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Comunicato dai Nuclei Armati Proletari gruppo Sergio Romeo ai proletari detenuti nel manicomio lager di Aversa

Compagni, proletari detenuti nel manicomio “lager” di Aversa qui è il gruppo Sergio Romeo dei N.A.P. che vi parla.
Questo gruppo è penetrato questa notte, evitando la sorveglianza degli agenti di custodia – servi prezzolati al servizio della borghesia –  per issare la bandiera rossa sui tetti di una delle strutture più criminali dello stato borghese; per dimostrare ai nemici di classe del proletariato la nostra determinazione e volontà di lotta; e ai proletari sequestrati negli istituti psichiatrici giudiziari – con la sola accusa di essere emigrati, disoccupati, poveri, e quindi ladri, rapinatori, assassini – la nostra presenza armata quale sola garanzia di vigilanza agli omicidi, alle sopraffazioni, alle morti bianche sui letti di contenzione.
Il boia Ragozzino, i boia dirigenti di tutti i manicomi giudiziari e i loro collaborazionisti sono i nostri più importanti – in questa fase dello scontro di classe – sorvegliati speciali; noi vogliamo la destituzione di tutti i persecutori e torturatori del proletariato schiavizzato, ricattato e incarcerato da un sistema interclassista teso a salvaguardare unicamente gli interessi delle classi economicamente privilegiate.

Compagni, proletari, detenuti nel 3“lager 3” di Aversa noi vi invitiamo a denunciare i nomi delle persone che ogni giorno particolarmente si distinguono nell’applicare senza scrupoli le leggi della sopraffazione e della repressione per metterci nella condizione di ripagarli con la stessa moneta.
Il governo ha approvato in questi giorni la legge sull’ordine pubblico, a noi non rimane che rispondere con l’organizzazione armata, il sabotaggio e l’attacco diretto ai più facinorosi sostenitori della legge.
Le nostre piattaforme rivendicative per la riforma del codice penale e per quello carcerario costantemente rivendicate nel corso delle nostre lotte da sei anni ad oggi – riprendendo così la nuova strategia delle alleanze espresse dalla classe operaia emigrata nelle grandi fabbriche del nord – sono state del tutto trascurate; alle nostre richieste hanno risposto con anni di galera, con gli assassini e le stragi; a Viterbo soltanto la nostra presenza armata ha evitato il massacro dei tre compagni N.A.P. e dei detenuti in rivolta sui tetti del carcere: ciò conferma la nostra giusta linea circa la possibilità di riprenderci lo spazio per le nostre giuste lotte di massa.
In questa fase inversione [!] storica ogni proletario che si organizza in nome della rivoluzione comunista non può darsi altri tempi  se non quelli di trasmettere ai proletari la propria esigenza di organizzazione autonoma.
Chi è stato in carcere e nei manicomi giudiziari conosce tutte le strade e le varie combinazioni per entrarvi; ecco perché è stato possibile coordinare l’azione di Viterbo e l’azione di comando dentro il manicomio giudiziario di Aversa.
Compagni, proletari detenuti la lotta contro il sistema economico dello sfruttamento che prima ci sfrutta e poi ci incarcera è anche nostra; la lotta contro il sistema borghese dello sfruttamento organizzato per la realizzazione del comunismo ci appartiene perché sfruttati e oppressi.
Compagni, proletari detenuti il nostro appello è alla ripresa delle lotte sui temi della riforma del codice penale e di quello penitenziario; e alla legge sull’ordine pubblico voluta e imposta soprattutto dalla DC, e in primo piano dalla sua migliore rappresentanza, la soubrette Fanfani.
Fanfani boia.

30 maggio 1975

Fonte: Nuclei armati proletari, Quaderno n. 1 di CONTROinformazione

Per liberare Silvano, per liberare tutti, attaccare le istituzioni e le sue strutture – El Paso occupato

Non siamo qui per reclamare Giustizia, nessun tipo di Giustizia, né borghese né proletaria né rivoluzionaria. Non siamo qui per sostenere l’innocenza di Silvano né per ribattere alle fumose costruzioni pubblicate dal Manifesto o dal giornale di don Ciotti o dall’ormai celeberrimo Luna Nuova, in base alle quali lo si vuol dipingere come personaggio sospetto, come vorrebbe il copione della magistratura.
Siamo qui per far sentire a Silvano la nostra vicinanza in un momento per lui senz’altro durissimo rispetto a chiunque altro, ma soprattutto per smascherare l’inchiesta sui sabotaggi in Val Susa.
Il giudice Laudi non può ammettere che non esista alcuna banda chiamata Lupi Grigi. Il giudice Laudi non può ammettere l’evidente concreta e fondata possibilità che tutti questi attacchi, portati non solo contro la costruenda linea dell’Alta Velocità siano stati effettuati da varie e diverse persone che hanno ogni buon motivo per muoversi in tal senso, senza essere né terroristi, né rivoluzionari, né anarchici o quant’altro. Il giudice Laudi non può riconoscere pubblicamente le responsabilità di un progetto come questo, che, come tanti altri simili, può far esplodere chiunque nei modi più inattesi e non controllabili.
Questa è l’ipotesi più pericolosa per lo Stato e per i suoi servitori, per chi ne dipende, per coloro che se ne servono. Questo è ciò che non potranno mai dichiarare.
Il tipo di isolamento e di efferatezze cui hanno costretto Silvano, e prima anche Edoardo e Soledad, costituiscono il percorso obbligato dello Stato che non può intraprendere altra strada che non quella della criminalizzazione e dell’annientamento di chi gli si oppone apertamente.  
In questo senso vanno letti anche gli sforzi dei media e dei politicanti d’ogni sponda di ricondurre tutta la faccenda alla “questione giovanile” o alle storie della difesa dei “centri sociali”.
Di queste balle poco ci interessa rispetto alla questione fondamentale: c’è chi – e non ci interessa sapere chi – attacca i progetti dello Stato e del Capitale. Noi come sempre siamo d’accordo con chi si muove con mezzi e metodi che riteniamo affini ai nostri. Non ci stupiamo neanche delle rappresaglie repressive dello Stato. Questo non influisce sul fatto di provare un odio indicibile contro questi magistrati che per ragion di Stato e di carriera uccidono alla cieca, contro coloro che hanno condotto questa indagine e contro coloro che hanno arrestato e detenevano prigionieri Silvano, Soledad e Baleno.
L’unica risposta possibile è l’attacco discriminato contro ogni e qualsiasi struttura di questo sistema di potere che ha permesso tutto ciò. Non possono difendere tutto per sempre. Gli assediati devono diventare loro. Loro hanno tutto da perdere. Loro sono quelli che possiedono tutto, che controllano tutto, ed è tempo di minare a fondo questo potere.  
Non acclamiamo bande armate né atteggiamenti rambistici e truculenti; ognuno nel suo può essere dannoso contro questo sistema, senza la pretesa di veder riconosciute le proprie ‘gesta’. Se è l’odio che vi anima, basterà l’amore per il gesto distruttivo, anche se le vostre bandiere non sventoleranno mai. Guardatevi attorno, oggi, domani, sempre. Attaccare è sempre possibile, ovunque, con ogni strumento a disposizione, senza palcoscenici.

Non sfoghiamoci soltanto. Ogni giorno, ognuno di noi ha motivi a sufficienza per esprimere praticamente il proprio odio. O noi o loro, senza mediazioni. Il resto è mera sopravvivenza.

18 Luglio ’98 – El Paso occupato
Né centro né sociale né squat

Un piccolo segno – Volantino firmato Alcuni compagni che c’erano sulla protesta contro Daniele Genco

Gli organi di informazione sono parte consistente del dominio sociale. Il mondo che riflettono e che riproducono è il mondo dello Stato e dell’economia. Di quel mondo parlano e a quel mondo vogliono ridurre e integrare ogni tensione individuale e ogni pratica collettiva. Di fronte a chi vuole sovvertire l’ordine stabilito, la loro reazione assume aspetti diversi ma complementari: il silenzio, la criminalizzazione, il recupero. Il silenzio quando si tratta di nascondere un malcontento diffuso, il desiderio sempre più forte di libertà. La criminalizzazione quando si vuole giustificare la repressione – il modo migliore per sconfiggere il nemico è presentarlo come mostro. Il recupero quando si intende assorbire le tensioni ribelli, mistificandone i contenuti, plagiandone le tendenze, la poesia, i linguaggi.
Per anni i giornali di regime hanno infangato la figura di Edoardo, presentandolo prima come un pericoloso bombarolo, poi, dopo la sua morte, come un depresso vittima di una Giustizia ingiusta. Il culmine dell’ipocrisia viene raggiunto dal vescovo di Ivrea quando, durante la sua omelia, lo paragona al buon ladrone. La Grazia del Signore si può ricevere soltanto da morti.
Basta leggerne un paio di articoli per capire chi è Daniele Genco. Cronista de La Sentinella del Canavese, organo di informazione in mano all’impero Olivetti, non ha mai fatto molta strada. Tanto per citare un esempio, anni fa aveva scritto che Edoardo voleva mettere una bomba ad una manifestazione della Croce Rossa. Uno dei suoi compiti specifici è sempre stato quello di dare nome e cognome ad articoli preparati dalla polizia. Se risultasse vera la notizia delle telecamere piazzate intorno alla chiesa di Brosso, apparirebbe chiaro il suo ruolo di provocatore, studiato a tavolino con le forze dell’ordine. Quale occasione migliore per diventare improvvisamente famoso prima di andare in pensione? Genco aveva già dato prova della propria malafede quando, in seguito agli scontri avvenuti nel dicembre ’93 durante una manifestazione in solidarietà con Edoardo, si presentò volontariamente a testimoniare contro i manifestanti, riconoscendone qualcuno in particolare. Lo sbirro e il giornalista si compensano, là dove finisce il lavoro di uno, comincia il lavoro dell’altro.
La risposta data a Brosso, peraltro condivisa da buona parte dei presenti, contro la violenza delle telecamere, scatena l’ira dei pennivendoli che parlano di “grave attacco al diritto di informazione”, di “aggressione e brutale pestaggio”. La reazione dei compagni è comprensibile, umana, scatenata dalle passioni e fondata su una indubbia lucidità critica. Trattare i giornalisti da poliziotti non significa solo individuarne correttamente le responsabilità, ma anche rifiutare nella pratica il fatto che la propria rivolta sia parlata, fotografata e spacciata come merce. Attaccare i mass media vuol dire allo stesso tempo attaccare la politica (chi fa politica è costretto sempre più a offrire la propria immagine). Nel gesto di Brosso c’è la dignità di chi ha compagni da amare e non martiri da immortalare e c’è una lotta che cerca i propri mezzi di espressione autonoma.
Disumano, vergognoso è vendere lo spettacolo del dolore e della rabbia. Vergognoso è trasformare le parole in armi al servizio del potere, chiacchierare di una vita che non si conosce, descrivere tensioni che non si provano, criminalizzare una rivolta che fa paura.

Alcuni compagni che c’erano

13 aprile 1998

13 condanne ad Ivrea per il corteo per Baleno – Volantino di El Paso occupato

Il 20 e il 21 di aprile si è tenuto presso il tribunale di Ivrea il processo contro tredici compagni, accusati tra l’altro di adunata sediziosa, resistenza, lesioni e armi improprie.
Questo processo, che si sta trascinando da vari anni, vorrebbe chiudere i conti con la manifestazione in solidarietà con Edoardo Massari del dicembre ’93. Ricordiamo che in quel periodo Edoardo stava scontando una lunghissima carcerazione preventiva, accusato di voler costruire un ordigno. A poche centinaia di metri dalla partenza, il corteo venne imprudentemente caricato per ordine dell’allora vice-questore di Ivrea Celia. Imprudentemente, perché nella bagarre non furono pochi i poliziotti ed i vigili urbani che si fecero qualche discreta ammaccatura.
Dopo circa nove mesi dall’ultima udienza gli avvocati hanno presentato una serie di eccezioni procedurali abbastanza consistenti; tutte queste, però, sono state respinte. Evidentemente, in un’aria pesantissima, questo processo si doveva chiudere al più presto, e così è stato. Due compagni sono stati condannati a due mesi, altri due a nove, tutti gli altri a dieci mesi. In ogni caso si tratta del primo grado di giudizio e ci sono ampi motivi d’appello.
Già dalla settimana precedente il tribunale era attentamente sorvegliato, gli alberi e le aiuole adiacenti tagliati per “timore di attentati”. Durante i due giorni la via del tribunale è stata chiusa al traffico e presidiata da un’ottantina di agenti in divisa – tra poliziotti, celerini, carabinieri e guardie carcerarie – e di funzionari della Digos delle città limitrofe.
È stato annunciato che ancora nelle prossime settimane la zona del tribunale verrà sorvegliata per “timore di atti dimostrativi”.
25 Aprile ’98
El Paso occupato
Né centro né sociale né squat

Soledad è morta: celebrazioni no grazie, El Paso occupato

Soledad si è presumibilmente (ma non abbiamo motivo per dubitarne) impiccata questa notte, tra il 10 e l’11 luglio a Benevagienna, nella comunità di Sotto I Ponti della quale era ospite agli arresti domiciliari. La sua salma è stata trasportata nella mattinata stessa nell’ospedale di Mondovì sotto ordine dello stesso magistrato che stamane è comparso in loco inveendo perché gli avevano interrotto il weekend. I giornalisti presenti in loco sono stati allontanati senza complimenti.
Soledad aveva 22 anni ed era argentina. Era in Italia dal settembre 1997. Nell’ambito delle indagini condotte dai CC del ROS sui sabotaggi (una dozzina circa) contro i cantieri dell’Alta Velocità in Val Susa era accusata di aver fatto parte di una banda armata denominata “Lupi Grigi”, organizzazione che ha rivendicato uno solo degli episodi sopracitati, avvenuti quasi tutti prima dell’estate del 1997.
Era stata arrestata all’inizio di marzo assieme a Silvano Pelissero e Edoardo Massari.  
Le accuse erano quindi state ridimensionate dopo il suicidio in carcere a Torino di Edoardo Massari. A Soledad erano quindi stati concessi gli arresti domiciliari a Benevagienna.  
Silvano Pellissero è invece stato trasferito nel carcere speciale di Novara, e da 20 giorni è in sciopero della fame per ottenere gli arresti domiciliari e per conoscere la data del suo processo.
Il magistrato che conduce le indagini (che avrebbero dovuto chiudersi il 7 maggio) sui sabotaggi è Maurizio Laudi.  Il famoso “arsenale” rinvenuto nella cantina della Casa Occupata dove i tre vivevano non è mai stato mostrato né è stata depositata alcuna perizia.  
Silvano sta subendo un attacco mediatico nel tentativo di dipingerlo come un agente provocatore. 
Non ci sono al momento scadenze pubbliche, né speriamo ci siano in futuro, visto il risultato esorcizzante della manifestazione di massa del 4 aprile.
Che ognuno esprima le proprie ragioni e i propri sentimenti nel modo più confacente, senza pensare al mero presenzialismo, nel posto e nella situazione in cui vive, coi tempi e coi mezzi che più gli aggradano.

Non c’è nulla da aggiungere e nulla da gridare.
Muoversi. (think globally act locally)

12 Luglio ’98

El Paso occupato
Né centro né sociale né squat

Nuove incriminazioni. Un anarchico arrestato – Volantino di El Paso occupato

Mercoledì 15 aprile nei pressi di Pont St. Martin, Aosta, è stato arrestato l’anarchico Luca Bertola nel corso di una operazione congiunta di polizia e carabinieri. Luca è stato arrestato su mandato della procura di Ivrea che sta conducendo le indagini sui fatti accaduti durante il funerale di Edoardo Massari, suicidatosi in cella nel carcere Le Vallette di Torino.  
Che qualcuno abbia mandato un giornalista all’ospedale con le ossa rotte non è avvenimento di tutti i giorni, e la cosa non poteva di certo passare inosservata. Quanto avvenuto quel giorno, durante i funerali di un anarchico, non ha semplicemente dato a Daniele Genco un lungo periodo di riposo, durante il quale costui avrà tempo per riflettere sulle conseguenze pratiche della parola, sugli inconvenienti del mestiere, sulla proterva indifferenza che ha dimostrato persino di fronte all’esplicita richiesta fatta a giornalisti e speculatori di ogni genere di non farsi vedere a quel funerale. I fatti di Brosso hanno soprattutto fatto infuriare i diretti padroni di questo cronista-sciacallo i quali, comprensibilmente, non amano veder bastonare i propri servi più zelanti. Se ai giornalisti non verrà assicurata protezione, chi pubblicherà le veline degli organi inquirenti? Chi elogerà il loro operato? Di fronte alla protesta corale degli organi di informazione, preoccupati che per una volta è la vulnerabilità dei loro addetti ad aver fatto notizia, le autorità hanno promesso in breve tempo di identificare e punire, identificare e punire, identificare e punire.
L’autorità giudiziaria di Ivrea, nelle persone del procuratore capo Giorgio Vitari e del gip Emanuela Gai, ha così emesso tre ordini di custodia cautelare contro altrettanti anarchici, uno soltanto dei quali (quello contro Luca appunto) è stato eseguito. Irreperibili gli altri due anarchici, di cui la polizia non ha voluto fornire le generalità. Per tutti e tre le accuse sono di lesioni gravi. Per uno di loro, a conoscenza – dicono – del fatto che Genco testimonierà per l’accusa nel processo che si terrà lunedì prossimo ad Ivrea contro diversi manifestanti per gli scontri del dicembre 1993, ci sarebbe l’aggravante di aver minacciato un testimone di un procedimento penale. Ci saranno per la stessa vicenda altri denunciati, ma a piede libero. 
Un’ultima considerazione. I cacainchiostro, non paghi del ruolo da sciacalli che hanno giocato in particolare in questa vicenda, continuano imperturbabili a scrivere le loro nefandezze: come da copione sulle pagine dei loro giornali hanno già condannato i tre incriminati, definiti ad esempio “picchiatori” dalla Stampa.
Tutta la nostra solidarietà ai compagni incriminati.
Per comunicare con Luca, l’indirizzo del carcere in cui è stato rinchiuso è il seguente:  
LUCA BERTOLA – Loc. Les Iles 150 – 11020 BRISSOGNE (AO)
17 Aprile ’98

El Paso occupato
Né centro né sociale né squat

Onore alla compagna Diana Blefari – Comunicato di alcuni militanti prigionieri

Allegato all’udienza del 3/12/2009 presso il Tribunale di Lecce – Proc. N° 713/06 – 346/07

Nel ricordare la compagna Diana Blefari morta il 31 ottobre scorso e nel tributarle tutto il nostro amore rivoluzionario, vogliamo anzitutto renderle onore sottolineando il suo apporto di militante rivoluzionaria dato nel contribuire allo sviluppo del processo rivoluzionario. Un lavoro svolto in un processo avverso, segnato dal dispiegamento del processo controrivoluzionario e della difensiva di classe, caratterizzato da quel percorso aggregativo della soggettività rivoluzionaria di classe che ha agito a partire dagli anni ’90, e che, attraverso la dinamica attacco-costruzione-attacco, ha reintrodotto lo scontro di potere nelle relazioni tra le classi. Una qualità questa, di valenza politico-strategica così forte da costituire il piano di avanzamento della proposta rivoluzionaria delle BR-PCC, ineludibile per quelle avanguardie rivoluzionarie che intendono misurarsi sul terreno di sviluppo della guerra di classe. Un esempio di lavoro rivoluzionario che resterà appannaggio del campo proletario e stimolo per tutte quelle avanguardie coscienti di dover fare la propria parte nel lavorare all’emancipazione politica della classe a cui appartengono, da Diana sempre svolto con lo slancio, la spontaneità e la caparbietà di chi sa di aver fatto la scelta giusta. Un apporto umano e politico che, se per noi resterà un motivo di orgoglio e ricordo indelebile, per lo Stato e la borghesia rimarrà sempre uno spettro che disturberà i loro sonni. La morte della compagna non è affatto ascrivibile al decorso inevitabile della malattia di cui soffriva, cioè di quel che viene chiamato “mal di vivere”, una patologia ampiamente documentata sia nei sintomi clinici che nel tunnel di sofferenze che provoca alla persona colpita. Quindi facilmente riconoscibile ma che in Diana hanno fatto finta di non vedere, non per incuria, superficialità o indifferenza, e nemmeno per quel razzismo sociale, alimentato a piene mani, funzionale alla stabilizzazione controrivoluzionaria nelle relazioni sociali, che nelle galere e anche fuori di esse distribuisce tanti lutti e sofferenze. A Diana non è stata riconosciuta la malattia semplicemente per volontà politica, come diretta conseguenza di quell’indirizzo controrivoluzionario che a fronte del ritorno dell’iniziativa rivoluzionaria segnato dalle BR-PCC si è articolato per contenerne e confinarne la valenza e il peso politico assunti nell’ambito dell’opposizione e dei processi di organizzazione della resistenza di classe. Un dato di contrasto alla soggettività rivoluzionaria integratosi nell’assetto statuale della controrivoluzione preventiva e posto in riferimento al punto più alto del processo rivoluzionario, cioè rapportato al contrasto statuale alla riproducibilità della proposta rivoluzionaria delle BR-PCC  e del conseguente scontro di potere. Un dato da cui si dipanano, congiuntamente diversificate, le politiche controrivoluzionarie e antiproletarie che affiancano, con modalità d’intervento volutamente perseguite per rimarcare in termini complessivi la totale subordinazione del proletariato come classe, la rimodellazione neocorporativa degli istituti della mediazione politica tra le classi, per così incardinare il rapporto tra proletariato e borghesia sul terreno di quella “coesione sociale” a cui la soggettività della borghesia affida il governo delle contraddizioni suscitate dalla rimodellazione delle relazioni economiche e politiche volte a riorganizzare l’intera vita sociale. Da qui l’apparente mancanza di misura politica (e anche di misura e basta) nell’affrontare persino il dissenso politico di stampo proletario. L’articolazione sui prigionieri dell’indirizzo controrivoluzionario così connotato, che ha comportato una ridefinizione della politica degli ostaggi, si è subito resa evidente in particolar modo nei confronti di quei militanti espressione del rilancio dell’attività rivoluzionaria e della sua prospettiva di potere. Diana era per l’appunto espressione di quel percorso, e con decisione presa a livello di controguerriglia, avallata in sede politica, non vi è stato rispetto per il suo stato di salute compromesso dalla malattia, quindi non solo non è stata curata, ma hanno avuto l’attenzione sistematica di non mettere mai la compagna in una condizione umanamente accettabile per poter, se non altro, provare ad affrontare il “mal di vivere”. È in relazione all’attuale contesto, – reso critico dalle conseguenze sociali della crisi, dalla delegittimazione ed instabilità del quadro politico-istituzionale, dall’espandersi di forme di resistenza operaie e proletarie e di reazione agli effetti delle politiche di “sicurezza” e coercitive impiegate in modo sempre più ossessivo e su larga scala – che fa risaltare il pericolo per lo Stato di avvitarsi sui problemi che insorgono senza riuscire a perseguire l’assestamento controrivoluzionario nelle relazioni di classe, che prende forma l’esigenza tutta politica di rincorrere, senza soluzione di continuità, successi polizieschi da sbandierare, siano essi anche solo presunti. Ed è da questa esigenza politica e in relazione alla vigente contraddizione (posta in essere dal “rilancio”) caratterizzato dal fatto che anche un lungo periodo di assenza dell’iniziativa rivoluzionaria non garantisce della non riproducibilità della proposta rivoluzionaria e dello scontro di potere, che la struttura di antiguerriglia degli inquirenti architetta la “bella pensata” di concedere a Diana i colloqui con il suo ex ragazzo (un importante rapporto affettivo ed esile filo di speranza e sostegno per chi come lei soffre del “mal di vivere”) per poi brutalmente reciderlo con l’arresto di lui, un già visto la pratica di colpire gli affetti più cari. La compagna, minata dalla terribile malattia, chiarisce agli inquirenti la totale estraneità del suo ex ragazzo alla propria esperienza politico-organizzativa e poi, si toglie la vita. La gestione statuale sulla morte della compagna non stupisce, già era stata vista all’opera intorno alla salma del compagno Mario Galesi. Denigrazione, fumisterie e anche vigliaccheria, sono modalità costanti, ben rodate, di una gestione che volutamente prescinde dalla realtà dei fatti, incanalata e guidata solo dal desiderio di infangare la storia militante di Diana in quanto figura pubblica della Rivoluzione, del campo proletario, denigrandola con le solite bieche e trite rappresentazioni, più degne per un fumettone, e con la propaganda sulla sua morte rappresentata come fosse un cedimento politico derivato dalla “legittima potenza dello stato”, con lo scopo di fomentare deterrenza e desolidarizzazione negli ambiti di classe, non riuscendo però a nascondere, se non la paura, la preoccupazione dell’ineliminabile peso che la figura di Diana, il suo spessore umano e politico, e l’impegno militante, rappresenta per il processo di emancipazione politica del proletariato. Una gestione inoltre tutta improntata sul binario “informativo” precipuo a questo momento politico, che svolge il compito generale di accompagnare le peggiori barbarie di cui si rende responsabile una borghesia in crisi, col fine di dare al regresso politico culturale di cui essa è portatrice, un retroterra sociale di massa, come se tale regresso fosse il naturale divenire nelle relazioni sociali. Una nuova modernità dove anche i bambini vengono definiti stranieri, paradigma dell’abisso di abbrutimento nel quale vogliono trascinare le relazioni sociali con la costituenda “democrazia governante”. Nel rendere memoria alla compagna Diana onorando la sua figura di militante rivoluzionaria, riaffermiamo infine tutta la valenza e l’attualità delle ragioni che l’hanno immessa nel percorso rivoluzionario storicamente segnato dalla proposta strategica delle BR-PCC di sviluppo della guerra di classe in una prospettiva di potere.
Con amore rivoluzionario
Onore alla compagna Diana Blefari
Onore a tutti i combattenti rivoluzionari ed antimperialisti caduti
Proletari di tutto il mondo uniamoci!

I Militanti delle BR-PCC
Maria Cappello
Franco Grilli
Rossella Lupo
Fabio Ravalli
La Militante Rivoluzionaria
Vincenza Vaccaro

Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Seconda posizione del settembre 1984

(pubblicato in novembre)

1. Le nostre divergenze
L’inizio degli anni ’80, e l’anno 1982 in particolare, ha prodotto una secca soluzione di continuità nel processo di crescita, sostanzialmente ininterrotto, conosciuto dalla nostra organizzazione nel corso dei suoi primi dieci anni di attività; da questa terribile prova, essa ne è uscita fortemente ridimensionata nel numero dei militanti, nei mezzi politici e organizzativi a disposizione, nell’influenza e nel prestigio tra le masse. Da più parti si è rilevato che la campagna di repressione scatenata dallo Stato contro il movimento rivoluzionario ha, per così dire, solamente sviluppato e fatto evidenziare in tutte le loro implicazioni i sintomi di una profonda crisi politica che preesisteva ai giorni delle torture, dei tradimenti e degli arresti di massa; e questa visione del problema esce confermata anche solamente da uno sguardo superficiale gettato su quel che succede tra i prigionieri politici nelle carceri e nelle aule giudiziarie del nostro paese: fatta eccezione dei traditori veri e propri, la stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto parte nel movimento rivoluzionario degli ultimi anni rinnega le proprie scelte ed auspica l’inizio di una trattativa con lo Stato al fine di ottenere la libertà in un prossimo futuro. Non è proprio possibile, infatti, chiudere gli occhi di fronte a questa monumentale ed insieme tragicamente ridicola Canossa di ex-combattenti che, prosternandosi compresi di fronte ai peggiori valori della società borghese, offrono alle masse proletarie del nostro paese uno spettacolo indecente, il cui scotto dovremo pagare a lungo. Tanto lordume non si accumula in uno o due anni, e la pulizia delle nostre stalle non sarà né breve né facile e dovrà necessariamente partire da lontano, perché di crisi politica si tratta e, effettivamente, di crisi politica profonda e complicata.
All’indomani della liberazione del generale americano Dozier, la nostra organizzazione ha ben ritenuto di dover condurre un bilancio approfondito su tutto l’arco della nostra esperienza ed ha così lanciato nel movimento rivoluzionario la proposta della “ritirata strategica”, vale a dire della necessità di un periodo di generale riadeguamento dell’avanguardia rivoluzionaria a seguito dei rovesci registrati. La storia, poi, si è incaricata di confermare una volta di più la validità del principio leninista secondo il quale la serietà di un partito politico si può misurare dal modo in cui affronta i suoi errori: i nostri critici “da sinistra” di allora, specialmente il tristo “partito guerriglia del proletario metropolitano” che predicava e praticava scellerate azioni militari per mezza Italia e ci accusava di tradire la lotta di classe, sono scomparsi come forze organizzate e, nelle prigioni, riscoprono tardivamente l’individualismo, la bellezza della vita comune e, perla delle perle, addirittura la religione. In una situazione in cui il primo compito materiale era quello di fronteggiare la stretta mortale della repressione di Stato si è dunque avviata una riflessione critica che si è avvalsa del contributo di ogni militante e di ogni struttura dell’organizzazione medesima, in attività e prigioniera. Il carattere di questa riflessione considerata nella sua generalità, è stato proprio quello di essersi sviluppata per gradi successivi, portando alla luce via via più chiaramente le ragioni profonde che spiegano degli errori e dei meriti della nostra esperienza. Come spesso succede, qualcuno lungo la strada ha visto confermate le proprie idee, altri le hanno mutate, altri ancora ci hanno abbandonato intimoriti dalle difficoltà del compito che era davanti. È certo che non è mutato l’obiettivo di questa riflessione: rilanciare l’attività rivoluzionaria nel nostro paese su basi teoriche politiche ed organizzative più solide e mature del passato. Questo periodo di generale riflessione critica, che perdura dai primi mesi dell’82 e che comunque non ha impedito alle Br di tornare a combattere ai più alti livelli politici e militari della loro storia, è giunto oggi ad un punto decisivo: due posizioni si scontrano intorno ai principali problemi teorici e politici all’ordine del giorno nella nostra discussione interna; ci si divide su questioni di strategia e su questioni di tattica, sul giudizio rispetto al passato, così come sul modo di concepire la nostra attività rispetto al futuro. Ma perché, si potrà domandare, una organizzazione decimata dagli arresti e rimasta praticamente da sola a combattere con le armi lo Stato borghese, si vuole ulteriormente indebolire con delle divisioni interne? E qual è il contenuto di queste divergenze?
Va riconosciuto, con estrema franchezza che il contenuto delle nostre divergenze consiste nel fatto che esistono oggi nelle Brigate Rosse due concezioni completamente differenti del processo rivoluzionario e dei compiti d’avanguardia nel nostro paese: una concezione si appoggia sull’idea che ritiene possibile, partendo dall’attività del partito rivoluzionario, condurre una “guerra di classe di lunga durata” in un paese imperialista come l’Italia – ed è una tesi che tutto sommato, è stata propria della nostra organizzazione fin dal suo atto di nascita e che può indicarsi anche sotto il nome di “strategia della lotta armata”; l’altra, a partire dalla valutazione concreta degli effetti che l’applicazione di questa tesi ha prodotto nella realtà italiana (effetti positivi e negativi, beninteso), e tenuti presenti alcuni fondamentali, insegnamenti del marxismo e del leninismo, considera che, nel nostro paese, la forma che assume la guerra rivoluzionaria è tendenzialmente quella di un’insurrezione, e che il compito del partito è quello di guidare le masse a questo appuntamento storico mediante la sua attività rivoluzionaria, la sua politica rivoluzionaria, centrata in modo essenziale ma non esclusivo sulla LA. Il problema potrebbe essere formulato anche così: in un paese imperialista sono ancora validi, considerati nella loro essenza, gli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre oppure le cose sono evolute a tal punto che riferirsi a quei fondamentali accadimenti risulta sforzo vano e, in ultima istanza, controproducente? Si tratta, insomma di approfondire la concezione che Lenin aveva della rivoluzione o, al contrario di superarla?
A questo punto, lo scontro politico che oggi investe la nostra organizzazione acquista senso e significato inserendosi nel più vasto problema della crisi teorica e pratica che il marxismo leninismo ha dovuto affrontare nel secondo dopoguerra, al seguito della degenerazione revisionistica dei vecchi partiti comunisti, e delle risposte che i rivoluzionari hanno cercato di dare a questa crisi, nei contesti storicamente determinati in cui si trovano ad agire ed a riflettere. Da questa angolatura si capisce l’importanza delle nostre divergenze e si capisce perché la battaglia politica deve essere condotta a fondo nonostante le difficili condizioni attuali: i nostri problemi sono dentro la storia del movimento comunista internazionale; nello scontro politico oggi esistente all’interno delle Br si riflettono, colorandosi delle specificità proprie alla nostra storia d’organizzazione, questioni storiche irrisolte il cui peso è e sarà determinante nell’influenzare il destino della rivoluzione proletaria nel mondo e nei paesi imperialisti in specie.
La tesi dichiarata del presente lavoro è che bisogna approfondire il leninismo e non superarlo. A nostro avviso, la celebre definizione, offerta da Stalin nei suoi “Principi del leninismo”, secondo la quale il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria, conserva intatta la sua validità a 60 anni di distanza dal momento in cui viene formulata. Quindi, l’idea della “guerra di lunga durata” – che rappresenta un riferimento fondamentale per la rivoluzione di nuova democrazia e per le lotte di liberazione nazionale nei paesi oppressi dall’imperialismo – deve essere rifiutata nei paesi imperialisti in quanto foriera di soggettivismo e avventurismo piccolo borghese. Intanto va riconosciuta alle esperienze di avanguardia che hanno fondato la propria azione su questi presupposti, la funzione storica di avere recuperato la problematica concreta e la dimensione militante della rivoluzione nei paesi del centro imperialista, in quanto ne vanno criticate le insufficienze, i limiti, le approssimazioni sul piano della scienza della rivoluzione.
Se è vero, infatti, come ognuno si affanna a sostenere a parole, che attualmente il compito principale è quello di trarre tutti gli insegnamenti possibili dalla nostra esperienza passata per poterla valorizzare appieno nel futuro, è ancora più vero che simile operazione non si può condurre, per così dire, “a basso profilo”, giustapponendo tra di loro singoli giudizi su pezzetti di storia d’organizzazione con l’illusione di salvare capra e cavoli. È una valutazione generale che va data dell’attività rivoluzionaria delle Br nel nostro paese e questa valutazione, che sola può rendere conto del significato storico della nostra esperienza, è cosa da condurre sulla base del marxismo e in uno spirito alieno da gretti interessi di campanile, proiettati, insomma, sul metro della storia. In questo senso, condurre a buon fine simile operazione teorico pratica equivale a rilanciare con rigore e con forza il m-l nel nostro paese, superando così, una volta per tutte, lo stato di minorità teorica e subalternità politica nel quale da troppi anni sembra essere consegnata la sinistra rivoluzionaria italiana.
Sulla questione del rilancio del m-l vanno fatte, preliminarmente, almeno due precisazioni. Innanzitutto, va precisato che questo rilancio non può avvenire nel modo acritico e dogmatico spesso proprio di certune sette che, con la stessa facilità con cui stampano qualche centinaio di copie di orribili giornaletti, si proclamano avanguardie del proletariato internazionale attirandosi addosso il ridicolo della borghesia e anche delle masse combattive. Invero, qualsiasi riflessione rivoluzionaria non può che partire dalla valutazione dell’esperienza rivoluzionaria che le masse ed i soggetti coscienti compiono in determinati periodi storici, ed ogni fase e momento storico è, lo si voglia o meno, superiore all’antecedente nel senso che ne rappresenta uno svolgimento e quindi, in ogni caso, un approfondimento reale. Nella “Guerra civile in Francia” Marx ci dà un esempio di questa metodologia scientifica allorché riferendosi alla Comune (esperienza i cui presupposti non aveva condiviso in pieno) la definisce “la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica dal lavoro”, cioè niente di meno che il primo esempio di dittatura del proletariato. Lenin, d’altro canto, ha sempre insistito sulla necessità di imparare dalla realtà per come essa è effettivamente, di riconoscere nella realtà ciò che, talvolta apparentemente inessenziale, è suscettibile di generalizzazione in quanto forma superiore e tendenzialmente più sviluppata dell’agire storico-sociale dell’uomo. Chi recita un principio a memoria e non si preoccupa di coglierne le implicazioni concrete, le forme reali ed anche contraddittorie di manifestazioni nella storia, non ha capito niente del materialismo dialettico in generale e della sua applicazione alla storia in specie. Per ciò che concerne noi, allora, nessuna attività rivoluzionaria che si dica m-l è concepibile nel nostro paese fuori dalle Br, perché solo la nostra organizzazione è in grado di tracciare un bilancio scientifico e militante (cioè capace di tradursi in pratica rivoluzionaria) dei meriti e dei limiti dell’esperienza rivoluzionaria compiuta nel corso degli anni ’70, individuando con precisione quali siano gli elementi positivi acquisiti e/o acquisibili nel patrimonio storico del movimento comunista internazionale, definendo con chiarezza i termini di una strategia e di una tattica veramente rivoluzionaria, valorizzando compiutamente l’insegnamento principale che scaturisce da tutta l’esperienza d’avanguardia degli anni ’70 e, in primo luogo da quella della nostra organizzazione: che la questione della lotta armata è parte decisiva della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista anche in una situazione non rivoluzionaria.
Secondariamente va chiarito cosa intendiamo per approfondimento della concezione della rivoluzione leninista e perché contrapponiamo tale indirizzo teorico pratico a quello del superamento della medesima. L’applicazione della teoria maoista della “guerra popolare prolungata” alla realtà sociale e storica dei paesi imperialisti conduce, a nostro parere, inevitabilmente, ad una distorsione profonda del leninismo fin nel suo nocciolo essenziale. È facile dimostrare, infatti, e la nostra storia lo ha grandemente dimostrato, che per quanto si cerchi di essere degli onesti m-l, per quanto si vogliano evitare le schematizzazioni, volendo applicare questa teoria nei paesi capitalistici avanzati si perviene, per forza di cose, ad una visione non leninista del rapporto coscienza-spontaneità e del suo correlato pratico lotta politica-lotta economica, si arriva a sottovalutare il ruolo educatore e politico del partito rivoluzionario trasformandolo, da soggetto cosciente della lotta per il potere, in mero organizzatore di una disponibilità rivoluzionaria di massa data per scontata, si stravolge, infine, completamente, situandosi all’opposto estremo, l’idea marxista e leninista “dell’eccezionalità” dell’incontro tra condizioni oggettive e condizioni soggettive della rivoluzione socialista proletaria, sposando una sorta di aggiornata filosofia della prassi, ultima raffinata eredità del marxismo “critico”. Vi sono, certamente, delle ragioni precise alla base del fatto che i marxisti leninisti conseguenti, all’inizio degli anni ’70, furono indotti a credere che una “lunga marcia nelle metropoli” costituisse l’alternativa rivoluzionaria giusta al tradimento revisionista e all’impasse dei gruppi (allora) extraparlamentari. E, in più, noi dobbiamo materialisticamente riconoscere che la questione della lotta armata si è conquistata il dovuto risalto, un risalto politico cioè, a partire da quelle scelte e attraverso tutta la nostra storia, dal ’70 a Dozier, sulla base di una teoria e di una pratica, approssimate quanto si vuole, ma storicamente all’avanguardia e pertanto giuste e positive. Nondimeno, oggi, un chiarimento si impone su questi come su altri problemi. Pare a noi inutile dichiararsi leninisti se non si accetta almeno il nocciolo del pensiero del grande rivoluzionario russo, e si rende, in verità, cattivo servigio al leninismo continuando a mescolarne i chiari principi con le più svariate e lontane concezioni. Come è possibile infatti appellarsi ai principi leninisti del partito come “reparto d’avanguardia” e “coscienza esterna del proletariato” e scrivere quasi accanto che “il problema non è di trasmissione di coscienza dai comunisti alla moltitudini”? (prima posizione della comunicazione). E che rapporto ha con il pensiero di Lenin, che individuava scientificamente le caratteristiche principali della fase rivoluzionaria, la seguente frase: “la lotta armata apre la fase rivoluzionaria a partire dall’attività politico-militare d’avanguardia che attacca la Stato e si rapporta alla classe secondo una strategia tesa ad organizzare le avanguardie rivoluzionarie, rappresentare e dare sbocco alle istanze di potere delle lotte proletarie e conquistare l’antagonismo al programma rivoluzionario”? (ibidem). Ed è possibile parlare di “atti di guerra” se il partito si muove in una situazione contrassegnata dalla dimensione politica in quanto dimensione prevalente dello scontro sociale fra le classi? In poche parole, chi crede davvero di poter superare Lenin, infischiandosene di quegli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre che mantengono la loro validità tutt’oggi, deve almeno avere il coraggio di dirlo apertamente, ammettendo che la “guerra di lunga durata” o idee simili si accompagnano a tutt’altri discorsi e comportano un’altra visione del processo rivoluzionario, diversa e contrapposta a quella che, di questo, Lenin ne aveva. Noi, al contrario, pensiamo che la sostanza di quella concezione sia tutt’ora valida e che il problema sia quello di approfondirne i contenuti alla luce dell’esperienza pratica compiuta dal movimento comunista internazionale e tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti nella società.
In questo senso, lo scontro politico esistente oggi nell’Organizzazione si palesa anche come scontro di riferimenti teorici e, al limite, come scontro tra diverse metodologie. In questo scontro noi siamo per la demarcazione tra le due posizioni, non certo perché abbiamo il “gusto” della scissione o proviamo piacere a non trovare punti di unione a nessun livello, ma proprio perché la demarcazione consentirà di svelare un’altra delle caratteristiche seminascoste di questa battaglia politica: il fatto, cioè, che una posizione veramente marxista leninista potrà farsi strada nelle Br solo a patto di riuscire a smascherare come tale quell’eclettismo teorico, capace di dire una cosa e il contrario di essa allo stesso momento, che tanta fortuna ha riscosso nelle Br durante il corso della loro attività passata e che tanto più pesantemente ne ipoteca oggi il futuro.
In sostanza, alla domanda”quale futuro per le Br?” si potrà rispondere soltanto dopo aver chiarito in cosa consista il significato storico della nostra esperienza, dopo aver, cioè, evidenziato il nostro elemento di internità e di contributo alla storia e al patrimonio del movimento comunista internazionale, ed è evidente che il modo con cui si affronta quest’ultimo problema risulta assolutamente decisivo ed influenza, dall’inizio alla fine, qualsiasi discorso si voglia fare su più di 10 anni di lotta armata nel nostro paese. Infatti, in Italia, il problema della risposta d’avanguardia al tradimento revisionista dei PC provenienti dal Komintern, problema generale di tutta la sinistra rivoluzionaria europea, si è manifestato in maniera oltremodo evidente e sviluppata. La rottura con il revisionismo – e con il revisionismo più forte di tutto l’occidente – ha assunto caratteri di radicalità rivoluzionaria e di radicamento sociale sconosciute ad altre realtà nazionali: l’Italia ha fatto l’esperienza di un’acuta lotta di classe, che ha modificato profondamente alcuni tratti della nostra società e che ha accumulato nelle mani del proletariato rivoluzionario un patrimonio enorme di esperienze sulle quali è doveroso riflettere e dalle quali è possibile ricavare molti utili insegnamenti. Certamente, molti fattori di ordine oggettivo – cioè indipendenti dalla volontà dei singoli individui o gruppi, ed anche da quella delle classi stesse – hanno concorso al determinarsi di questa situazione: alcuni vanno rintracciati a livello profondo nella nostra storia nazionale, altri sono da riferirsi alle caratteristiche economiche e politiche assunte specificatamente dalla società italiana nel secondo dopoguerra. Ma pur tenendo conto di ciò non sembra e non può essere causale il fatto che l’elemento soggettivo trainante questa grossa “ondata” rivoluzionaria, le Br, siano sorte proprio nel tentativo di applicare i principi del marxismo alla realtà attuale, ricollegandosi così con l’eredità del comunismo rivoluzionario internazionale, non può cioè, essere considerata accidentale la relazione che di fatto si è stabilita tra il tentativo di riferirsi costantemente al marxismo leninismo sotto il profilo teorico, politico ed organizzativo e la quantità e la qualità del cammino percorso dalle Br dal momento della loro fondazione fino ad oggi, ivi compreso il fatto che esse sono attualmente la sola organizzazione ad avere superato la prova durissima della repressione dell’inizio degli anni ’80. Per questi motivi, al di là di ogni analisi sul rapporto tra le lotte di massa del 68-70 e nascita della lotta armata, è importante considerare i legami interni alla storia del movimento comunista internazionale; perché per un partito marxista è l’attività cosciente e quindi l’attività cosciente considerata nella sua evoluzione storica, che rappresenta il termine di riferimento fondamentale e la base per ogni avanzamento generale.
E qui siamo ad un punto estremamente delicato perché, nella misura in cui qualcuno si dà la pena di tentare un inquadramento della nostra esperienza in una dimensione storica appena più ampia di quella che si è sviluppata dal ’68 in poi, subito si alza il coro che grida al tradimento, alla svendita dei principi d’organizzazione, all’abbandono della lotta armata. Ora, noi rifiutiamo apertamente la posizione di chi ritiene di potere isolare la nostra storia da quella più generale del movimento comunista internazionale in nome di una sua presunta “originalità”. Senza meno, le originalità ed anche le “rotture” esistono, ma bisogna dire chiaramente che l’atteggiamento presuntuoso di chi non stabilisce relazioni storiche precise con il passato, o le stabilisce soltanto sulla base del fatto che si è operata una rottura irrevocabile con ciò che è solo opportunismo e degenerazione, che si è fatta una “scelta” da prendere in blocco o abbandonare impauriti, questo atteggiamento ci condanna vita natural durante al particolarismo e al primitivismo, “splendido” se si vuole, ma pur sempre incapace di elevarsi al livello politico oggi necessario per un partito rivoluzionario. In più, i “senza passato”, costretti a qualche riferimento di ordine storico, risultano incapaci di qualsiasi distinzione: ogni rivoluzione è buona per confermare le loro idee e, tra la rivoluzione socialista proletaria e quella di nuova democrazia, tra la forma che assume la rivoluzione nei paesi imperialisti e quella che assume nei paesi dipendenti, coloniali o neocoloniali, ogni precisazione è inutile perché rischia di inscatolare la nostra rivoluzione, ecco che arriva l’orribile parola…in un “modello”!! Noi, ovviamente, non siamo di questo avviso e le precisazioni quando necessarie ed utili non ci spaventano affatto: che problema c’è, ad esempio, che l’Italia è un paese imperialista e che la sua rivoluzione assume una forma necessariamente diversa da quelle che si svolgono nei paesi dipendenti riguardo la forma che tendenzialmente assume la guerra rivoluzionaria? E tacere questo fatto non vuol dire forse andare contro, lo si voglia o meno, alla teoria leninista dell’imperialismo che distingue con una certa precisione le nazioni imperialiste da quelle oppresse? E chi si inalbera contro i “Modelli”, non ha forse in testa un modello assolutamente definito, la “guerra di lunga durata”, l’accumulo progressivo di forza militare sulla base di un’attività necessariamente “tentacolare”(uno più uno, azione più azione), che non tiene conto e non può tenere conto dell’importanza dell’elemento oggettivo nella dinamica generale di qualunque processo rivoluzionario?
In verità, l’ingenuità teorica e pratica che ha caratterizzato per molti anni la nostra attività e che ha anche assolto una notevole funzione storica (conquistare un ruolo essenziale alla lotta armata nell’insieme dei metodi e degli strumenti di lotta in mano al partito marxista, sin dall’inizio del processo rivoluzionario), rischia oggi di trasformarsi in infantilismo, qualora prevalga ancora una volta una concezione eclettica dei compiti d’avanguardia e delle caratteristiche generali che assume il processo rivoluzionario nel nostro paese. Il bambino insomma rischia di rimanere nudo. La valorizzazione della nostra esperienza, al contrario e a nostro parere, coincide come già detto con il rilancio rigoroso del marxismo leninismo contro ogni sorta di opportunismo, ma anche contro quel genere di infantilismo che ormai è solo un ostacolo da superare sulla strada che porta alla costituzione del partito rivoluzionario nel nostro paese.

2. Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse
Come è noto, in Marx ed Engels, il tema della rivoluzione sociale si traduce, sul piano politico, nel problema dell’autonomia politica del proletariato ed in quella del rapporto tra classe rivoluzionaria e potere borghese, organizzato nello Stato. La rivoluzione sociale è strettamente legata alla sua condizione preliminare, la rivoluzione politica, ed uno dei momenti cruciali di questa complessa questione diviene, per forza di cose, quello della presa del potere.
I fondatori del socialismo scientifico si preoccuparono molte volte di chiarire il loro pensiero a questo proposito: Marx per primo parlò della violenza come “levatrice” della storia, individuandone la necessità sul piano dell’evoluzione e della trasformazione della società, ed insegnò che le tattiche da adottare per pervenire alla presa del potere devono innanzitutto tener conto delle caratteristiche politiche e militari dello Stato che si vuole abbattere; Engels, che considerava l’insurrezione un’arte, ancora nel 1895 (nell’anno della sua morte cioè) si dedicava all’analisi dell’evoluzione delle tecniche militari borghesi, mettendo in luce come, di pari passo, aumentavano le difficoltà di realizzazione di un’azione militare rivoluzionaria. Essi posero sempre l’accento sul problema della violenza e criticarono immancabilmente quei dirigenti socialisti che, abbacinati dai successi elettorali, si rifiutavano di considerare il lato violento della rivoluzione ed i compiti militari del partito proletario. D’altra parte, non trattarono l’argomento in modo organico e definitivo, lasciando aperta l’ipotesi, in via del tutto teorica ed esclusivamente riferita a quelle nazioni in cui lo Stato era particolarmente smilitarizzato, giovane e di debole presenza nella società, di un passaggio pacifico al socialismo.
In Lenin questa particolare tematica viene trattata in modo così diffuso e sistematico, così puntuale in tutte le sue implicazioni che, dal complesso delle sue opere, è possibile ricavare una vera e propria “concezione” del problema della presa del potere, una concezione che, ricercando costantemente e rigorosamente il riferimento all’opera di Marx ed Engels, si sviluppa e si rafforza nella lotta contro l’opportunismo imperante nella seconda Internazionale e ha come banco di prova la realtà ormai formata dell’imperialismo, cioè del capitalismo pervenuto al suo stadio monopolistico. Rammentiamone i passaggi fondamentali con l’aiuto di qualche citazione.
Per Lenin, nessuna rivoluzione socialista è possibile senza l’impiego di una certa violenza da parte del proletariato nei confronti dello Stato e della classe borghese: “La sostituzione dello Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta” (Stato e Rivoluzione). Anche l’ipotesi assolutamente giustificata di un passaggio pacifico al socialismo in certuni paesi, lasciata aperta da Marx ed Engels, risulta inattuale nell’epoca dell’imperialismo. “Il capitalismo premonopolistico – che raggiunse il suo apogeo appunto negli anni ’70 – si distingueva nei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo particolarmente tipico in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grandi. L’imperialismo, invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel XX secolo, si distingue nei suoi tratti economici essenziali, per il suo minimo amore per la pace e per la libertà e per il massimo ed universale sviluppo del militarismo. “Non notare” questo nell’esaminare fino a che punto sia verosimile un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento, vuol dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia” (La Rivoluzione violenta e il rinnegato Kaustki). Dunque, il confronto violento tra proletariato e borghesia è un fatto necessario che scaturisce dall’esistenza oggettiva del militarismo capitalista e, in particolare, dallo sviluppo pronunciato che quest’ultimo conosce sotto la realtà dell’imperialismo. Impostato il problema in questo modo e chiarito che l’azione rivoluzionaria violenta, per essere risolutiva, per riuscire cioè a strappare il potere politico dalle mani della borghesia, non può assomigliare ad un complotto, ma deve coinvolgere larghe masse proletarie depositarie della simpatia di milioni di persone, si pongono immediatamente, sempre per Lenin, due compiti fondamentali per il partito che voglia condurre vittoriosamente le masse alla rivoluzione violenta: innanzitutto il partito deve educare le masse all’idea della rivoluzione violenta attraverso tutta la propria attività, deve innalzare la combattività tenendo conto ed appoggiandosi sull’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, deve elevare il loro grado di coscienza fino alla comprensione dell’inconciliabilità di interessi che esiste tra loro e la borghesia nella società contemporanea. In poche parole, il partito deve porre di fronte alle masse il problema dello Stato, della sua natura di classe e della necessità del suo abbattimento violento, in quanto elemento fondante e precipuo della politica rivoluzionaria. Secondariamente, il partito deve individuare la forma che il processo rivoluzionario prende nella nazione determinata, considerando con particolare attenzione il problema del passaggio dalla fase politica alla fase militare dello scontro sociale, il problema del passaggio dalla situazione non rivoluzionaria alla situazione rivoluzionaria. Esso deve, perciò, analizzare la forma che la guerra rivoluzionaria prende e deve attendere ai compiti militari che questa forma particolare gli impone, senza la benché minima concessione all’opportunismo. Nell’essenziale, non ci sono altri compiti che scaturiscono per il partito dal principio della necessità della rivoluzione violenta, poiché, per Lenin, sia l’azione partigiana contro il poliziotto zarista che la grande dimostrazione popolare che si conclude con un bagno di sangue operano come fattori concreti di educazione delle masse, ne innalzano la combattività e gli svelano la natura delle istituzioni che governano la società. A patto, ovviamente, (e qui Lenin è sempre molto categorico) che sia il partito a dirigere simile “educazione”. Ogni altra interpretazione, ogni svalutazione del ruolo educatore del partito anche sulla questione della violenza, non è solo una concessione allo spontaneismo, ma conduce, nella misura in cui si praticano azioni partigiane, a quella logica “dell’argomento stimolante” che Lenin stesso metteva in ridicolo nel “ Che fare?”. Lo stesso argomento secondo il quale la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi”, a ben guardare, può essere compreso in questo schema concettuale. Ci spieghiamo meglio: per i comunisti per coloro che hanno come finalità immediata la presa del potere del proletariato, ogni miglioramento delle condizioni di vita del proletariato non è importante di per se stesso, ma solo in quanto, raggiunto sulla base della lotta di classe esso implica un aumento della coscienza rivoluzionaria della classe oppressa e un aumento dell’influenza concreta del partito rivoluzionario nelle masse medesime. È evidente, allora, che il fine dei comunisti non è tanto quello di “spostare i rapporti di forza”, ma piuttosto il fatto che mutino le relazioni generali tra le classi è un indice fondamentale dell’aumento della disponibilità rivoluzionaria del proletariato alle tesi del partito. Se è vero che la lotta armata sposta i rapporti di forza tra le classi, essa lo fa in un senso comunista, solo perché contribuisce ad innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria del proletariato. Considerato in altro modo, il problema ha solo due vie d’uscita, entrambe non marxiste: 1) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto migliora le condizioni di vita delle masse: interpretazione “riformista”; 2) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto accresce il potere delle masse: interpretazione che, in un paese come l’Italia, dove l’unico vero potere in mano alle masse prima della conquista del potere politico è la loro coscienza e la loro organizzazione rivoluzionaria, sottende necessariamente l’idea di un “potere crescente”, di un “ contropotere”, di un “sistema di potere”, che non trovano riscontro alcuno se non nel paradiso accogliente dell’ideologismo dal quale, a fatica, stiamo cercando di uscire. Per questi motivi è accettabile l’idea che la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi” solo nel senso preciso che ogni politica rivoluzionaria giusta, in quanto si inserisce con puntualità nella vita politica di una determinata nazione rappresentando l’interesse generale del proletariato di fronte allo Stato, fa aumentare la coscienza della classe oppressa e, concretamente, determina delle modificazioni nei rapporti tra sfruttati e sfruttatori sia nel campo economico, che in quello politico, ideologico, ecc..
Individuare la forma che la guerra rivoluzionaria assume in un dato paese; prepararne le condizioni soggettive, senza alcuna concessione all’opportunismo, sapere quando e come scatenarla e, finalmente, scatenarla effettivamente quando le condizioni generali si presentano, sono da sempre i compiti più difficili e il vero banco di prova per un partito che si dica rivoluzionario. L’argomentazione leninista, a questo punto, fuori e contro ogni filosofia della prassi, ci offre un criterio scientifico, una metodologia che applicata alla situazione concreta di un determinato paese in un determinato periodo storico, è la chiave di volta del problema e ci consente di decidere della forma (e con ciò tutto il resto) della guerra rivoluzionaria. Essa si articola su due livelli: il primo è quello della valutazione della situazione rivoluzionaria, il secondo è quello della valutazione della forza politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Procediamo con ordine.
La questione della situazione rivoluzionaria è di enorme importanza ai fini della definizione della forma che assume la guerra rivoluzionaria. Infatti, se per guerra rivoluzionaria noi intendiamo la situazione in cui larghe masse appartenenti a classi contrapposte si confrontano per mezzo delle armi, la situazione, cioè in cui l’elemento dominante della lotta di classe è quello militare (e non, come spesso si è creduto anche nella nostra Organizzazione, la situazione in cui l’avanguardia delle masse combatte con le armi mentre milioni di persone lottano ancora ad un livello meno elevato), allora è abbastanza elementare riconoscere che solo in una situazione rivoluzionaria si può sviluppare una guerra rivoluzionaria, e risulterà necessario poter stabilire precisamente quando una determinata situazione può dirsi rivoluzionaria. Ecco cosa scriveva Lenin: “Per un marxista è cosa certa che nessuna rivoluzione è possibile in mancanza di una situazione rivoluzionaria. Non è poi detto che ogni situazione rivoluzionaria scaturisca in una rivoluzione. Quali sono in generale i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare nell’indicare tre seguenti elementi:
1) Impossibilità da parte delle classi dominanti di conservare integro il proprio dominio; una crisi dei circoli dirigenti, crisi politica della classe al potere, produce una falla nella quale entrano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Affinché abbia luogo una rivoluzione non basta, in genere, che non si accetti di scendere più in basso; bisogna altresì che non si possa più vivere come nel passato.
2) Il peggioramento abnorme delle privazioni e delle sofferenze delle classi oppresse.
3) L’incremento sensibile, in funzione di quanto precede, dell’attività delle masse, le quali, in tempo di pace, si lasciano tranquillamente derubare ma nei momenti di crisi sono incitate da tutta la situazione, e anche dai dirigenti, a prendere l’iniziativa di un’azione storica.
In mancanza di queste modificazioni oggettive, indipendenti dalla volontà dei gruppi isolati e dei partiti, nonché da quella delle classi, la rivoluzione è, in linea generale, impossibile. L’insieme di queste modificazioni oggettive costituisce esattamente la situazione rivoluzionaria… non è detto che da ogni situazione rivoluzionaria scaturisca la rivoluzione; perché la rivoluzione si compie solo quando, ai fattori enumerati si aggiunge l’elemento soggettivo, ossia l’attitudine nella classe rivoluzionaria all’azione rivoluzionaria, l’attitudine di masse abbastanza forti da spezzare e scuotere il vecchio regime che, all’apice della crisi non cade se non lo si fa cadere” (Il fallimento della Seconda Internazionale). Il problema allora, se si è d’accordo con Lenin, è quello di considerare con che frequenza queste situazioni si producono e per quanto tempo esse possono prolungarsi in un dato paese, considerate le sue caratteristiche socio strutturali (composizione di classe, collocazione nella realtà generale dell’imperialismo, ecc..), perché da queste cose dipende il carattere della guerra rivoluzionaria: se la situazione rivoluzionaria è presente costantemente, o relativamente costantemente, allora, la guerra rivoluzionaria potrà essere prolungata, potrà appoggiarsi sul sostegno costante e fattivo delle masse e conquistare dei territori da erigere a “zone liberate”, sui quali basarsi per continuare la guerra fino alla liberazione completa dell’intero territorio nazionale. Se la situazione rivoluzionaria si presenta raramente e tocca il suo punto culminante per breve tempo, allora la guerra rivoluzionaria non potrà che concentrarsi in momenti precisi ed assumere tendenzialmente l’aspetto dell’insurrezione. Sebbene ogni schematizzazione sia da evitare sotto questo (…), ci pare innegabile la sostanza scientifica e intimamente materialistica di questo ragionamento; così come ci sembra che tutta l’esperienza della rivoluzione proletaria del movimento progressista mondiale confermi questo fatto. Dire che esistono delle forme tendenziali di guerra rivoluzionaria, che esse possono, tutto sommato, ridursi a quella della guerra popolare prolungata e a quella dell’insurrezione armata, che è possibile e doveroso considerare, nel proprio paese, il tipo di guerra rivoluzionaria che si deve affrontare e trarre tutte le implicazioni sul piano della attività pratica del partito, non significa fare dello schematismo, ma esattamente applicare il marxismo con responsabilità (con la responsabilità di chi deve chiamare alle armi le masse e perciò deve farlo secondo un criterio preciso) alla situazione nazionale in cui si svolge il proprio lavoro. Lenin, ad esempio, trattando il problema della situazione rivoluzionaria in riferimento ai paesi capitalistici della sua epoca, scriveva: “Nella storia, questo aspetto della lotta si iscrive molto raramente all’ordine del giorno; al contrario, la sua importanza e le sue conseguenze perdurano per dozzine di anni” (Il fallimento della Seconda Internazionale). E non a caso, in Russia era partigiano dell’Insurrezione armata. Altrettanto importante della valutazione della situazione rivoluzionaria risulta la valutazione della “forza” politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Non servirebbe a nulla infatti, aver stabilito con precisione con quale frequenza una situazione rivoluzionaria si produce e per quanto tempo si prolunga se poi non si conosce cosa si ha di fronte, se non ci si è preparati e non si sono preparate le masse alla realtà della guerra civile, se non ci si pone il problema di affrontare la crisi politica della borghesia. “Il vecchio regime…,anche all’apice della crisi, non cade se non lo si fa cadere”; ma non solo l’attività rivoluzionaria del partito marxista contribuisce all’approfondimento della crisi della classe dominante, nella misura in cui svolge una politica rivoluzionaria giusta e diviene la variabile rivoluzionaria della vita politica e sociale di un dato paese; molto di più, il Partito marxista deve far ciò tramite un metodo adatto allo stato contro cui vuole dirigere le masse. Nessuna politica rivoluzionaria può diventare elemento fondamentale della vita politica di un paese, contribuire all’approfondirsi della crisi della borghesia, fare cadere il potere della classe dominante, se i suoi metodi e le sue forme di lotta e di attività non sono adeguate alla natura dello Stato borghese che si ha davanti. Lenin, a questo proposito, è molto chiaro e stabilisce un nesso preciso – già messo in luce da Marx e da Engels – tra le caratteristiche dello stato e quella della lotta di classe, tra le forme assunte dal dominio politico della borghesia e le forme che deve assumere, al suo livello più elevato, la lotta rivoluzionaria del proletariato. “L’imperialismo (…) mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani. La storia universale pone oggi, senza alcun dubbio e su scala incomparabilmente più ampia che nel 1852, il compito della “concentrazione di tutte le forze” della rivoluzione proletaria per la distruzione della macchina statale” (Stato e Rivoluzione). Questo rapporto tra consolidamento dello Stato borghese e necessità, da parte del proletariato, di concentrare maggiori energie per distruggerlo si ricava anche dal secondo passaggio, dove Lenin chiarisce le implicazioni militari che l’evoluzione dello Stato comporta sul terreno della lotta di classe: “La tattica militare dipende dal livello della tecnica militare: questa verità è stata ribadita da Engels, da cui i marxisti l’hanno ricevuta già completamente elaborata. La tecnica militare è oggi diversa da quella della metà del secolo XIX. Sarebbe stupido marciare in massa contro l’artiglieria e difendere le barricate con le rivoltelle.” (Gli insegnamenti dell’insurrezione di Mosca). Come si vede, viene stabilito su questo punto una sorta di rapporto proporzionale: al consolidamento progressivo dello stato, alla sua accresciuta capacità di repressione e di integrazione sociale, deve corrispondere una strategia adeguata da parte del proletariato, capace di concentrare tutte le forze necessarie all’abbattimento dello Stato medesimo. Detto in altre parole, se lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo ha sviluppato definitivamente il suo apparato burocratico e militare in funzione antiproletaria, allora il compito del partito sarà quello di porre, con maggiore forza e coerenza il problema dello Stato e della sua natura di classe di fronte alle masse e alla società tutta intera; il compito sarà quello di preparare le masse alla realtà di una guerra civile sanguinosa e tremenda mettendo in crisi, al più alto livello possibile, gli equilibri politici su cui, di volta in volta, si regge la forza dello stato medesimo. Da questo punto di vista, che, ripetiamo, è il punto di vista di Lenin, rintracciabile in ogni sua opera o scritto politico, la questione dello Stato è la questione della politica rivoluzionaria e della rivoluzione violenta, e la questione dell’evoluzione dello Stato è la questione, se ci è consentita una terminologia non proprio perfetta, dell’evoluzione della strategia e della tattica della rivoluzione violenta, la questione della capacità del partito del proletariato di essere costantemente “all’altezza” di quella forza repressiva particolare che è lo Stato in generale e lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo in specie.
Questi, a nostro parere, sono i tratti fondamentali della concezione della presa del potere propria di Lenin, ma, prima di proseguire nel nostro discorso, bisogna fare almeno tre precisazioni: in primo luogo bisogna chiarire che questi insegnamenti hanno valore universale, cioè non riferibile soltanto alla situazione russa del ’17 o a quella europea tra le due guerre. Infatti, questi insegnamenti applicati da Mao alla realtà cinese del suo tempo hanno comportato esattamente la teoria e la pratica della guerra popolare prolungata. In secondo luogo essi sono validi qualora si abbia fermo il rapporto preciso che Lenin stabilisce tra la coscienza socialista e la spontaneità proletaria. In terzo luogo essi possono portare a fare veramente la rivoluzione solo se si ha chiaro che in Lenin la soggettività cosciente è una parte dell’oggettività quindi essa contribuisce concretamente alla modificazione dello scenario sociale e non si attesta opportunisticamente “sull’apprezzamento” delle condizioni oggettive considerate come “impermeabili” all’attività soggettiva del partito rivoluzionario.
Tenuto conto di ciò si deve ammettere che tali insegnamenti applicati alla realtà italiana del nostro tempo quindi ad una realtà ovviamente evoluta rispetto a quella della Russia del ’17 conducono a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione: un’insurrezione aggiornata che dovrà confrontarsi con uno Stato politicamente e militarmente agguerrito in modo diverso e superiore a quello zarista del ’17 ma pur sempre un’insurrezione. E se la polemica fra i sostenitori dell’insurrezione e quelli della guerra di lunga durata può infastidire qualcuno bisogna chiarire che dietro le parole si cela tutto un modo di concepire l’attività politica di quel Partito Comunista Combattente che si deve fondare; si celano, insomma due modi antagonisti di interpretare il rapporto teoria-prassi nel marxismo.
Ci si accusa di dogmatismo, di non considerare i mutamenti sopravvenuti nella società moderna. Ma è vero o non è vero che nel secondo dopoguerra non si sono conosciute nei paesi imperialisti situazioni veramente rivoluzionarie? È vero o non è vero che la dimensione politica della lotta di classe (la dimensione cioè caratterizzata dal fatto che i rapporti generali tra le classi si mediano, si equilibrano, si trasformano nell’ambito della sfera politica oggettivamente esistente in quanto risultato della lotta di classe) prevale per tutto un lungo periodo di tempo e trapassa nella dimensione militare (la dimensione della guerra civile) in tempi relativamente brevi?
Che ci piaccia o meno la teoria della guerra di lunga durata della strategia della lotta armata ecc… non è un’applicazione del marxismo leninismo alla realtà italiana ma esattamente l’opposto: è la giustapposizione ideologica di una pratica data per scontata, è il trionfo dell’eclettismo su ogni sforzo di impostare seriamente il problema della rivoluzione proletaria nel nostro paese.
È senz’altro vero che per sconfiggere questo Stato avremo bisogno di una “concentrazione di forze” estremamente rilevante così come è vero che nel processo politico che permette di concentrare simili forze la lotta armata gioca un ruolo decisivo fondamentale sin nella situazione non rivoluzionaria. Ma la soluzione di questi fondamentali problemi non si trova fuori dall’impostazione teorica sopra enunciata, bensì dentro il leninismo che permette sulla base degli elementi di teoria generale validi universalmente di valorizzare in modo compiuto l’esperienza pratica del movimento rivoluzionario internazionale.
Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse, allora, è quello di aver dimostrato che la questione della lotta armata fa parte della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista leninista moderno; che la lotta armata è il metodo di lotta fondamentale e decisivo del partito del proletariato poiché, anche nella situazione non rivoluzionaria, è un formidabile strumento di innalzamento della coscienza e dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse sfruttate.
In questo senso, e solo in questo senso, si può dire che la nostra esperienza è una critica militante alle insufficienze dell’insurrezionalismo kominternista: il Komintern concepiva l’insurrezione come il coronamento militare di una lunga fase di attività politica legale basata sull’attività parlamentare; di fatto nel momento in cui il baricentro dell’attività politica si spostava in parlamento, la questione dell’insurrezione veniva persa di vista. In altre parole, il limite che separa la fase politica dello scontro sociale da quella militare, quella che divide la situazione rivoluzionaria da quella non rivoluzionaria, questo limite veniva concepito come separazione mentre, per la dialettica, un limite esiste solo in quanto mette in collegamento le due realtà, le fa trapassare una nell’altra e, in particolari condizioni storiche, le media in unità di opposti.
La lotta armata, in Italia, ha avuto questa funzione storica: mettere in risalto la possibilità di una teoria e di una pratica rivoluzionaria adeguata ai tempi in cui viviamo. Alla fine degli anni ’60, allorché grandi lotte operaie e studentesche caratterizzavano in modo prevalente la situazione politica nel nostro paese e in altri paesi europei, gli elementi rivoluzionari avanzati si trovavano di fronte a due fondamentali ordini di problemi, strettamente connessi tra di loro: in primo luogo essi dovevano condurre una spietata battaglia contro il revisionismo dei PC “ufficiali”, ormai trasformati in veri e propri partiti socialdemocratici, in secondo luogo nella definizione della loro strategia rivoluzionaria, dovevano tener conto del fatto che la visione insurrezionalistica propria del Komintern si era dimostrata sostanzialmente incapace di condurre le masse alla presa del potere nei paesi ove essa aveva trovato applicazione concreta. Queste due fondamentali questioni venivano affrontate, allora, sotto l’influenza e lo stimolo di quanto accadeva nel mondo e, in special modo, guardando alla Cina della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria e alle varie forme di guerra rivoluzionaria allora in atto nei paesi oppressi dall’imperialismo; e, nei settori più conseguenti del movimento rivoluzionario di quel periodo storico, si affermò progressivamente la posizione secondo la quale la risposta giusta a quei problemi la si poteva dare iniziando la guerriglia urbana per conquistare ad essa gradualmente l’intero proletariato.
Il cammino concreto della rivoluzione proletaria riprende, nel nostro paese, proprio a partire da questa scelta coraggiosa, da questa scelta soggettiva d’avanguardia: iniziare la lotta armata costituendo così “i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito armato del proletariato”, iniziare la lotta armata con l’obiettivo del partito rivoluzionario moderno. Ma il contributo pagato al revisionismo sotto il piano della solidità teorica di quelle scelte è stato elevato: nel tentativo di distinguersi dalle attività burocratiche e conciliatrici del partito comunista revisionista, depositario ufficiale “dell’ortodossia”, molti degli argomenti teorici propri della nostra organizzazione si sviluppavano fuori dal marxismo leninismo, il richiamo stesso al socialismo scientifico era equivoco, discontinuo, possibilista; il corrompimento teorico è stata la conclusione inevitabile di queste contrattazioni.
Si tratta ovviamente di problemi che sono comuni a tutte le esperienze d’avanguardia sviluppatesi nei paesi europei nel corso degli anni ’70. Da un punto di vista generale bisogna tenere presente che la dissoluzione della Terza Internazionale, la restaurazione del capitalismo in Urss, la diffamazione di Stalin operata da Krusciov al XX Congresso, l’imponente degenerazione revisionistica conosciuta dai “vecchi” PC sono alla base sia del disorientamento teorico e pratico creatosi negli anni ’60 nel movimento comunista internazionale sia delle approssimazioni delle leggerezze che hanno caratterizzato la sincera attività rivoluzionaria nei paesi imperialisti durante il corso degli anni ’70. Il marxismo leninismo veniva sovente accomunato agli esiti della rivoluzione in Urss e alle politiche degenerate dei partiti comunisti revisionisti, era spesso fatto oggetto di critiche che formulate con una leggerezza alle volte imperdonabile tendevano a metterne in discussione i caratteri di visione unitaria del mondo, di concezione scientifica e di classe del reale. I limiti delle guerriglie urbane comuniste europee, l’eclettismo che ha regnato sovrano un po’ dappertutto si comprendono in questo quadro generale che non annulla alcuna specificità nazionale o di organizzazione ma rende ragione di quelle dinamiche generali che influenzano in modo decisivo ogni fenomeno particolare. Se si vuole questi limiti rappresentano il costo storicamente necessario pagato dalla rivoluzione al revisionismo affinché si levasse una nuova coscienza dei compiti comunisti d’avanguardia nei paesi imperialisti.
Oggi nessun avanzamento è pensabile fuori da una riflessione generale sulla nostra esperienza. La sostanza di questa riflessione non può che portare al punto seguente: il significato storico della nostra esperienza è quello di aver messo in luce il risalto politico che la lotta armata assume, in quanto metodo di lotta fondamentale del partito rivoluzionario sin dalla situazione non rivoluzionaria. Il limite fondamentale della nostra esperienza consiste nell’eclettismo teorico che ha guidato l’attività. L’eclettismo sul piano dei principi ha consentito la sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri dei paesi dipendenti nella situazione sociale di un paese imperialista; esso ha permesso improbabili commistioni tra marxismo leninismo e operaismo piccolo-borghese; esso ha determinato la sottovalutazione dell’attività educatrice e politica del partito marxista rivoluzionario ed ha messo la lotta armata al servizio della lotta economica e spontanea del proletariato; l’eclettismo teorico infine ha consentito che molti individui instabili e oscillanti entrassero nelle file della nostra Organizzazione pronti a rinnegare le proprie scelte alla prima soffiata di vento contrario.
La battaglia contro l’eclettismo teorico che ha implicazioni su tutto l’arco dell’attività rivoluzionaria, è la condizione fondamentale per poter dar luogo alla fondazione del Partito Comunista Combattente.

3. La situazione attuale nel movimento comunista internazionale ed alcune indicazioni generali per i marxisti leninisti conseguenti
Il potenziamento rivoluzionario esistente oggi nel mondo è significativamente testimoniato dallo sviluppo impetuoso della lotta di classe in ogni angolo del nostro pianeta. In molti paesi perdurano e si intensificano forti guerre popolari prolungate che impegnano apertamente l’imperialismo in una lotta senza quartiere e senza riserve; in molti altri le classi popolari subiscono il giogo di dittature fasciste e militari, la cui ferocia terroristica non impedisce l’esplosione di notevoli episodi di resistenza di massa e di lotta armata rivoluzionaria. La questione nazionale, sia come questione riferita al problema dell’ottenimento di una reale indipendenza dal neo-colonialismo, sia come questione di vera e propria lotta di liberazione nazionale, permane di bruciante attualità in svariate regioni del globo. Nei paesi del centro imperialista, grandi lotte operaie e proletarie caratterizzano il quadro attuale scontrandosi principalmente contro le politiche economiche e contro i preparativi di guerra delle classi al potere. Sebbene l’imperialismo usi tutti i suoi mezzi per nascondere agli occhi delle masse proletarie e popolari questa fondamentale verità, è cosa reale e indiscutibile che non esistono al mondo, oggi, zone socialmente pacificate e che la borghesia è vieppiù costretta a contrastare l’opposizione cosciente delle masse che opprime e che sfrutta. In più, la crisi economica attuale, che è una crisi generale del modo di produzione capitalista, produce una notevole accelerazione nello sviluppo delle contraddizioni in ogni parte del mondo e spinge le potenze imperialiste ad intensificare il riarmo ed i preparativi di guerra; si avvicinano sempre più chiaramente tempi in cui gli eventi sociali saranno messi in moto impetuosamente, determinando così grandi occasioni per la rivoluzione in ogni paese.
Di fronte a questa situazione, che è tanto difficile e complicata quanto densa di possibili svolgimenti positivi, il movimento rivoluzionario e progressista mondiale marcia disunito e privo anche soltanto di una certa conduzione; in particolare, il ruolo dei veri comunisti, dei marxisti leninisti conseguenti, risulta talvolta debole e secondario, laddove addirittura non ve n’è traccia e la direzione della lotta di classe e popolare è per lo più in mano a partiti revisionisti, nazionalisti, se non reazionari. Come è noto, il campo del marxismo leninismo è diviso, frammentato e separato al suo interno da mille polemiche e diatribe, qualcuna delle quali francamente sterili e infantili, e grande confusione deriva dal fatto che vi rivendicano un’internità organizzazioni e partiti apertamente revisionisti, così come piccole sette tanto sconosciute e ininfluenti nelle masse, quanto presuntuose nei confronti del mondo e di chi, pur tra molte difficoltà ed anche errori, si “sporca le mani” nell’impetuosa arena della lotta di classe.
A nostro parere, sullo stato di degrado e di debolezza in cui si trova il movimento comunista considerato nel suo complesso, hanno influito ed influiscono tutt’ora tre fattori di grande rilievo storico: l’assenza sulla scena mondiale attuale dei paesi socialisti, la degenerazione revisionistica dei partiti comunisti provenienti dal Komintern, l’assenza, che si prolunga ormai da tempo, di un’organizzazione comunista internazionale capace di dirigere e coordinare l’attività rivoluzionaria su scala mondiale. Questa situazione impone pertanto che si intensifichi e si rilanci effettivamente una coerente battaglia contro ogni sorta di revisionismo e di opportunismo, avanzando risolutamente verso l’obiettivo di una maggiore unità teorica, politica, organizzativa dei marxisti militanti di ogni paese.
Il blocco della transizione in Urss e la sua trasformazione da paese socialista a paese capitalista, pongono tutt’ora grandi problemi di comprensione teorica e parecchie difficoltà sul piano pratico ad ogni rivoluzionario conseguente. Non soltanto, infatti, si tratta di individuare la ragioni profonde della sconfitta subita nel ’56 dal proletariato in Urss, ma anche di tenere presente che l’Urss è una componente attiva ed importante nello scenario internazionale, ove costituisce il maggior avversario dell’imperialismo più potente ed aggressivo del mondo, quello Usa, e dove, a causa di complicate ragioni di ordine storico ed anche contingente, spesso appoggia ed aiuta materialmente grandi movimenti nazionali e popolari che si battono contro la dominazione del brigante occidentale, ossia contro la fonte oggi principale di reazione nel mondo. Questa situazione ingenera molte volte un certo disorientamento, ed anche sincere organizzazioni rivoluzionarie assumono atteggiamenti oscillanti talvolta, possibilisti, comunque non chiari mentre molti fanfaroni, sulla cui buona fede rivoluzionaria è lecito avanzare qualche riserva, si lanciano nella condanna degli imperialismi in generale, e di quello sovietico in particolare, equiparando così la realtà della dominazione imperialista. Una potenza imperialista di tipo particolare che porta in sé tutt’ora alcuni tratti dell’epoca socialista e che tende a giustificare le proprie azioni con una fraseologia marxista, ma pur sempre una potenza imperialista. Non tener conto di questo fatto, non valutare tutte le implicazioni che derivano da questo giudizio, significa porre una pesante ipoteca negativa sul destino della rivoluzione mondiale e, in particolare, significa sminuire i compiti e l’atteggiamento specifico dei comunisti di fronte ai preparativi di guerra oggi in atto nel mondo. Questo giudizio d’altro canto non ci impedisce di considerare la situazione mondiale concreta, di operare una valutazione sul grado di aggressività degli imperialismi e sulle particolarità delle loro politiche, e di riconoscere che la rivoluzione, se vuole avanzare in un mondo diviso in “blocchi” può e deve sfruttare le contraddizioni prodotte dal funzionamento del modo di produzione capitalista stesso. Come Lenin ha insegnato in teoria e in pratica, sono i principi che vanno tenuti fermi e rinsaldati, mentre la loro applicazione non può che essere viva, dinamica, concreta: nel medesimo momento, perciò, in cui riteniamo che vada condotta una battaglia ferma di principio a livello internazionale contro il revisionismo sovietico e la sua politica di potenza, diciamo anche molto chiaramente che è un opportunista di fatto colui che, per sbraitare contro tutti gli imperialismi, non assolve ad uno dei primi doveri di un vero comunista: quello di sfruttare tutte le contraddizioni che scaturiscono dalla dinamica generale dell’imperialismo per affrettare, far avanzare, e portare a compimento la rivoluzione mondiale.
La restaurazione del potere borghese dello Stato dei soviet è inestricabilmente legata ad un altro rilevante fattore storico che condiziona pesantemente la vita e l’attività del movimento comunista internazionale: la generale degenerazione revisionistica dei grandi PC formatisi sulla base della spinta potente della Rivoluzione d’Ottobre. Il danno prodotto da questa degenerazione è stato enorme sotto molteplici aspetti: la rivoluzione, come riferimento e finalità fondamentale dell’attività comunista, è stata completamente affossata; si è rinnegata la necessità dell’abbattimento violento dello Stato borghese e della dittatura del proletariato; la politica comunista si è via via identificata con il parlamentarismo e con il pacifismo; si è consumata una storica e nefasta scissione tra marxismo teorico, ridotto ad un’icona inoffensiva buona per essere studiata da individui borghesi quali sono i professori universitari, ed attività pratica dei partiti operai improntata al più bieco e reazionario pragmatismo. Il credo kroutcheeviano della “coesistenza pacifica” e delle “vie nazionali e pacifiche” al socialismo ha solo ratificato ufficialmente, dopo il ’56, il fattivo e sistematico collaborazionismo di classe praticato dai PC occidentali sin nell’immediato dopoguerra e l’inerzia fellona dei PC esistenti nei paesi coloniali di fronte ai compiti nazionali e democratici della loro rivoluzione. La gravità di questo processo si può apprezzare solo tenendo presente che a rinnegare il marxismo erano proprio quei partiti che si erano costituiti per assolvere fino in fondo i compiti rivoluzionari e che avevano svolto la loro attività durante il corso di molti e difficili anni, conquistandosi in diversi paesi un notevole seguito ed una notevole influenza tra le masse. Sebbene risulti di estrema importanza ricercare le origini del revisionismo dei PC sin dentro la storia del Komintern e in particolare, partendo da alcune interpretazioni opportuniste date della tattica dei “fronti popolari”, definita nel ’35 al settimo Congresso dell’Internazionale Comunista; così come risulta indispensabile considerare le basi sociali (aristocrazia operaia nei paesi imperialisti, piccola e media borghesia intellettuale nei paesi coloniali, prosperità relativa del capitalismo nel secondo dopoguerra,ecc…), è necessario sottolineare che il banco di prova per ogni bilancio storico, per quanto raffinato e puntiglioso possa essere, rimane la capacità pratica di scalzare le posizioni tutt’ora mantenute dei partiti revisionisti dentro le masse operaie e popolari, rompendo la situazione di subalternità attuale che conduce, al massimo alla riscoperta della lotta economica come terreno ideale per il rivoluzionarismo di maniera e conquistando coraggiosamente (come obiettivo tendenziale, naturalmente) la direzione politica dei grandi movimenti di massa in ogni paese.
La battaglia rivoluzionaria contro il revisionismo sovietico e contro le “vie nazionali e pacifiche al socialismo” dei vari Tito, Togliatti e Thores, ha inizio in modo aperto e coerente con Mao Tse Tung nei primi anni ’60. Nel corso dello svolgimento di questa battaglia, Mao ha fornito una prima valida interpretazione degli accadimenti in Unione Sovietica e soprattutto è pervenuto alla definizione della teoria della continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato ed ad un’analisi approfondita e scientifica del ruolo della contraddizione nell’epoca che divide il capitalismo dal comunismo. Questa visione dei problemi del socialismo oltre a rappresentare un insostituibile criterio di giudizio nella valutazione dell’esperienza sovietica è stata tradotta e verificata in pratica da Mao Tse Tung e dagli elementi rivoluzionari in seno al PC Cinese nel corso della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, che ha rappresentato un movimento rivoluzionario senza precedenti nella storia, in grado di rinforzare la dittatura del proletariato contro i tentativi di restaurazione capitalistica e di estendere e proseguire la rivoluzione socialista in tutti i campi della società. Oggigiorno, in seguito al colpo di stato reazionario effettuato nel ’76 in Cina, all’indomani della morte di Mao, non solo i revisionisti cinesi, ma anche alcuni partiti e singole “personalità” hanno iniziato, prima prudentemente ed in seguito con estrema virulenza, ad attaccare su tutta la linea il pensiero e l’opera di Mao, definendoli “estremistici” e non marxisti. All’ubriacatura “maoista” si è sostituito, in tutta fretta, un corri corri a prenderne le distanze ed a riscoprire l’Urss in quanto elemento “anticapitalistico”. Alcune di queste caratteristiche, apparentemente puntuali, si basano in realtà sulla presunta equivalenza tra il pensiero di questo grande dirigente rivoluzionario e le volgarizzazioni e i riduzionismi che ne sono stati fatti, specialmente in occidente, a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Quello che a nostro parere deve essere sommamente chiaro è che il contributo fornito da Mao sulla questione della rivoluzione e della guerra popolare prolungata nei paesi oppressi dall’imperialismo, quello fornito con gli scritti sulla dialettica materialistica e quello, già citato, sulla questione della continuazione della lotta di classe nel socialismo, rimangono approfondimenti fondamentali del marxismo leninismo e come tali oggetto di difesa e di sviluppo critico da parte del movimento comunista internazionale. Infatti, sulla base di quali posizioni è possibile avanzare scientificamente nella critica del revisionismo sovietico e delle sue varianti titoiste, togliattiane, ecc., se non su quella che scaturisce dall’opera di Mao e dalla sua verifica pratica nella rivoluzione culturale? Su quali basi è possibile difendere la memoria e l’operato del compagno Stalin, se non tenendo conto della battaglia durissima che Mao condusse contro i rinnegati della cricca kroutcheeviana, e contro la diffamazione da loro operata ai danni del grande dirigente bolscevico? E ancora, su quali basi è possibile, nei paesi oppressi dall’imperialismo, criticare in maniera militante l’inerzia dei PC revisionisti ed il velleitarismo del “fochismo” cubano se non appoggiandosi sugli insegnamenti della rivoluzione cinese, resi in forma scientifica da Mao? Per questi motivi, non si può combattere il revisionismo moderno senza considerare l’apporto decisivo del pensiero e dell’opera di Mao a questo proposito, e la difesa dell’eredità lasciataci da questo grande dirigente del proletariato, al di là di ogni “maoismo”chiacchierone e di maniera, costituisce una questione centrale per i veri marxisti leninisti.
Il movimento comunista è internazionalista per sua stessa natura. Marx e Engels concludevano il “Manifesto” con la celebre parola d’ordine “proletari di tutti i paesi unitevi” e Lenin, nel momento in cui si palesò con drammatica evidenza il fallimento della Seconda Internazionale, dedicò la massima energia alla costituzione dell’organizzazione internazionale dei veri comunisti, ricollegandosi idealmente all’attività svolta da Marx e Engels nella Associazione Internazionale dei Lavoratori. L’idea leninista di un “partito unico della rivoluzione mondiale” e la vasta e sistematica attività svolta dall’Internazionale Comunista tra il ’19 e il ’43 hanno influenzato in modo decisivo l’evoluzione della storia mondiale ed hanno contribuito a serrare nei ranghi dei partiti comunisti e sotto la teoria del socialismo scientifico gli operai avanzati e i sinceri progressisti di tutto il mondo. Solo tenendo presente l’importanza reale di cui si riveste un centro unico della rivoluzione mondiale, capace di operare in qualità di centro propulsore, di orientamento e di innalzamento del livello teorico politico e organizzativo dei partiti che vi aderiscono; solo tenendo conto di ciò è possibile apprezzare in tutta la sua vastità il ruolo storico svolto dal Komintern ed anche il peso negativo che deriva, per quanto concerne la situazione attuale, dall’assenza di un simile punto di riferimento.
Infatti lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e della società borghese, che sono alla base della formazione del proletariato in quanto classe mondiale, si sono storicamente intrecciati alla nazione come entità geografico politica elementare in cui si organizzano, nella società e nello Stato, le forze produttive, la divisione del lavoro ed il sistema di relazioni sociali interne.
Di conseguenza, anche la lotta di classe del proletariato conosce uno sviluppo diverso e specifico nelle varie nazioni, sia in riferimento al fatto che a gradi differenti di penetrazione del capitalismo in una data nazione corrisponde un peso sociale differente del proletariato nel novero generale delle classi, sia in riferimento al fatto che, come classe, esso si trova di fronte innanzitutto la questione della conquista del potere politico su scala nazionale. Ma, considerato ciò, si deve riconoscere che le barriere fra Stati accrescono le divisioni dentro il campo degli sfruttati, favorendo di fatto lo sciovinismo e con esso l’identificazione con i destini della propria borghesia e l’allentamento dei legami di solidarietà con i propri simili nel resto del mondo. Per questi motivi, i marxisti, che partono dal presupposto del proletariato come classe universale, si sono sempre adoperati, nella loro attività propagandistica, a mettere in rilievo gli interessi sovranazionali e, materialmente, hanno sempre tentato di raggrupparsi al di là e al di sopra delle frontiere, dando vita ad organizzazioni internazionali che traducevano sul piano della coscienza e dell’attività conseguente, l’oggettiva unità di interessi del proletariato su scala mondiale.
Attualmente, nel mondo l’idea internazionalista conosce una certa svalutazione ed il problema dell’unità, anche organizzativa, tra comunisti di ogni paese viene affrontata generalmente con malcelato disinteresse e, in qualche caso, addirittura come un falso problema. Naturalmente nessuno si sogna di negare l’importanza dell’internazionalismo e di una solidarietà fattiva con la lotta del proletariato internazionale e dei popoli oppressi dall’imperialismo, ma si preferisce rimanere nel generico, diluire la questione il più possibile: quel che si contesta, o meglio, quello di cui non si vuole parlare è che la questione dell’internazionalismo, per un marxista leninista non può essere lasciata al suo andamento spontaneo ma, al contrario, deve essere affrontata in modo consapevole ed organizzato, poiché il processo stesso della rivoluzione proletaria mondiale non può essere portato a compimento senza che l’attività cosciente dei comunisti sia calibrata a quel livello.
La sottovalutazione dell’elemento cosciente nelle questioni riguardanti l’internazionalismo, che è purtroppo una posizione estremamente diffusa negli ambienti rivoluzionari di tutto il mondo, ha però delle ragioni storiche precise che vanno individuate senza timore, se si vuole rilanciare la discussione militante su questi temi. Senza meno, bisogna partire dalla constatazione, anche banale, che fra noi e l’anno in cui il Komintern decise la propria autodissoluzione (’43), sono passati più di quarant’anni, durante i quali si sono determinati la restaurazione del capitalismo in Urss, la conseguente rottura del campo socialista con l’inizio della battaglia antirevisionistica di Mao, la completa degenerazione revisionistica dei PC e il colpo di stato reazionario in Cina, che ha, momentaneamente, affossato la rivoluzione in quel paese ed eliminato dalla scena mondiale la contraddizione paesi socialisti paesi capitalistici. Tutti questi avvenimenti hanno provocato ovviamente interminabili polemiche e profonde divisioni fra i comunisti, e qualcuno ha anche creduto, in perfetta malafede diciamo noi, che l’attività principale di un rivoluzionario dovesse essere quella di distruggere e rifondare ridicoli partitini ad ogni piè sospinto, più o meno nel medesimo modo di un bambino viziato che rompe i suoi giocattoli per poi reclamarne di nuovi. Si è creata così una situazione per la quale chi voleva veramente fare la rivoluzione era portato a disinteressarsi sostanzialmente di tali questioni ed a valutarle in modo pragmatico ed approssimativo; senza considerare poi che, se il primo dovere di un vero internazionalista è fare la rivoluzione nel proprio paese, le organizzazioni comuniste che hanno svolto un’attività reale nei propri paesi hanno reso un contributo internazionalista infinitamente superiore a quello che proviene dalle chiacchiere svolte in qualche stanza da sedicenti marxisti leninisti. Del resto, la direzione del PC cinese ed in primo luogo Mao, pur sostenendo il peso di una fondamentale e giusta battaglia antirevisionistica non si sono mai impegnati a fondo nel compito di ricostruire una vera e propria organizzazione internazionale comunista, avvalorando in questo modo l’idea che il Komintern peccava di eccessiva centralizzazione e di conseguenza, che il problema dell’unità politica e organizzativa dei comunisti su scala internazionale non fosse allora un compito urgente e inderogabile per i veri marxisti. Va poi considerato che tutta l’esperienza della Internazionale Comunista si era sviluppata in stretta relazione con la storia socialista dell’Urss, e che lo Stato dei soviet era realmente la base d’appoggio della rivoluzione mondiale, costituendo l’esistenza di un paese socialista un potentissimo fattore propulsivo per la lotta di classe proletaria in ogni parte del mondo: la restaurazione del capitalismo prima in Russia e poi in Cina ha eliminato queste basi di appoggio che sebbene non indispensabili in linea di principio, storicamente avevano svolto un ruolo fondamentale nel favorire l’innalzamento dell’unità politica organizzata dei comunisti a livello internazionale. Tutto ciò, considerato nelle sue implicazioni storiche e unito a moltissimi altri fattori che, comunque appaiono di secondaria importanza, ha determinato nel corso degli anni una situazione estremamente complicata e difficile sulla quale molti si sono adagiati e nella quale la dispersione di energie è la caratteristica dominante.
Attualmente, proporsi e proporre d’invertire questa tendenza negativa, stabilendo con precisione l’unico, vero, obiettivo politico valido in linea di principio: l’unità politica ed organizzativa dei comunisti su scala internazionale, l’Internazionale Comunista, non vuol dire, come molti pensano anche con una certa legittimità, fare del velleitarismo gruppettaro, o riscoprire l’emmellismo tardivamente; porre alto l’obiettivo irrinunciabile della fondazione della nuova Internazionale Comunista, vuol dire concretamente e allo stato attuale, adoperarsi affinché il confronto tra marxisti leninisti conseguenti si sviluppi in modo non episodico, lavorare per stabilire livelli di unità superiore tra organizzazioni e PC di ogni paese, rendere pubblico e ufficiale, nel limite del possibile e nel rispetto delle varie esigenze, ogni risultante di simile lavoro.
Si deve chiarire che, a nostro parere, da questo processo sono posti fuori in modo categorico e irrevocabile tutti quei gruppetti “marxisti leninisti” che fanno del loro dogmatismo l’alibi migliore per la loro inattività. Così come va combattuta un’intensa battaglia politica contro tutte quelle forze che (sul genere di Action Directe, Raf, e simili), pur lottando con le armi contro le proprie borghesie non riconoscono la guida del marxismo leninismo per la propria azione. Come ultima precisazione, c’è da dire che lo sviluppo del confronto fra comunisti non impedisce e non può impedire legami di solidarietà e di sostegno militante con tutti i movimenti che lottano contro l’imperialismo in modo coerente e nemmeno annulla il problema di alleanze tattiche, qualora se ne ravvisi la necessità, con nazioni e paesi che svolgono un ruolo progressista sulla scena mondiale.
Il lavoro che porterà alla fondazione di una nuova Internazionale Comunista sarà perciò lavoro di anni, ma bisogna dire chiaramente che l’Internazionale Comunista non sorgerà spontaneamente e che l’argomento “realista”, che apparentemente è un argomento di grande legittimità, è in realtà una lampante concessione allo spontaneismo, gravida di conseguenze negative sui destini della rivoluzione proletaria mondiale.
Tra l’altro, alla base di una gran parte delle approssimazioni teoriche che hanno caratterizzato la nostra storia d’Organizzazione, vi è proprio l’assenza di un punto di riferimento simile a quanto sopra. La lotta armata per il comunismo nel nostro paese, così come in altri paesi imperialisti e persino in alcuni paesi dipendenti, non trova e non cerca schemi teorici precostituiti, e nemmeno un ambito di confronto internazionale nel quale porre al vaglio della critica sovranazionale i propri presupposti di fondo. Questo fatto, che, come abbiamo già avuto modo di chiarire altrove, non è imputabile a nessun gruppo in particolare, ma rappresenta la condizione storica concreta nella quale è rinata l’attività rivoluzionaria in determinati paesi, ha senz’altro influito determinando, per così dire, una “provincializzazione” esasperata delle organizzazioni che praticavano determinate strategie. Oggi il problema, naturalmente, non è quello di fare “più azioni internazionalistiche”, il che significherebbe dire che la Raf aveva ragione fin dal ’70, ma esattamente quello di considerare le implicazioni internazionali di ogni rivoluzione, di valutare la comune sostanza di fondo di certi processi sociali, di perdere insomma, un po’ di boria da presunti “originali” della rivoluzione mondiale.
L’impegno costante in campo internazionale, sia sul terreno della battaglia antirevisionista che su quella del confronto fra organizzazioni comuniste, con l’obiettivo di principio dell’Internazionale Comunista, contribuirà in modo decisivo all’innalzamento del livello politico generale della nostra Organizzazione e dovrà rimanere una delle costanti fondamentali della nostra attività.

4. Conclusioni e tesi
Proponiamo qui di seguito una serie di tesi, necessariamente essenziali nella loro formulazione, sulla base delle quali riteniamo possibile imprimere una netta svolta all’attività generale dell’Organizzazione. Non si ha qui la pretesa di porre le basi teoriche del Partito Comunista Combattente, compito di cui comunque sono state investite le Br, ma piuttosto si tenta di delineare un indirizzo politico, il più possibile preciso e coerente, che metta l’Organizzazione in condizione di formulare al più presto una vera e propria linea politica su cui basare la propria attività.
La fine della “ritirata strategica”, identificata giustamente da molti compagni con il momento in cui le Br avranno una linea politica capace di far muovere l’Organizzazione con “una sola volontà”, non è certo una chimera; ma qui bisogna rimarcare che l’entità dell’autocritica dipende dalle proporzioni della sconfitta e, in un certo senso, la tortuosità del processo riflessivo sviluppatosi all’interno delle Br, in attività e prigioniere, all’indomani di quel gennaio ’82 è una testimonianza in più delle molte “anime” che continuano a convivere nella nostra formazione politica, che, attaccata da ogni parte, rimane anzitutto depositaria di un enorme patrimonio storico politico che influenza, in tutta la sua contraddittorietà, la situazione presente nel bene e nel male.
A nostro avviso, e lo abbiamo ripetuto più volte, si tratta di sconfiggere l’eclettismo, si tratta di far uscire dalla tana quel tipico modo di ragionare, estremamente sfuggente, che permette di dire una cosa e il contrario di essa nel medesimo momento e senza alcuna vergogna. Ma ciò non basta, bisogna trovare le radici di questa impostazione teorico-pratica e bisogna trovarle sul serio, perché solo così l’Organizzazione potrà veramente fare quel passo in avanti che le consentirà di potersi proporre come nucleo fondante del partito rivoluzionario nel nostro paese. Come abbiamo cercato di mettere in luce in precedenza, ci pare che questo eclettismo trovi la sua ragione di fondo nel tentativo, portato avanti anche con un certo “eroismo”, di far quadrare il marxismo leninismo con la concezione gradualistica e progressiva della lotta armata per il comunismo, tentativo che caratterizza tutta la storia delle Br e che ha trovato il suo momento culminante in “L’ape e il comunista”.
Da questo punto di vista, regolare i conti con il passato significa anche assumere definitiva consapevolezza di quella contraddizione teoria-prassi, ideologismo-prassi, che sempre svolge un ruolo nell’attività dei partiti, i quali, se ci è consentita una terminologia colorata, “fanno pratica sul serio”. La pratica infatti non permette sempre e soltanto una verifica immediata delle proprie convinzioni teoriche; spesso il concreto e immediato (sebbene, a rigore, l’immediato propriamente detto non esista da nessuna parte) avvalora posizioni sbagliate, addirittura le rafforza nella lotta alle posizioni giuste (se esistono). In ogni caso arriva il momento in cui la realtà oggettiva, e le leggi che ne regolano l’esistenza (in questo caso tipicamente sociale), fanno valere i loro diritti. Allora si misura la sincerità di un materialista: se farà di tutto per far quadrare la sua interpretazione delle cose con la realtà che gli grida contro da tutte le parti, non è un materialista e, probabilmente lo diverrà a grande fatica; se si adopera, a partire da un atteggiamento scientifico, ad esaminare i dati di fatto per estrapolarne gli insegnamenti validi in generale, allora è sul terreno del materialismo dialettico.
La nostra organizzazione si trova più o meno in un simile, cruciale, momento. Il modo con cui ne uscirà sarà determinante per il suo futuro.
1. Nell’epoca dell’imperialismo, la forma che storicamente assume il processo generale della rivoluzione proletaria mondiale è quella di una rivoluzione ininterrotta e per tappe. Come Lenin ha infatti dimostrato, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico determina nel mondo una divisione di sostanza tra un piccolo numero di paesi imperialisti, ove il capitalismo è particolarmente avanzato, ed un grande numero di nazioni oppresse che l’imperialismo saccheggia, obbligandole all’arretratezza e alla dipendenza economica e sociale. Dal punto di vista della rivoluzione, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico, oltre ad essere alla base della possibilità di far trionfare la rivoluzione inizialmente in uno o più paesi per volta determina in modo preciso ed oggettivo la natura della tappa della rivoluzione per ciascuna nazione e l’insieme delle classi o frazioni di classi interessate al raggiungimento della tappa medesima. Al giorno d’oggi, dunque, la rivoluzione proletaria mondiale è composta, per l’essenziale, da due grandi correnti che rappresentano, allo stesso tempo, due grandi tappe storico-sociali: la rivoluzione socialista proletaria, il cui soggetto storico è il proletariato nei paesi imperialisti, e la rivoluzione di nuova democrazia – o di liberazione nazionale -, il cui soggetto storico sono le classi popolari oppresse dall’imperialismo nei paesi oppressi e coloniali. Tre fondamentali contraddizioni influiscono oggi in modo decisivo sulla situazione mondiale e, di conseguenza, sul processo generale di sviluppo della rivoluzione socialista proletaria e di quella di nuova democrazia: la contraddizione tra proletariato e borghesia, che si esprime in forma storicamente compiuta nei paesi imperialisti e, in forma meno sviluppata e conforme al grado di penetrazione economica del capitalismo, nel resto del mondo; la contraddizione tra imperialismo e popoli e nazioni oppresse; la contraddizione tra potenze imperialiste.
2. L’Italia è un paese imperialista e le principali classi in cui si divide la nostra società sono la borghesia e il proletariato; la dittatura della classe borghese su quella proletaria prende la forma di democrazia parlamentare, basata sul suffragio universale. La natura della tappa della nostra rivoluzione è quindi quella della rivoluzione socialista proletaria ed il suo soggetto storico è il solo proletariato. Intanto esso, e il suo partito rivoluzionario, non possono contrarre alleanze con altre classi o frazioni di classe, in quanto sono tenuti a sfruttare ogni occasione per stabilire una reale egemonia della classe proletaria su frazioni di classe o gruppi sociali oscillanti ed instabili. La conquista del potere e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie rappresentano le condizioni storicamente necessarie per instaurare la dittatura rivoluzionaria del proletariato su tutte le altre classi sociali e per organizzare la società socialista.
3. La conquista del potere politico e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie non possono darsi che tramite una rivoluzione violenta; questo principio è confermato da tutto lo sviluppo del militarismo capitalista e, in particolare, dal consolidamento progressivo dello Stato borghese nelle sue determinazioni fondamentali: esercito (inteso come esercito interno ed esterno) e burocrazia. La lotta di classe tende necessariamente a trasformarsi in guerra civile. Il partito rivoluzionario deve tener conto di questo fatto e trarne tutte le implicazioni pratiche sul piano della sua attività. Posto che la rivoluzione non può che essere violenta ne consegue che la situazione rivoluzionaria tende a determinare la guerra civile; la guerra civile può caratterizzarsi come guerra rivoluzionaria se esistono e sono accettate dalle masse oppresse delle idee, o tesi, rivoluzionarie. Per guerra rivoluzionaria intendiamo la situazione sociale in cui l’elemento militare dello scontro di classe è predominante sugli altri; naturalmente, anche nella situazione di guerra rivoluzionaria gli eventi sono determinati dalla situazione esistente tra proletariato e borghesia: la nostra società è divisa in classi, ogni fenomeno perciò ha un preciso carattere di classe. Rifiutiamo categoricamente ogni altra interpretazione del concetto di guerra rivoluzionaria: la guerra rivoluzionaria, per essere tale deve appoggiarsi sulle masse, deve coinvolgere sul terreno dello scontro militare le masse. Quando ciò non è possibile, non si può parlare di guerra rivoluzionaria; parlarne significa: a) non considerare che le modificazioni qualitative dello scontro sociale si definiscono in base alla attività generale delle masse; b) sposare, per forza di cose, una concezione soggettivistica del reale e del suo movimento. Il marxismo impone di prendere posizione sulla questione della guerra rivoluzionaria e chi non prende posizione a questo proposito si schiera di fatto con i possibilismi propri del soggettivismo.
4. In un paese imperialista le condizioni materiali della rivoluzione, le condizioni materiali per lo scatenamento della guerra rivoluzionaria, non si presentano tutti i giorni. Il grado relativo di benessere economico e sociale di cui partecipano anche le masse (e che è possibile sulla base dell’alto sviluppo delle forze produttive del lavoro e dello sfruttamento a cui sono sottoposte le nazioni oppresse dall’imperialismo) e l’elevato livello di libertà politiche e individuali concesso dalla democrazia parlamentare, consentono alla borghesia di occultare agli occhi delle masse il contenuto classista della società e di assorbire con una certa facilità le spinte tendenti alla trasformazione sociale; in questo contesto, il revisionismo, – che ha come base sociale proprio quegli strati operai corrotti dalle briciole che l’imperialismo può elargirgli – svolge un ruolo fondamentale rappresentando esattamente la politica borghese del movimento operaio. In linea di massima, in un paese imperialista è possibile definire rivoluzionaria una determinata situazione politico-sociale qualora coesistano le seguenti condizioni soggettive e oggettive: a) una gravissima crisi di dominio politico della borghesia, sia nel senso di indebolimento della sua compagine e di una delegittimazione del suo potere agli occhi delle masse, sia nel senso di un indebolimento dei suoi legami internazionali; b) un notevole e sostanziale peggioramento delle condizioni di vita delle masse, tale da provocare una generale aspettativa e disponibilità verso grossi mutamenti sociali; c) una considerevole, cosciente e organizzata mobilitazione di masse proletarie; d) la presenza di un deciso partito rivoluzionario, capace di influenzare e orientare in modo corretto e preciso le masse medesime. Le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria in un paese imperialista si presentano, come si capisce, in situazioni del tutto eccezionali, e lo studio concreto della storia ci insegna che esse si presentano in genere nel periodo che precede, che interessa o che segue una guerra diretta tra potenze imperialiste, e con particolare forza nei paesi che subiscono in modo accentuato le conseguenze della guerra stessa (paesi sconfitti, paesi occupati, paesi impreparati socialmente al conflitto bellico). Questa posizione, che è l’unica posizione veramente scientifica e materialistica sulla questione della situazione rivoluzionaria, conduce a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione armata di massa contro il potere centralizzato dello Stato borghese.
5. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario, fondato sulla teoria del socialismo scientifico, è la conquista del potere politico e l’abbattimento violento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario è perciò, in termini concreti, l’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese. Le masse proletarie, attraverso il loro movimento spontaneo, non sono in grado di elevarsi alla coscienza dell’irriducibile antagonismo che esiste tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo: questa coscienza può essere portata loro solo dall’esterno e solo il partito marxista rivoluzionario può assolvere tale compito. Va chiarito che non esiste alcun potere reale delle masse all’interno della società capitalistica e che l’unico, vero, potere in mano al proletariato è la sua coscienza rivoluzionaria. Il compito principale del Partito Comunista quindi, è e rimane quello di aumentare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse; tale fondamentale compito deve essere assolto attraverso lo svolgimento di una coerente lotta politica comunista, cioè attraverso un’attività che si ponga come obiettivo centrale quello di rappresentare il proletariato non nei suoi rapporti con un determinato gruppo di imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea e, principalmente, nei suoi rapporti con lo Stato borghese. Questa attività, che permette al partito di elevarsi al di sopra della lotta economica del proletariato e di contrapporsi alla politica borghese del movimento operaio (la lotta politica tradeunionista), consiste perciò, per così dire, in una “preparazione quotidiana dell’insurrezione”. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese è un enorme fatto sociale da organizzare giorno per giorno, a cui educare costantemente le masse, le cui condizioni militari vanno coscientemente organizzate e preparate. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese non è, finalmente, una perfetta azione militare che corona un lungo periodo di agitazione politica legale; ma, al contrario, il momento tattico decisivo in cui l’azione politica militare del partito rivoluzionario si incontra con la disponibilità cosciente delle masse alla rivoluzione.
6. L’esperienza pratica degli ultimi 15 anni nel nostro paese ci insegna che il metodo decisivo della lotta politica comunista del partito del proletariato è la lotta armata. Essa consente di interpretare in modo eccezionalmente chiaro gli interessi generali del proletariato nei confronti dello Stato; essa permette di considerare in modo dialettico, non metafisico, il limite che esiste tra il periodo in cui il compito fondamentale del partito è quello di guidare politicamente le masse e il periodo in cui si pone il problema di guidarle anche militarmente contro lo Stato. Facendo uso delle armi, il partito comunista non può che essere partito combattente, quindi clandestino. Ogni suo militante, in quanto quadro del Partito Comunista Combattente, deve essere disposto al combattimento e verificato, nei limiti delle esigenze del partito, su questo terreno. Il Partito Comunista Combattente deve trarre tutte le conseguenze dal suo essere partito combattente e clandestino, nello svolgimento della sua attività complessiva, sia nei confronti dello Stato e della società borghese, sia nei confronti delle masse proletarie. La lotta armata è il metodo di lotta decisivo e fondamentale della politica rivoluzionaria del partito marxista: mentre in una situazione di guerra civile tra le classi il combattimento risponde in modo diretto alla fondamentale legge della guerra: distruzione delle forze nemiche e conservazione delle proprie, nel lungo periodo che precede la situazione rivoluzionaria il combattimento è un formidabile strumento politico capace di ingenerare coscienza ed organizzazione rivoluzionaria nelle masse, nella misura in cui è riferito espressamente alle grandi questioni politiche al centro della vita del paese, rappresentando coerentemente gli interessi generali del proletariato. L’iniziativa combattente non è (nella situazione non rivoluzionaria) un “atto di guerra”, ma un fondamentale atto politico che, esprimendosi mediante l’uso delle armi, ha ovviamente conseguenze particolari di cui il partito deve tener conto con estrema responsabilità, ma anche appoggiandosi sulla più ferma decisione. Pur considerando il termine “strategia” sotto il significato di “visione generale che il partito ha del processo rivoluzionario e di come pervenire alla conquista del potere politico”, la lotta armata non è una strategia: essa è il metodo di lotta decisivo della politica rivoluzionaria del partito marxista anche nella situazione non rivoluzionaria.
7. Il partito comunista, per poter giungere alla rivoluzione, deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla conquista del potere politico e all’abbattimento dello Stato borghese. La questione della conquista della direzione politica dei movimenti di massa è, da questo punto di vista, decisivo. Si deve chiarire che, nei paesi imperialisti la conquista della direzione politica dei movimenti di massa da parte del partito rivoluzionario è ostacolata dalla grande influenza che il revisionismo e l’ideologia borghese esercitano sulla classe proletaria, corrompendo una parte numerosa di essa alla lotta pacifica, al conciliatorismo e al tradeunionismo. Il partito rivoluzionario, pur tenendo conto di questi fatti, non può e non deve cadere nel “codismo”, nell’economicismo, recedendo così dal suo ruolo essenziale: quello di essere portatore della proposta della rivoluzione, del mutamento generale di tutto l’ordinamento sociale esistente. D’altro canto, il partito, per poter sviluppare la sua attività rivoluzionaria, per poter aumentare e innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse, deve possedere un’adeguata linea di massa. La linea di massa del Partito Comunista Combattente non può essere, come si è detto, la lotta armata. La linea di massa del Partito Comunista Combattente deve essere fondata essenzialmente sul programma politico (minimo) che il partito lancia alle masse e che è sostenuto in primo luogo tramite il combattimento. Il programma politico del Partito Comunista Combattente deve essere composto da parole d’ordine valide per tutto il proletariato e la sua funzione principale è quella di essere una leva per lo sviluppo dell’agitazione, della propaganda e dell’organizzazione rivoluzionaria.
Nei paesi imperialisti, il Partito Comunista Combattente è più che mai il reparto d’avanguardia del proletariato. Ogni sottovalutazione del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo risulta estremamente nociva alla causa del proletariato rivoluzionario e rischia di trasformare la sua avanguardia in una sorta di “braccio armato” del movimento di massa o, al contrario, presupponendo una coscienza di massa più elevata del reale, in una formazione politica avventuristica.
8. Per poter impostare la sua politica in modo maturo, per poter svolgere fino in fondo il suo compito di “educatore rivoluzionario” delle masse, il Partito Comunista Combattente deve dotarsi di un giornale politico, da diffondersi clandestinamente e su scala nazionale. Il giornale politico del Partito Comunista Combattente è uno strumento fondamentale della sua attività complessiva. Esso è anche uno strumento intimamente “antigradualista” e “antitentacolare”, perché è di per sé (naturalmente con il presupposto della lotta armata) una voce rivoluzionaria precisa ed autorevole, capace di orientare praticamente le masse e di prendere parola sulle principali questioni politiche e sociali del paese: esso, quindi, supplisce alle difficoltà che una organizzazione clandestina incontra nella propaganda e stabilisce un rapporto preciso e generale tra partito e masse.
9. Il Partito Comunista Combattente propone di volta in volta un programma politico (minimo) alle masse, composto di parole d’ordine, che sono desunte dallo scontro reale che vive in un determinato momento nel paese, si esprime, nell’attività generale delle masse, in forma pubblica ed aperta. Là dove è possibile, risulta doveroso dotarsi di “cinghie di trasmissione”, dirette da nostri militanti legali, capaci di diffondere e sostenere le parole d’ordine di massa lanciate dal partito e, non certo di creare un “sindacalismo di sinistra”, un “nuovo movimento operaio” o cretinerie simili.

Fonte: PROGETTO MEMORIA, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Appunti per un discorso di fase

Prima parte: appunti per un discorso di fase

La nostra organizzazione aveva diffuso dentro il movimento comunista veneto e a livello nazionale questa bozza di discussione interna. Era nostra intenzione poter “chiudere” questo documento dopo una discussione collettiva con tutti i compagni comunisti e dopo le critiche e i consigli che da più parti del fronte delle lotte pervenivano all’impostazione generale del nostro discorso. La tempesta degli ultimi avvenimenti ha anticipato la stampa di questo documento, che si presenta ancora come bozzone di ipotesi politiche e di proposte concrete; incompleto in alcune parti. Ci impegniamo a pubblicizzare quanto prima la nostra linea politica nella sua interezza. I compagni capiranno.

Organizzazione comunista COLLETTIVI POLITICI VENETI PER IL POTERE OPERAIO.

Ora che il movimento del ’77 è definitivamente chiuso, ora che il problema per noi è andare oltre, è possibile e necessario ripartire da lì, dalla precarietà di questa tappa cruciale dello scontro di classe in Italia. È inutile, forse, spulciare i limiti e le contraddizioni di questo movimento perché la sua stessa anima e forza è stata la sua malattia mortale: l’anticipo con cui una soggettività diffusa di alcuni strati di classe ha rappresentato una composizione politica di classe possibile. Ma il movimento, anche quello del 77, non si identifica con la composizione di classe data; è un insieme, più o meno organizzato, di avanguardie politiche, di forze soggettive che, come tale, è parte e intrattiene una relazione, dinamica o statica, con la composizione di classe, ma non arriva mai a identificarsi o combaciare totalmente con essa. La felicità del movimento del 77 è stata non tanto l’“adeguatezza” ma la dinamicità e la forzatura che ha imposto al maturare di configurazioni nuove nel sistema di relazioni produttive. Come tale, è stato movimento, a pieno titolo, di avanguardie politiche di massa. In questo, il movimento del 77, nel suo salto in avanti, esprime anche una continuità politica caratteristica della situazione italiana: il peso della soggettività politica, dell’accumulo di lotte e di organizzazione proletaria sulle determinazioni del circuito di produzione e di riproduzione (l’iniziativa e la ricomposizione proletaria spingono e determinano il cervello capitalistico; la composizione tecnica insegue la composizione politica di classe). La capacità di proiezione politica dell’operaio-massa sulla società, sui meccanismi di riproduzione delle classi sociali, impiantata nel centro del ciclo delle lotte di fabbrica ha determinato il saltare delle curve salari-occupazione e la rigidità del mercato del lavoro, ma ha anche determinato quella circolarità di lotte proletarie che ha dato un corpo sociale al rifiuto del lavoro e ha aperto un ciclo di auto valorizzazione del lavoro sociale complessivo. Da questa determinazione proletaria ha dovuto ripartire l’iniziativa capitalistica, assumendo l’intero ambito dei rapporti sociali, produzione e riproduzione, come terreno della ristrutturazione. Ma, ancora una volta, ha trovato l’iniziativa proletaria di fronte. Così una soggettività diffusa è diventata capacità materiale di interpretare la collocazione centrale che lo stato di classe, quello del lavoro precario a media o alta qualificazione – data o in via di formazione – veniva ad assumere, in prospettiva, nella accumulazione capitalistica, nel processo di valorizzazione e immediatamente nella crisi e nella ristrutturazione capitalistica. Riuscire ad unire l’estraneità di questa nuova figura di classe dalla forma della mediazione contrattuale e le sue relazioni, produttive e politiche, con la composizione di classe data e con la sua trasformazione, era il nodo su cui il movimento del 77 doveva misurarsi e su cui sono mancate le forze soggettive. Per questo occorreva impostare il rapporto tra organizzazione-ricchezza della soggettività diffusa (movimento) e composizione di classe. In effetti il movimento, sempre più teorizzato come auto-riproduzione, è rimasto al di qua di entrambi i lati del rapporto. Allora, i passaggi in avanti stanno tutti nella capacità di riprendere lucidamente i termini del rapporto tra composizione di classe e organizzazione; al di fuori di questo, qualsiasi tentativo di continuità del movimento si dà come regressiva e incapace di affrontare i compiti di fase. Dobbiamo, dunque, ripartire, anche se molto sinteticamente, dai principali dati della trasformazione del processo di valorizzazione e quindi della composizione di classe, a partire dalle risposte che il capitale nazionale, nel quadro di quello internazionale, è stato costretto a dare al ciclo di lotte dell’operaio-massa nelle metropoli capitalistiche. Di fronte all’ampiezza e alla forza del processo di auto-valorizzazione proletaria, dispiegato sullo intero rapporto di produzione e di riproduzione, il capitale ha aperto una fase di ridefinizione del processo di valorizzazione che riuscisse ad avere un carattere di penetrazione e continua erosione della compattezza e della rigidità del cuore di classe; evitando la forma, sconfitta politicamente, del piano come impatto frontale con i livelli di autonomia di classe. La crisi, come forma stessa dello sviluppo è diventata la forma più adeguata alla continua e puntuale verifica dei rapporti di forza, al trasformarsi dell’economia politica in riarticolazione continua del comando capitalistico e in “guerriglia” politico-economica contro il largo di classe. Si può parlare, come è stato detto, di “ristrutturazione singhiozzante” e di “riconversione strisciante” per descrivere il carattere discontinuo e politico di questa riarticolazione dei rapporti di produzione. Questo non contraddice, ma anzi realizza politicamente, l’emergere di direttrici fondamentali della riorganizzazione capitalistica internazionale, nella fase delle multinazionali, che hanno al centro un diverso rapporto mondiale fra massa e saggi di plusvalore nel rapporto e all’interno di aree politiche la cui determinazione è data dai saggi differenziati di conflittualità nel ciclo internazionale dell’operaio-massa. L’Italia come punto medio capitalistico e punto alto operaio, e doppiamente al centro di questa riorganizzazione del mercato mondiale dei processi di valorizzazione. Tutto converge in un attacco concentrico alla rigidità politica, operaia e capitalistica, del rapporto tra fabbrica tayloristica e operaio-massa.

1) Sempre nel carattere discontinuo e politico, legato alla dimensione dei rapporti di forza, quindi tendenziale: il passaggio, dell’asse portante dell’accumulazione, dalla produzione di beni di consumo durevoli alla prevalente produzione di mezzi di produzione. Questo come passaggio ad una nuova distribuzione internazionale degli operai di fabbrica in una nuova composizione internazionale della classe operaia. Assistiamo al decentramento internazionale dell’operaio comune e massificato di linea nelle aree mondiali a nuova industrializzazione, come rottura e salto nel vecchio assetto imperialistico mondiale. L’operaio-massa si decentra dalle metropoli capitalistiche e, insieme, si moltiplica con l’impianto ex novo di linee di lavorazione di grandissima serie in paesi a tecnologia bassa o media. Nella situazione italiana questo fa sì che “la ristrutturazione ha proprio la caratteristica di uscita, superamento della vecchia fabbrica razionalizzata, ‘tayloristica’, concentrata e rigida e verticalmente integrata, linearizzata, ultrameccanizzata, che la classe capitalistica italiana aveva realizzato con grande ritardo solo negli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60, cioè la vecchia fabbrica dell’operaio-massa, quella della Mirafiori del 1961”. Non è la scomparsa dell’operaio-massa, che ancora resta, nella forza della sua rigidità politica, perno centrale della stessa forma dell’iniziativa capitalistica. Si ha però, l’emergere di una nuova forza lavoro di tipo nuovo, frutto di un rapporto reciproco fra processi di autovalorizzazione proletari e adattamento della risposta capitalistica nella trasformazione dei processi di valorizzazione. È una nuova qualità e complessità dell’intera forza lavoro che esprime l’incorporamento di un nuovo livello di sapere sociale, che marcia in un “reciproco rapporto tra intellettualizzazione dell’operaio di fabbrica e fabbrichizzazione e operaizzazione del lavoro e del lavoratore intellettuale”.

2) La nuova forma della valorizzazione socialmente diffusa. Sotto la spinta della proiezione sociale della lotta operaia e del rifiuto del lavoro, il capitale è stato costretto ad estendere il processo di socializzazione dei rapporti di produzione. La valorizzazione viene diffusa sul territorio con la disarticolazione e la dispersione del ciclo, per renderlo più flessibile, per affrontare la nuova qualità e forma dell’offerta. È insieme un allargamento del processo di valorizzazione, in cui in Italia torna a diventare fondamentale la massa complessiva di plusvalore, e una forma nuova in cui vengono a combinarsi un uso della nuova dimensione sociale della cooperazione lavorativa e una riorganizzazione, con qualità nuove, del comando centrale di impresa. È, innanzitutto, la fabbrica diffusa, in cui il vecchio intreccio sviluppo-arretratezza viene sconvolto e riorganizzato a partire dal peso dei settori più avanzati, in cui diventano dominanti la diffusione di tecnologia e qualificazione medio-alte. È la “fabbrica sociale”, in cui è direttamente il nuovo livello di sapere sociale incorporato nella forza lavoro come insieme che viene “macinato” all’interno della valorizzazione capitalistica. Questa è la frontiera più avanzata della socializzazione capitalistica, in cui si distrugge la vecchia figura del disoccupato (fine degli strumenti di controllo degli equilibri di sotto-occupazione keynesiani): le potenzialità cooperative ormai tutte e solo interne alla crescita del lavoro sociale. Qui non basta più la dimensione d’impresa, è direttamente lo stato che, di fronte alla caduta privata del saggio di profitto, organizza il plusvalore della generale produttività sociale attraverso l’integrazione di tutta la società nella fabbrica. Altro che emarginazione, “altra società” ecc.!

3) La sfera della riproduzione dei rapporti sociali deve integrarsi sempre più direttamente e in modo “governato” al processo di produzione e di valorizzazione. È ancora una volta una dimensione tutta imposta dalle lotte. Quando è la dimensione della generale produttività sociale che si impone come ambito del processo di valorizzazione, le sue condizioni di riproduzione devono essere ricondotte alla forma del dominio capitalistico; ogni breccia diventa un varco ai processi di autovalorizzazione proletaria. Il capitale deve distruggere le sue separatezze, lo Stato del comando deve diventare sempre di più lo Stato del dominio delle condizioni di produzione e riproduzione, direttamente. La spesa pubblica cessa di essere strumento di governo del ciclo per diventare requisito essenziale della gestione dell’accumulazione, punto nodale della compatibilità e della integrazione tra rapporti di produzione e riproduzione. È indubbio che la ristrutturazione dal ’73 ha agito pesantemente sul corpo di classe, nonostante la continuità di resistenza dello strato centrale di classe, anche per il carattere sempre più scontato politicamente di questa resistenza da parte del capitale. Ma l’ipoteca che la lotta operaia e proletaria ha posto sull’intero arco dei rapporti sociali ha posto un paradosso politico che è ancora la centralità e la debolezza dell’anello italiano: la ristrutturazione (e la ristrutturazione è comando) ha agito, ha ridimensionato, scomposto, differenziato, ma non ha rotto la continuità dei processi di accumulo politico di soggettività operaia e proletaria. Questa è la contraddizione aperta da entrambi le parti. Su questo si è determinata la forma stessa della ristrutturazione, la sua impossibilità a darsi come progetto complessivo. La forma del piano, a fronte della continuità dei processi di organizzazione proletaria, non può più essere legata alla dimensione di programma, ma alla compattezza e alla intensità delle mediazioni politiche e di comando sociale, che il sistema politico è in grado di mettere in campo. Non a caso, il piano torna a darsi, nell’edizione Pandolfi, direttamente correlato alla costruzione (e alla coercizione attraverso lo SME) di una strumentazione politica capace di reggere l’omogeneità sulle direttrici politiche generali. La continuità dei processi di accumulo politico di soggettività proletaria ha portato dentro il marciare della ristrutturazione a possibilità altissime di ricomposizione adeguate alla nuova dimensione del lavoro sociale, al dilatarsi della fabbrica nella società: emerge tendenzialmente una figura produttiva complessiva: l’operaio sociale. Ma già qui occorre intendersi: non è questa la composizione di classe data, ma il rapporto che si è creato fra estensione e socializzazione dei processi di valorizzazione e continuità dell’organizzazione proletaria. L’unità del lavoro sociale, come forma generale della produttività, può entrare nel processo di valorizzazione solo distorta, spezzata, disgregata nelle forme di dominio. Allora, possiamo chiamare “operaio sociale” la potenzialità di ricomposizione e di unificazione politica che l’emergere di queste nuove figure della composizione di classe porta con sé nella dimensione raggiunta dalla cooperazione sociale. Di per sé, non è operaio sociale né il lavoro precario o part-time, né i segmenti intellettuali o l’intellettualizzazione del lavoro operaio; né è più operaio sociale il lavoratore dei servizi di quanto lo sia l’operaio di linea della grande fabbrica tradizionale. Operaio sociale non è uno strato dell’attuale composizione di classe, ma la dimensione sociale raggiunta dai rapporti di produzione e riproduzione rovesciata e ricomposta dal punto di vista della soggettività rivoluzionaria, proprio perché oggi l’unità di tutto il lavoro salariato, di tutto il lavoro produttivo sociale pone materialmente il problema di una riorganizzazione sociale adeguata alla forza produttiva del lavoro associato. Quando lo Stato diventa gestione unitaria e diretta del rapporto di produzione e di riproduzione, e il processo di valorizzazione si misura direttamente con la produttività del lavoro sociale associato, allora la capacità di dispiegare totalmente questa nuova figura complessiva, produttiva e di massa, diventa tutt’una col progetto comunista; ricomposizione e autovalorizzazione proletaria si sovrappongono e si intrecciano dialetticamente. Operaio sociale è l’ipoteca che la lotta operaia e proletaria ha posto dentro la socializzazione dei processi di valorizzazione e dentro la riarticolazione del comando capitalistico; è la possibilità materiale, fondata sui processi di lotta, di rovesciare in unità politica la ricchezza della nuova dimensione cooperativa del lavoro sociale che è oggi contesa fra autovalorizzazione e valorizzazione capitalistica. Questo è un punto di fondo che ci separa nettamente da altri compagni: per noi “l’operaio sociale” è prima di tutto un progetto politico, un rapporto inscindibile fra ricchezza e potenzialità di questa composizione di classe e soggettività politica. Non si dà, oggi, possibilità, dal punto di vista comunista, di atteggiamenti contemplativi della ricchezza di questa composizione di classe. Se è ancora oggi vero che il concetto di organizzazione e di partito deve fondarsi su quello di composizione di classe, lo ritroviamo in una dialettica infinitamente più ravvicinata e più intrecciata che nel passato, e non solo quello di Lenin, ai processi di ricomposizione di classe. Se non si dà tendenza senza soggettività che l’interpreti, oggi, brutalmente, non si dà progetto politico dell’operaio sociale senza organizzazione di partito. E proprio perché oggi si dà tutto il contrario che il problema del cappello facile, della notte nera che unifichi tutto semplicemente nell’unità politica della soggettività esistente. Perché, invece, solo un processo di organizzazione dispiegato può riuscire a tenere uniti un percorso ricchissimo di anticipazione e rovesciamento delle tendenze interne agli strati di classe e costante rottura politica delle separatezze, fondate materialmente sulle forme del dominio e della ristrutturazione capitalistica. Su questo terreno, invece, vediamo aprirsi una forbice drammatica tra potenzialità e difficoltà della fase, da un lato, e adeguatezza delle forze soggettive e organizzative, dall’altra. Il radicamento delle forme organizzative non riesce a trovare una scala sufficiente a dar si come progetto di ricomposizione e come contro-potere dispiegato. Questa forbice si sta già facendo sentire pesantemente rispetto a momenti dinamici e nodali per un riassetto organizzato della composizione politica di classe. Un esempio ne abbiamo avuto nella lotta degli ospedalieri in cui, nell’emergenza impetuosa delle potenzialità di lotta e di rottura del controllo riformista, che l’operaizzazione di altri strati sociali comporta, sono emersi drammaticamente i nodi irrisolti. Proprio nella lotta che ha visto il massimo di esautoramento della legittimità operaia alla mediazione sindacale, si è avuto il massimo di riaffermazione statale della sua forma e forza di mediazione politica. E la crisi della legittimità sociale non ha avuto la forza di trovare i passaggi per trasformarsi in crisi della legittimità politica. Per questo occorreva la capacità politica di indicare e costruire i passaggi organizzativi necessari a farle ripercorrere la riorganizzazione di tutto il pubblico impiego, da un lato, e la proiettassero socialmente contro il taglio della spesa pubblica, dall’altra. In effetti, le forze organizzate dell’autonomia sono riuscite a essere interne, a dimostrare ancora una volta il carattere interno alla nuova dimensione della composizione di classe, ma paurosamente insufficienti a sostenere organizzativamente la dimensione progettuale; là dove oggi si colloca politicamente l’esautoramento del governo sociale riformista. Ma la forbice diventa drammatica soprattutto nei tempi dello scontro di classe, nel confronto con l’iniziativa dell’avversario – che va acquistando respiro e organicità. Stiamo entrando in una fase dinamica rispetto ai rapporti di forza. Sempre più difficile diventa da entrambe le parti la riproduzione statica dei rapporti di forza; dal punto di vista capitalistico, nella continua estensione dell’insubordinazione che la socializzazione del processo di valorizzazione porta con sé a partire dalla continuità politica che s’instaura; dal punto di vista operaio nel garantire una compattezza di resistenza politica, a fronte di una continua ridefinizione del corpo di classe, senza trasformarla in un processo di ricomposizione politica di tutto il lavoro sociale. Continua a crescere da parte capitalistica questa consapevolezza. Se non si vuole leggere il piano Pandolfi solo come edizione aggiornata del libro dei sogni del capitale, va colto lo sforzo di costruzione di una volontà politica adeguata ad organizzare la strumentazione necessaria alla disciplina, nella valorizzazione capitalistica, della nuova dimensione del lavoro sociale. Il carattere politico della ristrutturazione discontinuo ha come prerequisito essenziale una strumentazione di comando e controllo politico adeguato. Ancora una volta, per il capitale collettivo, ristrutturazione del sistema dei rapporti di produzione e ristrutturazione-stabilizzazione del regime politico si intrecciano e si condizionano a vicenda. Entrambi i lati si danno come contraddittori e non lineari, a partire dal segno che portano dell’iniziativa operaia; entrambi hanno però, oggi, carattere dinamico. Il segno operaio spiega l’intreccio tra stabilizzazione della forma istituzionale del governo sociale e instabilità politica del governo. Leggere uno solo di questi aspetti vorrebbe dire perdere il carattere dinamico della fase attuale dello scontro, cadere o nell’oggettivismo che vede ormai affidata ai rapporti di capitale la trasformazione della composizione di classe, o nell’avventurismo di chi vede nella macchina statale l’unico ostacolo alla maturità dei processi di liberazione. È indubbio che proprio dentro la crisi dell’assetto politico, della sua adeguatezza ai rapporti di produzione e allo scontro di classe, il livello istituzionale, la forma-Stato ha compiuto in Italia un enorme processo di riorganizzazione. L’asse portante è stata la trasformazione del patto sociale, da forma politica, incontro e mediazione di volontà politiche delegate, a forma istituzionale, con un ampliamento e una socializzazione delle forme di organizzazione e di trasmissione del comando statale, adeguate alla gestione diretta dell’accumulazione e al comando sulla dimensione raggiunta dalle forze produttive. Lo Stato ritrova la sua legittimità nell’esercizio di fatto del comando sociale, funzione della capacità di disarticolazione e stratificazione del lavoro sociale. Partito e sindacato ribaltano la vecchia formula della società liberale, invertono la direzione del. processo di trasmissione della volontà, si fanno Stato. Questo processo di istituzionalizzazione ha permesso di portare a compimento la riorganizzazione del comando statale, di svuotare definitivamente la forma ormai vuota del Parlamento, come momento di formazione e di mediazione di volontà politiche. Hanno ragione i parlamentari a protestare contro i moralismi dell’assenteismo parlamentare, il loro lavoro si svolge realmente altrove, le commissioni diventano molto di più: gli organismi reali di istituzionalizzazione del patto sociale e la forma adeguata di continuità del comando politico. Rimangono i radicali e i neo-parlamentari a invocare l’assise che legittimi il loro ruolo! Al Parlamento rimane però una funzione: quella di registrare periodicamente e puntualmente la forma della crisi politica, lo scontro di classe come termine reale di confronto della riorganizzazione istituzionale. Ed è il punto nodale dove l’istituzionalizzazione deve misurare la sua funzionalità al governo dello scontro di classe. Questa contraddizione lega le due facce del marciare del processo di istituzionalizzazione e di riorganizzazione del comando statale e della precarietà dichiarata dell’assetto politico. La contraddizione si scarica oggi centralmente nel PCI. La DC, sfruttando anche la progressiva integrazione internazionale, ha portato fino in fondo la sua identificazione con gli apparati, la riorganizzazione statale, sostituendo la centralità statale alla centralità politica. Si è potuta permettere un aumento della flessibilità politica, garantita dalla rigidità statale e istituzionale, scaricando così l’insieme delle contraddizioni sul PCI. L’ultima crisi è il prodotto di questa contraddizione fondamentale. Il PCI è entrato ormai irreversibilmente nello Stato, ma non è riuscito a entrare nel governo; questo perché il governo sociale, prodotto dall’istituzionalizzazione del partito e del sindacato, non è riuscito ancora a superare il suo carattere formale (nel senso di istituzionale e non di vuoto!), a diventare rottura della continuità dei processi di organizzazione proletaria, a rompere quindi la continuità nella trasformazione di classe. Questo è il dato positivo; contrarlo a qualsiasi mito di recuperabilità del PCI, che sconta invece il carattere irreversibile del patto istituzionale. Anche se questo, tatticamente, nel breve periodo, può innalzare un polverone, sulla nuova posizione del PCI, di ostacolo al processo di logoramento di massa dell’egemonia revisionista sugli strati di classe che si è iniziato. L’uscita del PCI dalla maggioranza è il tentativo di rivitalizzare formalmente i termini della contraddizione: tenere insieme opposizione e governo. “Stare all’opposizione con una cultura di governo”, come indicano gli illuminati del PCI, cioè rivitalizzare nel proprio apparato una capacità di mediazione e di governo degli strati sociali che dia per acquisito il definitivo inserimento nell’assetto istituzionale. Ricostruire una forza alla propria capacità di governo. L’opposizione diventa sempre più formale, il governo sempre più sostanziale. Ancor più in questo passaggio attuale il compromesso storico si dà come miseria strategica e forza tattica; miseria strategica perché organicamente estraneo e nemico alle possibilità della nuova composizione di classe; forza tattica perché interprete reale del carattere politico della ristrutturazione di capitale (anche se estraneo ad una sua capacità di guida oltre che di rovesciamento). È molto più la collocazione oggettiva di questo ruolo, oltre al furore ideologico, a spingere continuamente il carattere forcaiolo del riformismo attuale. Questa divaricazione è un varco enorme a processi di massa, di rottura della mediazione, ma nella forma della possibilità, non della spontaneità; a patto di saper legare in modo organizzato e dispiegato la forza attuale della mediazione alla sua tendenziale debolezza, cogliendo i passaggi che trasformano un sistema di bisogni in un sistema di lotte.

Seconda parte: linea politica e prassi di un progetto comunista

SOGGETTO COLLETTIVO COMUNISTA E SUA MILIZIA
Una grande confusione ed un’impressionante faciloneria sembrano caratterizzare, nella fase attuale, il dibattito politico tra i compagni comunisti con gravi e conseguenti ripercussioni nella dinamica interna alle sezioni comuniste organizzate dell’ AUTONOMIA OPERAIA in merito alla questione della militanza comunista e sulle caratteristiche moderne della soggettività combattente.
La faccenda ci preoccupa perché le soluzioni politico-organizzative date al problema in una direzione o in un’altra marcano poi in maniera essenziale lo sviluppo della linea politica nei processi “per la organizzazione” del nostro paese.
Quindi, giocoforza, occorre partire da lontano.
È indubbio che la complessità dei rapporti sociali di classe in un paese “a tardo capitalismo”, accompagnata dall’enorme mostruosità dell’apparato burocratico-militare della legalità del comando dello Stato Capitalistico Multinazionale e dall’estensione sociale articolata e radicata del sistema politico delle istituzioni sindacato-partiti in funzione di controllo del consenso proletario al dominio borghese e alla dittatura capitalistica sulla società civile, comporti, questa complessità, una risposta a sua volta articolata e complessa.
La costruzione, quindi, del soggetto comunista o si fonda nella risoluzione, di volta in volta parziale nella pratica, di tutti i problemi sovraesposti o cresce viceversa solamente su alcune loro parti.
Il nodo da sciogliere è questo.
A noi comunisti interessa ragionare su due posizioni presenti tra i compagni.
In primo luogo con quella espressa dai compagni comunisti del “partito armato”.
A questi compagni siamo vicini per la comune convinzione che l’elemento indispensabile per la fuoriuscita dall’opportunismo e da linee politiche revisioniste, per decenni se non da sempre presenti e dominanti nel movimento operaio e proletario, come per un’ipotesi possibile di potere operaio rivoluzionario, sta questo elemento, nella scelta di campo della lotta armata, IN QUANTO DISCRIMINANTE DI CLASSE PER QUALSIASI DISCORSO O PROGETTO DI RIVOLUZIONE COMUNISTA E NELL’OCCIDENTE CAPITALISTICO.
Su questa acquisizione storica, teorica e pratica, radicata al nostro interno strutturalmente in passaggi politico-organizzativi irreversibili, non si torna più indietro.
Il problema, allora, diventa su come la lotta armata comunista si sviluppa e si organizza.
Dare continuità ad un progetto di fuoco contro l’aspetto burocratico militare della dittatura capitalistica, con l’intelligenza ed il metodo necessario e particolari che ciò richiede, crediamo sia indispensabile per una prospettiva comunista di reale liberazione ma, c’è sempre un ma, se tutto questo è legato alla strategia e nelle tattiche di fase con altri aspetti del nostro discorso: dalla rottura del consenso al revisionismo, alle lotte operaie contro i rapporti di produzione e riproduzione capitalistici.
Come dirlo in altri termini?
Noi pensiamo, ad esempio, che il movimento operaio storico in quanto tale rappresenti un fortissimo ostacolo per qualsiasi possibilità di salto rivoluzionario nel nostro paese.
Cioè pensiamo che la sconfitta della “cricca berlingueriana” non potrà non essere effetto, per essere vittoria proletaria, della crisi politico-ideologica dell’interno mov. op. storico e di una sua auspicata rottura organizzativa, umana e di credibilità storica.
Affermare questo è una cosa, lavorare al contrario per un “ricambio” della sua direzione è un’altra, ereditando in tal modo l’intero patrimonio riformista, nell’impianto come nella qualità del soggetto proletario d’avanguardia.
Questo movimento istituzionalizzato è un prodotto pluridecennale delle lotte di classe tra proletariato e capitale, risultato materiale di una sintesi ininterrotta che ha visto e vede la classe incapace, da questa posizione, di partorire una linea politica di attacco all’iniziativa capitalistica, linea sempre difensiva.
Nella sua struttura materiale, nelle persone come nei rapporti organizzativi tra queste persone, tale movimento è nato e cresciuto in posizione subalterna al “mondo capitalistico”.
Cambiarlo, dunque, significa romperlo.
Bene, ma come?
Non certamente saltando, senza meditazione nella linea di combattimento, da un livello di critica ideologica, ad un livello di giustizia sommaria.
Anche se contro porci, spie, ruffiani del nemico di classe, la linea di combattimento non può ignorare che in questa fase, ora, questi sono particolari individui, legati a strutture politiche e sociali, capaci di gestire strati di maggioranza di classe e quindi, da subito, pronti ad innescare confusione, mistificazione ed isterismo anticomunista, con il pericolo di un capovolgimento all’interno della classe di un corretto misurarsi degli operai e dei proletari con la proposta e le ipotesi del progetto comunista di combattimento e di liberazione contro e dallo sfruttamento capitalistico.
Ad un programma di organizzazione per individuare e smascherare i revisionisti compromessi, con una adeguata risposta militante di fase, occorre parallelamente praticare con priorità la critica politica, pubblica, sul terreno delle contraddizioni di classe e sullo stato reale dei rapporti di forza tra capitale e proletariato in fabbrica, nei settori della produzione sociale, nei territori.
Obbligare il revisionismo a confrontarsi sul terreno che la tua battaglia vuole praticare: questo è il compito principale, oggi, per le avanguardie comuniste.
Ma per poter fare tutto questo c’è bisogno di una leva di rivoluzionari le cui caratteristiche generali non sono riconducibili unicamente alla “dimensione clandestina”.
Cioè ad un’impostazione della militanza utile allo sviluppo di ben determinati compiti di un’organizzazione comunista matura, ancora da conquistare, ma monca se non è immersa in un’articolazione organizzativa, molto, molto, più vasta.
Dove non siamo più d’accordo è quando una possibile qualità dell’organizzazione viene ad assumere un carattere di universalità nelle soluzioni alle domande e alle necessità di organizzazione.

ROTTURA DELLA CONTRADDIZIONE CLANDESTINITÀ – NON CLANDESTINITÀ
La contraddizione clandestinità- non clandestinità ha assunto negli anni una funzione via via sempre meno positiva all’interno del movimento comunista.
Non si può negare che il concretizzarsi nei territori dell’occidente dei fuochi comunisti sia stato un qualcosa di fondamentale.
È stato utile ed intelligente dialettizzare all’interno del movimento comunista questa contraddizione, favorendo quei processi che riassumevano in parte le caratteristiche complessive del quadro comunista e dell’organizzazione che su di esso va costruita.
In un laboratorio eccezionale quale è la realtà reale e il movimento continuo delle cose e degli uomini, si sono sviluppate tutte le energie, le istituzioni, le ipotesi, le esperienze, dei comunisti, riconducibili alle fasi precedenti e con i lori limiti; in un periodo dove non era possibile disciplinare tutti i comunisti in un percorso omogeneo e unitario di progetto.
Il passaggio di centinaia di compagni alla lotta armata, nell’ideologia come nella prassi, ha arricchito questa ipotesi, ha insegnato a noi tutti il loro possibile sviluppo futuro dentro un processo più generale, con le eventuali ripercussioni negative e positive dentro la classe a partire da una loro applicazione.
Bene. Possiamo affermare che la fase della semplice sperimentazione è finita.
La lotta armata è una variabile proletaria, indipendentemente dalla logica dello sviluppo capitalistico.
Ne consegue che un ulteriore passo in avanti del lavoro dei comunisti, delle organizzazioni rivoluzionarie, è e sarà positivo se assumerà i compiti e le responsabilità proprie di una nuova fase, questa volta più complessa e matura.
In altre parole deve passare in secondo piano nella discussione, nelle scelte, nella pratica, l’accentuazione di spinte fuorvianti, portate alla differenziazione netta, totalizzante, su criteri parziali della militanza comunista.
Per essere più chiari sosteniamo che la propaganda della lotta clandestina e di quella non clandestina, con percorsi diversi dentro il movimento comunista, con tutte le articolazioni di discorso e di pratica, ha dato i suoi risultati voluti. Continuare con questa metodologia sarebbe il suicidio soprattutto se c’è il pericolo di una spaccatura in un corretto equilibrio dinamico, tra questi due poli della lotta armata nel nostro paese.
Questo perché “la forma non clandestina” deve fare i conti con tutto l’arco dei problemi: ristrutturazione capitalistica nella sfera della produzione e della riproduzione, tenuta e crescita del potere proletario organizzato, pratica del programma nelle forme più opportune di lotta e di organizzazione degli strati proletari.
E non è poco compagni!
Se poi “la forma clandestina” rompe questo corretto rapporto con i problemi sopra elencati, rapporto politico per eccellenza e accelera i propri processi, allora il pasticcio diventa il tragico errore con brutte prospettive.
Guarda caso, ci troviamo in una situazione del genere.
Non è possibile, siamo contrari, che la ricchezza e le dimensioni della lotta armata vengano ricondotte, marcate in modo univoco, dalle azioni di combattimento, che tutti noi conduciamo, contro gli aspetti burocratico-militari del nemico e alle qualità tecniche e politiche d’impianto che permettono di eseguirle.
Non si può ghettizzare i compagni e soprattutto le future potenzialità proletarie solamente su uno dei modi di condurre il combattimento. Il movimento bisogna arricchirlo della complessità dei problemi; occorre operare perché si armi e si rafforzi per sostenere ed accettare la sfida capitalistica su tutti i fronti dove si danno conflitti di classe.
Lo stile di lavoro dei comunisti è, da oggi in poi per quanto riguarda i criteri e le leggi per la costruzione del partito rivoluzionario, una questione interna ai comunisti e al loro lavoro.
Se alcuni compagni, invece, continueranno a spingere l’acceleratore per uno schieramento drastico, sui tempi lunghi, tra i compagni del movimento comunista, sui diversi modi di organizzare il combattimento, da parte nostra, verranno prese istanze sempre più nette, con una chiara lotta politica contro queste posizioni.
Perché, compagni, non possiamo permetterci il lusso, tutti noi, di mostrare semplicemente a migliaia di compagni che è possibile azzoppare e giustiziare un nemico di classe se nel contempo non lavoriamo, o lavoriamo contro, per costruire una diversa qualità complessiva del soggetto collettivo comunista; diversità, se permettete, da quello che è stato ed è il soggetto revisionista.
A noi non va bene una sintesi tra “sinistrismo democratico di base” interno al revisionismo e volume di fuoco come unico modello di militanza organizzata comunista.
La clandestinità ha certi percorsi e cittadinanza, per chi la pratica, ma non può essere giustificazione per l’opportunismo di altri e su altri terreni.

3) PARTITO – UNITÀ E SEPARATEZZA
CICLI DI LOTTA E MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO
A noi interessa, ripetendo, un soggetto comunista collettivo in grado di inchiodare l’avversario revisionista su tutte le contraddizioni della sua politica; un soggetto “riconoscibile” politicamente dai proletari in lotta, senza parametri o travestimenti che vadano a confondere la sostanza del tuo discorso (travestimenti non confusi certamente con le necessarie norme di sicurezza della struttura interna dell’organizzazione, o con altro.)
In questo passaggio di discorso sta un’altra questione che va affrontata con quei compagni che della parola d’ordine dell’organizzazione, del partito, danno un’interpretazione, secondo noi, poco chiara e nella sostanza scorretta.
Infatti la nostra polemica con i compagni del “partito armato” non mette in secondo piano, o addirittura fa sparire come se lo augurano i corvi vicini e lontani, il problema della costruzione di un processo nazionale di centralizzazione dei comunisti; anzi, semmai lo riafferma come prioritario e indispensabile.
Converrà, quindi, soffermarci su alcune “categorie” di discorso, mai ben chiarite ed analizzate all’interno del Movimento Comunista e dell’autonomia operaia organizzata, in particolare; anche se fiumi di inchiostro, con dotte e cattedratiche analisi, hanno riempito la stampa comunista.
Quando parliamo di soggetto comunista collettivo intendiamo ben precisi comportamenti, ambiti, forme, metodo e compiti.
Nel senso che non solo discriminiamo tra i rivoluzionari ma anche e innanzitutto tra questi e i movimenti spontanei di massa che si danno periodicamente, per cicli, su ben determinati rapporti di forza tra le classi.
Andiamo per ordine.
LENIN sostiene – “Quali sono le esigenze essenziali che ogni marxista deve porsi nell’analisi delle forme di lotta? In primo luogo, il Marxismo differisce da tutte le forme primitive di Socialismo, in ciò che esso non lega il movimento a una determinata forma di lotta.
Esso riconosce le forme di lotta più differenti, e non le “inventa”, ma non fa che generalizzarle, organizzarle e rendere coscienti quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie, che sorgono spontaneamente nel corso del movimento.
Irriducibilmente ostile ad ogni formula tratta, ad ogni specie di ricette dottrinarie, il Marxismo richiede un atteggiamento pieno di attenzione verso la lotta di massa che si sta svolgendo e che genera sempre nuovi e diversi metodi di difensiva e offensiva, in relazione con lo sviluppo del movimento col crescere della consapevolezza delle masse, con l’aggravamento delle crisi economiche e politiche.
Perciò il Marxismo non respinge in modo assoluto nessuna forma di lotta. In nessun caso il Marxismo si limita ad impiegare le forme di lotta possibili ed esistenti solo in un dato momento, riconoscendo che, col mutamento di una data congiuntura sociale, sono inevitabili nuove forme di lotta sconosciute ai militanti del periodo dato.
Sotto questo rapporto il Marxismo impara, se ci si può cosi esprimere, dalla scuola pratica delle masse, non avendo affatto pretesa di insegnare alle masse forme di lotta escogitate da dei “fabbricanti di sistemi” nei loro gabinetti..”
Siamo d’accordo.
I movimenti spontanei di massa devono essere diretti, fin dove è possibile, sui terreni di rottura, della legalità borghese e dei lacci della pace sociale ma, da parte comunista, senza pericolose illusioni sulla loro possibilità, ogni volta, di tenuta e di continuità di discorso e di pratica.
Qui non si tratta di avere o non avere fiducia nelle masse e nella loro capacità di dire l’ultima parola nella risoluzione dei conflitti di classe in una fase storica – nel nostro caso poi il dubbio interrogativo sarebbe mal riposto.
Semplicemente è ora di finirla col mistificare la realtà di classe in tutta la sua estensione con la realtà del Movimento Comunista Organizzato e della soggettività rivoluzionaria in particolare.
Quante volte parlando di organizzazione non si capisce di quale “tipo” di organizzazione si tratti, di chi deve essere e è organizzato: l’organizzazione dell’operaio sociale non è proprio la stessa cosa dell’organizzazione dei comunisti, e cosi via.
Si tratta di dire e chiamare ogni cosa con il proprio nome, con il massimo di chiarezza possibile tra i rivoluzionari e dentro il M.C.O., che è un’altra cosa.
E se parliamo di M.C.O. bisogna distinguere tra soggetto collettivo nella sua interezza e funzioni e ambiti di direzione del quadro comunista, che a sua volta è un’altra cosa.
È acquisito definitivamente, tra di noi, dall’esperienza, e non solo dalla teoria, che c’è separatezza, ci deve essere separatezza, tra soggetto comunista e movimenti spontanei. Separatezza non nel senso che l’uno sta sulla luna e gli altri sulla terra ma nella capacità di organizzare con continuità l’iniziativa proletaria dentro i sommovimenti spontanei, con l’autonomia della propria critica e di battaglia politica al loro interno.
Non è possibile legare “le fortune e le sorti” della soggettività comunista alle esplosioni di lotta e alle loro ricadute senza determinare soglie politiche e organizzative in grado di sedimentare e raccogliere le potenzialità proletarie di rottura che queste esplosioni liberano dalle pastoie del revisionismo e dalle catene dell’organizzazione capitalistica.
Esaltare, giustamente, la spontaneità senza vederne la negatività è un grosso errore politico e di impostazione del discorso.
Questa continuità dentro la classe, all’interno delle sezioni di proletariato, non può che essere garantita che dalle strutture operaie e proletarie, cioè dal M.C.O.
Una rete proletaria, articolata, e ricca nella sua complessità, omogenea sul programma, sulla metodologia per la sua realizzazione; una soglia politica organizzata, quindi, per poter articolare il programma, come cuneo da lanciare continuamente contro il muro di gomma revisionista; punto di riferimento di classe, per la classe, per l’esercizio del potere proletario in quanto rottura ed illegalità dei comportamenti proletari dentro i territori.
Il M.C.O. è qualcosa di radicalmente diverso, nell’impianto come nella capacità di offesa, dai movimenti ciclici di massa. E questo per noi è una netta discriminazione di linea politica.
Il M.C.O. si dà al proprio interno quegli strumenti e quello stile di lavoro che gli consentono di costruire un ponte tra le diverse fasi dello scontro di classe.
Quindi l’M.C.O. lavora con metodo, in ben precisi ambiti, dentro “forme” organizzate concrete, con compiti precisi.
Lo si può riassumere in:
a) articolazione del programma comunista a livello territoriale;
b) sviluppo dell’illegalità di massa e pratica del contro-potere proletario;
c) strutture militanti verificate continuamente sulla capacità di costruire programma e sull’uso della forza proletaria, necessaria per concretizzare le parole d’ordine.
Certo, questo è il piano di lavoro ma non bastano questi passaggi per garantirne la realizzazione.
Infatti non distinguiamo tra i rivoluzionari per compiti e per funzioni; cioè pensiamo che se di “eguaglianza” tra comunisti si deve parlare – i compagni di strada sono un’altra cosa – questa va intesa nel senso di una comune responsabilità politica, di una eguale verifica pratica della militanza di ciascun compagno, di una eguale consapevolezza della necessità di uno stile di lavoro disciplinato.
Non certamente, però, in un appiattimento formale ed in una mistificazione ideologica, nel concetto di “Uguaglianza”, propri solo storicamente, nella loro massima esemplificazione, del capitalismo e della legalità e morale borghese.
In definitiva, fuori dai denti, i compiti e le responsabilità funzionali al progetto tra i compagni non sono appunto, eguali.
Parallelamente all’impostazione politica e alla costruzione concreta delle organizzazioni proletarie del partito noi affermiamo il concetto di materialità del partito in quanto struttura centrale, di direzione, di sintesi politica ed organizzativa, di cassaforte della intelligenza collettiva comunista e della ricchezza del programma proletario.
Due soglie, quindi, l’M.C.O. e la direzione di partito strettamente unite ed intersecate nell’oggettività dei percorsi di lotta e di combattimento, nella militanza dei compagni, ma anche con tempi e metodologie diverse, autonome tra loro.
Direzione dell’M.C.O. non “imposta dal cielo o dall’esterno”, come amano dire amleticamente alcuni compagni, ma conquistata, provata, riconosciuta, nei fatti, nelle scadenze, dell’impegno, dell’indicazione di nuove possibilità, di nuove ipotesi.
Ma, ancora, “funzione di direzione” imposta con la più “brutale” e schietta franchezza e pesantezza da parte di noi comunisti all’interno del movimento.
È indispensabile che ogni compagno nelle varie tappe del suo crescere politico-ideologico, garantisca il massimo possibile di unità e di disciplina all’interno di questo “discorso praticato”.
Solo tale sicurezza collettiva, da tutti data e pretesa, può garantire, secondo noi, la continuità e lo sviluppo del movimento organizzato dentro le lotte, abbassando al minimo le possibilità per una sua disgregazione organizzativa e per una sua sconfitta politica di fronte all’attacco di un nemico sempre più organizzato ed articolato, di un Capitalismo sempre più internazionalista a modo suo, di uno Stato Multinazionale centralizzato.
La posta in gioco, compagni, è la possibilità della vittoria, dello sfondamento, nell’occidente capitalistico della rivoluzione proletaria, per il comunismo.
Quindi che ognuno stia al proprio posto.
Cadono, invecchiano, come accennavamo sopra, le vecchie polemiche del tipo “il partito di concezione leninista è fuori dalla classe, il problema è starne dentro”.
La contraddizione dentro-fuori, interno-esterno, deve essere affrontata saldamente nel progetto comunista e risolta di volta in volta.
Occorre sparare, politicamente si intende, contro chi si veste ideologicamente con una vecchia, di comodo, posizione che riflette in questo caso, nella sua imposizione, problematiche del passato, degli albori del movimento attuale.
Posizione che, molte volte, serve a coprire e a dare “dignità” politica, all’opportunismo, all’impotenza, all’immobilismo, ad un ruolo di freno dentro le lotte e dentro il movimento, con caratteri reazionari nella sostanza.
Tutto questo non può che far felice il nemico di classe per l’aiuto insperato – senza un suo “intervento diretto” – nel neutralizzare e rendere “innocue” possibili potenzialità proletarie di rottura e di lotta.
Perché è ora di finirla, compagni!
A chi blatera che la nostra politica concepisce un movimento “statico” e “non ricco di dibattito”, che intoppiamo e non capiamo le nuove possibilità di allargamento del movimento, rispondiamo che:
a) la presunzione e l’individualismo idiota sono due gran brutte bestie da eliminare tra i compagni;
b) quando si parla di lotte e di movimento bisogna come minimo essere dentro le lotte e costruire la organizzazione del movimento;
c) bisogna smetterla di confondere la propria individualità con la realtà reale delle cose e delle classi e, umilmente e modestamente, riconoscere e capire che le lotte e il movimento si sviluppano per il lavoro collettivo di migliaia di compagni e in condizioni oggettive di classe.
Decidetevi, compagni.
Riconoscetevi in qualcosa, perché non può durare a lungo il fatto che non vi va bene niente (scaltrezza?); e con ciò non militare in alcuna struttura del M.C.O. ma, come diceva Lenin, uomo perspicace, fabbricare progetti, da capipopolo quali voi siete, dai vostri gabinetti.
Scrivevamo: centralizzazione nella pluralità dell’autonomia proletaria; lo ribadiamo.
Ma “non!”, ad una pluralità intesa come orchestra di voci “solitarie”, inconsistenti, marce di opportunismo.
E pluralità, per rispondere a tutte le stupide obbiezioni e false interpretazioni del nostro discorso, dei soggetti in lotta, dell’illegalità politica organizzata di stati proletari, dentro comportamenti maggioritari.

ZONA OMOGENEA E MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO (M.C.O.)
Ripetere e ricordare certi concetti politici è sempre utile; in questo caso quello di territorio e di zona omogenea.
La “dimensione territoriale”, sia nelle analisi, che nelle intenzioni di pratica politica, sembra essere diventata parte integrante di gran parte degli spezzoni dell’Autonomia Operaia a livello nazionale. Vogliamo dire che passi in avanti sono stati fatti da quando iniziammo alcuni anni fa la “lunga marcia” attraverso i territori del Veneto, convinti, come lo siamo tutt’ora, che solo in questa direzione può svilupparsi il progetto comunista. Ma, territorio e zone omogenee, sono acquisizioni teoriche e pratiche dinamiche e, quindi, occorre, in questa fase non limitarsi a reintrodurre in senso generale queste categorie di analisi del reale, ma chiarire e articolarne la sostanza e l’evoluzione.
Noi diciamo che con zone omogenee, l’intelligenza collettiva comunista opera una forzatura di interpretazione dello scontro di classe; forzatura indispensabile per “semplificare” l’enorme complessità di intrecci e di relazioni che tessono il territorio capitalistico.
Lo scontro di classe, conflitti tra proletariato e capitale si danno, non solo dentro a luoghi ben visibili della produzione (fabbrica, ospedale, ecc.) ma anche nei territori dove produzione e riproduzione dei rapporti capitalistici allargati tendono a confondere, ad annullare i confini tra quello che è la fabbrica tradizionale e quello che sta fuori dai cancelli e dai portoni.
Zone omogenee territoriali nelle città e fuori dalle città, nelle province: in questa scelta strategica, per noi insostituibile, sta il rifiuto e la lotta contro la divisione capitalistica del lavoro sociale e il ribaltamento, dal punto di vista proletario, della logica padronale che sovraintende alla organizzazione produttiva e politica dell’intera società civile; questa immensa fabbrica diffusa dove lo sfruttamento assume dimensioni generali e totalizzanti.
Zona omogenea in quanto omogeneità produttiva del ciclo, in quanto omogeneità di lotta e di storia di classe, in quanto omogeneità nella unità complessiva dei rapporti di riproduzione della classe, in quanto omogeneità per una possibilità reale di costruire percorsi politici e organizzativi di strati consistenti di proletariato.
Nella zona omogenea, non solo riscopri, lo abbiamo verificato, la altra dimensione della produzione (il lavoro decentrato, lavoro nero, un mare di unità produttive) ma anche sveli l’intera macchina sociale umana, ideologica, preposta al controllo e al mantenimento della stabilità e della pace tra le classi. Non insisteremo mai abbastanza su questo punto.
Quando si parla di Stato capitalistico e di sue articolazioni, bisogna stabilirne i reali contorni e le esatte dimensioni.
Nei quartieri, nei centri storici, nelle province, nelle zone omogenee che attraversano tutta questa divisione capitalistica del territorio, la pratica dell’obbiettivo, del programma proletario, fa i conti, da subito, pena la sconfitta e l’impotenza, con parti dell’apparato capitalistico, molto spesso “visibili”, infiltrate in tutti i momenti dell’organizzazione sociale.
Il territorio, quindi, inteso in tal senso diventa terreno centrale delle lotte per l’imposizione del programma proletario.
Occorre portare nei settori i comportamenti dell’illegalità di massa, la pratica, l’indicazione generale di liberazione che si danno compiutamente a livello territoriale; infatti, unico tramite tra zone omogenee e loro settori produttivi, è lo sviluppo delle organizzazioni proletarie autonome. La sintesi politica e pratica di questa contraddizione è organizzativa; è il programma praticato e organizzato.
Non esiste altra possibilità. I comportamenti spontanei di massa, le impennate di classe delle sezioni di proletariato possono dispiegarsi in tutta la loro forza solo attraverso passaggi e soglie organizzative. Questa articolazione materiale del programma proletario, cioè l’M.C.O. a livello territoriale, per noi, in base al percorso “originale” fatto finora, significa in generale:

1) GRUPPI SOCIALI TERRITORIALI
L’esperienza e la pratica in questi anni hanno arricchito e chiarito il ruolo di queste strutture proletarie; rappresentano per noi l’ossatura centrale dell’organizzazione territoriale di base, sono la concentrazione, nella zona omogenea, dell’esperienza di lotta, dell’esemplificazione del programma proletario.
All’interno della zona si muovono su due livelli:
a) pratica delle tematiche comuniste, tentativo continuo di innescare processi di lotta proletaria tra le maglie del meccanismo sociale di comando di controllo, veicolo politico di ricomposizione proletaria, strumento di combattimento di massa in mano ai proletari in lotta;
b) come strutture militanti di crescita politica e organizzativa per i compagni della zona; quindi ambito entro il quale la potenzialità proletaria emergente dalle lotte, viene ricompensata e disciplinata nella pratica dell’illegalità di massa, nella generalizzazione di nuove forme di lotta, nell’imposizione del programma attraverso lo sviluppo delle ronde militanti dei servizi d’ordine, per l’uso intelligente della forza.
Certo le differenze tra zona e zona, sono molte volte notevoli, per lo sviluppo delle contraddizioni di classe e per continuità possibile nella pratica di lotta; ma queste “peculiarità” riunificano tutti i G.S. dentro un’eguale metodologia di lavoro e di impostazione del programma.

COMITATI DI LOTTA
COORDINAMENTI OPERAI E PROLETARI
(di prossima stesura)

COMITATI CITTADINI PER L’AUTONOMIA PROLETARIA
COMITATI TERRITORIALI
Il territorio, visto come terreno di ricomposizione comunista degli strati proletari, è un’insieme di zone omogenee, di settori produttivi di classe.
La questione, allora, come accennavamo sopra, è la sua riunificazione politica complessiva dentro il progetto politico, nella pratica del programma. Noi diamo una risposta a questa ulteriore e più complessa articolazione individuando nei territori cittadini e in quelli di provincia due caratteristiche proprie e quindi con tempi e ritmi diversi per la risoluzione del problema.
Comitato Cittadino per L’Autonomia Proletaria è la proposta di organizzazione a partire dai G.S. cittadini, dai Comitati di Lotta, dai Coordinamenti (es. Pubblico Impiego) ecc., rivolta a tutta la molteplicità delle esperienze di lotta e della soggettività proletaria nei settori di classe. Deve diventare la struttura politica pubblica centrale a livello cittadino, capace di raccogliere, e farne la sintesi, di tutte le indicazioni, le particolarità, le “settorialità”, dell’antagonismo proletario, della militanza comunista.
Punto centrale, quindi, in grado di scadenzare e omogeneizzare l’articolazione del programma, conquistandosi la responsabilità di “momento organizzativo e di direzione territoriale” per tutti i proletari in lotta. Rappresentano, in questa fase, il passaggio più importante e più difficile del progetto comunista, la cui realizzazione proietta enormi possibilità di sviluppo per l’Autonomia Operaia e Proletaria.
Comitato territoriale: è la riunificazione del programma, è direzione di tutte le avanguardie proletarie sparse nelle zone della provincia, quindi, centralizzazione dei G.S. e delle avanguardie operaie, come massimo sforzo di questa fase, di rappresentare politicamente e con il metodo delle scadenze l’intera complessità di un territorio.
Amplificare questa volontà di ripercorrere l’intero territorio attraverso la pratica delle ronde, significa far diventare il Com. Ter. cassa di risonanza delle lotte, dell’intelligenza collettiva accumulata dai proletari zona per zona, fabbrica per fabbrica ecc.

DIFFUSIONE E CONCENTRAZIONE DEI FUOCHI

Campagna politica di organizzazione.
Da tutto questo, ne discende, che, per noi, lo sviluppo del combattimento e il “metodo generale” per praticare il programma proletario sono nello tempo distinti e intersecati. Abbiamo detto che è essenziale, per poter concretizzare le ipotesi politiche comuniste di liberazione dallo sfruttamento capitalistico dell’autonomia operaia, il profondo e stabile radicamento nei territori della soggettività comunista collettiva.
Da questo punto di vista, noi diciamo che il territorio “è amico” per il progetto comunista. Cioè che nel territorio l’organizzazione comunista trova la forza, le indicazioni e il nutrimento per poter reggere l’urto dell’iniziativa capitalistica, per lanciare l’attacco, con successo e con tempi e scelte di campo propri e autonomi, al piano di ristrutturazione produttiva e sociale e alla macchina umana organizzativa preposta a realizzarlo. La lotta armata comunista abbraccia l’intera complessità nel programma; ciò significa che viene interpretata e praticata dalla soggettività comunista a partire da ambiti e da compiti di lavoro ben precisi: dal Gruppo Sociale, al M.C.O. nel suo insieme, al quadro di direzione (partito). Ecco perché noi abbiamo parlato di punto medio dell’iniziativa proletaria e del suo aspetto armato. Non in quanto medietà nella qualità e nell’estensione del campo di azione della L.A.C., quanto, nella sintesi dell’articolazione del combattimento (complessa e ricca), quale noi la intendiamo. Le azioni di Combattimento, non sono né basse né alte in sé, ma vengono commisurate sulla tabella della crescita generale dell’organizzazione a tutti i livelli e sui possibili salti in avanti dell’iniziativa militante. Perché di salti politico organizzativi noi parliamo e non, come qualcuno potrebbe insinuare, di una “visione” gradualistica, dello scontro di classe e degli sviluppi del progetto comunista. Se il territorio per noi non è solo terreno di ricomposizione sociale del proletariato, ma anche teatro di guerra civile dispiegata, ciò non significa, di conseguenza, che la soggettività comunista deve darsi quegli strumenti, quello stile di lavoro, che rendano possibile questa ipotesi.
Se l’attacco al nemico di classe viene portato unicamente contro l’aspetto militare burocratico della sua struttura (che ricordiamo è anche sociale, produttiva, ideologica) allora, si privilegiano criteri di militanza che esaltano certe caratteristiche qualitative ben delimitate e “ristrette” di un’organizzazione comunista; se, al contrario, si vuole sferrare l’attacco su più fronti, su tutti i terreni principali della lotta di classe, allora si svilupperà una molteplicità di condizioni quantitative e qualitative che fanno dell’organizzazione, un processo difficile, ma carico di possibilità per sedimentare sia la pratica del programma proletario basato sulla pratica illegale di massa sia del contropotere operaio e proletario organizzato.
Quindi, diffusione di fuochi, dentro la articolazione del programma e delle organizzazioni proletarie; loro centralizzazione dentro campagne organizzative: portare l’attacco su più punti, nodi, del comando e del controllo padronale con continuità e metodo è una delle condizioni storiche indispensabili da realizzare, a livello regionale e nazionale per rotture rivoluzionarie generali.
Il discorso sulla “campagna d’organizzazione” introduce un altro aspetto della nostra metodologia di lavoro: la campagna politica.
Muoversi per campagne politiche!
La “campagna d’organizzazione” ne rappresenta solo un aspetto.
Con quest’ultima parola d’ordine intendiamo la capacità di far muovere l’intera ricchezza dell’M.C.O., come della sua direzione, su parole d’ordine politiche e organizzative pratiche che riassumano i punti centrali qualificanti del programma proletario. Certo, il lavoro dei comunisti non si esaurisce nelle campagne. Per lavorare per “campagne” in spazi e con tempi determinati, occorre, come si spiegava sopra, un enorme e continuo sforzo per creare le condizioni e le infrastrutture che ne permettono una reale materializzazione. Unire la capacità politica di praticare e propagandare il programma, cioè la sintesi degli interessi e dei bisogni di milioni di proletari, con la capacità di offesa della soggettività comunista collettiva è un’impresa ardua e difficile, ma è anche l’unica strada che i comunisti devono percorrere, che l’agire di partito deve praticare per non cadere o nell’opportunismo più impotente o in fughe militanti in avanti, prive di un corretto rapporto con la dinamica dei conflitti di classe.
È da questa impostazione che può essere spiegato quello che noi intendiamo per CONTROLLO TERRITORIALE. Capacità, cioè di utilizzare e far muovere l’intera articolazione organizzativa nelle zone, di movimento e organizzazione combattente, l’intera qualità soggettiva a tutti i livelli, in scadenze militanti, che, di volta in volta, attaccano, disarticolano, destabilizzano, certo sempre parzialmente, punti dell’intera struttura del comando con il possesso autonomo di agibilità e di capacità politico-militare nel territorio inteso come base di organizzazione.
(da completare)

TERZA PARTE:
SUL CHE FARE:
BOZZA DI IPOTESI
Ad un tentativo di complessiva valutazione della soggettività non opportunista, oggi in campo in Italia, si presenta un panorama di preoccupante irrequietezza e ritardo.
Anche i compagni che rivendicano una fideistica continuità del movimento del 77 hanno avuto amari motivi di riflessione esaminando, ad esempio, la qualità politica della risposta del movimento contro la ripresa terroristica dei fascisti a Roma. E si trattava di un terreno, quello dell’antifascismo militante appunto, su cui era legittimo aspettarsi una capacità spontanea e diffusa di pratica politica.
C’è stata solo l’occasione di mobilitazioni di massa, fondamentalmente pacifiche, prive di chiare discriminanti di pratica politica su un terreno che ben altra estensione ed intensità di iniziativa aveva espresso in scadenze simili.
Ci pare evidente che la miseria delle forze rivoluzionarie sia un dato incontrovertibile da cui partire e che non si possa mistificare ogni cosa con lo stato del movimento, qualsiasi sia il giudizio che se ne dà.
Perfino sul terreno dell’antifascismo militante si è verificato che una pratica di chiaro segno proletario, di esercizio di contropotere non si dà in una spontanea massificazione di comportamenti illegali, ma può costruirsi solamente dentro ad una corretta impostazione del rapporto territoriale (di zone politiche omogenee) tra direzione, radicamento e massificazione.
Si ripropone, cioè, il terreno della organizzazione come compito centrale e decisivo per le forze rivoluzionarie: il terreno della centralizzazione, del partito, non come astratta necessità e dimensione di propaganda tutta ideologica. Si tratta, invece, con realistica consapevolezza della situazione, di puntare ad una materializzazione effettiva di un lavoro politico che, ricco e articolato sui livelli necessari, miri in una reale maturità di percorso, a dialettizzare direzione, ricomposizione, massificazione e contropotere.
La centralizzazione delle forze soggettive dell’Autonomia Operaia Organizzata deve saper collocarsi su una dimensione di lavoro e di verifica di zona. Questa scelta, però della dimensione locale (né va schematicamente equivocato sulla definizione politica della regione come zona omogenea) non può essere vissuta con la riduttiva miopia localistica della semplice conservazione e della gestione di ciò che c’è, ma deve divenire occasione di dinamico confronto, di battaglia politica: spinta propulsiva contro due posizioni opposte ma ugualmente improduttive:
a) da un lato porre il problema del partito in termini teorici generali e tutti ideologici, come per certi aspetti è stata la recente esperienza di “ROSSO”, in cui la generalità della proposta (nella difficoltà di sciogliere il nodo direzione-contropotere nella situazione di polo metropolitano) non era controprovata dalla reale capacità di comando di pratica politica, necessaria a sorreggere percorsi in cui concreti passaggi e scadenze verificassero nella metodologia di tale concezione dell’organizzazione.
b) dall’altra parte, una concezione strumentale e non strategica della organizzazione che finisce per proporre la centralizzazione del movimento come unico ambito di iniziativa politica per gli stessi spezzoni organizzati: il sostanziale rifiuto da parte dei compagni di Via dei Volsci di misurarsi con la problematica teorica e pratica dell’organizzazione centralizzata sul livello nazionale.
Per questo, riprecisare, oggi, il problema della centralizzazione, come percorso (senza schematismi di carattere “geografico”) su base regionale è, contemporaneamente, adeguamento di una proposta alla povertà della qualità politica che le forze soggettive esprimono e, sopra tutto, un terreno di battaglia politica di una proposta in avanti che, nel venire meno della stessa dimensione del coordinamento delle formazioni dell’Aut. Op. Org., noi rilanciamo per riverificare, non dando assolutamente nulla per scontato, la disponibilità e il reale peso di tutte le forze in campo.
In questa fase, a partire dal poco che c’è, noi riproponiamo il terreno del partito con la metodologia, però, sopra enunciata e su questo, il settarismo della nostra proposta e della nostra pratica tende alla massima chiarezza, con tutti gli spezzoni organizzati in autonomia di dimensione nazionale o locale, rivendicando precise discriminanti teoriche e di metodo di lavoro politico.

Ciò detto, vogliamo anche chiarire che, per noi, non bastano certamente arditi esperimenti editoriali (Autonomia Possibile e altri) che si autopropongono come sintesi intelligente della potenzialità del cosiddetto “movimento del valore d’uso” e dell’esperienza capitalizzata del partito armato, per risolvere i problemi e le difficoltà della aggregazione, della centralizzazione del soggetto comunista organizzato. Sembra ovvio e poco simpatico, ma, a fronte di queste brillanti proiezioni dell’intelligenza astratta, bisogna ricordarlo: chi conta realmente, chi ha peso politico, va avanti; chi non conta, ma sa scrivere, ben che gli vada, può muoversi, rimanendovi, nell’ambito delle interessanti e sofisticate produzioni letterarie.
In questo orizzonte è progressivamente sfumata, fino a venir meno, la proposta del M.A.O., ambiguamente e confusamente avanzata dai compagni di Via dei Volsci, come terreno anche di confronto e di lavoro politico strategico per la stessa soggettività comunista organizzata.
Ancora una volta, cioè, la mancanza di chiarezza, la confusione di ambiti e livelli ha finito per impedire quei risultati che tale proposta poteva maturare nell’autonomia diffusa: sono svanite così la possibile centralizzazione dei movimenti di lotta, il lancio di comuni tematiche di programma per settori di classe, la diffusione e il rafforzamento di parole d’ordine uguali ed identiche pratiche di lotta e di segno proletario.
Ma in mancanza di altro, oggi, nel registrare la progressiva debolezza delle forze dell’autonomia, nel muoversi su un terreno complessivo di iniziativa, il fallimento della proposta del M.A.O. non è solo un elemento di debolezza per l’autonomia diffusa ma, se la nostra analisi della frase corrisponde alle reali caratteristiche dello scontro di classe in Italia, dobbiamo riconoscere che è un arretramento generale per tutte le forze dell’Aut. Op. Org..
A questo punto, per noi, si tratta, nella molteplicità dei problemi presenti alla soggettività comunista, di ritrovare una metodologia di lavoro politico, che sappia cogliere sia gli aspetti specifici e sua aspetti generali della centralizzazione. Massima deve essere in questa fase, senza alcun atteggiamento strumentale ma pure senza sopravalutare la ciclicità dei movimenti di lotta, la tensione ad innescare, ad incentivare processi di dinamica sociale che, complessivamente, sappiano darsi connotati antiriformisti e di iniziativa autonoma di classe costruendo una disponibilità a centralizzare i vari settori di movimento in lotta anche sul piano nazionale (V. iniziative recenti su tematiche specifiche). Ma bisogna anche ribadire che questo terreno diviene realisticamente praticabile con continuità nel movimento in cui, oggi, forze dell’Aut. Op. Org., che sono più vicine per la complessività della proposta, per la metodologia del lavoro politico, per verifiche concrete sul terreno del programma, si propongono unitariamente, da subito, a determinare un blocco politico di forze, nella forma del coordinamento nazionale che, a partire da discriminanti generali, concrete, verificate, riproponga, il problema della rottura dello Stato-impresa come terreno di scontro politico generale.
Ben sapendo il realismo di questa proposta- non la contrabbandiamo per la soluzione ottimale, né tanto meno per la forma adeguata ai compiti e alle qualità che la fase richiederebbe al soggetto comunista- ma, anche, consapevoli che ogni chiusura in difesa di ciò che non conta, non può che produrre il blocco di qualsiasi processo rivoluzionario nel nostro paese.
(da completare)

Volantino rivendicazione azione Msi Padova

Lunedì  17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del MSI di Padova via Zabarella.
I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati.
Il MSI di Padova è la fucina da cui escono e sono usciti gruppi e personaggi del terrorismo antiproletario di questi ultimi anni. Freda e Fachini hanno imparato li il mestiere di assassini e i dirigenti di questa federazione (Luci, Switch, Marinoni) hanno diretto le trame nere dalla strage di Piazza Fontana in poi. Il loro più recente delitto è la strage di Brescia.
Questa strage è stata voluta dalla Democrazia cristiana e da Taviani per tentare di ricomporre le laceranti contraddizioni aperte al suo interno dalla secca sconfitta del referendum e dal “caso Sossi”: più in generale per rilanciare anche attraverso le “leggi speciali” sull’ordine pubblico il progetto neogollista. Gli otto compagni trucidati a Brescia non possono essere cancellati con un colpo di spugna dalla coscienza del proletariato. Essi segnano una tappa decisiva della guerra di classe, sia perché per la prima volta il potere democristiano attraverso i sicari fascisti scatena il suo terrorismo bestiale direttamente contro la classe operaia e le sue organizzazioni, sia perché le forze rivoluzionarie sono da Brescia in poi legittimate a rispondere alla barbarie fascista con la giustizia armata del proletariato.
Non colpisce nel segno chi continua a lottare contro il fascismo vedendolo come forza politica autonoma che si può battere isolatamente senza coinvolgere lo stato che lo produce.  Non colpisce affatto chi non si muove contro i fascisti con la scusa che sono “solo servi”.
Al progetto controrivoluzionario che mira ad accerchiare e battere la classe operaia, dobbiamo opporre un’iniziativa rivoluzionaria armata che si organizzi a partire dalle fabbriche contro lo stato ed i suoi bracci armati.

Le sedi del MSI non sono più inviolabili roccaforti nere!
Nessun fascista può più considerarsi sicuro!
Nessun crimine fascista rimarrà impunito!
Portare l’attacco al cuore dello stato!
Lotta armata per il comunismo!

Martedì 18 giugno 1974.
BRIGATE ROSSE