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Scheda storica Collettivi politici veneti

Da Potere operaio all’Autonomia operaia

Agli inizi di giugno del 1973, durante la IV Conferenza nazionale d’organizzazione di Rosolina, in provincia di Rovigo, si manifestano profonde divergenze all’interno di Potere operaio. A scontrarsi sono l’area romana di Franco Piperno e quella delle Assemblee operaie autonome, che ha come riferimenti principali Toni Negri e l’assemblea di Porto Marghera-Venezia. Negri ritiene possibile un doppio binario di militanza. Da un lato, un ruolo di direzione delle iniziative, in grado di interpretare l’illegalità di massa, dall’altro un livello di clandestinità associativa, che guidi il percorso della lotta armata verso la guerra di classe. Piperno sostiene invece la necessità politica per il militante di Potere operaio di essere un quadro complessivo, capace di agire come riferimento sia sul piano politico sia su quello militare. Nessuna delle due ipotesi si dimostra possibile. Potere operaio si scioglie. Per un breve periodo qualcuno tenta di tenere in piedi il gruppo continuando a far uscire un giornale, il «Potere operaio del lunedì». Il dibattito che si sviluppa nei mesi successivi fra i militanti del Veneto, con l’esclusione delle sezioni di Venezia e Verona, porta alla nascita dei Collettivi politici padovani per il Potere operaio.

L’area dell’Autonomia operaia

Le strutture organizzate rappresentano solo un aspetto di una realtà più variegata. L’Autonomia nel suo insieme non è mai stato un gruppo o una somma di gruppi, ma un’area che ha raccolto situazioni di lotta, militanti determinati a condurre una battaglia contro il lavoro e lo Stato a partire dalle proprie condizioni materiali di sfruttati. Operai, studenti, precari, donne, omosessuali.

Negli anni Settanta i gruppi extraparlamentari formulano una lettura strategica di fascistizzazione dello Stato, concentrando buona parte della loro attività sull’antifascismo militante. L’Autonomia considera invece prioritaria la battaglia contro il capitale. Solo in alcuni periodi, soprattutto nella realtà romana, l’antifascismo diviene un tema centrale, che non si riconosce nelle campagne per l’Msi fuorilegge, ma vuole essere espressione di un contropotere finalizzato a liberare i quartieri dai neri e dai loro covi. Anche a Padova, dove la presenza neofascista è molto forte, lo scontro con gli squadristi condotto in termini offensivi, oltre che difensivi, crea intorno ai Cpv un diffuso consenso giovanile.

L’uso della forza è in quegli anni patrimonio di buona parte della sinistra extraparlamentare. Le divergenze fra i gruppi e le Brigate rosse non riguardano la necessità e l’opportunità della lotta armata, ma impostazioni tattiche e strategiche. L’Autonomia intende mantenere un fronte di attività legale, critica le azioni esemplari condotte da un’avanguardia esterna accusata di non tenere conto dei livelli raggiunti dal movimento e dagli organismi di massa. Il combattimento è considerato espressione del punto più alto di costruzione del contropotere proletario. Il precariato viene individuato come forma-lavoro centrale del nuovo ciclo produttivo. Il soggetto di riferimento non è più l’operaio massa ma l’operaio sociale. Ovvero chiunque, sottoposto al rapporto di produzione, subisce una tendenziale proletarizzazione. Disoccupati, emarginati, donne, studenti. La prima protesta sui bisogni riguarda i prezzi dei trasporti pubblici. Poi il conflitto si allarga. Nel territorio, in quella che viene definita fabbrica diffusa, dove si annulla la separazione tra lavoro e vita. A metà degli anni Settanta si inizia a parlare di proletariato giovanile. Soggetti che esprimono il proprio antagonismo attraverso l’uso della marijuana e l’esproprio di merci, il sesso libero e gli scontri di piazza, il rock e lo sciopero selvaggio. Fra il 1975 e il 1976 a Milano nascono i Circoli del proletariato giovanile, che si diffondono in tutta Italia. I primi centri sociali. I loro militanti occupano case ed effettuano autoriduzioni nei cinema, non pagano i concerti, saccheggiano negozi, attaccano i bar dell’eroina. Insieme alle femministe sono i «nuovi» soggetti dell’Autonomia. Rifiutano il lavoro e le regole borghesi, la divisione fra il personale e il politico, considerano l’intero tempo di vita inglobato nei processi di produzione capitalista. Concepiscono la rivoluzione come pratica quotidiana.

Nel marzo 1976 a Roma si svolge il convegno per creare a livello nazionale l’Autonomia operaia organizzata e rendere più organico l’intervento combattente sul territorio.

I due fronti di lotta

Potere operaio, in linea con la tradizione del movimento comunista, aveva impostato la propria azione su due fronti di militanza. Uno pubblico, di massa, considerato prevalente, e uno articolato nella struttura Lavoro illegale, per realizzare le prime azioni armate collegate al movimento.

Potere operaio vuole essere il «partito dell’insurrezione», inteso come partito, come formazione organizzata che si propone di dirigere e di armare il movimento di massa della classe operaia […]. Muovere il movimento verso lo sbocco di potere significa dirigere l’intera articolazione del movimento delle masse verso la lotta armata.

L’Autonomia operaia, e i Collettivi politici veneti per il Potere operaio, alla violenza diffusa, prolungamento dell’illegalità di massa delle iniziative sociali, affiancano un’organizzazione clandestina d’avanguardia, per effettuare azioni politico-militari volte a indebolire lo Stato.

I Collettivi politici veneti per il Potere operaio

I Collettivi politici veneti per il Potere operaio nascono nel 1976 su base territoriale. A caratterizzarli è il forte radicamento nella realtà locale, la presenza di una struttura unitaria articolata su un fronte politico-legale e uno militare-illegale, fra loro complementari, un confronto dialettico e rapporti logistici con le organizzazioni clandestine, la volontà di agire da partito.

La I Circolare della Commissione Politica dei Collettivi Politici Padovani, principale articolazione dei Cpv, dichiara che l’obiettivo è costruire nuclei di combattenti comunisti omogenei su tutti i problemi attinenti una linea di condotta rivoluzionaria, per mettere a punto un progetto strategico d’organizzazione per il partito armato degli operai comunisti. Nel primo numero del giornale dei Collettivi padovani, uscito come supplemento a «Linea di condotta» nell’ottobre 1976, si definisce la guerra civile un fenomeno grandioso e immenso in cui il bisogno si fa progetto e il progetto si arma per realizzarsi, in cui tutte le contraddizioni della vita delle masse si concentrano e si liberano, è l’unico punto di riferimento a cui far risalire la ricerca del metodo, la struttura dell’organizzazione, la materializzazione del programma, l’azione quotidiana e strategica dei comunisti. […] Forme di potere politico vero e proprio si sono andate estendendo, dall’autoriduzione ai prezzi politici, dal rifiuto del contratto al virtuale rifiuto della contrattazione, dall’Autonomia di classe alla sua indipendenza, riaggregatasi sull’uso della forza che ne ha messo in luce l’intera energia politica.

Alla base dei Cpv ci sono i Gruppi sociali. Organismi territoriali pubblici che mettono in atto, nella fabbrica e nel sociale, un programma comunista centrato sulla pratica del contropotere, come si legge nel bollettino ciclostilato Ben scavato vecchia talpa, del 1978. I Gruppi devono costituire comitati sui temi più conflittuali. Comitati di zona, Comitati e Collettivi di studenti medi e universitari, Comitati e Coordinamenti operai. In ogni Collettivo territoriale (Padova, Vicenza, Venezia, Rovigo) c’è un Nucleo, a cui spetta la direzione politico-militare, e un Attivo, la realtà militante più ampia dove si discute la linea generale. La struttura pubblica dei Cpv comprende inoltre Radio Sherwood a Padova, che dal 1977 diviene una delle voci dei Collettivi e dà vita, tra il 1978 e il 1985, a omonime emittenti a Thiene poi a Venezia. Nel 1978 esce il settimanale «Autonomia», i cui redattori vengono arrestati nell’ambito dell’operazione «7 aprile». Il giornale continuerà a essere pubblicato periodicamente fino alla metà degli anni Ottanta.

La struttura semiclandestina dell’illegalità di massa utilizza una serie di sigle, ognuna corrispondente ad un determinato livello dell’organizzazione, con cui vengono rivendicate le azioni di attacco contro le strutture e/o gli uomini degli apparati del comando politico-sociale e produttivo. Organizzazione operaia per il comunismo, Proletari comunisti organizzati, Ronde armate proletarie. Colpiscono agenzie immobiliari, abitazioni, automobili, sedi di società con ordigni esplosivi o bottiglie incendiarie. La struttura clandestina, militare, che impiega armi da sparo, si firma Fronte comunista combattente. Rivendica nove azioni, fra cui tre ferimenti.

Dal 1975 i Collettivi fanno un salto organizzativo in tutta la regione, effettuando spettacolari iniziative politico-militari di massa. Picchetti, sabotaggi, azioni contro i capetti, il lavoro nero, gli straordinari. Incendi di fabbriche, automobili, sedi fasciste e democristiane. Si sviluppa una pratica quotidiana di contropotere nei quartieri, con occupazioni di case, autoriduzione di bollette, imposizione di prezzi politici nei trasporti, nelle mense, in negozi e supermercati, ma anche espropri di beni di lusso, per sancire il diritto a godere la vita riappropriandosi di quanto ingiustamente tolto dal capitale. La rottura con la politica dei sacrifici promossa dalle organizzazioni storiche del movimento operaio è netta.

I Collettivi a Padova – la città in cui sono più forti – dedicano una particolare attenzione all’università, ritenuta un fulcro del modo di produzione capitalista, del meccanismo di estrazione di plusvalore, una fabbrica del consenso, una sacca di lavoro per la fabbrica diffusa. Per lottare contro la selezione e allargare spazi politici, vengono effettuate occupazioni, ronde contro i baroni reazionari o legati al Pci, interrotte lezioni ed esami, imposto un voto politico sulla base della frequenza ai seminari autogestiti.

Nel 1976 si sedimenta un rapporto politico-organizzativo fra i Collettivi e i compagni di «Rosso», che nel 1978 viene denominato «Rosso per il Potere operaio». Si vuole cercare di dare una direzione nazionale alla ricchezza sociale dell’autonomia e ai fenomeni armati nel movimento.

Dopo il convegno contro la repressione di Bologna del settembre 1977, mentre si continua a discutere del progetto di centralizzazione denominato Autonomia operaia organizzata, i Collettivi politici veneti promuovono il Movimento comunista organizzato veneto (Mco), per salvaguardare la specificità territoriale all’interno del percorso per la creazione di una forza politica nazionale.

Fra il 1977 e il 1979 l’intervento si rivolge contro la ristrutturazione e il comando sul lavoro, in fabbrica e nel territorio, e contro le infrastrutture dell’università. In questo quadro maturano numerosi sabotaggi e i ferimenti, a Padova e provincia, di un giornalista, del direttore dell’Opera universitaria, di un docente.

Illegalità di massa, lotta armata e contropotere

Per i Cpv, come per altre realtà dell’Autonomia operaia, l’uso della forza e l’illegalità di massa sono strettamente legate all’attività pubblica e finalizzate all’estensione di un effettivo contropotere volto all’abbattimento del sistema capitalistico. Rispetto ad altri settori dell’Autonomia, i Cpv si caratterizzano per il rifiuto dello spontaneismo, la costruzione di fronti di organizzazione differenziati ma unificati da una direzione politico-militare centralizzata.

Nel febbraio 1979 esce sul settimanale «Autonomia» un articolo, con estratti di documenti interni, Sulla linea di combattimento, che traccia la strategia dei Cpv.

Il soggetto comunista deve essere disciplinato dentro un progetto centrale d’organizzazione capace di «armarlo» per disarticolare l’intero arsenale di comando e di controllo dello stato capitalistico. Il movimento deve essere arricchito della complessità dei problemi: occorre operare perché si rafforzi e possa sostenere e accettare la sfida capitalistica su tutti i terreni dove si rapportano i conflitti di classe. […] Quindi, linea di combattimento dentro la pratica del programma proletario a livello territoriale, dentro l’esperienza dell’illegalità di massa e dello sviluppo del movimento comunista organizzato. Movimento come rete soggettiva di un potere proletario che cresce sull’uso della forza, via via commisurata ai possibili salti e alle forzature della e nella intera soggettività proletaria. Quindi un’articolata e complessa pratica della lotta armata.

Il controllo del territorio

Una forma di contropotere e di guerriglia urbana simbolicamente efficace, messa in atto a Padova, è il controllo dei territori. L’occupazione di una zona cittadina, effettuata da un centinaio di militanti, con armi e molotov. Alcuni chiudono gli accessi con macchine messe di traverso sulla strada e copertoni bruciati, per ritardare l’arrivo della polizia, mentre altri compiono azioni nella zona «liberata». Questa pratica viene attuata nel quartiere padovano dell’Arcella il 9 giugno 1976, quando sono colpite case e punti di ritrovo dei fascisti, poi in quello di Brusegana, nell’autunno dello stesso anno, dove tra l’altro è effettuato un esproprio in un supermercato. I clienti vengono fatti uscire senza pagare e gli alimenti sottratti sono poi distribuiti davanti alle case popolari. Il controllo del territorio è di nuovo attuato al Portello-Stanga il 19 maggio 1977, nell’ambito della lotta contro la soppressione delle festività. Sono danneggiate anche due agenzie immobiliari, considerate responsabili della crisi e dell’aumento dei prezzi degli alloggi.

All’inizio di dicembre del 1979, per protestare contro il divieto della manifestazione regionale in solidarietà con gli arrestati del 7 aprile, circa duecento militanti armati dei Cpv bloccano gli snodi viari di Padova. Auto incendiate, colpi di pistola, espropri alla cassa di un supermercato, danneggiamento di agenzie immobiliari, molotov contro una sede Dc. L’iniziativa è rivendicata da un volantino firmato Per il comunismo.

Le campagne d’organizzazione

Un intervento tipico della rete regionale dei Cpv sono le campagne d’organizzazione, chiamate dalla stampa «notti dei fuochi», una serie di azioni tematiche in contemporanea, condotte dalle diverse strutture provinciali, rivendicate con varie sigle ma coordinate da una direzione centralizzata. Ne vengono effettuate dieci, a partire dall’aprile 1977. La prima, rivolta contro i piccoli imprenditori, mira colpire i loro beni e chiudere i covi del lavoro nero. L’ultima, alla fine di ottobre del 1979, ha come bersaglio le filiali Fiat della zona per protestare contro il licenziamento politico a Torino di 61 operai.

Durante le altre, obiettivi ricorrenti sono sedi Dc, stazioni dei carabinieri, funzionari di polizia, carceri, abitazioni e ritrovi fascisti, locali di associazioni industriali. In una occasione, nel 1978, vengono sparati colpi di pistola sulle finestre dell’abitazione di Pietro Calogero, allora titolare dell’inchiesta padovana contro sessanta militanti accusati della costituzione di un’associazione per delinquere riferibile ai Collettivi politici padovani per il Potere operaio. Lo stesso giudice sarà l’artefice del processo «7 aprile», a cui i Cpv rispondono con la nona «notte dei fuochi», alla fine di aprile del 1979. Contro la repressione, vengono attaccate nelle province di Padova, Venezia, Vicenza, Rovigo oltre venti caserme dei carabinieri, sedi politiche e istituzionali.

Il «caso 7 aprile»

Il 7 aprile 1979 scatta una vasta operazione di polizia contro l’Autonomia operaia in tutto il territorio nazionale (principalmente a Padova, Milano, Roma, Rovigo e Torino). Gli arresti proseguono nei giorni e nei mesi successivi. Si tratta per lo più di intellettuali, docenti, ricercatori universitari, scrittori, giornalisti, leader dei movimenti del post Sessantotto. Toni Negri viene indicato come capo di una sorta di «cupola» della sovversione italiana, e accusato delle più varie azioni delle organizzazioni armate. Compreso il sequestro di Aldo Moro. È persino indicato come l’uomo che telefonò a casa dello statista.

Fra gli inquisiti ci sono Franco Piperno, Oreste Scalzone, Nanni Balestrini. Associazione sovversiva, insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Imputazioni da ergastolo mai usate prima nell’Italia repubblicana. Sulla base di quello che viene definito «teorema Calogero», dal nome del sostituto procuratore di Padova che conduce l’inchiesta, sono accusati – attraverso ordini di cattura non sostenuti da elementi di fatto – di essere a capo di un fantomatico partito armato in Italia. Secondo il giudice, infatti, un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato. A guidare tutto sarebbe l’Autonomia operaia organizzata, sotto nomi e forme diverse. Dall’inchiesta madre nascono varie indagini locali. In carcere finiscono più di cento persone. Una montatura mediatico giudiziaria.

I fatti di Thiene

Durante la preparazione di una campagna di organizzazione in risposta all’operazione repressiva, l’11 aprile 1979 tre militanti del Collettivo politico di Thiene, in provincia di Vicenza, creato nell’ambito dei Cpv, muoiono dilaniati dallo scoppio accidentale di un ordigno che stanno confezionando. Sono Angelo Del Santo, 24 anni, Alberto Graziani, 25 anni, Maria Antonietta Berna, 22 anni. Nei giorni successivi vengono emessi vari mandati di cattura. Lorenzo Bortoli, compagno di Antonietta, è arrestato perché intestatario dell’appartamento in cui è avvenuto lo scoppio. Durante una perquisizione nella casa sono ritrovati esplosivi, armi da fuoco, documenti politici. Lorenzo, 26 anni, si suicida nella notte fra il 19 e il 20 giugno in una cella del carcere di Verona. Nel dicembre 1981 il Fronte comunista per il contropotere rivendica il ferimento di Antonino Mundo, medico del carcere di Vicenza, dove il giovane aveva effettuato un tentativo di suicidio.

Gli anni Ottanta

All’inizio degli anni Ottanta le divisioni interne, unite alle ondate repressive, contribuiscono all’esaurimento dei Cpv. Duecentocinque persone vengono inquisite con l’accusa di avere costituito organizzato e diretto una associazione sovversiva costituita in banda armata denominata Collettivi Politici del Veneto per il Potere Operaio, mirante a sovvertire con la violenza gli ordinamenti repubblicani vigenti. I Collettivi affrontano la stagione dei processi sfiorati solo marginalmente dai fenomeni del pentitismo e della dissociazione. Il 9 marzo 1985, a Trieste, il militante dei Cpv Pietro Maria Greco, detto Pedro, latitante, viene ucciso dalle forze di polizia mentre rientra nella casa in cui è ospitato. Conclusa una realtà organizzativa, l’esperienza politica prosegue, fra continuità e differenze, con un impianto e forme di lotta ridefinite in rapporto alle mutate condizioni dello scontro sociale. L’area dei Cpv ha un ruolo importante nella costruzione del Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, che conduce tra l’altro campagne per la liberazione dei prigionieri politici, azioni e blocchi nelle centrali nucleari in costruzione. Dalla metà del decennio vengono poste le basi per la ricostruzione di un radicamento nel territorio, con la creazione dei centri sociali occupati.

 

Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.

 

Collettivi politici veneti per il Potere operaio

LOrganizzazione Collettivi politici veneti per il potere operaio ha operato sotto varie sigle. Nella carenza di specifici documenti firmati dai CPV vengono pubblicati volantini e documenti di strutture o aree, legali e illegali, legate allorganizzazione.

Scheda storica

1979
Febbraio
Sulla linea di combattimento

Marzo
Appunti per un discorso di fase

Aprile
Tutte le strutture del Movimento Comunista Organizzato Veneto, La rivoluzione comunista non si arresta

1981
Dicembre
Fronte comunista per il contropotere, Rivendicazione del ferimento di Antonino Mundo

Appunti per un discorso di fase

Prima parte: appunti per un discorso di fase

La nostra organizzazione aveva diffuso dentro il movimento comunista veneto e a livello nazionale questa bozza di discussione interna. Era nostra intenzione poter “chiudere” questo documento dopo una discussione collettiva con tutti i compagni comunisti e dopo le critiche e i consigli che da più parti del fronte delle lotte pervenivano all’impostazione generale del nostro discorso. La tempesta degli ultimi avvenimenti ha anticipato la stampa di questo documento, che si presenta ancora come bozzone di ipotesi politiche e di proposte concrete; incompleto in alcune parti. Ci impegniamo a pubblicizzare quanto prima la nostra linea politica nella sua interezza. I compagni capiranno.

Organizzazione comunista COLLETTIVI POLITICI VENETI PER IL POTERE OPERAIO.

Ora che il movimento del ’77 è definitivamente chiuso, ora che il problema per noi è andare oltre, è possibile e necessario ripartire da lì, dalla precarietà di questa tappa cruciale dello scontro di classe in Italia. È inutile, forse, spulciare i limiti e le contraddizioni di questo movimento perché la sua stessa anima e forza è stata la sua malattia mortale: l’anticipo con cui una soggettività diffusa di alcuni strati di classe ha rappresentato una composizione politica di classe possibile. Ma il movimento, anche quello del 77, non si identifica con la composizione di classe data; è un insieme, più o meno organizzato, di avanguardie politiche, di forze soggettive che, come tale, è parte e intrattiene una relazione, dinamica o statica, con la composizione di classe, ma non arriva mai a identificarsi o combaciare totalmente con essa. La felicità del movimento del 77 è stata non tanto l’“adeguatezza” ma la dinamicità e la forzatura che ha imposto al maturare di configurazioni nuove nel sistema di relazioni produttive. Come tale, è stato movimento, a pieno titolo, di avanguardie politiche di massa. In questo, il movimento del 77, nel suo salto in avanti, esprime anche una continuità politica caratteristica della situazione italiana: il peso della soggettività politica, dell’accumulo di lotte e di organizzazione proletaria sulle determinazioni del circuito di produzione e di riproduzione (l’iniziativa e la ricomposizione proletaria spingono e determinano il cervello capitalistico; la composizione tecnica insegue la composizione politica di classe). La capacità di proiezione politica dell’operaio-massa sulla società, sui meccanismi di riproduzione delle classi sociali, impiantata nel centro del ciclo delle lotte di fabbrica ha determinato il saltare delle curve salari-occupazione e la rigidità del mercato del lavoro, ma ha anche determinato quella circolarità di lotte proletarie che ha dato un corpo sociale al rifiuto del lavoro e ha aperto un ciclo di auto valorizzazione del lavoro sociale complessivo. Da questa determinazione proletaria ha dovuto ripartire l’iniziativa capitalistica, assumendo l’intero ambito dei rapporti sociali, produzione e riproduzione, come terreno della ristrutturazione. Ma, ancora una volta, ha trovato l’iniziativa proletaria di fronte. Così una soggettività diffusa è diventata capacità materiale di interpretare la collocazione centrale che lo stato di classe, quello del lavoro precario a media o alta qualificazione – data o in via di formazione – veniva ad assumere, in prospettiva, nella accumulazione capitalistica, nel processo di valorizzazione e immediatamente nella crisi e nella ristrutturazione capitalistica. Riuscire ad unire l’estraneità di questa nuova figura di classe dalla forma della mediazione contrattuale e le sue relazioni, produttive e politiche, con la composizione di classe data e con la sua trasformazione, era il nodo su cui il movimento del 77 doveva misurarsi e su cui sono mancate le forze soggettive. Per questo occorreva impostare il rapporto tra organizzazione-ricchezza della soggettività diffusa (movimento) e composizione di classe. In effetti il movimento, sempre più teorizzato come auto-riproduzione, è rimasto al di qua di entrambi i lati del rapporto. Allora, i passaggi in avanti stanno tutti nella capacità di riprendere lucidamente i termini del rapporto tra composizione di classe e organizzazione; al di fuori di questo, qualsiasi tentativo di continuità del movimento si dà come regressiva e incapace di affrontare i compiti di fase. Dobbiamo, dunque, ripartire, anche se molto sinteticamente, dai principali dati della trasformazione del processo di valorizzazione e quindi della composizione di classe, a partire dalle risposte che il capitale nazionale, nel quadro di quello internazionale, è stato costretto a dare al ciclo di lotte dell’operaio-massa nelle metropoli capitalistiche. Di fronte all’ampiezza e alla forza del processo di auto-valorizzazione proletaria, dispiegato sullo intero rapporto di produzione e di riproduzione, il capitale ha aperto una fase di ridefinizione del processo di valorizzazione che riuscisse ad avere un carattere di penetrazione e continua erosione della compattezza e della rigidità del cuore di classe; evitando la forma, sconfitta politicamente, del piano come impatto frontale con i livelli di autonomia di classe. La crisi, come forma stessa dello sviluppo è diventata la forma più adeguata alla continua e puntuale verifica dei rapporti di forza, al trasformarsi dell’economia politica in riarticolazione continua del comando capitalistico e in “guerriglia” politico-economica contro il largo di classe. Si può parlare, come è stato detto, di “ristrutturazione singhiozzante” e di “riconversione strisciante” per descrivere il carattere discontinuo e politico di questa riarticolazione dei rapporti di produzione. Questo non contraddice, ma anzi realizza politicamente, l’emergere di direttrici fondamentali della riorganizzazione capitalistica internazionale, nella fase delle multinazionali, che hanno al centro un diverso rapporto mondiale fra massa e saggi di plusvalore nel rapporto e all’interno di aree politiche la cui determinazione è data dai saggi differenziati di conflittualità nel ciclo internazionale dell’operaio-massa. L’Italia come punto medio capitalistico e punto alto operaio, e doppiamente al centro di questa riorganizzazione del mercato mondiale dei processi di valorizzazione. Tutto converge in un attacco concentrico alla rigidità politica, operaia e capitalistica, del rapporto tra fabbrica tayloristica e operaio-massa.

1) Sempre nel carattere discontinuo e politico, legato alla dimensione dei rapporti di forza, quindi tendenziale: il passaggio, dell’asse portante dell’accumulazione, dalla produzione di beni di consumo durevoli alla prevalente produzione di mezzi di produzione. Questo come passaggio ad una nuova distribuzione internazionale degli operai di fabbrica in una nuova composizione internazionale della classe operaia. Assistiamo al decentramento internazionale dell’operaio comune e massificato di linea nelle aree mondiali a nuova industrializzazione, come rottura e salto nel vecchio assetto imperialistico mondiale. L’operaio-massa si decentra dalle metropoli capitalistiche e, insieme, si moltiplica con l’impianto ex novo di linee di lavorazione di grandissima serie in paesi a tecnologia bassa o media. Nella situazione italiana questo fa sì che “la ristrutturazione ha proprio la caratteristica di uscita, superamento della vecchia fabbrica razionalizzata, ‘tayloristica’, concentrata e rigida e verticalmente integrata, linearizzata, ultrameccanizzata, che la classe capitalistica italiana aveva realizzato con grande ritardo solo negli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60, cioè la vecchia fabbrica dell’operaio-massa, quella della Mirafiori del 1961”. Non è la scomparsa dell’operaio-massa, che ancora resta, nella forza della sua rigidità politica, perno centrale della stessa forma dell’iniziativa capitalistica. Si ha però, l’emergere di una nuova forza lavoro di tipo nuovo, frutto di un rapporto reciproco fra processi di autovalorizzazione proletari e adattamento della risposta capitalistica nella trasformazione dei processi di valorizzazione. È una nuova qualità e complessità dell’intera forza lavoro che esprime l’incorporamento di un nuovo livello di sapere sociale, che marcia in un “reciproco rapporto tra intellettualizzazione dell’operaio di fabbrica e fabbrichizzazione e operaizzazione del lavoro e del lavoratore intellettuale”.

2) La nuova forma della valorizzazione socialmente diffusa. Sotto la spinta della proiezione sociale della lotta operaia e del rifiuto del lavoro, il capitale è stato costretto ad estendere il processo di socializzazione dei rapporti di produzione. La valorizzazione viene diffusa sul territorio con la disarticolazione e la dispersione del ciclo, per renderlo più flessibile, per affrontare la nuova qualità e forma dell’offerta. È insieme un allargamento del processo di valorizzazione, in cui in Italia torna a diventare fondamentale la massa complessiva di plusvalore, e una forma nuova in cui vengono a combinarsi un uso della nuova dimensione sociale della cooperazione lavorativa e una riorganizzazione, con qualità nuove, del comando centrale di impresa. È, innanzitutto, la fabbrica diffusa, in cui il vecchio intreccio sviluppo-arretratezza viene sconvolto e riorganizzato a partire dal peso dei settori più avanzati, in cui diventano dominanti la diffusione di tecnologia e qualificazione medio-alte. È la “fabbrica sociale”, in cui è direttamente il nuovo livello di sapere sociale incorporato nella forza lavoro come insieme che viene “macinato” all’interno della valorizzazione capitalistica. Questa è la frontiera più avanzata della socializzazione capitalistica, in cui si distrugge la vecchia figura del disoccupato (fine degli strumenti di controllo degli equilibri di sotto-occupazione keynesiani): le potenzialità cooperative ormai tutte e solo interne alla crescita del lavoro sociale. Qui non basta più la dimensione d’impresa, è direttamente lo stato che, di fronte alla caduta privata del saggio di profitto, organizza il plusvalore della generale produttività sociale attraverso l’integrazione di tutta la società nella fabbrica. Altro che emarginazione, “altra società” ecc.!

3) La sfera della riproduzione dei rapporti sociali deve integrarsi sempre più direttamente e in modo “governato” al processo di produzione e di valorizzazione. È ancora una volta una dimensione tutta imposta dalle lotte. Quando è la dimensione della generale produttività sociale che si impone come ambito del processo di valorizzazione, le sue condizioni di riproduzione devono essere ricondotte alla forma del dominio capitalistico; ogni breccia diventa un varco ai processi di autovalorizzazione proletaria. Il capitale deve distruggere le sue separatezze, lo Stato del comando deve diventare sempre di più lo Stato del dominio delle condizioni di produzione e riproduzione, direttamente. La spesa pubblica cessa di essere strumento di governo del ciclo per diventare requisito essenziale della gestione dell’accumulazione, punto nodale della compatibilità e della integrazione tra rapporti di produzione e riproduzione. È indubbio che la ristrutturazione dal ’73 ha agito pesantemente sul corpo di classe, nonostante la continuità di resistenza dello strato centrale di classe, anche per il carattere sempre più scontato politicamente di questa resistenza da parte del capitale. Ma l’ipoteca che la lotta operaia e proletaria ha posto sull’intero arco dei rapporti sociali ha posto un paradosso politico che è ancora la centralità e la debolezza dell’anello italiano: la ristrutturazione (e la ristrutturazione è comando) ha agito, ha ridimensionato, scomposto, differenziato, ma non ha rotto la continuità dei processi di accumulo politico di soggettività operaia e proletaria. Questa è la contraddizione aperta da entrambi le parti. Su questo si è determinata la forma stessa della ristrutturazione, la sua impossibilità a darsi come progetto complessivo. La forma del piano, a fronte della continuità dei processi di organizzazione proletaria, non può più essere legata alla dimensione di programma, ma alla compattezza e alla intensità delle mediazioni politiche e di comando sociale, che il sistema politico è in grado di mettere in campo. Non a caso, il piano torna a darsi, nell’edizione Pandolfi, direttamente correlato alla costruzione (e alla coercizione attraverso lo SME) di una strumentazione politica capace di reggere l’omogeneità sulle direttrici politiche generali. La continuità dei processi di accumulo politico di soggettività proletaria ha portato dentro il marciare della ristrutturazione a possibilità altissime di ricomposizione adeguate alla nuova dimensione del lavoro sociale, al dilatarsi della fabbrica nella società: emerge tendenzialmente una figura produttiva complessiva: l’operaio sociale. Ma già qui occorre intendersi: non è questa la composizione di classe data, ma il rapporto che si è creato fra estensione e socializzazione dei processi di valorizzazione e continuità dell’organizzazione proletaria. L’unità del lavoro sociale, come forma generale della produttività, può entrare nel processo di valorizzazione solo distorta, spezzata, disgregata nelle forme di dominio. Allora, possiamo chiamare “operaio sociale” la potenzialità di ricomposizione e di unificazione politica che l’emergere di queste nuove figure della composizione di classe porta con sé nella dimensione raggiunta dalla cooperazione sociale. Di per sé, non è operaio sociale né il lavoro precario o part-time, né i segmenti intellettuali o l’intellettualizzazione del lavoro operaio; né è più operaio sociale il lavoratore dei servizi di quanto lo sia l’operaio di linea della grande fabbrica tradizionale. Operaio sociale non è uno strato dell’attuale composizione di classe, ma la dimensione sociale raggiunta dai rapporti di produzione e riproduzione rovesciata e ricomposta dal punto di vista della soggettività rivoluzionaria, proprio perché oggi l’unità di tutto il lavoro salariato, di tutto il lavoro produttivo sociale pone materialmente il problema di una riorganizzazione sociale adeguata alla forza produttiva del lavoro associato. Quando lo Stato diventa gestione unitaria e diretta del rapporto di produzione e di riproduzione, e il processo di valorizzazione si misura direttamente con la produttività del lavoro sociale associato, allora la capacità di dispiegare totalmente questa nuova figura complessiva, produttiva e di massa, diventa tutt’una col progetto comunista; ricomposizione e autovalorizzazione proletaria si sovrappongono e si intrecciano dialetticamente. Operaio sociale è l’ipoteca che la lotta operaia e proletaria ha posto dentro la socializzazione dei processi di valorizzazione e dentro la riarticolazione del comando capitalistico; è la possibilità materiale, fondata sui processi di lotta, di rovesciare in unità politica la ricchezza della nuova dimensione cooperativa del lavoro sociale che è oggi contesa fra autovalorizzazione e valorizzazione capitalistica. Questo è un punto di fondo che ci separa nettamente da altri compagni: per noi “l’operaio sociale” è prima di tutto un progetto politico, un rapporto inscindibile fra ricchezza e potenzialità di questa composizione di classe e soggettività politica. Non si dà, oggi, possibilità, dal punto di vista comunista, di atteggiamenti contemplativi della ricchezza di questa composizione di classe. Se è ancora oggi vero che il concetto di organizzazione e di partito deve fondarsi su quello di composizione di classe, lo ritroviamo in una dialettica infinitamente più ravvicinata e più intrecciata che nel passato, e non solo quello di Lenin, ai processi di ricomposizione di classe. Se non si dà tendenza senza soggettività che l’interpreti, oggi, brutalmente, non si dà progetto politico dell’operaio sociale senza organizzazione di partito. E proprio perché oggi si dà tutto il contrario che il problema del cappello facile, della notte nera che unifichi tutto semplicemente nell’unità politica della soggettività esistente. Perché, invece, solo un processo di organizzazione dispiegato può riuscire a tenere uniti un percorso ricchissimo di anticipazione e rovesciamento delle tendenze interne agli strati di classe e costante rottura politica delle separatezze, fondate materialmente sulle forme del dominio e della ristrutturazione capitalistica. Su questo terreno, invece, vediamo aprirsi una forbice drammatica tra potenzialità e difficoltà della fase, da un lato, e adeguatezza delle forze soggettive e organizzative, dall’altra. Il radicamento delle forme organizzative non riesce a trovare una scala sufficiente a dar si come progetto di ricomposizione e come contro-potere dispiegato. Questa forbice si sta già facendo sentire pesantemente rispetto a momenti dinamici e nodali per un riassetto organizzato della composizione politica di classe. Un esempio ne abbiamo avuto nella lotta degli ospedalieri in cui, nell’emergenza impetuosa delle potenzialità di lotta e di rottura del controllo riformista, che l’operaizzazione di altri strati sociali comporta, sono emersi drammaticamente i nodi irrisolti. Proprio nella lotta che ha visto il massimo di esautoramento della legittimità operaia alla mediazione sindacale, si è avuto il massimo di riaffermazione statale della sua forma e forza di mediazione politica. E la crisi della legittimità sociale non ha avuto la forza di trovare i passaggi per trasformarsi in crisi della legittimità politica. Per questo occorreva la capacità politica di indicare e costruire i passaggi organizzativi necessari a farle ripercorrere la riorganizzazione di tutto il pubblico impiego, da un lato, e la proiettassero socialmente contro il taglio della spesa pubblica, dall’altra. In effetti, le forze organizzate dell’autonomia sono riuscite a essere interne, a dimostrare ancora una volta il carattere interno alla nuova dimensione della composizione di classe, ma paurosamente insufficienti a sostenere organizzativamente la dimensione progettuale; là dove oggi si colloca politicamente l’esautoramento del governo sociale riformista. Ma la forbice diventa drammatica soprattutto nei tempi dello scontro di classe, nel confronto con l’iniziativa dell’avversario – che va acquistando respiro e organicità. Stiamo entrando in una fase dinamica rispetto ai rapporti di forza. Sempre più difficile diventa da entrambe le parti la riproduzione statica dei rapporti di forza; dal punto di vista capitalistico, nella continua estensione dell’insubordinazione che la socializzazione del processo di valorizzazione porta con sé a partire dalla continuità politica che s’instaura; dal punto di vista operaio nel garantire una compattezza di resistenza politica, a fronte di una continua ridefinizione del corpo di classe, senza trasformarla in un processo di ricomposizione politica di tutto il lavoro sociale. Continua a crescere da parte capitalistica questa consapevolezza. Se non si vuole leggere il piano Pandolfi solo come edizione aggiornata del libro dei sogni del capitale, va colto lo sforzo di costruzione di una volontà politica adeguata ad organizzare la strumentazione necessaria alla disciplina, nella valorizzazione capitalistica, della nuova dimensione del lavoro sociale. Il carattere politico della ristrutturazione discontinuo ha come prerequisito essenziale una strumentazione di comando e controllo politico adeguato. Ancora una volta, per il capitale collettivo, ristrutturazione del sistema dei rapporti di produzione e ristrutturazione-stabilizzazione del regime politico si intrecciano e si condizionano a vicenda. Entrambi i lati si danno come contraddittori e non lineari, a partire dal segno che portano dell’iniziativa operaia; entrambi hanno però, oggi, carattere dinamico. Il segno operaio spiega l’intreccio tra stabilizzazione della forma istituzionale del governo sociale e instabilità politica del governo. Leggere uno solo di questi aspetti vorrebbe dire perdere il carattere dinamico della fase attuale dello scontro, cadere o nell’oggettivismo che vede ormai affidata ai rapporti di capitale la trasformazione della composizione di classe, o nell’avventurismo di chi vede nella macchina statale l’unico ostacolo alla maturità dei processi di liberazione. È indubbio che proprio dentro la crisi dell’assetto politico, della sua adeguatezza ai rapporti di produzione e allo scontro di classe, il livello istituzionale, la forma-Stato ha compiuto in Italia un enorme processo di riorganizzazione. L’asse portante è stata la trasformazione del patto sociale, da forma politica, incontro e mediazione di volontà politiche delegate, a forma istituzionale, con un ampliamento e una socializzazione delle forme di organizzazione e di trasmissione del comando statale, adeguate alla gestione diretta dell’accumulazione e al comando sulla dimensione raggiunta dalle forze produttive. Lo Stato ritrova la sua legittimità nell’esercizio di fatto del comando sociale, funzione della capacità di disarticolazione e stratificazione del lavoro sociale. Partito e sindacato ribaltano la vecchia formula della società liberale, invertono la direzione del. processo di trasmissione della volontà, si fanno Stato. Questo processo di istituzionalizzazione ha permesso di portare a compimento la riorganizzazione del comando statale, di svuotare definitivamente la forma ormai vuota del Parlamento, come momento di formazione e di mediazione di volontà politiche. Hanno ragione i parlamentari a protestare contro i moralismi dell’assenteismo parlamentare, il loro lavoro si svolge realmente altrove, le commissioni diventano molto di più: gli organismi reali di istituzionalizzazione del patto sociale e la forma adeguata di continuità del comando politico. Rimangono i radicali e i neo-parlamentari a invocare l’assise che legittimi il loro ruolo! Al Parlamento rimane però una funzione: quella di registrare periodicamente e puntualmente la forma della crisi politica, lo scontro di classe come termine reale di confronto della riorganizzazione istituzionale. Ed è il punto nodale dove l’istituzionalizzazione deve misurare la sua funzionalità al governo dello scontro di classe. Questa contraddizione lega le due facce del marciare del processo di istituzionalizzazione e di riorganizzazione del comando statale e della precarietà dichiarata dell’assetto politico. La contraddizione si scarica oggi centralmente nel PCI. La DC, sfruttando anche la progressiva integrazione internazionale, ha portato fino in fondo la sua identificazione con gli apparati, la riorganizzazione statale, sostituendo la centralità statale alla centralità politica. Si è potuta permettere un aumento della flessibilità politica, garantita dalla rigidità statale e istituzionale, scaricando così l’insieme delle contraddizioni sul PCI. L’ultima crisi è il prodotto di questa contraddizione fondamentale. Il PCI è entrato ormai irreversibilmente nello Stato, ma non è riuscito a entrare nel governo; questo perché il governo sociale, prodotto dall’istituzionalizzazione del partito e del sindacato, non è riuscito ancora a superare il suo carattere formale (nel senso di istituzionale e non di vuoto!), a diventare rottura della continuità dei processi di organizzazione proletaria, a rompere quindi la continuità nella trasformazione di classe. Questo è il dato positivo; contrarlo a qualsiasi mito di recuperabilità del PCI, che sconta invece il carattere irreversibile del patto istituzionale. Anche se questo, tatticamente, nel breve periodo, può innalzare un polverone, sulla nuova posizione del PCI, di ostacolo al processo di logoramento di massa dell’egemonia revisionista sugli strati di classe che si è iniziato. L’uscita del PCI dalla maggioranza è il tentativo di rivitalizzare formalmente i termini della contraddizione: tenere insieme opposizione e governo. “Stare all’opposizione con una cultura di governo”, come indicano gli illuminati del PCI, cioè rivitalizzare nel proprio apparato una capacità di mediazione e di governo degli strati sociali che dia per acquisito il definitivo inserimento nell’assetto istituzionale. Ricostruire una forza alla propria capacità di governo. L’opposizione diventa sempre più formale, il governo sempre più sostanziale. Ancor più in questo passaggio attuale il compromesso storico si dà come miseria strategica e forza tattica; miseria strategica perché organicamente estraneo e nemico alle possibilità della nuova composizione di classe; forza tattica perché interprete reale del carattere politico della ristrutturazione di capitale (anche se estraneo ad una sua capacità di guida oltre che di rovesciamento). È molto più la collocazione oggettiva di questo ruolo, oltre al furore ideologico, a spingere continuamente il carattere forcaiolo del riformismo attuale. Questa divaricazione è un varco enorme a processi di massa, di rottura della mediazione, ma nella forma della possibilità, non della spontaneità; a patto di saper legare in modo organizzato e dispiegato la forza attuale della mediazione alla sua tendenziale debolezza, cogliendo i passaggi che trasformano un sistema di bisogni in un sistema di lotte.

Seconda parte: linea politica e prassi di un progetto comunista

SOGGETTO COLLETTIVO COMUNISTA E SUA MILIZIA
Una grande confusione ed un’impressionante faciloneria sembrano caratterizzare, nella fase attuale, il dibattito politico tra i compagni comunisti con gravi e conseguenti ripercussioni nella dinamica interna alle sezioni comuniste organizzate dell’ AUTONOMIA OPERAIA in merito alla questione della militanza comunista e sulle caratteristiche moderne della soggettività combattente.
La faccenda ci preoccupa perché le soluzioni politico-organizzative date al problema in una direzione o in un’altra marcano poi in maniera essenziale lo sviluppo della linea politica nei processi “per la organizzazione” del nostro paese.
Quindi, giocoforza, occorre partire da lontano.
È indubbio che la complessità dei rapporti sociali di classe in un paese “a tardo capitalismo”, accompagnata dall’enorme mostruosità dell’apparato burocratico-militare della legalità del comando dello Stato Capitalistico Multinazionale e dall’estensione sociale articolata e radicata del sistema politico delle istituzioni sindacato-partiti in funzione di controllo del consenso proletario al dominio borghese e alla dittatura capitalistica sulla società civile, comporti, questa complessità, una risposta a sua volta articolata e complessa.
La costruzione, quindi, del soggetto comunista o si fonda nella risoluzione, di volta in volta parziale nella pratica, di tutti i problemi sovraesposti o cresce viceversa solamente su alcune loro parti.
Il nodo da sciogliere è questo.
A noi comunisti interessa ragionare su due posizioni presenti tra i compagni.
In primo luogo con quella espressa dai compagni comunisti del “partito armato”.
A questi compagni siamo vicini per la comune convinzione che l’elemento indispensabile per la fuoriuscita dall’opportunismo e da linee politiche revisioniste, per decenni se non da sempre presenti e dominanti nel movimento operaio e proletario, come per un’ipotesi possibile di potere operaio rivoluzionario, sta questo elemento, nella scelta di campo della lotta armata, IN QUANTO DISCRIMINANTE DI CLASSE PER QUALSIASI DISCORSO O PROGETTO DI RIVOLUZIONE COMUNISTA E NELL’OCCIDENTE CAPITALISTICO.
Su questa acquisizione storica, teorica e pratica, radicata al nostro interno strutturalmente in passaggi politico-organizzativi irreversibili, non si torna più indietro.
Il problema, allora, diventa su come la lotta armata comunista si sviluppa e si organizza.
Dare continuità ad un progetto di fuoco contro l’aspetto burocratico militare della dittatura capitalistica, con l’intelligenza ed il metodo necessario e particolari che ciò richiede, crediamo sia indispensabile per una prospettiva comunista di reale liberazione ma, c’è sempre un ma, se tutto questo è legato alla strategia e nelle tattiche di fase con altri aspetti del nostro discorso: dalla rottura del consenso al revisionismo, alle lotte operaie contro i rapporti di produzione e riproduzione capitalistici.
Come dirlo in altri termini?
Noi pensiamo, ad esempio, che il movimento operaio storico in quanto tale rappresenti un fortissimo ostacolo per qualsiasi possibilità di salto rivoluzionario nel nostro paese.
Cioè pensiamo che la sconfitta della “cricca berlingueriana” non potrà non essere effetto, per essere vittoria proletaria, della crisi politico-ideologica dell’interno mov. op. storico e di una sua auspicata rottura organizzativa, umana e di credibilità storica.
Affermare questo è una cosa, lavorare al contrario per un “ricambio” della sua direzione è un’altra, ereditando in tal modo l’intero patrimonio riformista, nell’impianto come nella qualità del soggetto proletario d’avanguardia.
Questo movimento istituzionalizzato è un prodotto pluridecennale delle lotte di classe tra proletariato e capitale, risultato materiale di una sintesi ininterrotta che ha visto e vede la classe incapace, da questa posizione, di partorire una linea politica di attacco all’iniziativa capitalistica, linea sempre difensiva.
Nella sua struttura materiale, nelle persone come nei rapporti organizzativi tra queste persone, tale movimento è nato e cresciuto in posizione subalterna al “mondo capitalistico”.
Cambiarlo, dunque, significa romperlo.
Bene, ma come?
Non certamente saltando, senza meditazione nella linea di combattimento, da un livello di critica ideologica, ad un livello di giustizia sommaria.
Anche se contro porci, spie, ruffiani del nemico di classe, la linea di combattimento non può ignorare che in questa fase, ora, questi sono particolari individui, legati a strutture politiche e sociali, capaci di gestire strati di maggioranza di classe e quindi, da subito, pronti ad innescare confusione, mistificazione ed isterismo anticomunista, con il pericolo di un capovolgimento all’interno della classe di un corretto misurarsi degli operai e dei proletari con la proposta e le ipotesi del progetto comunista di combattimento e di liberazione contro e dallo sfruttamento capitalistico.
Ad un programma di organizzazione per individuare e smascherare i revisionisti compromessi, con una adeguata risposta militante di fase, occorre parallelamente praticare con priorità la critica politica, pubblica, sul terreno delle contraddizioni di classe e sullo stato reale dei rapporti di forza tra capitale e proletariato in fabbrica, nei settori della produzione sociale, nei territori.
Obbligare il revisionismo a confrontarsi sul terreno che la tua battaglia vuole praticare: questo è il compito principale, oggi, per le avanguardie comuniste.
Ma per poter fare tutto questo c’è bisogno di una leva di rivoluzionari le cui caratteristiche generali non sono riconducibili unicamente alla “dimensione clandestina”.
Cioè ad un’impostazione della militanza utile allo sviluppo di ben determinati compiti di un’organizzazione comunista matura, ancora da conquistare, ma monca se non è immersa in un’articolazione organizzativa, molto, molto, più vasta.
Dove non siamo più d’accordo è quando una possibile qualità dell’organizzazione viene ad assumere un carattere di universalità nelle soluzioni alle domande e alle necessità di organizzazione.

ROTTURA DELLA CONTRADDIZIONE CLANDESTINITÀ – NON CLANDESTINITÀ
La contraddizione clandestinità- non clandestinità ha assunto negli anni una funzione via via sempre meno positiva all’interno del movimento comunista.
Non si può negare che il concretizzarsi nei territori dell’occidente dei fuochi comunisti sia stato un qualcosa di fondamentale.
È stato utile ed intelligente dialettizzare all’interno del movimento comunista questa contraddizione, favorendo quei processi che riassumevano in parte le caratteristiche complessive del quadro comunista e dell’organizzazione che su di esso va costruita.
In un laboratorio eccezionale quale è la realtà reale e il movimento continuo delle cose e degli uomini, si sono sviluppate tutte le energie, le istituzioni, le ipotesi, le esperienze, dei comunisti, riconducibili alle fasi precedenti e con i lori limiti; in un periodo dove non era possibile disciplinare tutti i comunisti in un percorso omogeneo e unitario di progetto.
Il passaggio di centinaia di compagni alla lotta armata, nell’ideologia come nella prassi, ha arricchito questa ipotesi, ha insegnato a noi tutti il loro possibile sviluppo futuro dentro un processo più generale, con le eventuali ripercussioni negative e positive dentro la classe a partire da una loro applicazione.
Bene. Possiamo affermare che la fase della semplice sperimentazione è finita.
La lotta armata è una variabile proletaria, indipendentemente dalla logica dello sviluppo capitalistico.
Ne consegue che un ulteriore passo in avanti del lavoro dei comunisti, delle organizzazioni rivoluzionarie, è e sarà positivo se assumerà i compiti e le responsabilità proprie di una nuova fase, questa volta più complessa e matura.
In altre parole deve passare in secondo piano nella discussione, nelle scelte, nella pratica, l’accentuazione di spinte fuorvianti, portate alla differenziazione netta, totalizzante, su criteri parziali della militanza comunista.
Per essere più chiari sosteniamo che la propaganda della lotta clandestina e di quella non clandestina, con percorsi diversi dentro il movimento comunista, con tutte le articolazioni di discorso e di pratica, ha dato i suoi risultati voluti. Continuare con questa metodologia sarebbe il suicidio soprattutto se c’è il pericolo di una spaccatura in un corretto equilibrio dinamico, tra questi due poli della lotta armata nel nostro paese.
Questo perché “la forma non clandestina” deve fare i conti con tutto l’arco dei problemi: ristrutturazione capitalistica nella sfera della produzione e della riproduzione, tenuta e crescita del potere proletario organizzato, pratica del programma nelle forme più opportune di lotta e di organizzazione degli strati proletari.
E non è poco compagni!
Se poi “la forma clandestina” rompe questo corretto rapporto con i problemi sopra elencati, rapporto politico per eccellenza e accelera i propri processi, allora il pasticcio diventa il tragico errore con brutte prospettive.
Guarda caso, ci troviamo in una situazione del genere.
Non è possibile, siamo contrari, che la ricchezza e le dimensioni della lotta armata vengano ricondotte, marcate in modo univoco, dalle azioni di combattimento, che tutti noi conduciamo, contro gli aspetti burocratico-militari del nemico e alle qualità tecniche e politiche d’impianto che permettono di eseguirle.
Non si può ghettizzare i compagni e soprattutto le future potenzialità proletarie solamente su uno dei modi di condurre il combattimento. Il movimento bisogna arricchirlo della complessità dei problemi; occorre operare perché si armi e si rafforzi per sostenere ed accettare la sfida capitalistica su tutti i fronti dove si danno conflitti di classe.
Lo stile di lavoro dei comunisti è, da oggi in poi per quanto riguarda i criteri e le leggi per la costruzione del partito rivoluzionario, una questione interna ai comunisti e al loro lavoro.
Se alcuni compagni, invece, continueranno a spingere l’acceleratore per uno schieramento drastico, sui tempi lunghi, tra i compagni del movimento comunista, sui diversi modi di organizzare il combattimento, da parte nostra, verranno prese istanze sempre più nette, con una chiara lotta politica contro queste posizioni.
Perché, compagni, non possiamo permetterci il lusso, tutti noi, di mostrare semplicemente a migliaia di compagni che è possibile azzoppare e giustiziare un nemico di classe se nel contempo non lavoriamo, o lavoriamo contro, per costruire una diversa qualità complessiva del soggetto collettivo comunista; diversità, se permettete, da quello che è stato ed è il soggetto revisionista.
A noi non va bene una sintesi tra “sinistrismo democratico di base” interno al revisionismo e volume di fuoco come unico modello di militanza organizzata comunista.
La clandestinità ha certi percorsi e cittadinanza, per chi la pratica, ma non può essere giustificazione per l’opportunismo di altri e su altri terreni.

3) PARTITO – UNITÀ E SEPARATEZZA
CICLI DI LOTTA E MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO
A noi interessa, ripetendo, un soggetto comunista collettivo in grado di inchiodare l’avversario revisionista su tutte le contraddizioni della sua politica; un soggetto “riconoscibile” politicamente dai proletari in lotta, senza parametri o travestimenti che vadano a confondere la sostanza del tuo discorso (travestimenti non confusi certamente con le necessarie norme di sicurezza della struttura interna dell’organizzazione, o con altro.)
In questo passaggio di discorso sta un’altra questione che va affrontata con quei compagni che della parola d’ordine dell’organizzazione, del partito, danno un’interpretazione, secondo noi, poco chiara e nella sostanza scorretta.
Infatti la nostra polemica con i compagni del “partito armato” non mette in secondo piano, o addirittura fa sparire come se lo augurano i corvi vicini e lontani, il problema della costruzione di un processo nazionale di centralizzazione dei comunisti; anzi, semmai lo riafferma come prioritario e indispensabile.
Converrà, quindi, soffermarci su alcune “categorie” di discorso, mai ben chiarite ed analizzate all’interno del Movimento Comunista e dell’autonomia operaia organizzata, in particolare; anche se fiumi di inchiostro, con dotte e cattedratiche analisi, hanno riempito la stampa comunista.
Quando parliamo di soggetto comunista collettivo intendiamo ben precisi comportamenti, ambiti, forme, metodo e compiti.
Nel senso che non solo discriminiamo tra i rivoluzionari ma anche e innanzitutto tra questi e i movimenti spontanei di massa che si danno periodicamente, per cicli, su ben determinati rapporti di forza tra le classi.
Andiamo per ordine.
LENIN sostiene – “Quali sono le esigenze essenziali che ogni marxista deve porsi nell’analisi delle forme di lotta? In primo luogo, il Marxismo differisce da tutte le forme primitive di Socialismo, in ciò che esso non lega il movimento a una determinata forma di lotta.
Esso riconosce le forme di lotta più differenti, e non le “inventa”, ma non fa che generalizzarle, organizzarle e rendere coscienti quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie, che sorgono spontaneamente nel corso del movimento.
Irriducibilmente ostile ad ogni formula tratta, ad ogni specie di ricette dottrinarie, il Marxismo richiede un atteggiamento pieno di attenzione verso la lotta di massa che si sta svolgendo e che genera sempre nuovi e diversi metodi di difensiva e offensiva, in relazione con lo sviluppo del movimento col crescere della consapevolezza delle masse, con l’aggravamento delle crisi economiche e politiche.
Perciò il Marxismo non respinge in modo assoluto nessuna forma di lotta. In nessun caso il Marxismo si limita ad impiegare le forme di lotta possibili ed esistenti solo in un dato momento, riconoscendo che, col mutamento di una data congiuntura sociale, sono inevitabili nuove forme di lotta sconosciute ai militanti del periodo dato.
Sotto questo rapporto il Marxismo impara, se ci si può cosi esprimere, dalla scuola pratica delle masse, non avendo affatto pretesa di insegnare alle masse forme di lotta escogitate da dei “fabbricanti di sistemi” nei loro gabinetti..”
Siamo d’accordo.
I movimenti spontanei di massa devono essere diretti, fin dove è possibile, sui terreni di rottura, della legalità borghese e dei lacci della pace sociale ma, da parte comunista, senza pericolose illusioni sulla loro possibilità, ogni volta, di tenuta e di continuità di discorso e di pratica.
Qui non si tratta di avere o non avere fiducia nelle masse e nella loro capacità di dire l’ultima parola nella risoluzione dei conflitti di classe in una fase storica – nel nostro caso poi il dubbio interrogativo sarebbe mal riposto.
Semplicemente è ora di finirla col mistificare la realtà di classe in tutta la sua estensione con la realtà del Movimento Comunista Organizzato e della soggettività rivoluzionaria in particolare.
Quante volte parlando di organizzazione non si capisce di quale “tipo” di organizzazione si tratti, di chi deve essere e è organizzato: l’organizzazione dell’operaio sociale non è proprio la stessa cosa dell’organizzazione dei comunisti, e cosi via.
Si tratta di dire e chiamare ogni cosa con il proprio nome, con il massimo di chiarezza possibile tra i rivoluzionari e dentro il M.C.O., che è un’altra cosa.
E se parliamo di M.C.O. bisogna distinguere tra soggetto collettivo nella sua interezza e funzioni e ambiti di direzione del quadro comunista, che a sua volta è un’altra cosa.
È acquisito definitivamente, tra di noi, dall’esperienza, e non solo dalla teoria, che c’è separatezza, ci deve essere separatezza, tra soggetto comunista e movimenti spontanei. Separatezza non nel senso che l’uno sta sulla luna e gli altri sulla terra ma nella capacità di organizzare con continuità l’iniziativa proletaria dentro i sommovimenti spontanei, con l’autonomia della propria critica e di battaglia politica al loro interno.
Non è possibile legare “le fortune e le sorti” della soggettività comunista alle esplosioni di lotta e alle loro ricadute senza determinare soglie politiche e organizzative in grado di sedimentare e raccogliere le potenzialità proletarie di rottura che queste esplosioni liberano dalle pastoie del revisionismo e dalle catene dell’organizzazione capitalistica.
Esaltare, giustamente, la spontaneità senza vederne la negatività è un grosso errore politico e di impostazione del discorso.
Questa continuità dentro la classe, all’interno delle sezioni di proletariato, non può che essere garantita che dalle strutture operaie e proletarie, cioè dal M.C.O.
Una rete proletaria, articolata, e ricca nella sua complessità, omogenea sul programma, sulla metodologia per la sua realizzazione; una soglia politica organizzata, quindi, per poter articolare il programma, come cuneo da lanciare continuamente contro il muro di gomma revisionista; punto di riferimento di classe, per la classe, per l’esercizio del potere proletario in quanto rottura ed illegalità dei comportamenti proletari dentro i territori.
Il M.C.O. è qualcosa di radicalmente diverso, nell’impianto come nella capacità di offesa, dai movimenti ciclici di massa. E questo per noi è una netta discriminazione di linea politica.
Il M.C.O. si dà al proprio interno quegli strumenti e quello stile di lavoro che gli consentono di costruire un ponte tra le diverse fasi dello scontro di classe.
Quindi l’M.C.O. lavora con metodo, in ben precisi ambiti, dentro “forme” organizzate concrete, con compiti precisi.
Lo si può riassumere in:
a) articolazione del programma comunista a livello territoriale;
b) sviluppo dell’illegalità di massa e pratica del contro-potere proletario;
c) strutture militanti verificate continuamente sulla capacità di costruire programma e sull’uso della forza proletaria, necessaria per concretizzare le parole d’ordine.
Certo, questo è il piano di lavoro ma non bastano questi passaggi per garantirne la realizzazione.
Infatti non distinguiamo tra i rivoluzionari per compiti e per funzioni; cioè pensiamo che se di “eguaglianza” tra comunisti si deve parlare – i compagni di strada sono un’altra cosa – questa va intesa nel senso di una comune responsabilità politica, di una eguale verifica pratica della militanza di ciascun compagno, di una eguale consapevolezza della necessità di uno stile di lavoro disciplinato.
Non certamente, però, in un appiattimento formale ed in una mistificazione ideologica, nel concetto di “Uguaglianza”, propri solo storicamente, nella loro massima esemplificazione, del capitalismo e della legalità e morale borghese.
In definitiva, fuori dai denti, i compiti e le responsabilità funzionali al progetto tra i compagni non sono appunto, eguali.
Parallelamente all’impostazione politica e alla costruzione concreta delle organizzazioni proletarie del partito noi affermiamo il concetto di materialità del partito in quanto struttura centrale, di direzione, di sintesi politica ed organizzativa, di cassaforte della intelligenza collettiva comunista e della ricchezza del programma proletario.
Due soglie, quindi, l’M.C.O. e la direzione di partito strettamente unite ed intersecate nell’oggettività dei percorsi di lotta e di combattimento, nella militanza dei compagni, ma anche con tempi e metodologie diverse, autonome tra loro.
Direzione dell’M.C.O. non “imposta dal cielo o dall’esterno”, come amano dire amleticamente alcuni compagni, ma conquistata, provata, riconosciuta, nei fatti, nelle scadenze, dell’impegno, dell’indicazione di nuove possibilità, di nuove ipotesi.
Ma, ancora, “funzione di direzione” imposta con la più “brutale” e schietta franchezza e pesantezza da parte di noi comunisti all’interno del movimento.
È indispensabile che ogni compagno nelle varie tappe del suo crescere politico-ideologico, garantisca il massimo possibile di unità e di disciplina all’interno di questo “discorso praticato”.
Solo tale sicurezza collettiva, da tutti data e pretesa, può garantire, secondo noi, la continuità e lo sviluppo del movimento organizzato dentro le lotte, abbassando al minimo le possibilità per una sua disgregazione organizzativa e per una sua sconfitta politica di fronte all’attacco di un nemico sempre più organizzato ed articolato, di un Capitalismo sempre più internazionalista a modo suo, di uno Stato Multinazionale centralizzato.
La posta in gioco, compagni, è la possibilità della vittoria, dello sfondamento, nell’occidente capitalistico della rivoluzione proletaria, per il comunismo.
Quindi che ognuno stia al proprio posto.
Cadono, invecchiano, come accennavamo sopra, le vecchie polemiche del tipo “il partito di concezione leninista è fuori dalla classe, il problema è starne dentro”.
La contraddizione dentro-fuori, interno-esterno, deve essere affrontata saldamente nel progetto comunista e risolta di volta in volta.
Occorre sparare, politicamente si intende, contro chi si veste ideologicamente con una vecchia, di comodo, posizione che riflette in questo caso, nella sua imposizione, problematiche del passato, degli albori del movimento attuale.
Posizione che, molte volte, serve a coprire e a dare “dignità” politica, all’opportunismo, all’impotenza, all’immobilismo, ad un ruolo di freno dentro le lotte e dentro il movimento, con caratteri reazionari nella sostanza.
Tutto questo non può che far felice il nemico di classe per l’aiuto insperato – senza un suo “intervento diretto” – nel neutralizzare e rendere “innocue” possibili potenzialità proletarie di rottura e di lotta.
Perché è ora di finirla, compagni!
A chi blatera che la nostra politica concepisce un movimento “statico” e “non ricco di dibattito”, che intoppiamo e non capiamo le nuove possibilità di allargamento del movimento, rispondiamo che:
a) la presunzione e l’individualismo idiota sono due gran brutte bestie da eliminare tra i compagni;
b) quando si parla di lotte e di movimento bisogna come minimo essere dentro le lotte e costruire la organizzazione del movimento;
c) bisogna smetterla di confondere la propria individualità con la realtà reale delle cose e delle classi e, umilmente e modestamente, riconoscere e capire che le lotte e il movimento si sviluppano per il lavoro collettivo di migliaia di compagni e in condizioni oggettive di classe.
Decidetevi, compagni.
Riconoscetevi in qualcosa, perché non può durare a lungo il fatto che non vi va bene niente (scaltrezza?); e con ciò non militare in alcuna struttura del M.C.O. ma, come diceva Lenin, uomo perspicace, fabbricare progetti, da capipopolo quali voi siete, dai vostri gabinetti.
Scrivevamo: centralizzazione nella pluralità dell’autonomia proletaria; lo ribadiamo.
Ma “non!”, ad una pluralità intesa come orchestra di voci “solitarie”, inconsistenti, marce di opportunismo.
E pluralità, per rispondere a tutte le stupide obbiezioni e false interpretazioni del nostro discorso, dei soggetti in lotta, dell’illegalità politica organizzata di stati proletari, dentro comportamenti maggioritari.

ZONA OMOGENEA E MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO (M.C.O.)
Ripetere e ricordare certi concetti politici è sempre utile; in questo caso quello di territorio e di zona omogenea.
La “dimensione territoriale”, sia nelle analisi, che nelle intenzioni di pratica politica, sembra essere diventata parte integrante di gran parte degli spezzoni dell’Autonomia Operaia a livello nazionale. Vogliamo dire che passi in avanti sono stati fatti da quando iniziammo alcuni anni fa la “lunga marcia” attraverso i territori del Veneto, convinti, come lo siamo tutt’ora, che solo in questa direzione può svilupparsi il progetto comunista. Ma, territorio e zone omogenee, sono acquisizioni teoriche e pratiche dinamiche e, quindi, occorre, in questa fase non limitarsi a reintrodurre in senso generale queste categorie di analisi del reale, ma chiarire e articolarne la sostanza e l’evoluzione.
Noi diciamo che con zone omogenee, l’intelligenza collettiva comunista opera una forzatura di interpretazione dello scontro di classe; forzatura indispensabile per “semplificare” l’enorme complessità di intrecci e di relazioni che tessono il territorio capitalistico.
Lo scontro di classe, conflitti tra proletariato e capitale si danno, non solo dentro a luoghi ben visibili della produzione (fabbrica, ospedale, ecc.) ma anche nei territori dove produzione e riproduzione dei rapporti capitalistici allargati tendono a confondere, ad annullare i confini tra quello che è la fabbrica tradizionale e quello che sta fuori dai cancelli e dai portoni.
Zone omogenee territoriali nelle città e fuori dalle città, nelle province: in questa scelta strategica, per noi insostituibile, sta il rifiuto e la lotta contro la divisione capitalistica del lavoro sociale e il ribaltamento, dal punto di vista proletario, della logica padronale che sovraintende alla organizzazione produttiva e politica dell’intera società civile; questa immensa fabbrica diffusa dove lo sfruttamento assume dimensioni generali e totalizzanti.
Zona omogenea in quanto omogeneità produttiva del ciclo, in quanto omogeneità di lotta e di storia di classe, in quanto omogeneità nella unità complessiva dei rapporti di riproduzione della classe, in quanto omogeneità per una possibilità reale di costruire percorsi politici e organizzativi di strati consistenti di proletariato.
Nella zona omogenea, non solo riscopri, lo abbiamo verificato, la altra dimensione della produzione (il lavoro decentrato, lavoro nero, un mare di unità produttive) ma anche sveli l’intera macchina sociale umana, ideologica, preposta al controllo e al mantenimento della stabilità e della pace tra le classi. Non insisteremo mai abbastanza su questo punto.
Quando si parla di Stato capitalistico e di sue articolazioni, bisogna stabilirne i reali contorni e le esatte dimensioni.
Nei quartieri, nei centri storici, nelle province, nelle zone omogenee che attraversano tutta questa divisione capitalistica del territorio, la pratica dell’obbiettivo, del programma proletario, fa i conti, da subito, pena la sconfitta e l’impotenza, con parti dell’apparato capitalistico, molto spesso “visibili”, infiltrate in tutti i momenti dell’organizzazione sociale.
Il territorio, quindi, inteso in tal senso diventa terreno centrale delle lotte per l’imposizione del programma proletario.
Occorre portare nei settori i comportamenti dell’illegalità di massa, la pratica, l’indicazione generale di liberazione che si danno compiutamente a livello territoriale; infatti, unico tramite tra zone omogenee e loro settori produttivi, è lo sviluppo delle organizzazioni proletarie autonome. La sintesi politica e pratica di questa contraddizione è organizzativa; è il programma praticato e organizzato.
Non esiste altra possibilità. I comportamenti spontanei di massa, le impennate di classe delle sezioni di proletariato possono dispiegarsi in tutta la loro forza solo attraverso passaggi e soglie organizzative. Questa articolazione materiale del programma proletario, cioè l’M.C.O. a livello territoriale, per noi, in base al percorso “originale” fatto finora, significa in generale:

1) GRUPPI SOCIALI TERRITORIALI
L’esperienza e la pratica in questi anni hanno arricchito e chiarito il ruolo di queste strutture proletarie; rappresentano per noi l’ossatura centrale dell’organizzazione territoriale di base, sono la concentrazione, nella zona omogenea, dell’esperienza di lotta, dell’esemplificazione del programma proletario.
All’interno della zona si muovono su due livelli:
a) pratica delle tematiche comuniste, tentativo continuo di innescare processi di lotta proletaria tra le maglie del meccanismo sociale di comando di controllo, veicolo politico di ricomposizione proletaria, strumento di combattimento di massa in mano ai proletari in lotta;
b) come strutture militanti di crescita politica e organizzativa per i compagni della zona; quindi ambito entro il quale la potenzialità proletaria emergente dalle lotte, viene ricompensata e disciplinata nella pratica dell’illegalità di massa, nella generalizzazione di nuove forme di lotta, nell’imposizione del programma attraverso lo sviluppo delle ronde militanti dei servizi d’ordine, per l’uso intelligente della forza.
Certo le differenze tra zona e zona, sono molte volte notevoli, per lo sviluppo delle contraddizioni di classe e per continuità possibile nella pratica di lotta; ma queste “peculiarità” riunificano tutti i G.S. dentro un’eguale metodologia di lavoro e di impostazione del programma.

COMITATI DI LOTTA
COORDINAMENTI OPERAI E PROLETARI
(di prossima stesura)

COMITATI CITTADINI PER L’AUTONOMIA PROLETARIA
COMITATI TERRITORIALI
Il territorio, visto come terreno di ricomposizione comunista degli strati proletari, è un’insieme di zone omogenee, di settori produttivi di classe.
La questione, allora, come accennavamo sopra, è la sua riunificazione politica complessiva dentro il progetto politico, nella pratica del programma. Noi diamo una risposta a questa ulteriore e più complessa articolazione individuando nei territori cittadini e in quelli di provincia due caratteristiche proprie e quindi con tempi e ritmi diversi per la risoluzione del problema.
Comitato Cittadino per L’Autonomia Proletaria è la proposta di organizzazione a partire dai G.S. cittadini, dai Comitati di Lotta, dai Coordinamenti (es. Pubblico Impiego) ecc., rivolta a tutta la molteplicità delle esperienze di lotta e della soggettività proletaria nei settori di classe. Deve diventare la struttura politica pubblica centrale a livello cittadino, capace di raccogliere, e farne la sintesi, di tutte le indicazioni, le particolarità, le “settorialità”, dell’antagonismo proletario, della militanza comunista.
Punto centrale, quindi, in grado di scadenzare e omogeneizzare l’articolazione del programma, conquistandosi la responsabilità di “momento organizzativo e di direzione territoriale” per tutti i proletari in lotta. Rappresentano, in questa fase, il passaggio più importante e più difficile del progetto comunista, la cui realizzazione proietta enormi possibilità di sviluppo per l’Autonomia Operaia e Proletaria.
Comitato territoriale: è la riunificazione del programma, è direzione di tutte le avanguardie proletarie sparse nelle zone della provincia, quindi, centralizzazione dei G.S. e delle avanguardie operaie, come massimo sforzo di questa fase, di rappresentare politicamente e con il metodo delle scadenze l’intera complessità di un territorio.
Amplificare questa volontà di ripercorrere l’intero territorio attraverso la pratica delle ronde, significa far diventare il Com. Ter. cassa di risonanza delle lotte, dell’intelligenza collettiva accumulata dai proletari zona per zona, fabbrica per fabbrica ecc.

DIFFUSIONE E CONCENTRAZIONE DEI FUOCHI

Campagna politica di organizzazione.
Da tutto questo, ne discende, che, per noi, lo sviluppo del combattimento e il “metodo generale” per praticare il programma proletario sono nello tempo distinti e intersecati. Abbiamo detto che è essenziale, per poter concretizzare le ipotesi politiche comuniste di liberazione dallo sfruttamento capitalistico dell’autonomia operaia, il profondo e stabile radicamento nei territori della soggettività comunista collettiva.
Da questo punto di vista, noi diciamo che il territorio “è amico” per il progetto comunista. Cioè che nel territorio l’organizzazione comunista trova la forza, le indicazioni e il nutrimento per poter reggere l’urto dell’iniziativa capitalistica, per lanciare l’attacco, con successo e con tempi e scelte di campo propri e autonomi, al piano di ristrutturazione produttiva e sociale e alla macchina umana organizzativa preposta a realizzarlo. La lotta armata comunista abbraccia l’intera complessità nel programma; ciò significa che viene interpretata e praticata dalla soggettività comunista a partire da ambiti e da compiti di lavoro ben precisi: dal Gruppo Sociale, al M.C.O. nel suo insieme, al quadro di direzione (partito). Ecco perché noi abbiamo parlato di punto medio dell’iniziativa proletaria e del suo aspetto armato. Non in quanto medietà nella qualità e nell’estensione del campo di azione della L.A.C., quanto, nella sintesi dell’articolazione del combattimento (complessa e ricca), quale noi la intendiamo. Le azioni di Combattimento, non sono né basse né alte in sé, ma vengono commisurate sulla tabella della crescita generale dell’organizzazione a tutti i livelli e sui possibili salti in avanti dell’iniziativa militante. Perché di salti politico organizzativi noi parliamo e non, come qualcuno potrebbe insinuare, di una “visione” gradualistica, dello scontro di classe e degli sviluppi del progetto comunista. Se il territorio per noi non è solo terreno di ricomposizione sociale del proletariato, ma anche teatro di guerra civile dispiegata, ciò non significa, di conseguenza, che la soggettività comunista deve darsi quegli strumenti, quello stile di lavoro, che rendano possibile questa ipotesi.
Se l’attacco al nemico di classe viene portato unicamente contro l’aspetto militare burocratico della sua struttura (che ricordiamo è anche sociale, produttiva, ideologica) allora, si privilegiano criteri di militanza che esaltano certe caratteristiche qualitative ben delimitate e “ristrette” di un’organizzazione comunista; se, al contrario, si vuole sferrare l’attacco su più fronti, su tutti i terreni principali della lotta di classe, allora si svilupperà una molteplicità di condizioni quantitative e qualitative che fanno dell’organizzazione, un processo difficile, ma carico di possibilità per sedimentare sia la pratica del programma proletario basato sulla pratica illegale di massa sia del contropotere operaio e proletario organizzato.
Quindi, diffusione di fuochi, dentro la articolazione del programma e delle organizzazioni proletarie; loro centralizzazione dentro campagne organizzative: portare l’attacco su più punti, nodi, del comando e del controllo padronale con continuità e metodo è una delle condizioni storiche indispensabili da realizzare, a livello regionale e nazionale per rotture rivoluzionarie generali.
Il discorso sulla “campagna d’organizzazione” introduce un altro aspetto della nostra metodologia di lavoro: la campagna politica.
Muoversi per campagne politiche!
La “campagna d’organizzazione” ne rappresenta solo un aspetto.
Con quest’ultima parola d’ordine intendiamo la capacità di far muovere l’intera ricchezza dell’M.C.O., come della sua direzione, su parole d’ordine politiche e organizzative pratiche che riassumano i punti centrali qualificanti del programma proletario. Certo, il lavoro dei comunisti non si esaurisce nelle campagne. Per lavorare per “campagne” in spazi e con tempi determinati, occorre, come si spiegava sopra, un enorme e continuo sforzo per creare le condizioni e le infrastrutture che ne permettono una reale materializzazione. Unire la capacità politica di praticare e propagandare il programma, cioè la sintesi degli interessi e dei bisogni di milioni di proletari, con la capacità di offesa della soggettività comunista collettiva è un’impresa ardua e difficile, ma è anche l’unica strada che i comunisti devono percorrere, che l’agire di partito deve praticare per non cadere o nell’opportunismo più impotente o in fughe militanti in avanti, prive di un corretto rapporto con la dinamica dei conflitti di classe.
È da questa impostazione che può essere spiegato quello che noi intendiamo per CONTROLLO TERRITORIALE. Capacità, cioè di utilizzare e far muovere l’intera articolazione organizzativa nelle zone, di movimento e organizzazione combattente, l’intera qualità soggettiva a tutti i livelli, in scadenze militanti, che, di volta in volta, attaccano, disarticolano, destabilizzano, certo sempre parzialmente, punti dell’intera struttura del comando con il possesso autonomo di agibilità e di capacità politico-militare nel territorio inteso come base di organizzazione.
(da completare)

TERZA PARTE:
SUL CHE FARE:
BOZZA DI IPOTESI
Ad un tentativo di complessiva valutazione della soggettività non opportunista, oggi in campo in Italia, si presenta un panorama di preoccupante irrequietezza e ritardo.
Anche i compagni che rivendicano una fideistica continuità del movimento del 77 hanno avuto amari motivi di riflessione esaminando, ad esempio, la qualità politica della risposta del movimento contro la ripresa terroristica dei fascisti a Roma. E si trattava di un terreno, quello dell’antifascismo militante appunto, su cui era legittimo aspettarsi una capacità spontanea e diffusa di pratica politica.
C’è stata solo l’occasione di mobilitazioni di massa, fondamentalmente pacifiche, prive di chiare discriminanti di pratica politica su un terreno che ben altra estensione ed intensità di iniziativa aveva espresso in scadenze simili.
Ci pare evidente che la miseria delle forze rivoluzionarie sia un dato incontrovertibile da cui partire e che non si possa mistificare ogni cosa con lo stato del movimento, qualsiasi sia il giudizio che se ne dà.
Perfino sul terreno dell’antifascismo militante si è verificato che una pratica di chiaro segno proletario, di esercizio di contropotere non si dà in una spontanea massificazione di comportamenti illegali, ma può costruirsi solamente dentro ad una corretta impostazione del rapporto territoriale (di zone politiche omogenee) tra direzione, radicamento e massificazione.
Si ripropone, cioè, il terreno della organizzazione come compito centrale e decisivo per le forze rivoluzionarie: il terreno della centralizzazione, del partito, non come astratta necessità e dimensione di propaganda tutta ideologica. Si tratta, invece, con realistica consapevolezza della situazione, di puntare ad una materializzazione effettiva di un lavoro politico che, ricco e articolato sui livelli necessari, miri in una reale maturità di percorso, a dialettizzare direzione, ricomposizione, massificazione e contropotere.
La centralizzazione delle forze soggettive dell’Autonomia Operaia Organizzata deve saper collocarsi su una dimensione di lavoro e di verifica di zona. Questa scelta, però della dimensione locale (né va schematicamente equivocato sulla definizione politica della regione come zona omogenea) non può essere vissuta con la riduttiva miopia localistica della semplice conservazione e della gestione di ciò che c’è, ma deve divenire occasione di dinamico confronto, di battaglia politica: spinta propulsiva contro due posizioni opposte ma ugualmente improduttive:
a) da un lato porre il problema del partito in termini teorici generali e tutti ideologici, come per certi aspetti è stata la recente esperienza di “ROSSO”, in cui la generalità della proposta (nella difficoltà di sciogliere il nodo direzione-contropotere nella situazione di polo metropolitano) non era controprovata dalla reale capacità di comando di pratica politica, necessaria a sorreggere percorsi in cui concreti passaggi e scadenze verificassero nella metodologia di tale concezione dell’organizzazione.
b) dall’altra parte, una concezione strumentale e non strategica della organizzazione che finisce per proporre la centralizzazione del movimento come unico ambito di iniziativa politica per gli stessi spezzoni organizzati: il sostanziale rifiuto da parte dei compagni di Via dei Volsci di misurarsi con la problematica teorica e pratica dell’organizzazione centralizzata sul livello nazionale.
Per questo, riprecisare, oggi, il problema della centralizzazione, come percorso (senza schematismi di carattere “geografico”) su base regionale è, contemporaneamente, adeguamento di una proposta alla povertà della qualità politica che le forze soggettive esprimono e, sopra tutto, un terreno di battaglia politica di una proposta in avanti che, nel venire meno della stessa dimensione del coordinamento delle formazioni dell’Aut. Op. Org., noi rilanciamo per riverificare, non dando assolutamente nulla per scontato, la disponibilità e il reale peso di tutte le forze in campo.
In questa fase, a partire dal poco che c’è, noi riproponiamo il terreno del partito con la metodologia, però, sopra enunciata e su questo, il settarismo della nostra proposta e della nostra pratica tende alla massima chiarezza, con tutti gli spezzoni organizzati in autonomia di dimensione nazionale o locale, rivendicando precise discriminanti teoriche e di metodo di lavoro politico.

Ciò detto, vogliamo anche chiarire che, per noi, non bastano certamente arditi esperimenti editoriali (Autonomia Possibile e altri) che si autopropongono come sintesi intelligente della potenzialità del cosiddetto “movimento del valore d’uso” e dell’esperienza capitalizzata del partito armato, per risolvere i problemi e le difficoltà della aggregazione, della centralizzazione del soggetto comunista organizzato. Sembra ovvio e poco simpatico, ma, a fronte di queste brillanti proiezioni dell’intelligenza astratta, bisogna ricordarlo: chi conta realmente, chi ha peso politico, va avanti; chi non conta, ma sa scrivere, ben che gli vada, può muoversi, rimanendovi, nell’ambito delle interessanti e sofisticate produzioni letterarie.
In questo orizzonte è progressivamente sfumata, fino a venir meno, la proposta del M.A.O., ambiguamente e confusamente avanzata dai compagni di Via dei Volsci, come terreno anche di confronto e di lavoro politico strategico per la stessa soggettività comunista organizzata.
Ancora una volta, cioè, la mancanza di chiarezza, la confusione di ambiti e livelli ha finito per impedire quei risultati che tale proposta poteva maturare nell’autonomia diffusa: sono svanite così la possibile centralizzazione dei movimenti di lotta, il lancio di comuni tematiche di programma per settori di classe, la diffusione e il rafforzamento di parole d’ordine uguali ed identiche pratiche di lotta e di segno proletario.
Ma in mancanza di altro, oggi, nel registrare la progressiva debolezza delle forze dell’autonomia, nel muoversi su un terreno complessivo di iniziativa, il fallimento della proposta del M.A.O. non è solo un elemento di debolezza per l’autonomia diffusa ma, se la nostra analisi della frase corrisponde alle reali caratteristiche dello scontro di classe in Italia, dobbiamo riconoscere che è un arretramento generale per tutte le forze dell’Aut. Op. Org..
A questo punto, per noi, si tratta, nella molteplicità dei problemi presenti alla soggettività comunista, di ritrovare una metodologia di lavoro politico, che sappia cogliere sia gli aspetti specifici e sua aspetti generali della centralizzazione. Massima deve essere in questa fase, senza alcun atteggiamento strumentale ma pure senza sopravalutare la ciclicità dei movimenti di lotta, la tensione ad innescare, ad incentivare processi di dinamica sociale che, complessivamente, sappiano darsi connotati antiriformisti e di iniziativa autonoma di classe costruendo una disponibilità a centralizzare i vari settori di movimento in lotta anche sul piano nazionale (V. iniziative recenti su tematiche specifiche). Ma bisogna anche ribadire che questo terreno diviene realisticamente praticabile con continuità nel movimento in cui, oggi, forze dell’Aut. Op. Org., che sono più vicine per la complessività della proposta, per la metodologia del lavoro politico, per verifiche concrete sul terreno del programma, si propongono unitariamente, da subito, a determinare un blocco politico di forze, nella forma del coordinamento nazionale che, a partire da discriminanti generali, concrete, verificate, riproponga, il problema della rottura dello Stato-impresa come terreno di scontro politico generale.
Ben sapendo il realismo di questa proposta- non la contrabbandiamo per la soluzione ottimale, né tanto meno per la forma adeguata ai compiti e alle qualità che la fase richiederebbe al soggetto comunista- ma, anche, consapevoli che ogni chiusura in difesa di ciò che non conta, non può che produrre il blocco di qualsiasi processo rivoluzionario nel nostro paese.
(da completare)

Tutte le strutture del Movimento Comunista Organizzato Veneto

La rivoluzione comunista non si arresta

Mobilitazione immediata ed eccezionale a Padova, in tutto il Veneto, a livello nazionale, di tutti i compagni, di tutti i comunisti, delle organizzazioni rivoluzionarie, di tutte le strutture organizzate e di massa del movimento proletario, di tutti gli strumenti politici comunisti d’informazione.

Oggi, 7 aprile 1979, è scattata una vasta ed eccezionale operazione militare contro compagni, organizzazioni, strumenti politici del movimento comunista organizzato. Dalle prime notizie parziali, mentre viene scritto questo primo comunicato, l’operazione delle bande armate legalizzate di regime è a livello nazionale. Sono stati sequestrati molti compagni. (…) Sono stati criminalizzati i giornali del movimento, Rosso, Controinformazione, Autonomia e Metropoli con tutte le loro redazioni. L’accusa centrale è di “avere organizzato e diretto una associazione denominata Potere Operaio e altre analoghe associazioni variamente denominate collegate fra loro e riferibili tutte alla cosiddetta autonomia operaia organizzata…, inoltre per avere organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare…”.

Gli ordini di cattura sono firmati dal P.M. Calogero Pietro – 22 ordini di cattura per banda armata e una settantina di comunicazioni giudiziarie per associazione a delinquere – noto a tutti i compagni per avere condotto, due anni fa, un’analoga operazione contro l’autonomia operaia veneta. Operazione, allora, fallita e smontata, pezzo per pezzo dall’intelligenza, dall’iniziativa dei comunisti. Compagni, occorre sconfiggere anche in questa occasione, in tutta la ricchezza del movimento, questo violento, pericoloso e idiota tentativo di annientamento fisico e organizzativo delle avanguardie operaie e proletarie. Per l’ampiezza, il blitz rappresenta il più alto colpo banditesco delle strutture armate statali di questi ultimi dieci anni. In queste ultime settimane gli strumenti di persuasione e di formazione del consenso, dalla Rai ai giornali, hanno orchestrato una campagna terroristica contro l’autonomia operaia, padovana in particolare, con lo scopo di preparare l’opinione pubblica sull’inevitabilità di una operazione preventiva di repressione contro proletari e strutture collettive “socialmente pericolose”. Dentro questo coro di fedeli servi ed esecutori delle direttive del cervello capitalistico si distinguono i piciisti. In prima linea nel richiedere misure eccezionali, senza indugi, hanno dato l’esempio spiando, denunciato compagni che hanno l’unica colpa, per loro!, di lottare per la liberazione proletaria dallo sfruttamento capitalistico. Non servono altre parole per ‘schedare’ questi individui. Il proletariato ha un’abitudine a ricordare, cari compromessi, e molta ma molta pazienza. Se in queste ore gioite perché lo Stato vi ha tolto, lo credete davvero?, dai vostri sogni inquieti e compromessi lo spettro del comunismo, della lotta comunista organizzata, dell’autonomia proletaria, diffusa e di classe, dalla logica delle regole che sovraintendono il sistema di dominio capitalistico, non vi illudete, non riuscirete, come nel passato, ad esorcizzare i comportamenti antagonisti di classe con la semplice collaborazione data alle teste di cuoio di Dalla Chiesa – di cui attendevamo l’arrivo – che da oggi scorrazzano per i territori del Veneto. Le accuse lanciate dal Calogero Pietro e da chi gli ha dato le direttive sono ridicole e provocatorie – hanno messo di tutto per potere confezionare con più credibilità possibile il loro gioco – perché sono messe sotto accusa le lotte, le forme di lotta, i comportamenti, la pratica militante che il proletariato ha costruito e organizzato dal 68 ad oggi. È questa l’accusa che noi gettiamo, con tutta la ricchezza e la superiorità politica e morale dei proletari e dei comunisti, contro i vostri uomini e le strutture che sorreggono questo sistema bestiale di sfruttamento. Compagni, la mobilitazione da oggi e per i prossimi giorni deve essere generale, complessiva. Tutte le strutture proletarie sono chiamate a esprimere l’intera articolazione del programma proletario.

Non ci sono tentennamenti che tengono. Chi si dichiara compagno, deve schierarsi, deve impegnarsi per la liberazione immediata, da subito, dei compagni arrestati, per la mobilitazione di massa, per la sconfitta delle manovre antiproletarie e anticomuniste del nemico di classe. A Calogero, alla Procura della Repubblica, alle cricche di vertice dei partiti e in particolare ai compagni di Berlinguer, all’antiterrorismo e, perché no?, al super generale Dalla Chiesa Alberto, ricordiamo che la posta in gioca questa volta è alta e che, quindi, ognuno si assuma le sue responsabilità. Seguiranno altri comunicati. Tutti i compagni devono essere rilasciati.

Avvertiamo i delinquenti della pericolosità di eventuali maltrattamenti sul fisico dei compagni arrestati. La mobilitazione nazionale e regionale sarà ininterrotta fino alla liberazione dei compagni sequestrati. Smascherare il ruolo controrivoluzionario e poliziesco dei piciisti. Senza tregua!

TUTTE LE STRUTTURE DEL MOVIMENTO COMUNISTA ORGANIZZATO VENETO

Padova, 7-4-79.

Sulla linea di combattimento

Si dice che prendere posizione e fare chiarezza in certi momenti sia opportuno e utile. Bene, questo è uno di quei momenti. La questione che ci interessa affrontare, limitatamente agli spazi e ai limiti di un giornale, è lo sviluppo e le contraddizioni della lotta armata comunista nel nostro paese. L’occasione ci viene data dai fatti di Genova e Milano, o meglio dalle dipartite di un lavoratore “qualificato” del PCI e di un amministratore “equo” della giustizia capitalistica; cioè da due azioni di combattimento contro esponenti del revisionismo operaio nostrano.
A noi quelle due azioni non vanno bene. Non tanto per la fine di due impiegati della macchina sociale di controllo antiproletario, quanto, appun­to, per le dimensioni, lo stato di salute di questa macchina e le sue articolazioni dentro la società civile. Ci interessa, quindi, iniziare a ragionare sulle posizioni politiche dei compagni del “partito combattente”.

PRIMO PUNTO – Se per noi, come per questi compagni, l’elemento essenziale per la rottura dell’opportunismo e per la fuori uscita da linee politiche revisioniste, per decenni se non da sempre presenti e dominanti nel movimento operaio, come per un’ipotesi possibile di potere operaio rivoluzionario, sta, questo elemento, nella scelta di campo della lotta armata; altresì, da questa acquisizione teorica e pratica per noi irreversibile, ne discende il problema di come la lotta armata si organizza all’interno di una prospettiva storica di liberazione dallo sfruttamento capitalistico.
Infatti, se il nemico di classe fa derivare il suo potere la sua dittatura sociale dall’esercizio del comando sul lavoro, questo comando non è alimentato unicamente dalla forza militare , ma anche da una qualità sociale e di massa di tale forza.
All’enorme mostruosità dell’apparato burocratico-militare dello Stato Capitalistico Multinazionale si accompagna la complessità dei rapporti di classe, tra le classi, in un paese a tardo capitalismo, con l’estensione, articolata e radicata tra gli strati proletari, della presenza del revisionismo con funzioni di controllo del cons­enso proletario al dominio della legalità borghese.
Revisionismo che, se prodotto ne­gativo delle lotte della classe, è ancora interno alla classe.
La lotta armata, allora, acquista caratteristiche di universalità solo se inserita dentro un percorso politico e d’organizzazione legato ad una strategia e a tattiche di fase impiantate sulla risoluzione di tutti gli aspetti sovraesposti.
Pensiamo, infatti, con Lenin, che “il partito del proletariato non può mai considerare la guerra par­tigiana come l’unico e neanche come il principale mezzo di lotta” e “che questo mezzo deve essere subordinato ad altri” e “che senza questa ultima condizione, tutti, assolutamente tutti i mezzi di lotta nella società borghese… si snaturano, si prostituiscono“.

SECONDO PUNTO – La sconfitta della “cricca berlingueriana” non potrà che essere effetto, per essere vittoria proletaria, secondo noi, della crisi ideologica-politica-umana e organizzativa del movimento ope­raio storico, cioè di una sua au­spicata rottura.
Il revisionismo nella sua struttura, nell’impianto, è nato e cresciuto in posizione subordinata al “mondo capitalistico”. Cambiarlo significa, dunque, romperlo.
Romperlo non certamente saltando, senza mediazioni nella linea di combattimento, da un livello di critica ideologica a un livello di giustizia sommaria.
Anche se porci, spie, ruffiani del padrone e merde compromesse con il regime capitalistico, i revisionisti presentano ancora caratteristiche sociali, di massa, gestiscono strati di maggioranza del proletariato e quindi, da subito e in questa fase, capaci di innescare confusione, mistificazione, isterismo anticomunista e, soprattutto, un pericoloso capovolgimento all’interno della classe di un giusto misurarsi degli operai e dei proletari con le proposte e le ipotesi del progetto comunista di combattimento e liberazione contro e dallo sfruttamento capitalistico.
Ad un programma d’organizzazione, di individuazione, di smascheramento e di adeguata risposta militante dei revisionisti compromessi, occorre parallelamente praticare con priorità la critica politica, pratica e pubblica, della loro politica sul terreno delle reali contraddizioni di classe, sullo stato reale dei rapporti di forza in questa fase tra proletariato e capitalismo, in fabbrica come nei settori della produzione sociale come nei territori.
Obbligare il revisionismo a confrontarsi sul terreno che la tua battaglia vuole praticare: questo è il compito principale oggi per le avanguardie comuniste.

TERZO PUNTO – Per potere fare tut­to questo c’è bisogno di una leva di rivoluzionari le cui caratteristiche non sono riconducibili sem­plicemente alla “dimensione clandestina”.
Cioè ad un’impostazione della milizia utile allo sviluppo di ben determinati compiti di un’organizzazione comunista matura, ancora da conquistare, ma insufficiente e deviante se non è immersa in una articolazione organizzativa molto più vasta. Non siamo più d’accordo quando una possibile qualità dell’organizzazione viene ad assumere, come ricordava prima Lenin, un carattere di universalità nelle soluzioni alle domande e alle necessità d’organizzazione.
Dialettizzare dentro il movimento comunista le contraddizioni tra militanza clandestina e non clandestina è stato utile in questi anni. In un laboratorio eccezionale qual è la realtà reale e il movimento continuo delle cose, si sono sviluppate, con i loro limiti tutte le energie, le ipotesi, le esperienze dei comunisti durante una lunga fase in cui non erano date le condizioni per ricondurre tutti all’interno di una disciplina ed omogeneità di percorso unitario d’organizzazione e di programma. Noi tutti possiamo affermare che la lotta armata nel nostro paese, nelle diverse forme assunte e con i diversi modi di combattimento adottati, è un risultato oggettivo e soggettivo di anni e anni di lotta operaia e di eccezionale resistenza al piano di ristrutturazione capitalistica dei rapporti di produzione e riproduzione tra le classi.
Bene, oggi, riconoscere tutto questo non basta più.
Il soggetto comunista deve es­sere disciplinato dentro un progetto centrale . d’organizzazione ca­pace di “armarlo” per disarticolare l’intero arsenale di comando e di controllo dello stato capitalistico. Il movimento dev’essere arricchito della complessità dei problemi; occorre operare perché si rafforzi e possa sostenere e accettare la sfida capitalistica su tutti i terreni dove si rapportano i conflitti di classe. In altre parole a noi non interessa la costruzione di un quadro combattente solo sulla verifica continua delle possibilità di azzoppare e giustiziare un nemico di classe se non si lavora, o si lavora contro, per determinare una diversa qualità complessiva del soggetto comunista collettivo; diversità, se permettete, dalla qualità complessiva del soggetto riformista.
Quindi, linea di combattimento dentro la pratica del programma proletario a livello territori­ale, dentro l’esperienza dell’illegalità di massa e dello sviluppo del movimento comunista organizzato. Movimento come rete soggettiva di un potere proletario che cresce sull’uso della forza, via via commisurata ai possibili salti e alle forzature della e nella intera soggettività proletaria. Quindi un’articolata e complessa pratica della lotta armata. Non si può, compagni, non si può ghettizzare, soprattutto, le future potenzialità proletarie solo su uno dei modi di condurre il combattimento.
Lo stile di lavoro dei comunisti deve essere da oggi in poi, per quanto riguarda i criteri e le leggi fondamentali nella costruzione del partito rivoluzionario, una questione interna ai comunisti e al loro lavoro. Si impone l’abbandono, in tempi brevi, di tutte quelle posizioni che bloccano e/o ostacolano un processo di unificazione di tutte le avanguardie proletarie nel nostro paese.
Se certi compagni continueranno, purtroppo, a spingere l’acceleratore per uno schieramento dras­tico di posizione, tra le componenti del movimento comunista, sui diversi modi del com­battimento, in una contrapposizione fuorviante e sempre più falsa e artificiale, allora da parte nostra verranno prese distanze sempre più nette con una dura battaglia politica contro queste posizioni. Infatti, l’ulteriore procedere in avanti del lavoro dei comunisti delle diverse organizzazioni rivoluzionarie sarà positivo se assumerà i compiti e le responsabilità proprie di una nuova fase, questa volta più complessa e matura.
A noi non va più bene se si spezza un corretto equilibrio di proporzioni tra le due principali componenti, linee del movimento rivoluzionario, cioè tra i comunisti clandestini e i comunisti dell’autonomia operaia. E’ un grande pasticcio con bruttissime prospettive, se una variabile, quella clandestina, non si rapporta più in alcun modo alla dinamica generale del movimento comunista. L’autonomia operaia organizzata non fa i conti solo con la accelerazione della pressione militare dello stato sull’organizzazione, ma anche rispetto ai problemi e alle difficoltà legati ad una ripresa dell’ iniziativa proletaria di avanguardia e di massa. A noi interessa un soggetto comunista collettivo “riconoscibile politicamente” dai proletari, e non solo attraverso le cronache dei giornali, senza paramenti e travestimenti che vadano a confondere la sostanza del tuo discorso (in questo caso per travestimento non intendiamo affatto le norme di sicurezza e altre questioni).
Occorre disciplinarsi dentro uno sforzo unitario, difficile e complesso, di costruzione dell’organizzazione e del programma.
L’omogeneità, compagni, va ricercata e voluta caparbiamente. Ma sulla chiarezza. L’azzoppamento deve lavorare a favore del blocco del reparto di fabbrica, della capacità del movimento comunista di disarticolare il territorio, zona per zona, con 1’esercizio del contropotere rivoluzionario. E viceversa.

Questo articolo è un estratto rielaborato dai materiali di vicina pubblicazione dell’organizzazione COLLETTIVI POLITICI VENETI PER IL POTERE OPERAIO.
Pubblicato su «Autonomia» n. 7, 15/02/1979, pp. 1-2

Rivendicazione del ferimento di Antonino Mundo

Martedi, 1 dicembre 1981, il ‘nucleo 11 Aprile’ dell’organizzazione ‘Fronte Comunista per il Contropotere’ ha colpito il boia Antonino Mundo che svolgeva fino ad oggi la ‘professione’ di medico del carcere di Vicenza. Il ruolo istituzionale di Antonino Mundo e di tutti i suoi pari è fin troppo conosciuto all’interno del Proletariato Prigioniero e dei Proletari più in generale: i medici dei carceri occupano un ruolo molto importante all’interno del progetto di annientamento dei Comunisti e di ‘rieducazione’ del Proletariato Prigioniero. Sono loro sotto il comando dei carabinieri e degli aguzzini del carcere, a stabilire le condizioni di salute dei Proletari Prigionieri nei lager di Stato, loro, che dopo i pestaggi, le torture, le infinite violenze fisiche e soprattutto psicologiche a cui sono costantemente sottoposti i Proletari Prigionieri, decidono se il ‘detenuto’ è trasferibile o meno, se le condizioni psicologiche sono compatibili con lo stato di isolamento continuato, loro che redigono i referti medici da cui deve risultare che non di pestaggi si tratta, che non vi sono segni di tortura, ecc. E’ così che il Compagno Lorenzo Bortoli veniva scientificamente ‘suicidato’ in carcere pochi mesi dopo il suo arresto. Fu proprio il referto del boia Antonino Mundo a stabilire che il Compagno Bortoli poteva rimanere tranquillamente in isolamento nonostante avesse tentato altre due volte di trovare la morte. I Comunisti non dimenticano; come non hanno dimenticato i Compagni Antonietta, Alberto, Angelo, caduti combattendo per il Comunismo (l’11 aprile 1979 a Thiene) per un futuro senza galere, senza carceri, senza aguzzini, senza torturatori e senza sfruttamento, cosi non devono dimenticare quanti hanno fattivamente collaborato con gli apparati della guerra antiproletaria.

Nella fase che la lotta di classe sta attraversando risulta con sempre maggiore evidenza che il terreno della lotta armata, pur restando un elemento discriminante per i Rivoluzionari, non può essere sicuramente l’unico e non può essere sostitutivo del vuoto di iniziativa di massa antagonista e della capacita di legare questa ad una effettiva costruzione del Contropotere del Proletariato. Certo, oggi, gli stati maggiori delle neocorporazioni dell’industria e del lavoro stanno lavorando a ritmi serrati per liquidare dieci anni di rigidità operaia, dieci anni in cui il Proletariato non si è fatto abbindolare da nessuna chimerica promessa. I piani padronale-governativi si sono puntualmente infranti contro l’indisponibilità Proletaria a farsi coinvolgere nella pratica dei sacrifici per uscire dalla crisi. Ma, oggi, a partire dalla Fiat, padroni privati e pubblici stanno ottenendo qualche parziale vittoria, anche se sono ben lungi dall’aver raggiunto l’obiettivo della pace sociale mediante un patto scellerato con il sindacato. Compito dei comunisti in questa fase non è tanto e solo quello di creare consenso ad azioni armate più o meno disarticolanti, quanto piuttosto di essere in prima fila nella costruzione di movimenti antagonisti che sappiano intrecciare le lotte di resistenza con lotte di attacco, in altre parole, far vivere elementi del programma Comunista all’interno di singole lotte e lavorare per costruire un più maturo movimento Comunista che sia elemento centrale per la ricomposizione Proletaria e per la edificazione del Contropotere Proletario Armato. Non è l’oggettività dello scontro di classe che determina di per sé la nascita del Movimento Comunista, non è la presunta irreversibilità del declino della società del capitale che può far nascere movimenti di massa che si muovano verso una prospettiva rivoluzionaria, ma è l’agire quotidiano dei Comunisti che può ricondurre i movimenti Proletari, che nascono all’interno della crisi, ad una progettualità rivoluzionaria. E’ un dato di fatto che la nuova forma di sviluppo del capitale si può dare solo in termini di appesantimento delle condizioni di vita dei Proletari, con attacco al reddito, disoccupazione, cassa integrazione e progressiva militarizzazione della Società, per annientare ogni forma di antagonismo e di soggettività comunista, in uno scenario internazionale di guerra e dunque di distruzione di immense risorse umane e materiali. Ma, credere che, per queste ragioni, la fine del capitale sia prossima è una pia illusione e lo è altrettanto il ritenere che l’unico elemento in grado di creare le premesse per uno sbocco rivoluzionario alla crisi, sia la lotta armata e la costruzione di una rete Proletaria clandestina, come è altrettanto opportunista e sbagliato puntare tutto sulla costruzione dei movimenti di massa antagonisti, escludendo la pratica del radicamento del contropotere proletario armato.

E allora, il problema centrale oggi per i comunisti è quello di saper legittimare l’uso della forza all’interno della costruzione degli organismi di massa per l’esautoramento di tutte le forme di controllo istituzionale sulla classe, impostando campagne di combattimento all’interno di questo percorso in quanto espressione del punto più alto di costruzione del contropotere proletario, campagne che si devono basare prima di tutto su battaglie politiche vinte sul terreno di massa. Non vi è dubbio che condizione indispensabile per conquistare il Proletariato al programma comunista è innanzi tutto quella di liquidare definitivamente ogni infiltrazione del nemico tra le fila proletarie, prima fra tutte quella della dissociazione che non deve avere alcuna legittimità politica nel movimento di classe: chi ha assunto la dissociazione dalla lotta armata, è dunque l’abbandono di qualsiasi aggancio con le migliaia di Comunisti imprigionati dallo Stato, come la ‘nuova piattaforma’ per i ‘nuovi movimenti’ deve essere definitivamente bandito dal movimento comunista. Non solo ma siamo convinti che il terreno del carcere debba diventare un momento unificante per il movimento comunista e per le organizzazioni comuniste. I Comunisti, pur nelle profonde differenze con cui oggi si caratterizzano, devono essere sempre dalla parte di chi è ostaggio dello Stato perché ha praticato la lotta armata per il Comunismo, e devono avere come obiettivi unificanti la liberazione di tutti i proletari prigionieri e la distruzione delle carceri. E’ su questo terreno che si può andare a costruire i passaggi concreti per l’unità dei comunisti in un fronte di lotte che via via si allarghi agli altri settori di classe. Certo, oggi, non ci sono ancora le premesse perché questo progetto abbia gambe concrete su cui marciare, ma è con questo orizzonte che bisogna procedere. Lo Stato vuole oggi processare la lotta di classe e i Comunisti che in essa maggiormente si sono esposti: ciò che emerge con sempre maggiore chiarezza è che non esiste più alcuno spazio di gestione ‘tecnica’ dei processi. Gli unici legittimati a parlare sono i ‘pentiti’ e i ‘dissociati’ , ovvero, le nuove istituzioni della repubblica, che dovrebbero servire a sconfiggere politicamente il patrimonio storico della lotta armata nel nostro paese. Chiunque si illuda oggi di poter trovare spazi nelle farse dei processi di regime, per ottenere qualche assoluzione o qualche sconto è semplicemente uno sciocco. Lo Stato si è organizzato anche nel settore della magistratura, con la logica della guerra antiproletaria, in conformità con la riorganizzazione più generale dell’intera società. E così come in fabbrica, non vi è più alcuno spazio per mediazioni sugli interessi di classe, mentre lo scontro va assumendo sempre più i connotati della frontalità, così l’apparato giudiziario, che dovrebbe assolvere al compito istituzionale di giudicare gli imputati sulla base del dettato costituzionale che ‘i cittadini sono uguali davanti alla legge’ , si è trasformato in un organo speciale per l’annientamento dei comunisti. E allora bisogna prendere atto di questo stato di guerra liquidando ogni tatticismo che mira a ottenere sconti o circostanze attenuanti, tradurre la parola d’ordine “la rivoluzione e lotta di classe non si lasciano processare” rivendicando fino in fondo il percorso collettivo di militanza rivoluzionaria, per la distruzione di questa società, sottraendosi alle fin troppo umilianti farse del doversi giustificare di fronte ai maiali intogati, per avere lottato contro la barbarie di questo sistema di sfruttamento. I comunisti non si fanno processare da nessuno!!! Lo stato si gestisca le sue rivoltanti messe in scena; i rivoluzionari trovino le forme più appropriate per dialettizzarsi con il movimento comunista e con la forza che esso sa esprimere.

Rendiamo onore a tutti i compagni caduti per il comunismo!

Niente resterà impunito! Il boia Mundo e tutti i suoi pari devono cambiare mestiere!

Unità dei comunisti nella lotta contro i carceri speciali, contro la differenziazione e per la libertà del proletariato prigioniero! Costruire gli organismi di massa e il contropotere proletario armato!

VICENZA, 1-12-81

FRONTE COMUNISTA PER IL CONTROPOTERE

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 308-311.