Carcere di Novara. Intervento dei Compagni del Collettivo Wotta Sitta alla “Giornata internazionale sulla questione della prigionia rivoluzionaria nel mondo” del 19.6.91

E se tutti fossimo capaci di unirci perché i nostri colpi fossero più forti e sicuri, perché ogni tipo di aiuto ai popoli in lotta fosse ancora più efficace, come sarebbe grande il futuro, e quanto vicino!
(Ernesto Che Guevara)

Cinque anni fa, le truppe dell’esercito e della marina peruviani, su ordine del boia Alan Garcia, attaccarono con una vera e propria azione di guerra, tre carceri nei pressi di Lima – El Fronton, Lurigancho e Callao – e sterminarono oltre 300 prigionieri e prigioniere, comunisti e rivoluzionari, militanti del movimento di opposizione e della guerriglia di Sendero Luminoso.

Questo infame massacro non va ricordato solo in quanto ennesima conferma della barbarie imperialista, ma anche, e soprattutto, per rafforzare la coscienza della lotta mortale che in America Latina, come in tutto il mondo, oppone il proletariato internazionale e i popoli oppressi al sistema di dominio e sfruttamento del capitale, e per mettere al giusto posto il contributo che danno a questa lotta i rivoluzionari prigionieri in ogni realtà di scontro.

La lotta dei rivoluzionari prigionieri nelle carceri imperialiste è sempre stata una parte importante nel processo rivoluzionario nel suo insieme. Nella fase attuale l’andamento della lotta rivoluzionaria nelle principali aree di scontro con l’imperialismo conferma e ripropone, se mai ce ne fosse bisogno, questo dato politico.

 

  1. Alla fine degli anni ’80 la borghesia imperialista, fiancheggiata dal riformismo internazionale, annunciava l’inizio di una “era di pace”, in cui la fine della “guerra fredda” tra le due superpotenze e la “sconfitta del comunismo” avrebbe eliminato la “minaccia della guerra nel mondo” e ricomposto i conflitti regionali con soluzioni politiche e mediazioni ad alto livello.
    Dopo qualche anno l’iniziativa imperialista in tutte le principali aree di crisi ha riportato tutti alla realtà: dalla caduta della giunta rivoluzionaria Sandinista in Nicaragua sotto il ricatto della Contra e degli USA, all’invasione americana di Panama con il massacro di 5000 persone; dall’annessione della RDT nella cosiddetta “Grande Germania”, alla guerra nel Golfo con la distruzione dell’Irak e centinaia di migliaia di morti sotto i più massicci bombardamenti che si ricordino dalla seconda guerra mondiale, perpetrati dalla gigantesca macchina militare USA ed Europeo-Occidentale.
    Sono solo alcuni dei fatti più importanti della “nuova era di pace”, che mostrano i propositi dell’imperialismo occidentale in questa fase: dare un colpo duraturo ai movimenti rivoluzionari e di liberazione, ristabilire le gerarchie nei confronti di quelle borghesie nazionali che portano avanti politiche dissonanti, affermare nuovi equilibri di potere a suo favore dopo il frantumarsi del Blocco dell’Est, nel quadro del propagandato “nuovo ordine mondiale”.
    Un’illusione di potenza che gli strateghi dei centri imperialisti vedono velocemente infrangersi nella moltiplicazione delle contraddizioni e dei conflitti che volevano eliminare. Ogni masso che l’imperialismo solleva gli ricade inevitabilmente sui piedi!
    Il frastuono della guerra imperialista non ha ridotto al silenzio i movimenti rivoluzionari e di liberazione; al contrario, dalla Palestina e dalla Turchia, al Perù e Centroamerica, come nel cuore dell’Europa, essi hanno preso la parola con il combattimento, riproponendo ad un livello più alto la presenza del processo rivoluzionario nel mondo.
    In questo innalzamento dello scontro, ogni movimento e forza rivoluzionaria, ogni militante, deve necessariamente rafforzare i propri livelli di coscienza e internità alla classe e la connessione tra le diverse realtà di lotta. È proprio questo dato politico a caratterizzare la condizione e la lotta dei prigionieri rivoluzionari nelle carceri dell’imperialismo.

 

  1. Nello scenario dell’offensiva imperialista che ha segnato questi primi anni ’90, in Europa e in altri paesi occidentali, governi, partiti, “associazioni culturali”, capitalisti e mass-media, preparano le celebrazioni del “Cinquecentenario della scoperta dell’America” per il 1992.
    È una scadenza che va posta all’attenzione per diverse ragioni. Innanzitutto perché, ben lungi dall’essere solo una delle tante celebrazioni di “vittoria del capitalismo” o della “civiltà occidentale”, essa costituisce una enorme operazione politica, economica e ideologica che serve ad intensificare lo sfruttamento e l’oppressione dei paesi del Tricontinente e dell’America Latina in primo luogo.
    Per fare qualche esempio concreto, la Spagna, in questo contesto, intende creare nelle sue ex colonie una propria area di influenza politica ed economica sul modello del Commonwealth. Questo progetto è in realtà una testa di ponte per un processo di penetrazione della CEE in Centro e Sud America, in cui tra l’altro l’Italia è impegnata a fondo e vi sono coinvolti anche USA, Giappone e… Israele!
    Un altro elemento importante è il formarsi attorno a questa scadenza, di un vasto movimento in America Latina, Stati Uniti ed Europa, che pur nella diversità delle esperienze contiene in sé i percorsi della lotta storica all’oppressione del capitale, e intende trasformare questa “commemorazione” della borghesia in un momento di lotta internazionalista e di critica radicale al sistema imperialista.
    Nei movimenti rivoluzionari latinoamericani è sempre più radicata la coscienza che l’imperialismo può essere vinto solo in un processo di lotta unitario insieme alle altre realtà rivoluzionarie del mondo.
    Si tratta dunque di un piano di iniziativa e mobilitazione che riguarda direttamente il movimento rivoluzionario e antimperialista europeo e internazionale.
    Per noi prigionieri questa dimensione vale anche come terreno di connessione e interazione tra diverse realtà di lotta nelle carceri imperialiste, per affrontare questo scontro specifico nell’ambito del movimento rivoluzionario internazionale.

 

  1. In questo quadro vogliamo focalizzare la situazione dei prigionieri rivoluzionari negli USA; una realtà che presenta importanti connessioni, a livello oggettivo come soggettivo, con la mobilitazione antimperialista contro il “Cinquecentenario”, e con la dimensione di lotta che stiamo delineando.
    Nelle carceri speciali statunitensi ci sono attualmente oltre 150 prigionieri e prigioniere rivoluzionari. In maggioranza sono neri, per lo più ex membri del Black Panther Party e del Black Liberation Army. Ci sono poi 20 prigionieri antimperialisti bianchi, numerosi Indiani d’America e oltre 30 prigionieri del movimento di liberazione portoricano.
    La maggior parte hanno condanne pesantissime, come Leonard Peltier e Jeronimo Pratt, in carcere da oltre 20 anni, fino alla situazione del compagno Mumia Abu Jamal, tra i fondatori del Black Panther Party, condannato alla pena capitale nell’82 e rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Huntingdon in Pennsylvania.
    Bush, come i suoi predecessori, ha sempre negato l’esistenza di prigionieri politici in USA; una mistificazione che regge sempre meno.
    In questi anni, nonostante l’onnipresente controrivoluzione preventiva che da sempre in USA colpisce ogni forma di opposizione allo Stato, si è creata una significativa mobilitazione con iniziative su molti piani, dalle manifestazioni contro le carceri, alla controinformazione, ad azioni legali sul terreno dei diritti umani. Tutto ciò ha sfondato il black-out sulla lotta dei prigionieri, suscitando un grosso appoggio a livello internazionale nei movimenti antimperialisti. Un primo importante risultato di queste iniziative è stata la chiusura dell’infame “Unità di Massima Sicurezza” femminile di Lexington.
    I prigionieri politici e di guerra in USA sono il riflesso dei movimenti che negli ultimi 20 anni hanno scosso la società americana; movimenti prodotti da un intreccio di contraddizioni interne alla struttura stessa di questa società.
    «La storia americana è il risultato del conflitto tra gli invasori europei e gli Indiani d’America, tra i padroni bianchi e gli schiavi neri, l’esercito colonizzatore e i colonizzati, i padroni e gli operai, i maschi oppressori e le donne, gli imperialisti e gli antimperialisti». Così scrivevano i Weathermen in Prateria in fiamme.
    La metropoli imperialista USA porta nel suo codice genetico tutte le tappe dello sfruttamento e della distruzione di interi popoli, che hanno consentito l’affermarsi di questa formazione sociale nel quadro storico dello sviluppo del modo di produzione capitalistico nel mondo.
    Questo è il legame intimo che affianca le lotte antimperialiste e di liberazione nazionale negli Stati Uniti a quelle dei movimenti rivoluzionari in America Latina e nel Tricontinente, come allo scontro di classe in Europa Occidentale; ed è anche il senso della lotta dei prigionieri politici e di guerra nelle carceri nordamericane.

 

  1. In Europa Occidentale ci troviamo di fronte, da diversi anni, al rapido sviluppo del progetto di unificazione economica e politica che i vari governi, gruppi capitalistici multinazionali e la borghesia nel suo insieme perseguono in questa fase per contrastare la crisi ed affrontare la competizione tra blocchi economici capitalistici nel mondo.
    Gli effetti di questo processo di concentrazione economica e politica cominciano ad essere evidenti, tanto nella strategia di penetrazione del capitale europeo all’Est e in altre aree, quanto sul piano del riadeguamento militare. Recentemente i governi degli Stati-NATO hanno annunciato la formazione di una “Forza di rapido intervento”, con 100.000 soldati, inglesi, tedeschi, belgi, olandesi, italiani, spagnoli, greci e turchi, sotto il comando americano, con il compito di intervenire anche “fuori dalla tradizionale area di intervento” per “difendere gli interessi dell’Europa Occidentale”. La guerra del Golfo ha originato un modello di intervento che gli Stati europei hanno fatto proprio, aumentando considerevolmente il loro peso e responsabilità nella strategia globale dell’imperialismo occidentale.
    Questa dinamica imperialista rende ineludibile per i governi europei la pacificazione forzata dei vari conflitti sociali che attraversano da 20 anni il continente in lungo e in largo. Non è un caso che la strategia controrivoluzionaria occupi un posto di primo piano, tanto nelle politiche nazionali dei vari Stati che negli accordi in sede europea. L’ormai collaudato “Gruppo TREVI” (organismo di direzione e centralizzazione della repressione nella CEE) e gli “Accordi di Schengen” (per controllare i flussi dell’immigrazione dal Tricontinente), sono i pilastri su cui si costruisce tutta la politica della “sicurezza” in Europa.
    Oggi il movimento rivoluzionario, le organizzazioni d’avanguardia, i collettivi antagonisti, le realtà di lotta proletarie, fino ai prigionieri, devono costruire il proprio percorso in presenza di un apparato ed una strategia controrivoluzionaria fortemente integrati a livello continentale.
    L’unificazione europea, con al suo centro la nuova “Grande Germania”, non può tollerare l’attività dei movimenti antagonisti, delle organizzazioni di guerriglia, e neanche l’esistenza di prigionieri che in carcere continuano la lotta come parte viva del movimento rivoluzionario.
    – È questo nocciolo duro della politica imperialista Europeo-Occidentale che ha segnato lo scontro tra i compagni prigionieri dei GRAPO e del PCE(r) e il governo di Felipe González sulla questione del loro nuovo raggruppamento.
    Dopo circa 15 mesi di sciopero della fame e di tortura con l’alimentazione forzata, dopo la morte del compagno José Manuel Sevillano, la lotta è stata sospesa per evitare uno stallo, con altre perdite, a fronte di una situazione profondamente mutata dagli avvenimenti internazionali.
    Eppure in questa durissima lotta i compagni spagnoli hanno dato al governo González, agli strateghi della controrivoluzione europea, una lezione di determinazione politica soggettiva e di rigore rivoluzionario.
    La consapevolezza che il tentativo del governo del PSOE di distruggere la loro identità e militanza collettiva con l’isolamento e la dispersione in numerose carceri, fosse parte in realtà di un attacco generalizzato alla classe e al movimento rivoluzionario, li ha portati a contrastare questa strategia, rifiutando la condizione di ostaggi impotenti a cui li si voleva relegare, prendendo l’iniziativa per il loro raggruppamento con una chiara internità agli interessi e obiettivi della lotta rivoluzionaria in Spagna e in Europa.
    Non c’è quindi nessuna sconfitta, questa lotta è solo interrotta e ciò che in essa si è costruito in termini di coscienza, solidarietà e quadro di comunicazione sarà la condizione per riprenderla con più forza e porre fine all’isolamento dei compagni.
    – In Germania, dopo l’inglobamento della RDT, il governo tedesco con tutto il suo apparato di “sicurezza“ è impegnato in una forsennata e paranoica attività repressiva, volta ad impedire che il movimento rivoluzionario e antimperialista coaguli e politicizzi le contraddizioni indotte dal processo della cosiddetta “Grande Germania”.
    Nella ex RDT è in atto una gigantesca operazione politica ed economica che sta letteralmente liquidando tutto il preesistente assetto sociale per poter ricostruire dalle fondamenta strutture e uomini funzionali ai progetti di dominio e sfruttamento della nuova potenza capitalistica tedesca.
    Ma le aspirazioni di Kohl ad uno sviluppo pacifico di questo processo sono fortemente frustrate sia dalle lotte delle masse dell’Est, evidentemente poco disposte a scomparire dalla scena, sia dall’iniziativa rivoluzionaria del movimento, con in testa la guerriglia della RAF.
    Gli sgherri del “Cancelliere” non sanno più cosa inventare per fermare l’azione delle forze rivoluzionarie, e oltre all’attacco generalizzato alle situazioni di movimento (come le case occupate, i giornali di controinformazione, i collettivi antagonisti), la campagna repressiva si rivolge con il consueto accanimento contro i prigionieri della RAF e della Resistenza. A parte le pressioni su familiari e aree di solidarietà, è in atto una manovra degli apparati di “sicurezza” dello Stato per falsificare e “riscrivere” l’esperienza RAF in termini di “longa manus della STASI” nel tentativo di legare la lotta alla guerriglia alla demonizzazione e liquidazione della ex Germania Orientale. Una costruzione così grossolana che neanche le dichiarazioni pilotate di alcuni traditori fuoriusciti dalla RAF, riescono a rendere credibile.
    È un susseguirsi di provocazioni e campagne stampa contro i compagni prigionieri, che ultimamente si sta traducendo nella minaccia esplicita di ripristinare l’isolamento assoluto anche per quei militanti in situazioni di socialità minima (4 compagne in un carcere!) strappate con lo sciopero della fame dell’89.
    I compagni prigionieri sono impegnati a contrastare quotidianamente questo ennesimo attacco.
    – In situazione analoga si trovano i prigionieri rivoluzionari di Action Directe che si sono visti togliere gradatamente spazi e condizioni di vita ottenuti con lo sciopero della fame dell’88. Un isolamento fisico e comunicativo e il solito corollario di provocazioni. Il governo del “socialista” Mitterrand, con il suo staff di democratici ex sessantottini, apprezza molto – e applica volentieri – la scienza controrivoluzionaria del gruppo TREVI! Contro questa situazione, i 4 compagni di AD sono in lotta dal primo gennaio con uno sciopero della fame a staffetta.
    Questo scontro, pur con aspetti specifici, è affrontato anche dai compagni delle Cellule Comuniste Combattenti, isolati da oltre 5 anni nelle carceri belghe; dai prigionieri dell’ETA, che sono in condizioni simili ai GRAPO; dai prigionieri irlandesi dell’IRA e altre organizzazioni rivoluzionarie che da 20 anni sostengono una lotta durissima contro la politica carceraria inglese. Attualmente oltre 200 di questi compagni sono condannati all’ergastolo e detenuti negli H-Blocks (1).
    Completano il quadro i numerosi combattenti arabi, palestinesi, curdi, presenti in molte carceri del continente, testimonianza esplicita del ruolo dell’imperialismo europeo contro le lotte rivoluzionarie e di liberazione dell’area Mediterraneo-Mediorientale.

 

  1. Ogni movimento ha sempre avuto i suoi prigionieri. Su questo terreno passa una delle linee di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.
    È questo l’elemento che rende necessario affrontare in un’ottica internazionale la “questione” dei prigionieri rivoluzionari. Ma non solo.
    L’imperialismo, in decenni di controrivoluzione, ha creato una scienza e un modello del trattamento carcerario ormai generalizzati. Il sistema carcerario USA e quello Europeo-Occidentale sono riprodotti in tutti gli Stati imperialisti e nei loro satelliti. Non c’è molta differenza tra le carceri speciali USA e canadesi e quelle europee o quelle sudamericane. Così come prende sempre più piede nel trattamento dei prigionieri rivoluzionari il binomio reinserimento-abiura o annientamento, che qui in Italia conosciamo bene…
    La logica che portò il governo tedesco agli assassinii dei compagni della RAF a Stammheim nel ’77 è la stessa del massacro “Aprista” (2) dei prigionieri peruviani nell’86; è la stessa del regime carcerario di De Klerk contro le migliaia di combattenti del popolo di Azania, che attualmente in 200 sono in sciopero della fame per ottenere la liberazione. È la stessa del governo sionista con i suoi campi di concentramento nel deserto del Negev per i combattenti palestinesi.
    In Turchia le carceri speciali, piene di rivoluzionari curdi, di Dev Sol e di altre organizzazioni rivoluzionarie, con molti condannati a morte, sono state progettate da ingegneri americani. Il governo fascista di Ozal, con amnistie-truffa e altre grottesche operazioni di maquillage democratico, vuole rendere accettabili alla CEE i quotidiani massacri di rivoluzionari e proletari turchi e curdi in carcere e fuori. Ovunque, dove si sviluppano movimenti antimperialisti e rivoluzionari, l’imperialismo individua nei prigionieri un terreno su cui proseguire la sua strategia controrivoluzionaria.

 

  1. Il Italia la borghesia imperialista sta accelerando tutti i processi di ridefinizione dell’assetto istituzionale e del sistema politico, allo scopo di mettere lo Stato in condizioni di dirigere l’integrazione della struttura economica, politica e sociale italiana nella formazione Europeo-Occidentale.
    Questa dinamica, unitamente al continuo riadeguamento della struttura produttiva, si traduce in una forte pressione verso il proletariato metropolitano. Nei fatti non c’è realtà di classe dove non ci sia un intensificarsi della lotta.
    Di fronte al riproporsi della conflittualità sociale che ha sempre caratterizzato la realtà italiana, e alla possibilità di una nuova politicizzazione dello scontro, la borghesia riadegua la sua politica controrivoluzionaria.
    La cosiddetta “sicurezza sociale” infatti, assieme alle riforme istituzionali e all’intervento sull’enorme deficit economico-finanziario, è un punto fondamentale del programma dell’attuale governo.
    La politica repressiva e controrivoluzionaria qui, oggi si ritaglia sulla necessità di impattare, a livello preventivo, un conflitto sociale molto più complesso che in passato, dove alle “vecchie” contraddizioni se ne sommano di nuove (si pensi allo scontro sugli immigrati o alla crescita fortissima del divario tra Nord e Sud). Per questo tutto l’armamentario di “leggi speciali”, apparati di polizia e reti di controllo sociale, trattamento carcerario, accumulato dallo Stato in 20 anni di scontro di classe, trova oggi ridefinizione e collocazione organica nei programmi dello Stato rifondato. Ma questo in realtà vale per tutta la politica controrivoluzionaria dello Stato italiano dal dopoguerra in poi.
    I vertici della Democrazia Cristiana difendono e rivendicano con tracotanza la legittimità della struttura “Gladio” che, nel quadro europeo della strategia anticomunista della CIA e della NATO, ha segnato a forza di stragi antiproletarie il tentativo dell’imperialismo di ricacciare indietro il movimento rivoluzionario e di classe in Italia dai primi anni ’50 fino agli anni ’70 e ’80.
    La continuità della controrivoluzione imperialista deve vivere, non importa in quali forme, anche nella “seconda repubblica”!
    Sono queste le condizioni che le nuove lotte proletarie e i percorsi rivoluzionari devono affrontare per sviluppare la loro prospettiva. E questo vale naturalmente anche nel carcere.
    Per il governo, i partiti e i media borghesi, oggi gli unici “prigionieri politici” esistenti in Italia sono i dissociati e tutta la fauna degli aspiranti al “reinserimento sociale”, vezzeggiati da ministri e partiti riformisti.
    Per chi continua la sua lotta di rivoluzionario in carcere c’è la pioggia di ergastoli ai processi e il progressivo irrigidimento del trattamento nelle sezioni speciali con situazioni di gruppi limitati di prigionieri, sottoposti a continue pressioni e isolamento politico e fisico.
    È una strategia che in tutti questi anni, come ora, mira ad occultare una contraddizione politica che lo Stato non può riconoscere.

 

  1. Affrontare lo scontro politico sul carcere come questione a sé, o in ambito “locale“, non avrebbe senso. La lotta dei prigionieri rivoluzionari va concepita sia come parte della lotta per la costruzione dell’avanguardia e dello sviluppo del movimento rivoluzionario italiano, sia come azione cosciente all’interno di una visione internazionale del processo rivoluzionario.
    In questo bisogna partire dal punto più avanzato della lotta dei prigionieri rivoluzionari in Europa Occidentale.
    Lo scontro per il raggruppamento e contro l’isolamento sostenuto da molti anni dai prigionieri della RAF e della Resistenza in RFT, e in seguito dai prigionieri di AD in Francia, e su cui si è sviluppata una estesa dialettica e iniziativa con il movimento rivoluzionario e altri prigionieri in molti paesi europei, all’interno del processo del Fronte Rivoluzionario, ha cominciato a delineare un soggetto unitario sul piano della lotta contro il carcere imperialista. In questo senso costituisce un punto di riferimento per tutti coloro che concepiscono questa lotta come parte del percorso dell’unità dei rivoluzionari e della lotta antimperialista.
    Naturalmente il quadro delle esperienze a cui riferirsi è molto più ampio: dalla importantissima lotta dei prigionieri spagnoli, a quella dei compagni di IRA ed ETA, dei prigionieri delle CCC in Belgio e dei combattenti arabi, palestinesi e curdi in carcere in Europa.
    Nelle lotte di tutti questi rivoluzionari prigionieri è emerso un dato molto chiaro: l’isolamento e la politica imperialista contro i prigionieri della guerriglia, nelle specifiche realtà di scontro, possono essere battuti in modo duraturo solo lavorando a far avanzare tutto il piano della lotta al carcere imperialista in Europa all’interno dello sviluppo del processo rivoluzionario nel suo insieme.
    Concepire la lotta contro l’isolamento e per il raggruppamento dei prigionieri in RFT, Francia, Spagna, Belgio, ecc., come terreno stabile della propria iniziativa complessiva, è la dimensione concreta e attuale che permette alle istanze del movimento di stabilire la giusta dialettica tra le lotte proletarie e questo scontro specifico, trasformandolo in un arricchimento di tutta la lotta rivoluzionaria.
    Ciò che unisce i prigionieri rivoluzionari alle altre situazioni di classe, non è solo l’incondizionata solidarietà che deve sempre esistere tra rivoluzionari e proletari in lotta, ma, soprattutto, il rapporto e la tensione unitaria tra chi in situazioni diverse lavora per “mandare all’inferno l’imperialismo”.
    Rafforzare la lotta dei prigionieri rivoluzionari qui in Europa, costruire tutte le connessioni possibili con le lotte dei compagni prigionieri in America Latina, in USA, in Medio Oriente e ovunque, significa dare un contributo sia allo sviluppo dei movimenti rivoluzionari in quelle aree, sia all’avanzamento generale del processo rivoluzionario nel mondo.

I Compagni del Collettivo Wotta Sitta del carcere di Novara

Giugno ’91

 

Note

(1) H-Bloks: carceri di massima sicurezza in Irlanda del Nord.
(2) “Aprista”: da Apra, partito di Alan García presidente del Perù fino al 1991.

Un pensiero su “Carcere di Novara. Intervento dei Compagni del Collettivo Wotta Sitta alla “Giornata internazionale sulla questione della prigionia rivoluzionaria nel mondo” del 19.6.91”

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