A proposito della rifunzionalizzazione dello Stato. Carcere di Rebibbia – Documento di alcuni militanti prigionieri delle BR/PCC

I recenti e grandi mutamenti determinatisi nel capitalismo a livello nazionale e internazionale costituiscono il motivo di fondo per cui – dal punto di vista della borghesia italiana – è necessario superare i limiti di un sistema politico divenuto farraginoso, modificare le «regole del gioco» finora operanti, rifunzionalizzare i poteri e gli apparati dello stato.

In questo senso il progetto demitiano di riforme istituzionali rappresenta il progetto politico più importante e più organico rispetto alle esigenze capitalistiche nella concreta situazione italiana in questa congiuntura.

La Confindustria è favorevole a tale progetto e alle sue implicazioni; ritiene opportuno che la crisi del sistema politico-istituzionale venga affrontata attraverso l’allargamento della democrazia apparente e del neocorporativismo in parallelo ad una maggiore centralizzazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo; dulcis in fundo accetta le sue implicazioni, quindi la prospettiva di costruire le condizioni per la possibile alternanza di governo fra diversi schieramenti politici.

In questa legislatura, che dovrebbe terminare nel 1992, è pressoché impossibile si realizzi l’“alternanza”. Emerge però una situazione politica in cui la grande borghesia si sente legittimata a chiedere esplicitamente alla sinistra istituzionale di abbandonare quelle che Gianni Agnelli definisce «suggestioni ideologiche dell’economia di stato».

Non a caso viene stimolato il processo di socialdemocratizzazione del PCI e, più in generale, l’approfondimento della cultura della lealizzazione.

Matura così, anche grazie all’attività quotidiana dei mass-media, un clima politico suscettibile di essere utilizzato per limitare il diritto di autorganizzazione dei lavoratori e dei movimenti di massa, come dimostra inequivocabilmente l’attacco al diritto di sciopero.

Modificando le “regole del gioco” la partecipazione dei lavoratori e delle masse alle decisioni sui temi della vita collettiva e quotidiana dovrebbe essere ancora più formale, apparente, priva di incisività nella sostanza. Il bisogno di democrazia diretta e sostanziale che viene espresso dai movimenti di lotta dovrebbe perciò essere adeguatamente addomesticato, “civilizzato”, ricondotto nell’ambito della democrazia apparente e represso quando risulta irriducibile.

In questo modo si vuole giungere ad un meccanismo politico-istituzionale caratterizzato da una combinazione fra decisionismo e neocorporativismo, in particolare fra un aumentato potere governativo ed un più stabile rapporto del governo con i vertici sindacali ed il padronato.

Numerosi sono gli elementi specifici che dovrebbero costituire il mosaico delle trasformazioni istituzionali; alcuni elementi potrebbero essere modificati ma sostanzialmente le riforme istituzionali sono nel loro complesso utili e necessarie al blocco sociale dominante, egemonizzato dalla grande borghesia.

Le trasformazioni nei metodi di produzione, lo sviluppo dell’internazionalizzazione capitalistica, la crescita del capitale oligopolistico-finanziario multinazionale e l’integrazione nell’area CEE che dovrebbe essere realizzata per il 1992, accentuano la competizione capitalistica internazionale e condizionano in gran parte le modificazioni della forma-stato. La rifunzionalizzazione del sistema politico e dello stato diventa perciò una necessità impellente per dare un supporto idoneo al capitalismo italiano ed in particolare alle sue imprese e banche che operano a livello multinazionale.

È un fatto incontestabile che in questa fase la maggiore velocità delle dinamiche capitalistiche, la maggiore interdipendenza fra i paesi della catena capitalistica internazionale e la necessità del blocco occidentale di avere un orientamento il più possibile comune nei confronti dei paesi dell’Est e del Terzo Mondo, rendano estremamente importante la rifunzionalizzazione dei singoli stati dei paesi a capitalismo avanzato.

Questi stati debbono prendere decisioni sui più diversi problemi, di ordine interno ed internazionale, nel più breve tempo possibile ed in maniera compatibile rispetto alle priorità del capitale oligopolistico-finanziario multinazionale ed alle decisioni di fondo degli organismi politico-economici e politico-militari sovranazionali di cui fanno parte (NATO, FMI, Banca Mondiale, CEE, Gruppo dei 7, ecc.).

In ogni singolo stato dei paesi capitalisticamente avanzati si viene a sviluppare la tendenza all’aumento della centralizzazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo. Al tempo stesso, poiché lo “stato-nazione” perde gran parte del controllo di quelle sfere (economiche, politiche e militari) su cui era basata la sua sovranità, risulta che ogni esecutivo punta a rafforzare il proprio ruolo negli organismi sovranazionali.

In questa situazione, l’imperialismo delle multinazionali e delle grandi banche private, l’importanza assunta dagli organismi sovranazionali e la crescita del potere esecutivo-governativo nei singoli paesi dimostrano che, nel quadro delle compatibilità economiche, politiche e militari del blocco occidentale, non c’è alcuna possibilità di democratizzazione sostanziale nei processi decisionali interni e sovranazionali.

Questa realtà, estremamente articolata e complessa, può essere rovesciata soltanto attraverso un’adeguata rivoluzione sociale e politica.

In Italia, ma il discorso può essere allargato all’Europa occidentale, una prospettiva rivoluzionaria, per essere credibile, non può prescindere dalla strategia della lotta armata di lunga durata, cioè da una lotta prolungata contraddistinta dalla lotta armata nella forma storicamente determinata della guerriglia metropolitana, dallo sviluppo di un fronte antimperialista combattente nell’area euro-occidentale ed in quella mediterraneo-mediorientale e da un lungo percorso di indebolimento internazionale dell’imperialismo e di logoramento degli apparati burocratici e militari sovranazionali, egemonizzati dai paesi a capitalismo avanzato.

Il percorso rivoluzionario si fa strada sull’asse strategico dell’attacco al “cuore dello stato”, cioè grazie alla lotta contro i progetti politici sostenuti dalla grande borghesia e dominanti nelle diverse congiunture; si radica in rapporto allo sviluppo dell’autonomia proletaria e dei movimenti di lotta; si rafforza con la crescita della lotta contro le politiche dei suddetti organismi sovranazionali.

In questa direzione, rapportandosi concretamente allo scontro di classe, si ridefinisce e rinnova la progettualità delle BR.

Chi, invece, dopo aver fatto parte del movimento rivoluzionario, si è aggrappato come un corvo al trespolo teorico secondo cui non esisterebbero più le ragioni sociali e politiche per condurre la lotta armata, ha inevitabilmente abbandonato il materialismo storico-dialettico ed abbracciato una concezione idealista dei processi storici.

In verità certi discorsi opportunisti ed idealisti sono emersi non solo per responsabilità politica di coloro che li hanno portati avanti, ma anche per una serie di errori commessi dal movimento rivoluzionario.

Con la sconfitta politica subita nei primi anni ’80 sono usciti allo scoperto i limiti di un movimento rivoluzionario che non ha saputo ridefinire il proprio ruolo in maniera idonea a condurre la lotta rivoluzionaria in una società a capitalismo avanzato attraversata da continue e rapide trasformazioni. La stessa “ritirata strategica” da noi decisa nel 1982, la quale rimetteva in discussione una progettualità rivoluzionaria rivelatasi alla prova dei fatti inadeguata, ha sicuramente creato un argine contro le teorie propagandate nel 1982-83 dagli allora “ultrarivoluzionari” Curcio e Franceschini, contro le teorie idiotesche secondo cui sarebbe stata già operante una “inimicizia assoluta tra proletariato e borghesia” e già praticabile la “guerra sociale totale”. Nel concreto, però, il percorso di ridefinizione del ruolo dei rivoluzionari si è sviluppato in modo contraddittorio e la “ritirata strategica” spesso è stata intesa come arroccamento su posizioni politiche, culturali e militari arretrate, portando il movimento rivoluzionario ad assumere una logica difensivistica che, essendo in aperto contrasto rispetto al carattere fondamentale della guerriglia metropolitana, non ha permesso di tracciare dei reali passaggi per la ripresa e lo sviluppo della lotta rivoluzionaria.

Soltanto la riaffermazione della valenza strategica della lotta armata, suffragata dall’attività di questi ultimi anni, ha permesso alle BR di avviare un processo si critica-autocritica-trasformazione, una dinamica di riadeguamento generale per superare l’arretratezza politica, culturale e militare che ha messo in crisi il movimento rivoluzionario e che in buona misura lo colpisce ancora oggi.

Per iniziare concretamente questo percorso le BR hanno dovuto ridare centralità alla concezione materialistica e dialettica del rapporto prassi-teoria-prassi ed hanno dovuto comprendere che ogni processo rivoluzionario si sviluppa in maniera non lineare, con l’alternarsi di avanzamenti e di ritirate riferite al concreto procedere della lotta di classe.

L’essere rivoluzionari si misura all’interno della lotta di classe, incidendo dentro i rapporti di forza per aprire spazi di agibilità politica e sociale all’autonomia proletaria, di un’autonomia proletaria che anche oggi, nonostante la forte controffensiva borghese dell’ultimo decennio, continua ad esprimersi in mille modi.

La nostra esperienza e l’intera storia del movimento rivoluzionario internazionale dimostrano che l’attività dei rivoluzionari gioca un ruolo fondamentale anche quando le forme che assumono i vari movimenti di lotta sembrano o sono meno avanzati di quelli precedenti.

Il livello di autonomia proletaria e di autorganizzazione dei movimenti di lotta oggi esistenti in Italia è il “grado” possibile di antagonismo di fronte ad una controffensiva borghese che attualmente caratterizza le condizioni dei rapporti di forza tra le classi.

Agire da un punto di vista rivoluzionario, prendendo in considerazione queste condizioni ed incidendo sui rapporti di forza, significa assumere gli interessi generali del proletariato e delineare i passaggi perseguibili affinché tale autonomia riesca ad ampliare i propri spazi sociali e politici e venga rilanciata la lotta rivoluzionaria. Essere rivoluzionari significa perciò dotarsi di strumenti politico-organizzativi in grado di attrezzare il campo proletario alla lotta prolungata contro la borghesia e lo stato.

Ed è proprio in questo senso che si sta svolgendo l’attività della nostra Organizzazione, delle Brigate Rosse.

 

Alcuni militanti prigionieri delle BR/PCC

 

Rebibbia, giugno 1988

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