoro a puro uso padronale. Ognuno di questi organismi ha infatti funzioni specifiche, ma tutte funzionali a questo riordino del mercato del lavoro; le commissioni e sezioni circoscrizionali (strutture mobili per il controllo immediato e capillare della forza lavoro) sono preposte innanzitutto alla razionalizzazione ed al coordinamento della miriade di uffici di collocamento, premessa di una più funzionale schedatura dei proletari senza lavoro, per la gestione della chiamata domiciliare dopo aver ormai ovunque eliminato la chiamata pubblica, considerata fonte di “disordine sociale” in quanto momento di aggregazione dei disoccupati.
La meccanizzazione del collocamento avviata in alcune regioni italiane e sbandierata come conquista dal sindacato, è al contrario lo strumento necessario a rendere funzionali questi organismi per effettuare la schedatura di massa.
Nota 1: Nel solo gruppo Fiat nel 1988 si sono avute 14.000 assunzioni soprattutto con contratto di Formazione e Lavoro.
Nota 2: La legge 56 prevede un adeguamento alle nuove esigenze padronali, degli organi di gestione del MDL, con l’istituzione di  commissioni e sezioni circoscrizionali, una Commissione Regionale per l’Impiego, gli osservatori sul MDL generale e regionale, le agenzie del lavoro.
Le Commissioni Regionali per l’Impiego sono un organismo di governo del mercato del lavoro locale (composto da componenti del potere centrale e locale, padroni e sindacato) ed hanno ampi poteri di stabilire, anche in deroga alla legge nazionale, ulteriori assunzioni con chiamata nominativa di disoccupati di altre circoscrizioni, possono esprimere pareri sulla cassa integrazione straordinaria, proporre corsi professionali, stabilire convenzioni con imprese. Hanno quindi lo scopo di canalizzare la forza lavoro a seconda delle esigenze capitalistiche (dei piani di sviluppo, investimenti, ecc.) creando casti bacini di forza lavoro regionale flessibile.
Gli Osservatori Regionali e l’Osservatorio Generale che centralizza l’opera svolta da quelli regionali funzionano da centri di rilevazione ed elaborazione dati sull’andamento del mercato del lavoro, di centralizzazione della schedatura dei disoccupati, che fanno anche con scheda propria, oltre a quella già compilata dai disoccupati al momento dell’iscrizione al collocamento.
Questi osservatori sono il centro di elaborazione dati della forza lavoro e sul suo utilizzo, il luogo in cui vengono ulteriormente elaborate le politiche tese a far conciliare (finché possibile) esigenze padronali e necessità del “consenso”, nonostante questo risultato sia sempre meno perseguibile e la loro azione resti perciò sempre più tesa ad orientare i flussi di forza lavoro verso i settori più produttivi per il capitale e di fornire indicazioni sulle cosiddette “zone e situazioni a rischio” rispetto alle quali si tende sempre più ad operare con il bastone in mancanza della “carota”, con buona pace dei trattati sociologici sfornati da vari osservatori (militarizzazione dei quartieri, degli uffici di collocamento, comunità alloggio, ecc.).
Le Agenzie del Lavoro sono il luogo in cui l’attività di ricerca degli osservatori e degli altri organismi si trasforma in atti concreti ed in provvedimenti operativi: sponsorizzate in questi anni dal sindacato come “organi tecnico-progettuali capaci di creare nuovi posti di lavoro” (e così presentati dalla legge 56) sono in realtà l’ente che farà da intermediario tra domanda e offerta di forza lavoro, canalizzando la forza lavoro più debole verso forme di lavoro fittizie e precarie (i cosiddetti “lavori socialmente utili”: i cantieri per disoccupati, ecc.).
Se questi sono gli organismi che dovranno gestire il nuovo mercato del lavoro, gli aspetti più rilevanti delle leggi che definiscono il nuovo mercato del lavoro sono: A) la facoltà di allargare la percentuale di contratti a termine. B) la concessione di ulteriori deroghe alla già misera percentuale di chiamate numeriche. Concessione questa già sancita da varie convenzioni regionali (padroni-sindacato) e dal recente accordo Sindacati Confindustria che oltre a riconfermare i contratti di formazione e lavoro (peraltro peggiorandoli, definendo cioè norme che prima non lo erano, e facendolo al livello più basso, ha reso più difficile o chiuso del tutto possibilità di contrattazione a livello decentrato) ha inserito la possibilità per le aziende di assumere il 10% dell’organico con contratti a termine di durata da 4 a 12 mesi, contratti che per essere attuati non hanno bisogno di rispondere a nessuna esigenza di ordine produttivo, ma che sono il ricatto che i padroni impongono per assumere giovani sotto i 29 anni e bassa scolarità e disoccupati di lungo periodo oltre i 29 anni. Si noti bene che per stabilire il 10% non si contano gli altri contratti a termine richiesti invece dall’azienda per esigenze produttive. C) l’eliminazione delle chiamate numeriche nell’apprendistato, perché l’elevazione sino a 29 della qualifica di apprendista e l’assunzione degli stessi per lavori stagionali nell’artigianato. D) l’instaurazione della clausola che prevede in caso di rifiuto per due volte consecutive da parte del disoccupato del lavoro propostogli (qualsiasi lavoro: nocivo, massacrante, ecc.) la perdita del diritto ad ogni tipo di indennità di disoccupazione e la cancellazione dalle liste di collocamento.
Come si vede si tratta di un’ulteriore passo avanti di quell’opera di definizione dello strapotere padronale, nonostante sia stato stralciato (per il momento) il provvedimento relativo alle chiamate numeriche che costituiscono, congiuntamente alla possibilità di poter licenziare su cui insistono in ogni occasione i padroni oggi, una delle principali conquiste operaie da abbattere, sebbene più come principio che altro, in quanto come si è già visto oggi, in base alle varie leggi e deroghe, nei fatti sono pressoché inesistenti.
Questo decreto-legge (di riforma delle chiamate) rappresenta uno dei provvedimenti del governo De Mita che si differenzia dall’impostazione padronale solo per il fatto che prevede la generalizzazione della chiamata nominativa ed una quota minima di chiamate da una lista per le “fasce deboli” (una sorta di “lista dei disperati”) seppur sempre con chiamata nominativa e su questa impostazione incontra l’assenso sindacale, mentre il mondo padronale spinge maggiormente per l’abolizione di qualunque obbligo di assunzione tout-court lasciando i problemi dei disperati allo Stato, questi due diversi atteggiamenti si spiegano col ruolo che deve svolgere lo Stato nella ricerca della maggior “stabilità, governabilità” possibile, conseguibile tramite la mediazione di interessi diversi.
La riforma della Cassa Integrazione è un’altra questione sulla quale il governo ha nefaste proposte tese a porre fine alla Cassa Integrazione a lunga scadenza, e che sono esplicate nel progetto del ministro Formica.
Il principio è molto chiaro in materia; infatti prevede dopo un periodo di Cassa Integrazione (che in ogni caso non potrà superare i tre anni salvo ulteriori proroghe) la possibilità per il padrone di mettere in mobilità i lavoratori.
Le forme che poi vengono proposte per “ricollocare” i medesimi, sfiorano il ridicolo; essendo basate su un tentativo di armonizzare liste di mobilità e liste di disoccupazione che, vista l’attuale situazione costituirebbero di fatto un’unica lista di disoccupazione, costante. La messa in mobilità, prevede inoltre una notevole diminuzione di reddito, prevedendo un’indennità di 30 mesi inferiore al trattamento salariale d’integrazione ed il cui importo dopo i primi sei mesi viene progressivamente ridotto ogni 5 mesi; come si può ben capire, ciò significa la perdita di ogni forma di reddito nel giro di due anni e mezzo.
Ma oltre l’aspetto salariale/economico, vi è quello più propriamente politico dal momento che perdendo con la messa in mobilità, la titolarità del posto di lavoro viene di fatto indebolita la capacità contrattuale dei cassaintegrati ed ostacolate le lotte per la difesa del posto di lavoro, con una perdita complessiva dell’identità del collettivo. La messa in mobilità assume quindi due connotazioni ben precise: l’isolamento e la progressiva perdita di reddito fino a trovarsi in breve tempo nell’ampia schiera dei disoccupati, insomma, in definitiva se la Cassa Integrazione è sempre stata l’anticamera dei licenziamenti, la proposta di riforma della stessa è il licenziamento immediato e di massa, teso a troncare ogni legame con chi resta al lavoro o chi viene messo in mobilità, e tra i cassaintegrati stessi spinti a cercare soluzioni individuali.
Sempre in questo campo vale la pena di ricordare inoltre quell’ennesimo provvedimento anti proletario che è costituito dalla proposta “dell’irriducibile” Giugni rispetto alla riforma del meccanismo che regola il licenziamento individuale, questa riforma sposterebbe da 15 a 19 il limite numerico al di sotto del quale il padrone non è tenuto a motivare il licenziamento (una vera e propria beffa nei confronti dei proletari che da anni lottano per eliminare ogni limite numerico e ottenere che in tutti i casi il padrone motivi il licenziamento); per le aziende con non più di 80 dipendenti eliminerebbe l’obbligo di riassunzione in caso di licenziamento illegittimo (introducendo una sorta di penale a titolo di risarcimento); concederebbe inoltre al padrone la possibilità di sospendere il lavoro a tempo indeterminato facendo ricorso alla magistratura affinché sia il giudice ad intimare il licenziamento. Nel periodo compreso sino al passato ingiudicato della sentenza (premesso che il giudice abbia ritenuto validi i motivi del licenziamento, ma possiamo essere sicuri che questo non avverrà per almeno il 90% dei casi), periodo che dura almeno 4 o 5 anni, il lavoratore resterebbe così privo di salario, che gli verrebbe corrisposto in seguito solo se riconosciuti infondati i motivi del licenziamento. Questo ultimo dato rappresenta tra l’altro un incentivo all’auto licenziamento, dato che è ben difficile che dei proletari possano resistere 5 anni senza salario.
Come si può ben capire da quanto sopra esposto, le misure già attuate e quelle in via di attuazione, non ultime le proposte di ristrutturazione del pubblico impiego, tendono ad eliminare le conquiste più significative del movimento operaio e proletario del nostro paese in merito all’uso e alla vendita della forza lavoro. Questa vera e propria ristrutturazione del mercato del lavoro in senso reazionario, iniziata a partire dalla metà degli anni 70, ha avuto e ha tutt’oggi essenzialmente due scopi strettamente collegati tra loro: da una parte creare le condizioni per una costante diminuzione del costo del lavoro e per il massimo di discrezionalità da parte padronale rispetto all’utilizzo della forza lavoro, cercando di creare la competizione tra occupati e non, tra chi ha un lavoro stabile e chi precario.
Dall’altra, eliminare tutte quelle espressioni di rigidità operaia, l’egualitarismo e la contrattazione collettiva, nonché tutte quelle forme di organizzazione proletaria che permettono ai proletari di sentirsi parte integrante di un’unica classe e non individui isolati di fronte ai padroni; insomma, sconfiggere ancora una volta il proletariato del nostro paese sul piano politico.
Tuttavia, se queste sono le intenzioni del governo e del grande padronato, bisogna pur dire che la realtà non si svolge esattamente come i loro desideri. Se oggi come oggi possiamo dire che si è avuta una certa restaurazione dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato a favore della borghesia, dobbiamo comunque riconoscere che essa non si è svolta con la linearità che potrebbe dedursi da quanto sinora esposto. Come tutti i fenomeni ed i mutamenti sociali, essa si è infatti svolta nel vivo della lotta di classe, il proletariato del nostro paese ed in particolare la classe operaia ha infatti intuito i reali termini dello scontro ed ha combattuto duramente contro questa ridefinizione del mercato del lavoro, che iniziava per linee generali circa dieci anni fa, ed a tutt’oggi ben lungi dall’essersi affermata e consolidata, proprio a causa di questa capacità di lotta e di resistenza del proletariato. La pesantezza dell’attacco, l’avversità degli interessi della stragrande maggioranza del proletariato da parte delle direzioni sindacali, la messa in campo da parte della borghesia di una serie di strumenti tesi a far “accettare” in qualunque modo la “validità” del capitalismo (da quelli coercitivi a quelli di propaganda ideologica), della meritocrazia e dell’individualismo suoi corollari, (utilizzando a tale scopo i soliti pennivendoli del regime, ex rivoluzionari, ecc.); l’assenza o la presenza incostante dell’avanguardia rivoluzionaria nello scontro sociale, non hanno impedito momenti di mobilitazione e di lotta sia in singole aziende che più in generale a livello nazionale, dalla lotta dei 35 giorni alla Fiat nell’80, a quelle dei cassintegrati e disoccupati in più parti d’Italia, dalle grandi mobilitazioni contro il taglio della scala mobile, sino alle grandi lotte dei portuali di Genova ed alla bocciatura degli accordi sindacali in merito ai contratti nelle maggiori roccaforti del movimento operaio, per giungere sino alle recenti lotte dei Cobas, degli operai di Bagnoli, dell’Alfa di Arese e Pomigliano, ecc.
L’insieme di queste lotte ha messo in evidenza come in questa fase le mobilitazioni proletarie (che pure hanno avuto il limite di essere essenzialmente difensive), a differenza degli anni 70 in cui si individuavano essenzialmente la controparte nel padrone di ogni singola azienda, oggi proprio a causa del maggior intervento a cui in questa fase è chiamato lo Stato (ed in particolare il governo tramite le politiche congiunturali), individuino sempre più non solo il padronato, ma anche il governo e le politiche da questo messe in atto, come diretti responsabili delle condizioni proletarie.
Questo fatto caratterizza queste lotte, pur nella semplice difesa delle passate conquiste, come lotte oggettivamente antigovernative.
Anche per ciò che concerne questo aspetto delle politiche antiproletarie messe in campo dal governo e dal grande padronato, il proletariato italiano ha dunque mostrato la capacità di individuare non solo i diretti responsabili ma il terreno su cui occorre contrapporvisi, quello più propriamente politico nonostante ciò si affermi più come dato oggettivo che come coscienza acquisita, e questo costituisce un importante elemento di cui i comunisti devono tener conto nel proprio agire.
Un altro significativo elemento è dato dal fatto che tutte le questioni generali inerenti il mercato del lavoro, interessando di fatto tutti i settori del proletariato (occupati e non) stabiliscono oggettivamente un legame tra essi e mostrano come questa classe pur nella frammentazione delle varie figure che la compongono, sia accomunata da un interesse unico sulle questioni generali.
Non è un caso che proprio questo dato sia oggetto di mistificazione da parte della borghesia e che essa cerchi di contrastarlo in ogni modo. A questo proposito il ricatto occupazionale, oltre a rispondere a precise esigenze di produzione, funziona a meraviglia allo scopo di dividere il proletariato tra occupati e non; tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri, nonché all’interno della stessa fabbrica, per ottenere un certo grado di “pace sociale”.
Nello specifico di quanto sinora trattato (ristrutturazione del mercato del lavoro e lotte in merito) possiamo vedere che i “contenuti più avanzati”, quelli che possono essere considerati politicamente qualificanti perché contribuiscono ad accomunare i vari settori di classe favorendone così la riunificazione sul piano politico e perché rispecchiano l’interesse generale del proletariato, sono rappresentati dalla opposizione al processo di “deregulation” in atto in questo campo: dalla lotta, cioè, ai vari provvedimenti tramite cui oggi si concretizza questo processo, come la chiamata “nominativa”, i “contratti a termine”, di “formazione-lavoro”, l’istituzione delle agenzie di lavoro, la riforma della cassa integrazione guadagni speciale. Così come l’opposizione più generale a considerare il salario variabile dipendente dall’andamento dei profitti aziendali, la forza lavoro a completa disposizione delle esigenze produttive (vedi l’idea di una “flessibilità selvaggia”) ecc.
Temi ed obiettivi come quelli appena accennati infatti, riaffermando il diritto proletario alla “rigidità” dell’organizzazione e del mercato del lavoro e più in generale al lavoro, pur mantenendo un carattere difensivo (tendendo più ad opporsi allo smantellamento delle conquiste passate che non alla rivendicazione di nuove), acquistando un notevole significato politico se si pensa che proprio questo genere di conquiste hanno consentito negli anni al proletariato italiano di porsi all’avanguardia della lotta di classe a livello internazionale.
Il proletariato del nostro paese ha già dunque individuato in questa contro riforma un nuovo attacco alle condizioni proletarie, un loro peggioramento per ciò che riguarda la compra-vendita della forza lavoro, che accentua la divisione nel suo seno e concede alla borghesia maggiori possibilità di manovra. Ha capito insomma, che tramite questa ristrutturazione vengono messe in discussione la conquiste di anni di dura lotta.
Per i comunisti si tratta allora di operare affinché da questa prima consapevolezza si giunga a quella più generale che mette in relazione le condizione proletarie contingenti con la natura stessa del sistema sociale, e come questo processo di acquisizione e crescita della coscienza di classe, questo percorso cosciente che scaturisce dalla dialettica tra movimento antagonista di massa e avanguardia comunista, non possa avvenire in modo automatico, né darsi da un giorno all’altro. Esso è un processo graduale che può compiersi solo se la soggettività comunista riesce a svolgere correttamente il proprio ruolo: individuando costantemente i temi e gli obiettivi che occorrono ad unire i vari settori di classe ed a farli partecipi della coscienza di essere una classe unica, con un interesse generale medesimo, ed approntando su questo gli elementi del programma politico attraverso cui passa il rapporto (politico) con la classe.
Nello specifico delle questioni sinora affrontate va considerato il modo in cui i comunisti possono articolare il loro intervento politico in merito alla ristrutturazione del mercato del lavoro, sia per ciò che concerne al cuore dello Stato (linea politica), sia per ciò che riguarda il rapporto (dialettico) con la classe (linea di massa) e quello più specifico teso a rafforzarvi, estendervi e radicarvi la presenza del partito tramite la costituzione di proprie strutture (lavoro di reclutamento e costituzione di cellule). Nel passato, ad esempio, da parte dell’avanguardia comunista combattente a questo problema sono state date risposte diverse e quasi sempre errate, allorché da una parte essa disperdeva il proprio intervento politico nell’attacco alle strutture periferiche in cui vengono resi operanti i provvedimenti che regolano la compra-vendita, della forza lavoro (uffici collocamento, ecc.), dall’altra, sottovalutando l’importanza del lavoro di organizzazione, propaganda ed agitazione che la presenza costante dell’avanguardia comunista nelle situazioni proletarie deve garantire, identificandolo in più casi (e quindi sostituendolo) con il lavoro di reclutamento, finendo così per non risolvere correttamente alcuno degli aspetti su cui deve articolarsi la politica rivoluzionaria (lotta politica, lotta di massa, lavoro di reclutamento). Oggi si tratta perciò di rivedere (anche alla luce della riflessione autocritica della passata esperienza), il ruolo dei comunisti nello contro sociale anche per ciò che riguarda questo aspetto particolare delle politiche antiproletarie messe in atto dal governo e dal grande padronato, e delle lotte proletarie in merito.
In base ai criteri generali precedentemente fissati possiamo allora dire che nello specifico della questione “ristrutturazione del mercato del lavoro”, rispetto alla “lotta politica” va affermata la necessità di indirizzare l’offensiva al centro politico in cui determinati provvedimenti vengono elaborati. Non più, dunque, iniziative “diffuse” che di fatto “disperdono” e sviliscono il carattere ed il significato politico che deve assumere l’iniziativa armata, ma azioni “centralizzate” dal partito ed indirizzate contro il personale responsabile a livello politico di detti provvedimenti.
Per ciò che riguarda la lotta di massa, i temi e gli obiettivi consoni all’interesse generale del proletariato che l’intervento del partito tramite il combattimento contro il progetto politico dominante della borghesia contribuisce a rendere evidenti, vanno sostenuti nella classe tramite il programma politico e per mezzo della presenza costante dell’avanguardia comunista alle lotte proletarie in merito.
Questi temi e questi obiettivi sono rappresentati da quelli su cui la classe si sta già mobilitando (opposizione al processo di “deregulation” in atto) e di cui si è detto, Ma anche in questa situazione, nel lavoro quotidiano nella classe cioè, i comunisti devono far di più del limitarsi a sostenere i contenuti già espressi dalla classe. Essi devono innanzi tutto mettere in evidenza il carattere peculiare costituito dal fatto che concorrono ad unire in una sola lotta i vari settori di classe e, contemporaneamente, rilanciare costantemente su di un piano politico, perché dall’individuazione di questo governo come responsabile delle odierne condizioni proletarie, si giunga a quella più generale che vuole il governo come organo ed espressione della classe dominante.
Alla coscienza, perciò, della sua estraneità alla necessità della classe proletaria, alla trasposizione, in definitiva, del conflitto sociale in atto sul piano (politico) della lotta tra due classi antagoniste.
In questo lavoro la continua denuncia della svendita sindacale e revisionista degli interessi della maggioranza del proletariato della loro strategia suicida e inconcludente, è fondamentale affinché la classe proletaria si liberi da queste paralizzanti influenze, ricerchi forme proprie autonome di rappresentanza e le ricerchi su un piano non prettamente economico.
Perché, infine, sia messo in grado di individuare nel partito ( che i comunisti devono necessariamente fondare, il PCC) il rappresentante reale dell’interesse proletario nei confronti dello Stato borghese e dunque nel corso dello scontro sociale, (tendenzialmente) ne riconosce la direzione politica.
Infine, per ciò che concerne l’ultimo aspetto dell’intervento politico del partito (lavoro di reclutamento) va detto che esso tanto non può essere considerato avulso dal contesto politico-sociale in cui viene effettuato, tanto non deve essere frammischiato e sovrapposto al lavoro più generale di propaganda e agitazione che i comunisti svolgono nel proletariato per farvi maturare la coscienza di classe.
I comunisti devono al contrario cogliere, per così dire, ogni “occasione” che si presenti nei momenti di lotta e di aggregazione proletaria, per svolgere (contemporaneamente al lavoro inerente alla lotta di massa), il reclutamento di quelle singole avanguardie di lotta che abbiamo dimostrato di possedere non solo la coscienza dei propri interessi immediati, ma di quelli più generali di classe, una coscienza comunista, perciò, che permetta loro di costituirsi in struttura di partito (cellule), tramite cui dirigere politicamente la classe nello scontro sociale.
La costituzione di strutture di partito nella classe va dunque considerata come un processo distinto (seppur in rapporto dialettico) da quello in cui la classe in quanto tale si auto organizza in strutture politicamente autonome (oggi, ad esempio, i COBAS/autoconvocati, ecc.).
Al contrario, i comunisti ricadrebbero nell’errore passato di “spaccare” i vari momenti di aggregazione proletaria per costituire strutture di sole avanguardie rivoluzionarie (nell’esperienza passata “le brigate del collocamento”).
Questa logica gruppettara va assolutamente rigettata ed è tempo che ne venga acquisita una molto più dialettica, che sappia tener conto di tutti gli aspetti sui cui deve articolarsi una politica rivoluzionaria senza sovrapporli o (al contrario) non considerarli nel loro reciproco rapporto dialettico.
Una logica, insomma, da partito, quale necessariamente oggi l’avanguardia comunista combattente deve possedere.

SUPERARE IL SOGGETTIVISMO E ABBATTERE IL REVISIONISMO
AFFERMARE LA TEORIA MARXISTA LENINISTA!
VALORIZZARE L’ESPERIENZA DELLA LOTTA ARMATA
APPROFONDIRE IL DIBATTITO E DEFINIRE IL PROGRAMMA!
LAVORARE CON DECISIONE ALLA FONDAZIONE DEL PCC!