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Tribunale di Trani, Udienza del 2 marzo 2005 Dichiarazione di Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli, Vincenza Vaccaro al processo davanti al giudice monocratico. In ricordo di Mario Galesi.

Oggi, 2 marzo, ci troviamo in quest’aula come militanti rivoluzionari e militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente di fronte all’accusa di “apologia sovversiva” che vuole sanzionare il carattere e il profilo che abbiamo dato e che intendiamo dare alla nostra militanza in prigione. Ma oggi, anniversario della sua morte in combattimento, vogliamo tributare l’amore rivoluzionario nostro e delle avanguardie del proletariato al compagno Mario Galesi, caduto il 2 marzo 2003 sul treno Roma‑Firenze mentre assolveva al suo diritto‑dovere di militante delle BR‑PCC di sottrarsi con ogni mezzo alla cattura. Vogliamo rendergli onore sottolineando la sua dedizione al lavoro rivoluzionario, assunto con quel senso del dovere e della disciplina per lui naturali, come non è strano che sia tra i proletari coscienti che sentono di dover fare la propria parte nel lavorare all’emancipazione politica della classe cui appartengono. La sua perdita resta irreparabile per il proletariato e per l’Organizzazione, ma lascia in eredità un esempio di militanza nel Partito del proletariato in costruzione che le avanguardie sapranno raccogliere e portare avanti nel dare il proprio contributo all’avanzamento dei processo rivoluzionario, cui Mario ha contribuito in quel processo che ha portato la soggettività rivoluzionaria di classe negli anni ’90 ad assumersi il compito di rilanciare la strategia della Lotta Armata nello scontro generale tra le classi, dando continuità alla fase della Ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie interna alla più generale fase di Ritirata Strategica che attraversa il nostro processo rivoluzionario.

Sta in questo il valore straordinario di questo militante, quello di aver contribuito a concretizzare un passaggio di valenza storica nel nostro processo rivoluzionario, di aver cioè contribuito a ricostruire, passando necessariamente per uno stadio aggregativo delle forze, il soggetto organizzato in grado di agire da Partito per costruire il Partito, le BR‑PCC, che hanno costruito la capacità offensiva adeguata a riportare l’attacco al cuore dello Stato.

Il 2 marzo è forse una data “simbolica” per lo Stato, che quel giorno del 2003 solo grazie al caso e alle circostanze fortuite ha potuto catturare una militante d’O e uccidere in combattimento Mario Galesi, per poi portare avanti la sua linea antiguerriglia che oggi gli consente di aprire una nuova stagione processuale in cui avvalersi del vantaggio militare acquisito nell’illusione di farlo pesare sulla classe e sulle sue avanguardie in termini di deterrenza e minaccia. Ma dobbiamo qui ricordare che proprio la forza, la propositività, la prospettiva aperta dal rilancio della strategia della LA ha obbligato lo Stato, all’indomani del conflitto a fuoco sul treno, a ricorrere ad una delle più barbare tra le sue iniziative antiguerriglia: tenere in ostaggio il corpo del compagno caduto per evitare che gli fosse tributato il giusto riconoscimento del proletariato con il ricatto e l’intimidazione poliziesca e repressiva. È stata una scelta conseguente alla paura che l’avanzamento del processo rivoluzionario ha provocato alla borghesia e allo Stato, di nuovo alle prese con la lotta armata dopo l’illusione di aver per sempre “sconfitto” l’opzione rivoluzionaria: le iniziative offensive del ’99 e dei 2002 nell’aprire un varco offensivo nella difensiva di classe hanno radicalizzato lo scontro rivoluzionario e di classe, hanno aperto dialettiche con le avanguardie di classe e contribuito alla formazione di uno schieramento rivoluzionario che si avvale della forza che il rilancio ha immesso nello scontro tra le classi avendo spostato momentaneamente i rapporti di forza tra classe e Stato a favore del proletariato, per la centralità degli obiettivi colpiti all’interno di una linea di attacco mirata a ostacolare e impattare le politiche di ristrutturazione e rimodellazione economico­sociale e di riforma politico‑istituzionale con la modifica della forma‑Stato in senso federale, veicolate nel quadro del progetto neocorporativo quale nodo di contraddizione principale che oppone borghesia e proletariato in questa fase politica.

Di fronte a questo nodo dello scontro, la reazione dello Stato alla morte di un militante delle BR‑PCC è stata quella di tentare di annullare l’esistenza di questo corpo, nascondere la realtà che scaturiva da quel conflitto a fuoco casuale, tentare di impedirne le esequie per “motivi di ordine pubblico” e mostrificare il militante catturato spostando l’attenzione dal dato che emergeva in quel contesto: la realtà di un’avanguardia rivoluzionaria che negli anni ’90 si è riorganizzata in continuità‑critica‑sviluppo con il patrimonio rivoluzionario dell’espressione più matura di autonomia politica della classe, le BR, e ha operato alla costruzione delle forze per l’offensiva ben dentro il grado e i caratteri del rapporto rivoluzione/controrivoluzione per com’è stato approfondito dallo Stato nel corso di tutti gli anni ’80, ma avvalendosi di come vi ha inciso il riadeguamento operato nella fase di Ritirata Strategica con l’apertura della fase di Ricostruzione delle forze tesa ad attrezzare il campo proletario e rivoluzionario allo scontro prolungato con lo Stato e la borghesia imperialista.

In quel 2 marzo 2003 lo Stato ha scelto di rapportarsi in quel modo ignobile di fronte alla morte del compagno perché nella sua figura di militante della guerriglia era incarnato tutto il portato delle iniziative offensive di attacco al cuore dello Stato, la valenza storica e strategica del rilancio con la prospettiva di avanzamento del processo rivoluzionario e di costruzione del PCC che contiene, la reale rappresentanza degli interessi generali politici e storici del proletariato fatta pesare dalla prassi combattente nello scontro di classe e rivoluzionario di contro agli interessi della BI e dello Stato, l’ostacolamento del lineare avanzamento dei progetti antiproletari e controrivoluzionari degli esecutivi in carica e lo scompaginamento degli equilibri politici e politico‑istituzionali a loro sostegno. La reazione scomposta dello Stato in quell’occasione ci parla di uno Stato in difficoltà in quanto ha perso l’iniziativa sul piano delle politiche che offensivamente si sono riversate sul campo di classe per oltre un decennio, e della problematicità del suo tentativo di riportare sul piano politico l’azione di convogliamento, accerchiamento e neutralizzazione delle istanze dell’autonomia di classe che dal rilancio della LA hanno tratto forza in quanto la prassi combattente è fattore concreto che incide nei rapporti di forza tra le classi. Questo perché il rilancio ha alimentato e politicizzato il movimento di resistenza della classe alle politiche neocorporative per il coniugarsi del peso del fattore rivoluzionario nello scontro e del danno subito dai progetti che sono stati attaccati, anche approfondendo la difficoltà dei vertici del sindacato confederale in crisi di legittimità a portare avanti la loro opera antiproletaria in linea con le esigenze degli esecutivi di centrodestra e di centrosinistra, accomunati dall’adozione delle politiche neocorporative che costituiscono il filo a piombo delle scelte di qualunque coalizione si trovi a governare, essendo queste l’unico piano politico che consenta allo Stato in questa fase di tentare di subordinare politicamente il proletariato e renderlo ancora più sfruttabile al fine di governare l’economia e il conflitto nell’ambito della crisi economica mondiale e delle risposte che necessita, compresa la scelta della guerra e della controrivoluzione imperialista.

Mario Galesi incarna la risposta proletaria cosciente, di Partito, organizzata politicamente e militarmente, nella finalità strategica della conquista del potere politico da parte del proletariato, a tutto questo insieme di politiche e scelte della borghesia e dello Stato, “edificate” sulla forza della controrivoluzione che dagli anni ’80 ha segnato i rapporti di forza tra classe e Stato. La costruzione del rilancio della strategia della LA nello scontro generale tra le classi si è confrontata con il suo carattere e con il suo livello, dentro l’assunzione del dato politico rappresentato dal riadeguamento che ha consentito alle BR‑PCC di mantenere aperta l’iniziativa e rilanciare la proposta della Lotta Armata a tutta la classe, ottenendo così una vittoria strategica, segnando il raggiungimento di un punto di non ritorno nel nostro processo rivoluzionario, il cui radicamento nello scontro fa sì che lo Stato non possa sradicare l’opzione rivoluzionaria facendo leva sui vantaggi militari che riesce a conseguire con le linee di antiguerriglia e controrivoluzionarie che adotta.

Di fronte ai fatti dei 2 marzo lo Stato ha dovuto scoprire il volto infamante delle sue pratiche controrivoluzionarie, peraltro non nuove in rapporto all’esistenza del processo rivoluzionario nel nostro paese, e se per lo Stato e la borghesia il nostro compagno Mario Galesi rimarrà sempre uno spettro che disturberà i loro sonni, per il proletariato e le avanguardie di classe e rivoluzionarie resterà un esempio da seguire per il contributo che ha dato al lavoro rivoluzionario nelle Brigate Rosse, nel quadro della lotta per l’emancipazione politica della classe dal sistema di sfruttamento e dominio della borghesia.

Trani, 2/3/2005

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista Combattente: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Rossella Lupo, Fabio Ravalli
La militante rivoluzionaria Vincenza Vaccaro

Firenze, processo di primo grado “Lando Conti”. Dichiarazione finale di Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli, Daniele Bencini, Marco Venturini

Il rito che si è consumato in quest’aula ha messo in evidenza i tentativi di demonizzare l’attività rivoluzionaria delle BR. Una demonizzazione che si serve delle formule processuali per costruire la verità giuridica con cui lo Stato, per mezzo del processo, cerca di negare quello che i prigionieri qui rappresentano: lo scontro rivoluzionario, la sua prospettiva di potere per il proletariato metropolitano di questo paese. Un tentativo sterile e velleitario perché nessuna formula giuridica, nessun pronunciamento di tribunale, né i secoli di galera che da sempre vengono comminati ai comunisti possono mutare la questione centrale posta nel processo: la prassi combattente delle BR e, nello specifico, l’iniziativa politico-militare contro Lando Conti che colpisce un esponente repubblicano che aveva un preciso attivismo intorno a quanto caldeggiava l’allora Ministro della Guerra Spadolini. Allora il PRI spingeva infatti per un maggior impegno e coinvolgimento dell’Italia rispetto alla “politica delle cannoniere” americana, ci riferiamo alle forzature militari USA nella regione mediterranea-mediorientale, tese ad innescare determinate condizioni per la maturazione dello scontro bellico, e che avevano anche la funzione di operare un coinvolgimento degli alleati che, per tempi diversi della crisi, non erano ancora allineati completamente sulla scelta guerrafondaia.

È di allora il bombardamento americano su Tripoli e Bengasi che, peraltro, ha usufruito dell’appoggio logistico, dato in modo informale dall’Italia, mentre ufficialmente essa, ma anche gli altri Stati europei, si sono ricomposti con la politica terroristica degli USA operando sul piano politico/diplomatico la ricucitura e l’assestamento di quanto gli USA avevano conseguito sul piano militare. Questo modo di operare dell’imperialismo rispondeva agli allora equilibri internazionali tra Est ed Ovest, ed era parte della politica imperialista capeggiata dagli USA per acquisire margini nei rapporti di forza internazionali tra i due blocchi.

È dentro questo quadro di riferimento che il PRI si faceva promotore delle posizioni più oltranziste a livello filoatlantico affinché l’Italia assumesse un ruolo maggiormente attivo nel fianco Sud della Nato, in questo solco lo specifico attivismo di Lando Conti all’interno delle posizioni del PRI di spalleggiamento aperto della politica reaganiana soprattutto riferita al riarmo col progetto SDI “guerre stellari”.

Attaccare i portatori di questa politica guerrafondaia ha significato per le BR dare continuità alla prassi antimperialista da esse messa in campo sin dall’82 con la cattura del generale NATO Dozier e in seguito con l’azione Hunt. Una pratica che ha individuato nella NATO, nelle politiche centrali dell’imperialismo, in specifico quelle guerrafondaie e di annientamento dei popoli, gli obiettivi principali su cui sviluppare l’antimperialismo e caratterizzare l’internazionalismo proletario oggi, su cui cioè la guerriglia in Europa in primo luogo e le forze rivoluzionarie da tempo già si confrontavano.

Con l’iniziativa Lando Conti le BR precisano anche l’analisi sulla fase dell’imperialismo, definiscono l’area geopolitica europea-mediorientale-mediterranea come area di massima crisi del mondo, che per le sue caratteristiche storiche e politiche può essere il possibile detonatore di un conflitto allargato. Per altro verso si misurano con la proposta del Fronte Combattente Antimperialista contribuendo alla sua costruzione con un apporto fattivo definendo il proprio specifico punto di vista riguardo al Fronte come politica di alleanze contro il nemico comune da praticarsi, nell’attacco all’imperialismo, sia con la guerriglia in Europa che con le forze rivoluzionarie della regione mediterranea-mediorientale.

La promozione del Fronte Combattente Antimperialista marcia, per le BR, in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato che in questa fase politica è rappresentato dalle politiche di riadeguamento dello Stato che in parte già contengono i presupposti per cambiamenti decisivi nel quadro complessivo delle relazioni politiche e sociali tra le classi e nelle forme di potere che vogliono essere istituite.

Nelle modalità con cui nel paese si stanno maturando i passaggi verso la Seconda Repubblica, al cui interno la stabilità cerca di imporsi avvalendosi, nel governo delle contraddizioni di classe, di politiche marcatamente coercitive e di risposte repressive, quali termini più evidenti della loro natura antiproletaria e controrivoluzionaria, si esprime al massimo grado l’instabilità critica dei reali equilibri nel paese, dove l’impronta data dagli strumenti messi in campo per rafforzare lo Stato, e la forma che viene ad assumere in un paese a capitalismo avanzato quale è l’Italia, mette a nudo la debolezza storica su cui poggia il dominio della borghesia imperialista italiana, che scaturisce dalle condizioni politiche generali di uno scontro di classe storicamente in grado di esprimersi ai più alti livelli e di porre costantemente l’ipoteca del risvolto proletario e rivoluzionario alla crisi dell’imperialismo.

Dentro ai caratteri attuali dello scontro di classe nel nostro paese è più che mai attuale lo sviluppo necessario e possibile dell’aggregazione ed organizzazione delle istanze più avanzate che esprime l’autonomia di classe, sul terreno della lotta armata. Un processo questo che si è configurato da oltre 20 anni come il solo in grado di ricomporre, unificare e far avanzare il processo di lotta ed organizzazione delle avanguardie proletarie sul terreno del potere, nella necessaria dialettica guerriglia-autonomia di classe quale naturale terreno di sviluppo di quest’ultima, così come si è andato definendo in tutto il corso dello scontro rivoluzionario.

È la dinamica complessiva attacco/distruzione, costruzione/nuovo attacco che consente di organizzare le forze sul terreno della Lotta Armata, costruendo i passaggi dello sviluppo della guerra di classe, uno sviluppo organizzato e diretto dalle BR a partire dalla concretizzazione dei suoi termini di programma e cioè: attacco allo Stato, alle sue politiche dominanti che lo oppongono alla classe nella congiuntura; attacco all’imperialismo, ai suoi progetti centrali, promuovendo in questo il rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista.

Per concludere, come militanti delle BR e militanti rivoluzionari prigionieri dichiariamo di non riconoscere nessuna legittimità a questo tribunale a processarci, consapevoli come siamo che questo processo è solo un momento, seppure particolare, del più generale rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione che vive fuori da quest’aula, nello scontro di classe, riproducendosi pure qui dentro nei suoi stessi riti formali il rapporto di guerra esistente tra la guerriglia e lo Stato.

È d’altra parte impossibile processare lo scontro rivoluzionario, al contrario la legittimità politica e storica del proletariato a prendere il potere tramite l’unica strategia possibile, quella della lotta armata, mette costantemente sotto accusa la barbarie del dominio della borghesia imperialista e dello Stato che la rappresenta, che offre solamente crisi e guerra. Dei nostri atti politici come della nostra militanza rispondiamo solo alle BR e con esse al proletariato di cui sono l’avanguardia rivoluzionaria.

Per noi e meglio di noi parla la guerriglia in attività, le BR.

Non intendiamo presenziare alla lettura della sentenza.

 

Firenze, 21 maggio 1992

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Antonino Fosso, Michele Mazzei, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari: Daniele Bencini, Marco Venturini

Processo di Firenze per i fatti del 2 marzo 2003. Documento della militante delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente Nadia Lioce allegato agli atti

Dagli inizi degli anni ’90 le condizioni generali e complessive dello scontro tra le classi con cui si misura l’avanguardia riv. sono profondamente segnate dal mutamento dei rapporti di forza (rdf) tra riv e controriv. risultanti dall’offensiva contro la strategia della LA e le forze rivoluzionarie che l’hanno praticata e, su un altro piano, di quella contro i paesi a transizione socialista con ricadute negative anche sulle guerre di liberazione. In particolare nel nostro paese per un lungo periodo si è determinata l’interruzione dell’intervento pol-militare delle BR-PCC e della direzione riv. che immette nello scontro tra le classi, e la discontinuità della fase di ricostruzione delle forze riv. e proletarie nata all’interno della più generale fase di Ritirata Strategica. Fattori, questi, determinanti la battuta d’arresto subita dal processo riv. in Italia, incidenti a favore della BI nel rapporto con il proletariato, e in negativo sulla tenuta pol. dell’autonomia di classe e del movimento riv.. Nei primi anni ’90 con l’esaurirsi di un’intera fase economica e pol. dell’imp. e degli equilibri internazionali, se ne apriva un’altra connotata dal subentrare al modello fordista del nuovo modello di produzione capitalistica “flessibile” a carattere non espansivo, dalla generalizzazione delle politiche economiche liberiste avviate dal polo dominante statunitense, dalla ridefinizione della strategia di dominio e di guerra dell’imp. in funzione del suo allargamento e della conquista di posizioni più avanzate verso l’est storicamente non integrato nella catena imp., e dalle complessive rifunzionalizzazioni dello Stato borghese e delle politiche degli esecutivi legate ai cambiamenti strutturali, al rafforzamento della BI e al vantaggio pol. e alle posizioni strategiche favorevoli conquistate dall’imp. negli equilibri internazionali. Per la gran parte degli anni ’80 per lo Stato, la realizzazione dell’obiettivo pol. di logorare e neutralizzare la guerriglia e attestare la controriv. è il presupposto del progressivo arretramento delle istanze autonome della classe necessario a scaricare sulla classe operaia e sul prol. gli effetti della crisi del capitale e ad adottare le nuove pol. economiche funzionali a sostenere la valorizzazione ai livelli di concentrazione e centralizzazione che raggiungeva sul piano internazionale a partire dal polo dominante. Dinamiche ed indirizzi pol. che, a maggior ragione per l’instabile posizione occupata dal paese nella divisione internazionale del lavoro a causa del tardivo sviluppo del modello fordista, si sarebbero riversati con gravi ed estese conseguenze sulle condizioni materiali della classe e dunque da parte della BI e della sua soggettività pol., per governare le cd antagonistiche che ne derivavano, era necessario stabilizzare rapporti pol. complessivi di subalternità del prol. nei conflitti che si aprivano e, in prospettiva, di subordinazione. La sostanziale debolezza del capitale multinazionale a base autoctona e il livello a cui la crisi ha investito l’economia del paese, avrebbero infatti spinto le pol. di privatizzazione dei monopoli statali e la finanziarizzazione dell’economia e del capitale alla ricerca di valorizzazione sul piano e su scala internazionale, generando la contrazione della base industriale del paese senza che le pol. economiche a sostegno delle dinamiche del capitale potessero favorirne la conquista di posizioni tali nei settori più avanzati della divisione internazionale del lavoro intorno a cui sviluppare a sufficienza un complesso di attività economiche in generale accentrate nelle formazioni economico-sociali dominanti, ma solo a conservare un capitalismo in dura competizione per mantenere le sue quote di mercato internazionale o rinchiuso nell’orizzonte dei monopoli di nicchia, inadatto ad assorbire la forza lavoro espulsa dai processi di ristrutturazione e in generale soggetto a subire la concorrenza dei monopoli più forti o dei paesi emergenti. Sul medio periodo l’andamento economico stagnate che ha prevalso negli anni 90, esaurito l’effetto di traino della locomotiva USA che era stata alimentata dalle ricadute economiche e produttive complessive derivate dal ruolo di volano economico che ebbe il riarmo reaganiano, e nel contesto di una più acuta concorrenza internazionale, ha esplicitato tutta la prospettiva socialmente regressiva a cui la BI avrebbe condotto sia sul piano della tenuta dei livelli economico-sociali nazionali complessivi che nuovamente su quello delle condizioni del lavoro salariato condannato alla continua intensificazione dello sfruttamento, ad una vita precaria in balia del capitale e, con decurtazioni dirette e indirette dei redditi operai e del lavoro dipendente in genere, all’impoverimento, essendo quella di ridurre il prezzo della f.l. al di sotto del valore medio dei mezzi storicamente necessari a riprodurla una delle ricorrenti controtendenze messe in campo dal capitale in risposta alla sua crisi, in questi anni costantemente favorita e sostenuta dagli indirizzi di pol. economica e di riforma economico-sociale adottati da tutti gli esecutivi che si sono succeduti a supporto del capitale in relazione al nuovo modello di produzione. In un processo critico di complessivi riadeguamento nei caratteri storici delle forze politiche istituzionali e nell’assetto dei poteri dello Stato sul cui lineare programma ed equilibrio pol. a sostegno gravava l’ipoteca impressa dall’attacco delle BR-PCC, con l’azione Ruffilli, la BI e la sua soggettività pol., per far marciare le trasformazioni strutturali e le riforme economico-sociali governandone i conflitti che generavano, doveva soprattutto prevenirli, così il suo attacco avrebbe potuto logorare e far arretrare le posizioni di resistenza su cui era attestata la classe. La formula pol. ed il piano di tenuta di una transizione pol. critica sono stati la concertazione nelle pol. economiche ed il tessuto di relazioni neocorporative tra esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, già rodato negli anni ’80 nella sua funzione antiproletaria e controriv. e stabilizzato negli anni ’90, che diventa un modo ed un terreno per governare secondo una progettualità ed una formula pol. il complesso di riforme economico-sociali e politiche necessarie, in rapporto a quanto di queste si concretizza sul piano della contrattazione e nelle pol. economiche di bilancio dello Stato o a quanto diventa “costituzione materiale” dei rapporti tra le classi. Un “metodo di governo” in base a cui, a partire dalla subalternità degli interessi di classe agli obiettivi della BI, poteva essere costruito un rapporto di subordinazione pol. del proletariato, accerchiandone e neutralizzandone le istanze autonome, radicando la depoliticizzazione dei conflitti e sospingendo la classe in difensiva. Un progetto pol. che, nelle sue evoluzioni, verrà colpito dalle BR-PCC con il rilancio dell’attacco al cuore dello Stato con le azioni D’Antona nel ’99 e Biagi nel 2002. In questo quadro pol. contraddittorio il nodo problematico con cui si confronta l’av. Riv. è il come dare concretizzazione, e in sostanza riprendere l’iniziativa nella nuova situazione dei rapporti riv/controriv e classe/Stato, all’intervento riv. e rilanciare la prospettiva di potere. Storicamente ai fini di una risposta adeguata a dargli risoluzione, l’av. riv. è obbligata a misurarsi con l’approfondimento della cd riv/controriv.. La discriminante tra le av. riv. è diventata la capacità di cogliere questo piano di cd e la sua centralità, e la volontà pol. di farci i conti definendo e collocando l’intervento riv. delle forze materialmente attivabili sul terreno della LA. Il riconoscimento pol. dell’incidenza riv. della strategia della LA, delle linee pol. e di programma dell’attacco allo Stato e alla BI e la verifica della rispondenza degli avanzamenti nella progettualità pol.-strategica prodotti dalla BR-PCC dall’avvio della fase di RS e con l’apertura di quella di Ricostruzione delle forze riv. e proletarie, alle istanze pol. e strategiche della classe nello scontro per affermare i suoi interessi generali e la sua prospettiva di potere contro lo Stato e la BI, sono parte integrante dell’iniziale sintesi necessaria a ristrette avanguardie per definire in ogni suo aspetto l’intervento riv.; intervento da cui progredire nella prassi verificata nello scontro, in continuità-critica-sviluppo con la LP delle BR-PCC verso una dimensione pol-militare superiore. L’assunzione di responsabilità pol. verso il proletariato e le BR nell’intraprendere una prassi riv. che sintetizza il rapporto pol. costruito dalle avanguardie con i termini della proposta delle BR, i nodi pol. centrali che investono lo scontro classe/Stato e la specifica capacità pol./militare esprimibile all’avvio dell’intervento riv. impostano le basi pol. e strategiche che, in mancanza di esperienza riv. complessiva, guidano le verifiche occorrenti a misurare e ponderare le scelte di ordine tattico e a selezionare la disposizione delle forze intorno alla LP e al programma perseguito. Nella prassi complessiva immessa nello scontro, l’avanguardia riv. verifica gli indirizzi e le potenzialità delle forze, le condizioni particolari dello scontro e le cd del lavoro riv. nella dinamica attacco/costruzione/attacco in rapporto con i nodi politici posti dallo scontro classe/Stato nella fase politica generale interna e internazionale e nelle sue congiunture, e affina e complessivizza la capacità progettuale. Nei primi anni ’90 sono gli NCC con le iniziative offensive contro la Confindustria e contro la Nato a proporre nello scontro la risoluzione possibile delle problematiche che investivano l’av. riv. e di classe a fronte dei passaggi politici in cui veniva messo a punto il patto neocorporativo sulla politica dei redditi che avrebbe supportato il governo della crisi e del conflitto e la realizzazione delle politiche economiche liberiste che urgevano alla B.I. e in cui veniva ridefinita la strategia imp. con la proiezione offensiva della Nato a seguito del vantaggio conquistato dall’imp. negli equilibri strategici con la disgregazione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica e con la prima guerra all’Iraq. Nell’assumere nello scontro con lo Stato e la B.I. il necessario terreno della guerra gli N.C.C. ne impostavano i termini pol. e mil. a partire dai quali l’avanguardia potesse maturare la capacità politica e offensiva superiore adeguata ad incidere negli equilibri generali tra le classi e a modificarli a favore del campo di classe e riv., e ad esprimere con ciò il ruolo di direzione riv. storicamente svolto dalle B.R. su cui costruire il P.C.C. necessario a trasformare lo scontro di classe in guerra di classe per la conquista del potere politico. In questo senso con le iniziative contro la Confindustria e la NATO, propongono alle avanguardie la ricostruzione delle forze intorno al rilancio dell’iniziativa riv.. Un percorso che si confronta con le durissime condizioni dello scontro e che non è affatto lineare né scontato perché implica che l’av. identifichi il carattere generale delle cd con cui si misura nel lavoro riv., che ne dia una definizione pol. e che conquisti e affini la capacità di superarle o di governarle in avanti, approfondendo la progettualità in relazione al passaggio riv. in atto, passaggio che, interno alla fase di ricostruzione delle forze riv. e proletarie., ha sue peculiarità inerenti la discontinuità di percorso e di intervento riv. e la necessità di realizzare la costruzione-fabbricazione del Partito occorrente a dare avanzamento al processo riv. ma a partire da uno stadio aggregativo delle forze. Fattore quest’ultimo che ha rilevanza su un piano strategico perché non riguarda particolari nuclei di avanguardie né è casuale, ma inerisce lo stato e il contesto storici del campo prol e riv. del quale è parte l’avanguardia, in relazione a quanto la controriv. vi ha attestato in termini di dispersione delle forze e consolidato in termini pol. e mil. preventivi e che, finché non siano state ricostruite nello scontro le condizioni complessive del suo superamento, ossia tutti i termini pol-militari per dirigere il processo riv., si riproduce come episodicità più o meno accentuata dell’intervento riv. e instabilità delle forze organizzate. La conquista dei primi termini pol. da parte dell’avanguardia su questo piano è una delle condizioni imprescindibili per avviare l’intervento sul terreno riv. secondo gli indirizzi della strategia della LA assicurando tenuta delle forze e prospettiva di avanzamento. Un processo di acquisizione di cui l’intervento offensivo è uno snodo ma procede per salti e rotture complessivi in base alle verifiche della prassi nello scontro e alla rielaborazione che ne opera la soggettività riv. che in questa fase si misura con il problema di qualificare politicamente e militarmente l’av. favorendone le rotture soggettive necessarie ad assumere responsabilità pol. sul piano riv. ed i salti nella capacità di adempierla, problema da affrontare progettualmente e sul piano programmatico come aspetto pol. centrale della costruzione del Partito in questa fase e termine dell’avanzamento del processo riv.. L’insieme di riferimenti alla base dell’esperienza dei NCC si è riversato nella scelta pol. delle avanguardie riv. che hanno rilanciato l’attacco al cuore dello Stato con l’azione D’Antona, di esplicitare nel documento che la rivendicò, tanto il ruolo pol. centrale di questa esperienza nel percorso di rilancio della strategia della LA, che la presa di responsabilità pol. nell’assumere la denominazione BR-PCC affermando la continuità pol. e strategica dell’intervento dell’av. riv. con quanto praticato e proposto alla classe dalle BR e con il ruolo di direzione riv. svolto dall’O. nello scontro generale tra le classi. Un’assunzione di responsabilità pol. che pratica, attesta e propone l’agire da Partito per costruire il Partito espresso dalle BR in trent’anni di attività che in quanto tale e per i contenuti avanzati conquistati dal processo riv. diretto dall’O. è venuto a far parte in modo indelebile della storia concreta dello scontro di classe nel nostro paese, al di là dell’operato controriv. teso oltreché a neutralizzare le forze anche ad inquinare e a disperdere i contenuti pol. e strategici della proposta riv. e a negare con astruse ricostruzioni giudiziarie e poliziesche la riproducibilità nello scontro attuale dell’avanguardia riv. e della strategia della LA. In realtà quel che il rilancio della strategia della LA ha attestato dal ’99 nello scontro riv/controriv. e classe/Stato è il necessario e possibile approfondimento del rapporto pol. di Partito per far avanzare il processo riv. da dove è giunto dando prospettiva agli avanzamenti prodotti dall’O. e governando in avanti le cd indotte dagli arretramenti. Un nodo pol. discriminante per tutte le av. riv. e gli stessi militanti BR per sostenere lo scontro, stante l’approfondimento del rapporto riv/controriv. e la conseguente radicalizzazione del processo riv., e un dato attestato di valore pol. storico che inevitabilmente incide in profondità il rapporto riv/controriv.. Su un altro piano, il riflesso nelle considerazioni e scelte tattiche da operare di un passaggio ancora non concluso di una complessiva definizione strategica del modo di agire delle forze riv. in questa fase è all’origine dei colpi subiti dall’O. nel corso del 2003; tutt’altro dunque che derivati da una presunta onnipotenza dello Stato che la propaganda controriv. ha cercato di accreditare in una delicata congiuntura pol. in cui l’esecutivo, pur in grado di imporre le sue decisioni ad un Parlamento ridotto a una finizione ratificatrice, non è affatto riuscito a far marciare linearmente i suoi programmi.

Anzi, il suo procedere per forzature e strappi nel tessuto di relazioni neocorporative già eroso dall’attacco dell’O. e dall’opposizione della classe alle pol. che ha garantito, anche per dimostrare la tenuta delle sue linee programmatiche in reazione al colpo subito dal progetto di rimodellazione Economico-sociale (e di riforma in senso federale dello Stato) dall’azione Biagi e alla dialettica tra opzione riv. e istanze autonome della classe che ha approfondito, hanno costretto la soggettività pol. della BI e lo stesso padronato a misurarsi con la sostenibilità pol. di un indirizzo proteso ad attaccare frontalmente le conquiste storiche del movimento operaio e in generale alla drastica intensificazione dello sfruttamento del lavoro salariato come chiave di volta nella competitività, termine principale della rappresentanza pol. che la maggioranza CC può offrire alla BI. Un indirizzo che, mentre i margini lasciati dalla crisi sono sempre più ristretti, alimenta il conflitto, ne favorisce le spinte alla politicizzazione ed incrementa l’impiego di misure repressive nei confronti delle lotte della classe, rendendo critiche le ricuciture necessarie per compatibilizzare le istanze sociali e ricondurle sul programma della BI e questo per di più quando l’intero quadro pol.-istituzionale non è affatto riuscito a tradurre i risultati mil. conseguiti contro le BR in quest’anno in vantaggio pol. per attaccare ulteriormente la classe e indurla ad indietreggiare, come hanno dimostrato i reiterati fallimenti dei tentativi persino di inscenare uno schieramento di classe intorno ai vertici sindacali sul contenuto della “lotta al terrorismo” a sostegno dello Stato ed della BI. Fatti che confermano come, nel contesto di sostanziale vulnerabilità pol. di quanto consolidato nel decennio trascorso dalla controriv., il rilancio dell’opzione riv. e dell’attacco al cuore dello Stato, affermando gli interessi generali e storici del prol. nello scontro di potere tra classe e Stato e dando prospettiva strategica alle lotte della classe, ha aperto un varco nella sua difensiva e ha rafforzato politicamente il campo prol. e riv., qualificando i contenuti delle av. riv. e di classe e incidendo positivamente sulle dinamiche di opposizione e aggregazione prol. nello scontro con lo Stato e la BI.

Sul piano degli equilibri internazionali la strategia di dominio e di guerra accelerata dal polo dominante USA a seguito dell’attacco al WTC e al Pentagono per recuperare sulla quota di potere deterrente preventivo rappresentata dalla storica invulnerabilità del territorio nazionale statunitense, alla prova in questa congiuntura della conquista e stabilizzazione di posizioni di dominio e strategiche in Medio Oriente per avanzare ulteriormente, ad Est, ha dimostrato tutti i suoi limiti in particolare a fronte di una resistenza nazionale irakena che, immaginata residuale rispetto alla rapida invasione anglo Usa, si è invece trasformata in tempi brevi in una guerra di popolo per la liberazione del paese dall’occupazione imp. Guerra che favorisce la crisi politica dell’imp. mettendone a nudo la vulnerabilità pol., non colmabile dall’assoluta superiorità di risorse economiche e mil e dalle tecnologie altamente distruttive che contrappone all’eroica resistenza del popolo irakeno e di quello palestinese, privi peraltro di qualunque retroterra e sostegno che non sia quello delle masse arabe. Il riflesso nostrano delle gravi difficoltà in cui versa il progetto di assoggettamento dell’Iraq per farne risorsa e base dell’avanzamento della guerra e della controriv. imp. e una condizione del riallineamento dello schieramento imp., assume talora risvolti grotteschi per le inadeguatezze pol. dell’attuale maggioranza C.d.L. e di un esecutivo schierato in prima fila a fianco dell’alleato statunitense contro il “terrorismo internazionale”, e per l’ambiguità dell’opposizione istituzionale e dei suoi addentellati sociali paraistituzionali dovuta all’obiettiva improbabilità di riuscire a rappresentare gli interessi generali della BI in crisi politica e all’irrinunciabile priorità controriv. che qualifica la candidatura del centro-sinistra a governare. Di fatto nella misura in cui la guerriglia irakena si è configurata come una vera guerra di popolo estendendo ed innalzando il livello del suo attacco, e in particolare a seguito dei moti insurrezionali di aprile in cui le truppe italiane di Nassirya si sono rese direttamente responsabili di una strage di civili, è andato in crisi il tradizionale indirizzo pol. delle missioni italiane, basate propagandisticamente sulla giustificazione umanitaria e ricostruttiva e materialmente su una disposizione strategico-tattica del contingente italiano della coalizione imp., impiegato in funzione di compiti operativi limitati sotto il profilo offensivo in zone di territorio in cui l’aspetto pol. della prevenzione della lotta armata prevale e in cui perciò può essere messa a frutto la specifica esperienza antiguerriglia maturata in 30 anni in Italia dall’arma dei carabinieri dei corpi speciali e dall’“intelligence”, e allargata a unità delle altre forze annate con l’insediamento permanente nei Balcani per il contenimento dei conflitti etnici fomentati dall’imp. per frammentare e dominare quell’area. Un contingente che, come gli altri sopraggiunto a dare manforte all’occupazione imp., nell’impossibilità pol. e militare di sostenere l’innalzamento dello scontro, è costretto ad un sostanziale arroccamento difensivo, inutile e dannoso, se l’alleato USA e le sue offensive contro le roccaforti della resistenza non raggiungono in breve tempo l’obiettivo di distruggerle per produrre un indebolimento ed un ridimensionamento strategico della guerra di liberazione e conquistare un controllo del territorio irakeno mai avuto dalla fine dell’invasione e che rappresenterebbe la vera “svolta”, tanto reclamata, nella stabilizzazione del dominio imp. sull’Iraq. Senza questa, la partecipazione dello Stato italiano e delle sue truppe alla guerra e alla controriv. imp., pur sostenuta da una relativa coesione bipartisan puntellata da una propaganda imp. democraticamente irreggimentatrice intorno al contenuto della “pace”, alla lunga rischia di compromettere la priorità controriv. che in relazione alla guerra in Iraq, sul fronte interno, si concretizza nel prevenire quelle dinamiche pol. di massa che riconoscessero nella resistenza irakena invece che il “terrorismo” cioè il nemico esterno e interno, una giusta guerra di popolo per la liberazione nazionale dall’imp. che, pur all’alto prezzo di sangue e di sacrificio che la conquista della libertà e del potere sulle proprie sorti impone, può avanzare anche contro un nemico con una potenza distruttiva infinitamente superiore e in un contesto di equilibri internazionali non favorevole ai popoli che l’imp. vuole sottomettere. Una priorità che, per il legame pol. oggettivo tra processi riv. nei paesi europei e guerre di liberazione nell’area mediterraneo-mediorientale , per il quale le BR hanno storicamente prospettato la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista quale strumento dell’attacco comune delle forze riv. di questa regione alle pol. della BI, diventa contraddittoria perché se la tenuta della guerra del popolo irakeno non induce ad un ritiro immediato delle truppe che aggraverebbe la crisi pol. della BI, e della sua strategia di dominio e di guerra già a lungo frenata nei suoi programmi di espansione dalla valorosa resistenza nazionale irakena, si riflette però negativamente nella tenuta del fronte interno della guerra imp. e controriv. e incide relativamente anche su quanto ha attestato la controriv. nello scontro generale tra le classi nel nostro paese.

In un contesto interno e internazionale tutt’altro che “pacificato” nel quale le istanze di liberazione della classe e dei popoli si contrappongono allo sfruttamento, l’attacco politico mosso in quest’anno alle BR-PCC e alle proposte che avanzano al prol., teso a contrastarne la dialettica con le dinamiche pol. e aggregative dell’opposizione di classe e riv. alle pol. antiprol., guerrafondaie e controriv. della BI, si è legato ad un indirizzo più generale dell’esecutivo di rafforzamento del fronte interno della guerra imp. che ha introdotto ulteriori misure preventive e repressive ed è stato supportato da una vasta e martellante propaganda allarmistica e dall’appoggio dell’opposizione. In specifico l’attacco pol. all’O. è stato condotto secondo i criteri della “guerra psicologica” e ha integrato l’azione antiguerriglia facendo anche uso dell’argomento della debolezza mil. delle BR per incidere sulla fiducia dei militanti in attività e prigionieri e delle avanguardie riv. e di classe nelle potenzialità riv. della strategia della LA per il Comunismo, come se questo argomento non evidenziasse maggiormente la vulnerabilità e la difensiva politica in cui lo Stato e la BI sono costretti dall’attacco dell’O.. Nondimeno del resto le aveva evidenziate fin dall’inizio, il tentativo di mostrificare le figure dei militanti BR e rivoluzionari o, a seconda dei casi, ad oscurarle come è accaduto con il compagno Galesi con la strumentalizzazione della sua morte e del suo funerale per inscenarne l’isolamento dalla classe e per contro con l’esaltazione del militante catturato nel conflitto a fuoco del 2 marzo, anche per favorire la cancellazione della memoria del compagno caduto. Una gestione meschina che ha affiancato la consueta e sistematica azione tesa a stravolgere i contenuti delle dichiarazioni dei militanti prigionieri ai fini della propaganda controriv., le costruzioni criminogene di digos e magistratura o i tentativi di impedire la tradizionale espressione di identità pol. dei prigionieri in occasione di scadenze processuali. Se questo attacco pol. che ha raggiunto spesso toni incongrui alla storia o riv. del nostro paese voleva incidere sulla tenuta morale e pol. dei militanti in attività e prig. e come prospettiva minacciosa verso la base sociale della LA, ha nello stesso tempo spinto al consolidamento della contrapposizione dell’impegno riv. e alla sua qualificazione, e alla solidarietà di classe con i prig. BR e riv., ed in generale ha funzionato come relativa esorcizzazione delle paure della borghesia. E ciò perché, in ultima istanza, le ragioni della riv. non sono della soggettività riv., ma derivano dalla necessità storica del superamento dei rapporti sociali capitalistici e del dominio della BI, per cui gli avanzamenti attestati dalle BR-PCC sul piano del processo riv. nel nostro paese con il rilancio della strategia della LA per il Comunismo sono processi pol. reali che per la loro rispondenza alle problematiche radicali della fase riv. in atto, pur nella rideterminazione del suo andamento concreto causata dai vantaggi mil. acquisiti dallo Stato contro le BR-PCC e, come comprovato dalla verifica storica della valenza strategica dei riadeguamenti dell’agire dell’av. riv. a ciò che è imposto dal rapporto riv/controriv., in continuità-critica-sviluppo con quanto praticato, conquistato e proposto dall’O., segnano un nuovo punto di non ritorno del processo riv. e trovano sempre il modo di farsi strada nello scontro di potere tra le classi. Uno scontro di potere di cui questo rito processuale che pretende di mettere alla sbarra la riv, non è che uno dei tanti momenti e dei meno rilevanti nel quale in quanto militante delle BR-PCC non posso che ribadire di rivendicare tutta l’attività riv. dell’O. e di rispondere dei miei atti pol. al proletariato e alle BR che ne sono l’avanguardia e lo rappresentano.

ONORE AL COMPAGNO MARIO GALESI E A TUTTI I MILITANTI ANTIMPERIALISTI CADUTI!

VIVA LA STRATEGIA DELLA LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO!

VIVA L’INTIFADA PALESTINESE E LA GUERRA DI LIBERAZIONE NAZIONALE IRAKENA!

PROLETARI DI TUTTI I PAESI UNIAMOCI

5/5/2004

La militante delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente Nadia Lioce

Crisi e organizzazione. Dichiarazione processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi militanti per il PC P-M. Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”

Diamo un significato alla nostra presenza in questo nuovo e imprevisto processo. Alla luce del nuovo contesto generale e dei significativi cambiamenti nella nostra esperienza, riprecisiamo alcune questioni di orientamento generale.

Partiamo dalla constatazione dello stato di generale arretratezza e incapacità dell’area rivoluzionaria, pur di fronte alle grandi possibilità apertesi con questa crisi generale storica del capitalismo.

È urgente affrontare le contraddizioni in campo per quello che veramente sono e cercare una sintesi progettuale adeguata ai compiti della fase. Purtroppo non si può non rilevare che, da molti anni, le contraddizioni si sono accumulate piuttosto che risolte.

Non si riesce ad andare oltre la riproposizione degli schemi ideologici generali, dei principi fondamentali del marxismo-leninismo-maoismo,  spesso ponendoli  con  pretesa di  autosufficienza e certezza di vittoria (davvero grottesche). Quando la vera questione da affrontare, e risolvere via via nella verifica di nuove esperienze e concreti passaggi politici, è proprio la ricerca di superamento di limiti, errori e contraddizioni che ereditiamo dal passato. Quel passato, soprattutto recente, che ha visto un pesante arretramento del movimento comunista, in generale nelle aree centrali imperialiste, fra cui l’Italia; una caduta verticale della sua credibilità, nonché dell’idea stessa di Rivoluzione.

Si continuano ad usare toni perentori e pretenziosi, ed a proporre modelli ideologico-politici come fossero indiscutibili verità storiche, laddove invece dobbiamo rendere conto delle degenerazioni della prima ondata rivoluzionaria socialista, e dell’incapacità, più particolarmente qui nelle aree centrali, di ricostituirci come significative forze rivoluzionarie a seguito delle sconfitte degli anni ’80. Ciò che peraltro grava pesantemente sulle possibilità di una nuova ondata mondiale di rivoluzioni proletarie.

Tutto ciò richiederebbe un approccio ben diverso. Richiede capacità autocritica e un salto di qualità nel metodo politico, per saper cogliere quegli elementi di novità che ci arrivano dalle dinamiche sociali, incanalandole in una dialettica autentica con le esperienze e le nuove leve di classe.

Perché, se l’impianto ideologico e di partito sono essenziali, lo sono però in relazione ad un processo rivoluzionario che è un movimento d’insieme della classe; e quindi più livelli di coscienza ed organizzazione, che devono essere posti in condizione di contribuire e sentirsi partecipi. Ciò che richiede appunto una dialettica articolata, ed una organizzazione comunista viva ed aperta nel rapportarsi con le dinamiche sociali; al contrario di quel dogmatismo autoritario basato sulla presunzione di verità assolute di linea, sull’unilateralità della sua formulazione e sulla gerarchizzazione burocratica.

La dimostrazione storica dei danni provocati da quest’ultimo è sotto gli occhi di tutti e, ultimo lascito, nel persistere di questa impronta deleteria nella gran parte dei gruppi.

Pertanto basterebbe rifarsi ai passaggi più brillanti della storia rivoluzionaria, nelle loro sintesi potenti come “Stato e rivoluzione” di Lenin (scritto nel pieno del ’17). Per cogliere una visione ben più ampia, viva ed articolata del processo rivoluzionario. In cui certo il Partito ha il suo ruolo fondamentale, ma in funzione di una dinamica complessiva che trova nei Soviet, nelle

Comuni, la forma concreta e partecipata del potere proletario; di quello Stato proletario “che non è già più Stato nel senso proprio del termine”.

Insomma una visione ed una impostazione che, non arroccandosi su indiscutibili certezze ideologiche e su conseguenti procedure burocratizzanti, cerchi di sviluppare un processo rivoluzionario nel vivo della crescita e della sperimentazione da parte di settori sempre più ampi del proletariato.

OGGI

D’altronde, rivenendo all’attualità, stiamo vivendo il paradosso di qualche movimento di massa significativo che si sviluppa proprio con queste caratteristiche di consistenza – per quanto ancora ben lontano da una maturazione da fase rivoluzionaria – a fronte della suddetta pochezza e rigidità della soggettività comunista (qui nelle aree centrali imperialiste) verso questa maturazione dei movimenti di massa. L’attuale precipitazione di crisi ha svelato molto del capitalismo, dei suoi meccanismi, e in tutta la loro brutalità. Così i vari movimenti contro la crisi esprimono già una certa determinazione nell’affrontare il capitale finanziario, in quanto nemico principale; e ciò è tanto più significativo poiché è evidente che dire capitale finanziario non vuol dire limitarsi alla critica di quei settori borghesi usurai storicamente più odiosi, bensì toccare il sistema capitalistico nel suo insieme; di cui il capitale finanziario è il vertice piramidale, il motore, la forma stessa del capitalismo nell’epoca imperialista. Infatti nei punti alti dello scontro – come in Grecia, in alcuni paesi arabi o, anni fa in Argentina e America Latina – i movimenti di massa non solo si radicalizzano e vanno allo scontro frontale con il sistema economico-politico-istituzionale (certo nel limite delle loro possibilità), ma cercano dunque anche di fondare un’alternativa di potere nelle loro pratiche sociali e di lotta ed autorganizzazione (in forme di autogestione di fabbriche e servizi, e della sopravvivenza nei quartieri). Dichiarando apertamente che la soluzione va cercata fuori e contro il sistema. Tipico atto fondamentale a riguardo è il rompere i ponti con i maledetti “mercati”, sia rispetto ai famosi debiti (che incombono sulle popolazioni come terribile arma di ricatto e distruzione), sia rispetto al circuito produttivo.

È chiaro che questi atti non possono compiersi fino in fondo ma, giustamente, pongono quel terreno concreto dove le lotte sconfinano sulla questione del potere, su cui la proposta e la strategia rivoluzionaria possono innestarsi, proprio come strumenti e sbocco necessari per sviluppare e realizzare, quelle aspirazioni di trasformazione radicale.

È proprio la dove la lotta diventa cruda lotta per la sopravvivenza, e contro il sistema che la nega, che si può coniugare la dinamica rivoluzionaria di partito con le istanze di organizzazione di massa, trovando infine un terreno comune di sviluppo, e quindi d’innalzamento generale del livello di scontro.

Perciò, ovviamente, noi pensiamo che è sempre d’attualità tutta la costruzione di strategia, programma, e linea, sintetizzata nella formula del PC(P-M). Esso è il polo essenziale, il motore per attivare questa ampia dialettica finalizzata all’apertura del processo rivoluzionario. Secondo quelle forme e caratteri adeguati alla nostra realtà sociale, in parte già “scoperte” e provate dal ciclo di lotta rivoluzionaria degli anni ’70, in parte da scoprire nella concreta sperimentazione di questo nuovo ciclo. E unico modo per concretizzare qui, nelle aree metropolitane imperialistiche, la teoria generale della Guerra Popolare Prolungata. Il processo rivoluzionario può concretizzarsi solo come stretta dialettica fra l’azione politico-militare di partito e i movimenti di massa, in un susseguirsi di salti di qualità, di passaggi politici che sostanzino una maturazione ed un innalzamento reale del livello di scontro fra le classi. Immaginare il processo rivoluzionario al di là di questa concreta corrispondenza è puro elitismo di partito e/o militarista.

PC(P-M) riassume i caratteri acquisiti storicamente della forma partito, nello sviluppo delle fasi storiche dell’affrontamento Rivoluzione/Controrivoluzione. In particolare deve essere

l’assunzione dell’unità del politico-militare; per poter cioè essere quel preciso soggetto politico, il Partito Proletario di lotta per il potere, in grado di interagire con la dinamica di massa.

L’attuale arretratezza del percorso della sua costruzione impone di chiarire e superare tutta una serie di pesanti retaggi.

Dicevamo già del dirigismo autoritario della concezione assolutizzante/unilaterale del partito; concezioni che discendono dall’impostazione dogmatico fideistica sul piano ideologico. Le deviazioni sono note: machiavellismo tatticista, rapporto di tipo strumentale con le altre entità del movimento di classe, riduzione degli organismi di massa ad oggetto del proprio operare; alimentando una doppiezza di fondo fra rigidità dirigista e spregiudicatezza opportunistica sul piano dell’articolazione politica. Insomma, una gretta, meschina visione di potere, e del partito come proprietario del processo rivoluzionario. Ciò che peraltro si riflette pure internamente al partito stesso, nelle sue relazioni interne. Quanto questi retaggi pesino sul movimento comunista è evidente, e tanto più quanto se ne è aggravata l’inconsistenza e la marginalità come qui in Italia e Europa. Bisogna porsi il problema di come superarli, nel mentre si costituiscono le nuove forze.

Di sicuro un autentico processo rivoluzionario si impone con le ragioni della vita (come spesso diceva Lenin) cioè, per quanto ci riguarda oggi, rompendo quelle gabbie (tutte quelle forme politiche parassitarie) che impediscono alle energie vive della classe di prorompere e dispiegarsi.

Infatti non si può non constatare che, proprio per sottrarsi a quelle gabbie, parte significativa di queste energie si orienti attualmente verso il movimento anarchico. Proprio per la sua maggiore vitalità e coerenza nella determinazione allo scontro. È il caso su tutti i fronti più accesi, nei vari paesi europei. Unica eccezione di rilievo, il PCE(r) e i GRAPO di Spagna, che, nonostante le riserve che si possono avere su puntuali questioni di linea, costituiscono una notevole presenza con la loro continuità (e nonostante la pesantissima repressione che reggono da sempre). Unico esempio in Europa di presenza politico-militare comunista di una certa consistenza e di solidità politica ideologica. Perno possibile di importanti sviluppi data la fragilità della Spagna nella crisi e nella catena imperialista europea.

In Grecia si vive oramai una fase di crisi gravissima dove la lotta armata è condotta da gruppi anarchici, o nel migliore dei casi, da “anarco-comunisti” come Lotta Rivoluzionaria. Che appunto citavamo nel documento di ottobre 2011 proprio perché esemplare di questa determinazione coerente nonché di una già apprezzabile impostazione politico-organizzativa da processo rivoluzionario (per quanto insufficiente ma in superamento di quelle tipicamente spontaneiste-“nichiliste” che non possono portare da nessuna parte). Colpisce la capacità di queste aree ad inserirsi nei movimenti attuali nelle dinamiche reali, di diventarne fermenti attivi (come qui è evidente rispetto al movimento NO-TAV, per esempio). Può darsi che abbiamo qualcosa da imparare anche da loro? Di sicuro queste forze sono attualmente portatrici di istanze rivoluzionarie, al contrario dei tanti dogmatici scolastici e opportunisti. Perciò a maggior ragione, per riuscire ad orientare le nuove energie verso una strategia comunista è più che mai urgente l’obiettivo PC(P-M); da articolare nell’immediato di un livello di organizzazione comunista armata, che ponga i termini essenziali da costruire: politica rivoluzionaria come esercizio dell’unità p-m, come pratica di lotta armata su obbiettivi e dimensioni da partito, come ponte con la realtà di classe, e cioè come polo di forza armata per dare sbocco e prospettiva alle stesse lotte e rivolte di massa, viceversa condannate alla disperazione. In questo senso va valutata anche la ripresa di iniziativa p-m entro il conflitto capitale/lavoro.

I NUOVI MOVIMENTI: VERSO L’ANTICAPITALISMO?

Le lotte in Italia si confermano ancora nello stato di frammentarietà ed inadeguatezza rispetto all’attacco globale capitalistico. Non si riescono ancora a trovare quei punti di coagulo e generalizzazione che si stanno verificando in altri paesi; e con caratteristiche di nuovi movimenti che, per contenuti e metodi, costituiscono un grande salto di qualità sul piano delle dinamiche di massa. Il movimento italiano più avanzato e che ha addirittura conquistato un carattere di avanguardia di massa, è ovviamente il NO-TAV. Infatti assomiglia a questi altri nel mondo. Esso raccoglie in sé molta pratica di lotta e molti elementi di crescita e maturazione, ponendolo su quella linea di demarcazione dove dalla semplice rivendicazione, settoriale e negoziale, si passa a mettere in questione le regole economico-sociali di sistema. Qui mette in questione l’assoggettamento dei territori (il loro sconvolgimento, dissesto, inquinamento, la disgregazione delle “comunità” locali, la nuova urbanizzazione disumanizzante, ecc) e i comandamenti di “crescita”, “velocità”, “interesse nazionale”. Nonché la nuova autorità sovranazionale dell’Unione Europea, anche essa presentata come indiscutibile con tanto di potere di vita e di morte economica.

E poi c’è l’aspetto politico del modo in cui il movimento si è costruito: Assemblea Popolare permanente, rifiuto della delega, distanza di sicurezza rispetto ai partiti istituzionali, ricostruzione di senso comunitario, pratiche di “futuro”… Tutto ciò ha dato al movimento grande consistenza riuscendo così a superare dure prove e l’impatto con uno dei più alti livelli di militarizzazione del territorio. Infine realizzando quel salto di qualità nel suo divenire riferimento per tante resistenze popolari, in tutto il Paese. Così si è dato quello slancio solidale, con manifestazioni contro la repressione in tante città, dopo gli arresti di febbraio e il ferimento di un militante. Occasione in cui la bandiera NO-TAV è stata assunta come simbolico fronte di opposizione alle politiche di crisi e di massacro sociale.

In questa sua forza e portata sociale e politica, esso si avvicina ai grandi movimenti contro la crisi, generatisi fra le rivolte arabe e gli “Occupy Wall Street”. Essi hanno in comune di essere delle rivolte contro le politiche (e talvolta contro i regimi stessi) prodotte dalla crisi, certo, ma che risaltano anche fortemente i meccanismi inerenti al sistema capitalistico nel suo insieme, nella sua forma di vera dittatura del capitale finanziario. Si percepisce cioè la consapevolezza diffusa, non solo della grande violenza sociale del sistema (di questa dittatura sostanziale, mascherata dallo spettacolo della democrazia formale borghese), ma anche la ricerca di una strada, di una prospettiva di alternativa sociale al sistema dominante.

Slogan come “siamo il 99% contro l’1%”, “non si esce dalla crisi se non si esce dal capitalismo”, “non pagare debiti – espropriare banche e grandi capitali”, segnano un vero salto in avanti (sopratutto se rapportato a situazioni come gli USA). E si è trovata, infine, una pratica unificante del famoso mondo del lavoro frammentato, precarizzato, che da tempo non poteva più ricomporsi entro territori sociali come la grande fabbrica, dislocata sul mappamondo del dominio imperialista.

Paradossalmente, è sempre il capitale stesso che ci aiuta a risolvere i problemi: esso ha omogeneizzato, trasversalmente alla frammentazione del mondo del lavoro, le condizioni sociali del proletariato e dei maggiori strati popolari. E questo in particolare passando per la lunga fase di “sviluppo” drogato tramite la finanziarizzazione che ha creato queste condizioni di indebitamento di massa. Su due livelli: 1) in quanto singoli cittadini con i mutui, il credito al consumo che, tra l’altro, sono stati il corrispettivo della compressione salariale dagli anni

’90 in poi, 2) in quanto sudditi dello Stato, nella forma di debito pubblico. Qui poi ricongiungendosi di nuovo alle strategie di sfruttamento capitalistico, sia nella enorme rendita realizzata sui titoli pubblici, sia nell’uso del debito come arma per imporre le attuali politiche d’impoverimento e aumento dello sfruttamento del lavoro.

Il debito pubblico, o, in altri termini, l’alienazione dello Stato, che sia esso dispotico, costituzionale, o repubblicano, marca della sua impronta l’era capitalistica. La sola parte della ricchezza nazionale che sia realmente in possesso collettivo dei popoli odierni, è il loro debito pubblico

(Marx, Il Capitale, libro I)

Ora tutto ciò ha raggiunto una soglia quantitativa, una massa critica tale che, esplodendo, permette la sua trasformazione qualitativa in critica antisistemica. “Siamo il 99%…”, “Non siamo noi ad essere indebitati con voi, ma voi che siete dei ladroni”, “Abbiamo la possibilità di cambiare    il mondo. Facciamolo (Do it!)”, ecc. Oakland è stato il punto più alto di questo vasto movimento che ha investito circa un migliaio di città USA. In particolare, nelle giornate fra ottobre e novembre scorsi, a seguito delle ennesime violenze poliziesche contro i manifestanti, venne indetto lo sciopero generale nel distretto. La cosa grandiosa fu che tale proclamazione avvenne ad opera dell’assemblea generale di piazza, i cui 1600 partecipanti erano anche settori rappresentativi di varie categorie e organismi/sindacati già in mobilitazione da tempo. E con una riuscita plebiscitaria dello sciopero stesso, il giorno dopo! Ma anche il contenuto della giornata è molto significativo: la grande massa di scioperanti; senza indugi, al blocco del porto, sia per il peso specifico dei portuali come avanguardia operaia della città, sia perché si volevano attaccare i terminali di un paio di multinazionali agro-alimentari note per le loro speculazioni genocide tra Wall Street e le periferie del mondo affamate… obiettivo davvero ben centrato, al cuore delle contraddizioni imperialiste.

Un orientamento decisamente classista che non rimane alla superficie degli effetti della crisi, ma che va a fondo nei meccanismi e nelle connessioni del sistema. E ancora, l’attacco alla “EGT” e alla “BUNGLE ltd. agrobusiness” cioè alle due Compagnie di assassini, veniva condotto pure in solidarietà alla lotta in corso su un altro porto della Costa Ovest, Longview, dove i portuali subivano una violenta repressione, sempre ispirata da queste Compagnie, e continuavano a lottare.

Altre componenti decisive a Oakland sono alcune grosse fabbriche, un sindacato di base dei carpentieri edili, e gli insegnanti e studenti. Insomma una bella riedizione dell’antica unità di classe, che peraltro deve affermarsi contro una delle legislazioni anti-sciopero più feroci e contro delle centrali sindacali note, per il loro totale asservimento. Tant’è (e anche questo la dice lunga) che questo sciopero generale è paragonabile a quelli del… 1946! Anno culmine di grande fase di scontro di classe che però, sconfitta, vide proprio l’avvio di questa legislazione! Anche questi richiami storici fanno la forza di questo movimento, che scopre le sue potenzialità.

Per concludere, si può rilevare un’altra idea-forza emersa fra gli OWS, che più o meno suona così: “Basta piangere sul pacifismo versato. La questione vera è sul legame indissolubile fra crisi globale del capitalismo e guerra.”

Passo a passo, ci si avvicina alla sostanza dei problemi… C’è poi grossa risonanza reciproca e interlocuzione a distanza fra gli OWS e le piazze arabe. I militanti più avanzati di queste ultime esprimono, con grande maturità, la consapevolezza che la lotta rivoluzionaria è appena iniziata e proseguirà per anni. Danno la massima importanza al proseguimento dell’autorganizzazione alla base, denunciando le elezioni come il classico passaggio di recupero e riassestamento controrivoluzionario (nell’evidente potenza economica capitalistica che manovra i burattini politici, partiti religiosi compresi). E mantengono aperto il fronte principale che è quello contro i regimi militari, sempre in piedi, e il loro alter-ego, la loro carta di sostituzione costituita dai partiti religiosi (regimi e partiti legati dai mille fili della stessa classe di appartenenza e che, talvolta, li porta pure al compromesso, come ora è il caso in Egitto e in Tunisia).

Autorganizzazione che, pur vedendo i suoi momenti forti e critici nelle piazze, è nata e si è sviluppata sotterraneamente anche nelle fabbriche, nel mondo del lavoro. E i militanti giustamente sottolineano la centralità di questo processo che coinvolge i settori operai più sfruttati e cresciuti nella nuova organizzazione capitalistica mondiale. Quindi i ranghi potenzialmente più consistenti di una nuova ondata rivoluzionaria mondiale! È molto forte sentire i loro appelli ai movimenti OWS (ed altri) affinché investano anch’essi la classe operaia. Il tutto prospettando obiettivi antisistemici e di trasformazione sociale, perché si percepisce che ormai il sistema è diventato una morsa schiacciante – basti pensare per loro, in Maghreb, alla morsa del capitale finanziario agente sul mercato mondiale agroalimentare che, a ondate successive, falcidia per fame popolazioni intere e provoca esodi immani dalle campagne alle bidonville metropolitane.

Non ci sono più margini, dicono, bisogna far saltare il sistema, che rende impossibile ogni evoluzione, e che si mantiene su precise forze e connessioni internazionali.

La stessa considerazione vale per la gigantesca operazione in corso, combinata fra capitale finanziario e governi nazionali e sovranazionali (BCE, UE, USA, FMI…). L’operazione di ripresa in mano della montagna di debiti, della macchina dell’indebitamento, attraverso le varie articolazioni politiche locali, porta ovunque agli stessi obbiettivi/risultati: un nuovo colossale drenaggio di ricchezza dalla base sociale produttiva verso l’oligarchia capital-imperialistica, la demolizione dei residui sistemi di sicurezza-previdenza pubblica, e una nuova feroce intensificazione dello sfruttamento. L’ultima trovata è l’istituzione del “pareggio di bilancio” persino nella Carta Costituzionale! Sorta di blindatura al massimo livello concepibile unitamente ai ferrei vincoli UE, ad impedire di fatto qualsiasi politica di aggiustamento-regolazione economico-finanziaria che non sia agendo sulla compressione salariale (in tutte le sue voci: salario diretto, differito e imposte). In questa accezione è proprio vero che il debito (sia quello sovrano, sia la massa di quelli privati) è diventato “una linea del fronte”: evidentemente le masse in rivolta non si sbagliano poi tanto. Perciò, più che mai, ben detto Marx:

Se i democratici esigono la regolazione del debito pubblico, la classe operaia deve esigere la bancarotta dello Stato!”

(discorso alla Lega dei comunisti, 1850)

IN FABBRICA

Questa colossale operazione ricade pesantemente sugli stessi rapporti di forza in fabbrica, in produzione. Amplificando quello che è già diventato un rapporto terroristico, basato sui vari ricatti che il Capitale agisce. Non si può non vedere la perfetta sintonia, corrispondenza fra i grandi registi governativi (nazionali e sovranazionali) e l’oligarchia capitalistica (i vari Marchionne); in un ulteriore salto di quel processo di cosidetta “esecutivizzazione” e di ulteriore allontanamento/distacco dalla sfera di  mediazione e legittimazione “democratiche”. I governi tecnici e la loro organicità ai centri dei potere sovranazionali e al Capitale Finanziario, rendono davvero tangibile quello che giustamente venne definito Stato Imperialista delle Multinazionali.

Ma anche qui, segnali di un nuovo risveglio, adeguato al livello dello scontro: dalle rivolte operaie in Cina e in Maghreb, fino agli appelli degli operai FIAT di Polonia e Serbia all’unità internazionalista per spezzare il gioco al massacro concorrenziale e fare fronte unito contro gli stessi padroni. Questa è visibilmente l’unica prospettiva per affrontare la terribile macchina capitalistica, e per ridare forza e incisività alle lotte operaie: il Capitale, strappati tutti i veli, gioca spudoratamente al ricatto, alla divisione concorrenziale, al potere terroristico sulle stesse possibilità di vita. Il proletariato può rovesciare questi diktat in unità internazionalista e organizzazione della sua forza (su tutti i piani, militare compreso) per dispiegare lo scontro di potere. Accettare la guerra o essere sconfitti!

D’altronde è la stessa forza delle cose a spingere in questa direzione. In Cina-che va sottolineato è diventata “la fabbrica del mondo”, e cioè lo zoccolo duro dello sfruttamento, utilizzato dal Capitale Multinazionale per cercare di risollevare quel tasso di profitto che tanto lo ossessiona e che ne provoca la crisi – le lotte operaie impattano immediatamente la repressione violenta ed esse stesse perciò ricorrono all’uso della forza. È chiaro che le sorti del capitalismo mondiale dipendono molto dal permanere di questa cappa di piombo che, finora, riesce ad impedire la generalizzazione e l’unificazione di un movimento operaio antagonista. Ma è altrettanto chiaro, prima o poi, salterà e finirà per sprofondare il capitalismo nella crisi più abissale. Mentre dal nostro punto di vista, di classe operaia internazionale, visto il peso vivo dell’eredità maoista fra la popolazione cinese ed il confinante processo rivoluzionario in corso in India, si può prevedere facilmente uno sviluppo potente della tendenza rivoluzionaria. E date le dimensioni asiatiche, la sua ripercussione a “tsunami” fin su tutte le altre rive continentali. Non è questione di lanciarsi in profezie e grandi visioni, ma più banalmente di rilevare che gli squilibri capitalistici così profondi e irrigiditi, in cappe di piombo a contenerne le contraddizioni, non possono che provocare esplosioni devastatrici… Concretamente e immediatamente dobbiamo tessere nuove relazioni di unità internazionalista di classe, per poter incidere nella lotta e per rompere le maglie del potere terroristico- ricattatorio.

ORIZZONTE GRECO

Sempre la forza delle cose ha portato la Grecia, sull’orlo dell’abisso, ma anche di una fase da maturazione rivoluzionaria. La crescita e la radicalizzazione del movimento di massa è continua e si intreccia ad esperienze di lotta armata organizzata. I contenuti e gli obiettivi sono sempre più di potere: rigettare i debiti, espropriare banche e capitali, uscire dall’UE, attacco al sistema parlamentare, assemblee generali e autorganizzazione di massa. Obiettivi che vengono concretizzati, in qualche modo, nelle pratiche di lotta, con gli attacchi a banche e palazzi del potere, con l’occupazione di case, edifici, con gli espropri di merci, con il boicottaggio di imposte e di altri pagamenti.

Insomma, c’è poco da inventarsi, la realtà parla da sé e, semmai, impone l’assunzione delle sue logiche conseguenze da parte dell’Organizzazione politica di classe.

Pensiamo sia importante e possibile sviluppare un Fronte di classe, trasversale alle nostre varie lotte, e con connessioni internazionali; la cui autenticità e vitalità è in rapporto ai suddetti contenuti, obiettivi e pratiche organizzative, tendenzialmente di potere. Fuori e contro i partiti istituzionali e anche contro quei ceti politici di “movimento” che funzionano da ultimo argine proprio a contenere il processo di autonomia di classe. Insomma il Fronte di classe come terreno di reale differenziazione e polarizzazione, di crescita di autonomia nei successivi salti di intensità dello scontro, fino alla fase decisiva di trasformazione in Soviet, in Comuni. Processo cui è necessario, ovviamente, il concorso del piano di iniziativa rivoluzionaria di Partito.

CONCEZIONE DEL FRONTE

La concezione del Fronte non è unica e pone vari problemi. Diciamo che, in generale, è un terreno e al tempo stesso un obiettivo che richiedono una certa elasticità tattica; è un tipico campo di sviluppo della tattica. Quindi richiede una costante attenzione al succedersi di eventi e situazioni, che possono modificare le stesse esigenze tattiche. Richiede verifiche e tentativi, esperienza pratica e capacità di bilancio e ridefinizione.

Ricca e controversa è stata l’esperienza storica di Fronte Unito di classe, dal basso e dall’alto. La dialettica viva delle situazioni prestandosi a diverse combinazioni, ma globalmente è chiaro che è il Fronte dal basso che può davvero sostanziare il processo di unità di classe è di sua maturazione rivoluzionaria e mettendo ai margini proprio quelle forze e partiti opportunisti e riformisti che invece preferiscono il Fronte dall’alto come strumento per ingabbiare e snaturare il suddetto processo.

Impostazioni che si riflettono pure sull’altro versante di pratica di Fronte, quello dell’antimperialismo. Qui la diatriba è ancora più accesa poiché la questione imperialista si presta a stemperarne il carattere di classe. A perdere di vista l’imperialismo in quanto “superstruttura del capitalismo”, in quanto sua forma storica, per concentrarsi sui suoi aspetti di dominio politico-militare, sul suo carattere di moderno “impero” (che poi molti identificano quasi esclusivamente negli USA). Si arriva così a perdere di vista il carattere di classe e l’autenticità dei movimenti di liberazione, facendosi abbagliare pure da movimenti reazionari o addirittura da stati borghesi pur che siano in “contrasto” con l’imperialismo dominante. E a concepire il Fronte con tali forze. Talvolta pure incondizionato.

Si sostituisce, nelle priorità, questo piano di “real-politik” con presunte forze antimperialiste (spesso super reazionarie) all’obbiettivo di costruzione delle forze rivoluzionarie di classe. Costruzione essenziale per praticare poi le mediazioni possibili con altre forze antimperialiste (e con certune, non con tutte). Certo, nella dialettica viva non ci sono dei prima e dei poi rigidamente separati, ed il flusso fra i soggetti in campo è continuo, e nei due sensi. Però ci sono delle soglie minime necessarie, al di sotto delle quali si scade a fare altro (pur non volendo): in questo caso data la debolezza/inconsistenza delle forze rivoluzionarie, si finisce a rendersi subalterni a forze borghesi e reazionarie e dentro uno scontro che non è antimperialista, bensì piuttosto scontro interno al campo imperialista per la ridefinizione del suo ordine, dei suoi vassallaggi. Certi movimenti sono talmente fondati storicamente nell’oppressione e sfruttamento dei propri popoli, e altrettanto i loro legami con l’imperialismo – al di là di transitorie fasi di scontro (basti pensare al torbido intreccio tra Talebani, potere pakistano, USA) – che non ci si può aspettare nulla di buono. L’imperialismo può perdere un po’ di presa su un dato paese o regione, sa di recuperarla per altre vie e anzi, strategicamente quelle forze reazionarie sono per esso fondamentali per mantenere sottomessi i popoli e per impedire vere insorgenze rivoluzionarie.

Mentre con i movimenti borghesi-popolari con cui sia possibile il Fronte, è necessario comunque un certo livello di forza e indipendenza dei rivoluzionari. Ciò che si dimostrò in Cina, in Vietnam, e oggi nell’avanzante guerra popolare in India. In Cina il fronte anti-giapponese fu fatto in condizioni particolari e favorevoli – contesto di guerra mondiale e peso favorevole del campo imperialista occidentale, grossa forza ormai accumulata dal CPC e dall’Esercito Rosso, ampie zone liberate – e, ciò nonostante, esso fu nei fatti molto aleatorio, a debita e ostile distanza con un Kuomintang nazionalista che continuava a perpetrare aggressioni e doppio gioco. Non fu mai vera alleanza, ognuno sviluppando il proprio campo in funzione dell’immediata resa dei conti, una volta sconfitto l’imperialismo giapponese. In Vietnam l’egemonia dei comunisti orientò in senso decisamente progressista le componenti borghesi e popolari. E nell’India moderna, benché essa sia un vero e proprio continente comprendente varie nazioni e popoli, e con uno Stato che pratica la guerra interna “coloniale” contro alcuni di essi, il CPI (Maoist) non coinvolge forze nazionaliste reazionarie nel fronte e precisa, sul piano internazionale, che per quanto ci si debba alleare con tutti quelli che combattono l’imperialismo, non si debba rinunciare alla lotta contro il loro eventuale carattere reazionario, per scalzarne l’influenza sulle masse (riferendosi in particolare al problema diretto che hanno con i movimenti islamici confinanti).

Per cui, anche qui nelle metropoli imperialistiche l’urgenza è alla costruzione di forze comuniste nei termini politico-militari necessari anche per un antimperialismo conseguente. E questo è sicuramente il vero aiuto che possiamo portare ai popoli del Tricontinente. Non quello di sostituirlo con surrogati tatticisti, per supplire spesso alle nostre incapacità e incoerenze, e che portano solo a pericolose subalternità e a deformare l’orientamento rivoluzionario. È la nostra arretratezza, la nostra assenza talvolta, dalla scena dello scontro rivoluzione/controrivoluzione internazionale che lascia spazio alla manipolazione borghese-reazionaria della rivolta dei popoli. Questo è il problema che abbiamo da risolvere, e contro quella manipolazione.

VERSO I SOVIET E L’ORGANIZZAZIONE POLITICO-MILITARE

Lo sprofondamento di questa crisi epocale ha il grande merito di spazzare via finzioni, margini di manipolazione e concertazione, illusioni legaliste. Il capitalismo si presenta con il suo volto autentico, feroce; accetta solo sottomissione e alienazione brutale dalla propria umanità, valida solo in quanto merce forza-lavoro; in una spirale di sfruttamento crescente e di eliminazione sociale, una volta spremuti.

Schiaccia i movimenti di resistenza sotto compatibilità di sistema sempre più blindate, indiscutibili. Ma proprio ciò li spinge a maturare, li spinge a porsi gli inevitabili problemi per poter avanzare. Problemi riassumibili in una parola: potere!

Pur se la geografia, la consistenza delle lotte di massa è diversificata, a seconda dei paesi, ovunque si vede una dinamica di crescita dell’autonomia di classe, nel senso di tendenza a contare sull’autorganizzazione e ad allontanarsi dal sistema politico-istituzionale. Percepito a ragione per quello che è: apparato di servitori dei padroni, a questi infeudati e con loro partecipi nei profitti estorti sulla devastazione sociale. Anche laddove la lotta è assente, e perciò si manifesta ancor più la crudeltà delle ferree leggi del sistema in crisi, si può cogliere facilmente che il passaggio “di potere” è la porta obbligata per aprirsi una prospettiva. In tutti i campi sociali:

  • In fabbrica, e nella complessa rete della produzione capitalistica, dove si esercita al più alto grado la dittatura e lo sfruttamento. Dove il Capitale usa il mondo intero, la concorrenza ed il ricatto, per aggravarli senza
  • Nella distruzione delle strutture sociali, di quei diritti acquisiti storicamente dal movimento operaio; per ridurre di nuovo il proletariato in povertà cronica, a classe di mendicanti.
  • Nella condizione abitativa, con l’uragano dei “subprimes” e le conseguenti espulsioni e sfratti di
  • Nel saccheggio di risorse e territori, disumanizzati da infrastrutture di puro uso e consumo
  • E ancor più nella violenza imperialistica storica, contro tutti i popoli delle periferie, con l’indotto fenomeno delle migrazioni/deportazioni.
  • Nelle condizioni sociali generali degradate brutalmente dalle miserie della crisi, avvelenate dai valori tossici dei rapporti sociali borghesi. Degradazione che investe con massima violenza i rapporti di genere, la condizione

E si potrebbe continuare…

Il nodo politico, quello che riassume le varie esigenze e quello che può raccogliere e sviluppare adeguatamente le nuove resistenze ed il loro porsi, oggettivamente, sul terreno del potere, è appunto il piano dell’Organizzazione Comunista strategica (tendenzialmente nella forma di PCP-M). Che solo può concretizzare la volontà di scontro di potere; a cominciare dal ricostruirsi dell’identità del proletariato come classe antagonista e potenzialmente rivoluzionaria. E perciò ristabilire un piano di scontro politico generale, che possa, via via avvicinarci alla prova di forza definitiva di rovesciamento di Stato e Capitale.

Ciò che è possibile solo nella sua forma politico-militare. L’uso delle armi come modo preciso, storicamente determinato e necessario, di essere della politica rivoluzionaria del partito proletario. La lotta armata di partito come modo preciso e incisivo di intervenire nel vivo dello scontro e della crisi in corso; in quanto modo di costruire da subito l’Organizzazione ed il suo rapporto con la classe. Come strumento essenziale, infine, per poter porre concretamente e coerentemente la prospettiva di potere, la possibilità dell’alternativa sociale che solamente potrà farsi strada nel processo di demolizione del modo di produzione capitalista e del dominio imperialista.

Nel contesto di questa battaglia politica situiamo, naturalmente, il processo in corso che come sempre, è occasione di confronto fra i militanti rivoluzionari e lo stato nel suo tentativo di piegare, ridurre, devitalizzare l’istanza rivoluzionaria, riconducendola entro i margini della semplice manifestazione di malessere e protesta sociale.

Gioco sottile, giocato con sbarre di ferro, in cui è importante essere il più chiari possibili ed evitare ambiguità. Perciò anche in seguito alle evoluzioni che si sono date con la rottura del nucleo militante alla base di questo percorso, pensiamo sia utile affermare con ancora più chiarezza il rapporto con la giustizia borghese e le sue diatribe: non abbiamo nulla da cui difenderci, né da giustificare. Rivendichiamo l’essere stati parte di un’Organizzazione Comunista armata finalizzata allo sviluppo di una politica rivoluzionaria.

E ne riaffermiamo l’esigenza attuale e urgente.

SVILUPPANDO LA RESISTENZA PROLETARIA COSTRUIAMO I TERMINI POLITICO-MILITARI PER LA SUA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA!

TRASFORMIAMO LA CRISI STORICA CAPITALISTICA NELLA GRANDE OCCASIONE!

CONTRO LA CRISI E L’IMPERIALISMO GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO!

 

DAVANZO Alfredo
SISI Vincenzo militanti per il PCP-M

Milano – 15 maggio 2012

12 dicembre 2007: Lo STATO delle STRAGI – Contro la RIVOLUZIONE PROLETARIA. Udienza preliminare processo “Partito Comunista politico-militare Pc(p-m)”. Dichiarazione di Davide Bortolato, Alfredo Davanzo, Claudio Latino, Vincenzo Sisi militanti per la costituzione del PC(p-m)

Ma che bella coincidenza questa data.

Così qui si vorrebbero processare dei presunti terroristi, proprio nella data simbolo di quello che è vero terrorismo: quello di stato!

Sì, perché c’è qualcosa di veramente malsano nell’isterismo anti-terrorista istituzionale: questo epiteto è imposto sempre e solo alla violenza delle classi subalterne, sfruttate, e delle nazioni oppresse.

Eppure il semplice buon senso dovrebbe riconoscere che chi si ribella, come classe o come nazione, lo fa per conquistare le masse alla lotta. E lo fa in base ad obiettivi e ideali di liberazione e trasformazione sociale.

Colpire indiscriminatamente tra le masse popolari è un semplice controsenso. Infatti (e questo nessuno ce lo può negare), il movimento rivoluzionario in Italia (e dappertutto nel mondo) ha sempre rivendicato e spiegato la propria lotta e le proprie azioni. Che sono sempre state indirizzate al sistema di dominio e sfruttamento: padroni, imperialisti, casta politica, forze repressive.

Lo stesso buon senso vuole, invece, che chi vive dello sfruttamento e dell’inganno delle masse, vede in queste anche un oscuro pericolo.

Cominciano a resistere, a non farsi più trattare da pecore e poi, non si sa mai, possono arrivare a pensare ad un mondo nuovo, senza servi né padroni… oddio, suprema bestemmia! Ecco allora che i padroni ed il loro Stato sono capacissimi di colpire le masse e le loro organizzazioni: le bombe stragiste si spiegano perfettamente. Ma quali misteri?! Ma quali verità da ricercare?! (I motivetti agitati dall’apparato mediatico di Goebbels).

Le prove sono schiaccianti: generali, servizi segreti, eminenze grigie di Stato, CIA, NATO-Gladio, truppa fascista ecc. E la più grande prova è nell’inconcludenza delle inchieste, dei processi, e nell’impunità.

Forse che dal lato nostro della barricata si può dire lo stesso?

Circa 50.000 (!) anni di carcere scontati (e si continua), per circa 6.000 militanti o semplici proletari coinvolti!

E mentre il movimento rivoluzionario ha rivendicato la morte di circa 130 persone (errori compresi), lo Stato, solo con le stragi, ne ha ammazzate più di 140; più altre decine ad opera delle forze di repressione nelle piazze o negli agguati ai militanti; più altre decine ad opera degli sgherri fascisti, agenti all’ombra dello Stato.

Mai lo Stato ha avuto la dignità della rivendicazione, sempre la viltà del depistaggio, fin verso l’avversario politico (come per Piazza Fontana)! Infine, ricordiamo che quest’uso malsano dell’epiteto “terrorista” ha un promotore: il nazismo. Questo affiggeva i manifesti, chiamando i Partigiani “banditen-terroristen”!

Noi non ce ne stupiamo: nazifascismo e democrazia formale borghese sono appunto figliati dallo stesso padre, l’imperialismo (i fili che li legano sono innumerevoli, e soprattutto i soldi).

 

Con il processo ai comunisti arrestati il 12.2.2007, ancora una volta si contrappongono nei tribunali borghesi due classi: borghesia e proletariato. L’una, la borghesia, che detiene il potere (cioè che nel tempo ha costruito in sua funzione un apparato repressivo e giuridico) accusa l’altra, il proletariato che, nella figura di alcuni militanti comunisti, cerca di costruire la propria autonomia politica di classe, cioè rivoluzionaria, cioè il Partito Comunista della classe Operaia. Proprio questa tendenza è il grande spauracchio per la classe dominante, ancor più oggi quando si trova impegnata nella grande competizione per la nuova spartizione del mondo, battezzata “guerra infinita”, e fatta di sedicenti “missioni di pace”.

È un cammino di morte e distruzione, gravido di contraddizioni, che si acuiscono fin dentro le formazioni sociali imperialiste. Un cammino che mostra, agli occhi delle grandi masse, la crisi del sistema e mette drasticamente in luce la necessità del suo radicale superamento.

Il capitalismo ha una logica interna mostruosa, l’aggressività concorrenziale porta inevitabilmente a guerre. E quando, per di più, si trova in crisi cronica di sovrapproduzione di capitale (ciò che ha determinato l’esplosione del fenomeno creditizio e di un consumismo drogato), non c’è altra soluzione che il grande scontro inter-imperialistico.

Sul campo di macerie altrui, i gruppi imperialisti e gli stati vincenti potranno ripartire con l’accumulazione.

Le evidenti ragioni economiche e di dominio mondiale della “guerra infinita” la configurano come fase di guerra mondiale strisciante.

Perché da questo genere di crisi-generale e storica il capitalismo non esce con mezzi ordinari. Non vi riesce nonostante trent’anni di attacchi alle conquiste della classe operaia e del proletariato, nonostante un aumento dello sfruttamento ed un arretramento delle condizioni di vita e lavoro epocali.

E anche qui, lo Stato delle stragi, operaie: a migliaia ammazzati nei Petrolchimici, alla Eternit, nei cantieri edili (e magari buttati via per strada come rottami..).

Quanti padroni sono finiti in carcere?! Eppure la morte di un operaio per cancro è spesso lenta ed orribile, ma i vostri pornografi del dolore (sempre stipendiati da Goebbels) sono troppo occupati con i padroni di ville e con i missionari di guerra imperialista.

Anche se i lavoratori sono diventati la merce che costa di meno, tutto ciò non basta. Il capitalismo in crisi è una belva feroce, mai paga, e la crisi si ripresenta sempre più acuta ad ogni curva della spirale.

Il vero limite alla barbarie che contraddistingue quest’epoca storica di putrefazione delle formazioni sociali imperialiste, è ancora la Rivoluzione Proletaria.

“O la Rivoluzione impedisce la guerra, o la guerra scatena la Rivoluzione”, Mao Tse-Tung.

 

La Rivoluzione Proletaria non si processa! Essa stessa è un processo storico, l’unica via possibile per l’emancipazione dell’umanità dalla barbarie capitalistica. La via democratica per la trasformazione sociale non è mai esistita, le classi che hanno il potere non lo cedono mai democraticamente, ma sempre in seguito a lotte rivoluzionarie.

A noi comunisti resta il compito di indicare, tracciare oggi questa via, la via della Rivoluzione Proletaria.

Possiamo farlo solo costruendo il Partito Comunista della Classe Operaia, che diriga, sviluppando la sua pratica rivoluzionaria, la lotta per il potere.

Noi ai proletari non facciamo promesse, non diciamo “vi daremo ..”, ma “Questa è la via. Combatti! Libertà e felicità si conquistano solo con la lotta e nella lotta, dentro un lungo processo rivoluzionario”.

 

I limiti e gli errori del passato, dei precedenti tentativi rivoluzionari, non sono un motivo per buttarli via (come la canea borghese urla in continuazione, invocando la morte del comunismo). Limiti, errori, contraddizioni sono la linea di frontiera da cui ripartire; sono da risolvere nei nuovi tentativi e facendo forza sulle grandi acquisizioni compiute. Come la pratica e la teoria della Guerra Popolare Prolungata, che tanti successi ha conseguito nel secolo scorso.

Una politica rivoluzionaria si può fare solo con l’unità del politico-militare, in un partito che raccolga le migliori forze della classe operaia e del proletariato, che unisca le rivendicazioni particolari, economiche e sociali, alla necessità dell’abbattimento dell’ordinamento capitalistico in una giusta dialettica partito/masse.

Per questo bisogna affrontare i diversi piani dello scontro, nel senso dello sviluppo dell’autonomia politica della classe: promuovere la crescita di organismi di massa dentro le lotte, e costruire il Partito Comunista Politico-Militare per dirigere la lotta per il potere. Il che vuol dire, naturalmente, rompere il cordone ombelicale opportunista, con il gioco politico istituzionale, sviluppando le lotte nel senso dell’accumulazione di forze entro una precisa strategia di lotta rivoluzionaria: la strategia della Guerra Popolare Prolungata universalmente valida per le classi ed i popoli oppressi dell’epoca imperialista.

 

– L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA

– COSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE DELLA CLASSE OPERAIA

– UTILIZZARE LA DIFESA PER ORGANIZZARE L’ATTACCO

– COSTRUIRE IL FRONTE POPOLARE CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA

– MORTE ALL’IMPERIALISMO, LIBERTÀ AI POPOLI

 

Bortolato, Davanzo, Latino, Sisi militanti per la costituzione del PC P-M

Rivoluzione o controrivoluzione. Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”. Dichiarazione dei militanti per la costituzione del Partito Comunista politico-militare PC(p-m)

Ai comunisti, alle avanguardie operaie, ai proletari che lottano, alle donne oppresse e ribelli

Con il processo ai comunisti/e arrestati/e il 12.2.07, ancora una volta, si contrappongono nei tribunali borghesi due classi: borghesia e proletariato.

L’una, la borghesia, che detiene il potere (cioè che nel tempo ha costruito in sua funzione un apparato repressivo e giuridico), accusa l’altra, il proletariato che, nella figura di alcuni/e militanti comunisti/e, cerca di costruire la propria autonomia politica di classe, cioè rivoluzionaria. L’obiettivo è sempre lo stesso: far sì che il capitalismo sopravviva alle sue crisi, alla sua barbarie e che possa, indisturbato, continuare a distribuire lussi e privilegi ad un’esigua minoranza sulle spalle e sulla pelle della maggioranza. Per questo, dove non arriva l’inganno della loro falsa democrazia, arrivano la repressione e la giustizia borghesi.

L’attacco repressivo mostra la faccia del revisionismo 1 che, per servire i padroni, si è fatto Stato e che oggi trova la sua espressione nell’asse D’Alema-Napolitano-Bertinotti, principale supporto alla politica anti-proletaria del governo Prodi e che ha in una componente della magistratura uno dei suoi principali centri di potere. La Procura di Milano ne è la migliore rappresentazione.

È un processo politico! Un processo in cui la pubblica accusa e gli imputati sono soggetti politici, il principale reato contestato – “associazione sovversiva” – è politico, e gli obiettivi di tutte le parti sono politici. L’obiettivo principale che la borghesia persegue con questo processo è di togliere legittimità alla lotta rivoluzionaria del proletariato, riducendola ad episodi criminali. Operazione necessaria per propagandare la legittimità della repressione ed incutere timore nei confronti delle aree proletarie sensibili alle istanze rivoluzionarie. Soddisfacendo così l’esigenza primaria di contenere la tendenza all’autonomia politica della classe.

Questo sul piano strategico.

Sul piano tattico, invece, l’inchiesta prima ed il processo poi, puntano a rafforzare il traballante governo di “centro sinistra”, espresso dall’attuale equilibrio di interessi interni alla borghesia imperialista italiana. Il perseguimento di questi obiettivi è oggi necessità vitale per i nostri padroni. La loro classe, infatti, si trova sempre più nella condizione di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro negli scontri che la crisi generale del modo di produzione capitalistico determina. La strategia della “guerra infinita” promossa dagli imperialisti USA ha aperto una nuova fase di destabilizzazione globale e rilanciato la lotta per la nuova spartizione del mondo tra le potenze imperialiste. Ora principalmente ai danni delle nazioni oppresse del Tricontinente (Asia, Africa, America Latina) iniziando dai popoli i cui regimi hanno cercato uno sviluppo auto-centrato, svincolato dalla tutela e dal rapporto semicoloniale che gli imperialisti impongono.

Questa è una china che già si configura come terza guerra mondiale strisciante.

La borghesia imperialista italiana è impegnata in prima persona in questo sistema di guerre come mostrano chiaramente le sedicenti missioni “umanitarie” prima in Iraq, poi in Afghanistan e in Libano. È un cammino di distruzione e morte, gravido di contraddizioni che si acuiscono fin dentro le formazioni sociali imperialiste. Un cammino che mostra agli occhi delle grandi masse la crisi del sistema, e mette drasticamente in luce la necessità del suo radicale superamento.

Per crisi del sistema non intendiamo solo crisi economica, nel suo senso corrente del termine. Intendiamo quel fenomeno complessivo, economico-sociale-politico, originato dalle leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico (come “la legge del plusvalore”, cioè la legge dello sfruttamento del lavoro e che, guarda caso, “non risulta” alla “scienza economica” ufficiale, cioè all’ideologia dominante).

Parliamo della “crisi da sovrapproduzione di capitale” che su scala mondiale è cronica: ci sono troppi capitali che cercano profitti, le occasioni di investimento non bastano, la concorrenza è sempre più feroce e degenera spesso in conflitto armato. Questa sovrapproduzione di capitale determina quel fenomeno, pazzesco e criminale, per cui “si sta male, perché si produce troppo!” La sovracapacità produttiva, invece di essere utilizzata socialmente, porta alle continue ristrutturazioni e miseria per il proletariato. E ancora, è essa la causa più vera ed implacabile delle guerre imperialiste: non solo per l’aggressività concorrenziale che scatena ma anche perché, a termine, non c’è altra soluzione (per questo demenziale modo di produzione) che la distruzione di eccedenti. Sul campo di macerie altrui… i gruppi imperialisti e gli Stati vincenti possono ripartire con l’accumulazione. È la storia degli USA in Europa e Asia dopo il ’45, ed è l’attuale storia con Iraq, Afghanistan,…

Da questo genere di crisi – generale e storica – il capitalismo non esce con mezzi economici ordinari. E, infatti, non vi riesce nonostante trent’anni di attacchi alle conquiste della classe operaia e del proletariato: aumento dello sfruttamento, arretramento delle condizioni di vita e lavoro. Nonostante i salti tecnologici, ed il crollo dei regimi revisionisti che avevano preso il sopravvento nei paesi socialisti e spianato la strada alla restaurazione capitalistica.

Nel campo delle contraddizioni di classe, infatti, gli attacchi si sono ripetuti senza soluzione di continuità soprattutto dall’abolizione della scala mobile in poi: attacco al posto di lavoro fisso, ripetute “riforme” delle pensioni e tagli ai servizi sociali, limitazioni al diritto di sciopero, flessibilità e precarizzazione, furto del TFR a profitto del capitale finanziario, così come le privatizzazioni del patrimonio pubblico (costruito con i soldi dei lavoratori). Anche se i lavoratori sono diventati la merce che costa di meno, tutto ciò non basta. Il capitalismo in crisi è una belva feroce, mai paga, e la crisi si ripresenta sempre più acuta ad ogni curva della spirale; come nel recente caso della crisi finanziaria sui mutui immobiliari negli USA. L’elemento di novità è, in questo caso, nell’incapacità dell’imperialismo dominante a scaricare la crisi sulle formazioni sociali dipendenti come è successo nel recente passato nei casi delle crisi finanziarie scaricate sulle economie di Messico, sud-est asiatico, Russia o Argentina.

Questa incapacità testimonia la gravità della crisi e dà nuovo impulso alla politica dei cannoni, non tanto per il carattere soggettivamente criminale della borghesia imperialista ma, anche perché, nell’ambito di questo sistema, la guerra è l’unico mezzo che gli imperialisti hanno per registrare i nuovi rapporti di forza, contendersi e spartirsi le sfere d’influenza ed i super-profitti derivanti dalla dominazione coloniale e semi-coloniale.

Il vero limite alla barbarie che contraddistingue quest’epoca storica di putrefazione delle formazioni sociali imperialiste è ancora la Rivoluzione Proletaria. “O la Rivoluzione impedisce la guerra, o la guerra scatena la Rivoluzione” – Mao Tse Tung. Questo dato è acquisito storicamente nell’essenza stessa degli stati imperialisti che dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi, si sono strutturati come stati della controrivoluzione preventiva 2. Una costruzione statale che è rafforzata dalla cooptazione, a ondate successive, dei vari ceti politici revisionisti (post-socialisti, post-comunisti, post-extraparlamentari, pentiti e dissociati di vario genere). Questi bubboni opportunisti, alimentati dai padroni all’interno della classe, incarnano l’assunto ideologico per cui l’epoca imperialista sarebbe “la fine della storia” e di conseguenza non ci sarebbe alternativa all’imperialismo. Si cimentano nell’arduo compito assegnato loro di nascondere la realtà che la storia procede in base a contraddizioni e alla lotta di classe e che “finirà” solo nella società senza classi.

Ne consegue l’altro loro compito di illudere le masse sull’utilità della partecipazione alle istituzioni borghesi ed a compagini governative che non possono essere che di chiara marca capital-imperialista. Questi traditori della classe operaia ripetono come pappagalli il verbo dei loro padroni: sul dio-mercato, sulla mondializzazione del capitale che darebbe pace e progresso ai popoli. Cercano maldestramente di nascondere le feroci lotte tra i diversi gruppi imperialisti ed il loro reale contenuto, cioè la nuova spartizione del mondo; accodandosi alle peggiori ipocrisie anti-proletarie e colonialiste, come la mistificazione delle “missioni di pace” e delle “guerre umanitarie”.

Ma il procedere stesso delle contraddizioni li smaschera, come mostra la vicenda del governo Prodi. Qui i “pacifisti” siedono con i guerrafondai, votano crediti di guerra e partecipano alle manifestazioni contro la guerra. Approvano la costruzione di basi strategiche dell’imperialismo USA o investimenti prettamente capitalistici, come la TAV, e vogliono partecipare alle lotte che in conseguenza si sviluppano.

Accondiscendono al proseguimento dell’attacco alle condizioni di lavoro, alla precarizzazione (ratifica legge Biagi), e poi cercano di cavalcare la protesta che questa politica padronale suscita. Questa vera e propria schizofrenia ha come unica spiegazione la debolezza della prospettiva imperialista e, quindi, la necessità di svolgere un lavoro di recupero, demoralizzazione, sfiancamento dall’interno dei movimenti di massa. Per compensare questa debolezza di prospettiva, serve la semina di disillusione e sfiducia, servono i “sinistri radicali” ed il loro bagaglio di imbecillità ideologiche, quali il “pacifismo”.

In stretta dialettica con queste attività demolitoria delle dinamiche di massa c’è l’attacco repressivo all’opzione rivoluzionaria, perché la mistificazione ha qualche possibilità di reggere fintanto che nessuno dica, con teoria e pratica rivoluzionaria, che “il Re è nudo!”. Cioè che il capitalismo è prigioniero delle proprie leggi e contraddizioni, sprofondando la società nel baratro di miserie, violenze, guerre. Ma è anche gravido della Rivoluzione Proletaria e, solo queste, possono affrontarlo e vincerlo.

La stessa debolezza li spinge a portare a fondo quest’attacco mobilitando tutte le loro risorse ideologiche, politiche, militari, giudiziarie. Tutto ciò per impedire la costituzione del proletariato in forza ideologico-politico-militare indipendente.

L’azione di controrivoluzione, che ha espresso questo processo, risponde essenzialmente a questa esigenza. Come il processo mediatico, orchestrato dopo il blitz del 12 febbraio risponde all’esigenza di denigrare la possibilità della Rivoluzione Proletaria e di qualificare come provocatori infiltrati le avanguardie reali della classe operaia che lotta.

Non siamo qui per dichiararci colpevoli o innocenti. Queste sono categorie vostre. Noi non possiamo che dichiarare che la nostra giustizia non è la vostra giustizia. La vostra è quella che assicura l’impunità ai padroni massacratori di operai, come alla Eternit (3.000 operai uccisi, solo quelli accertati!), nei petrolchimici, nei cantieri edili e navali o tra le fiamme delle acciaierie; l’impunità agli stragisti di Stato, alle violenze poliziesche e repressive; nonché, e soprattutto, base legale alla sistematica rapina capitalistica sul lavoro operaio e sociale.

La nostra giustizia considera: la fine dello sfruttamento e l’eguaglianza sociale ed economica; l’eliminazione definitiva della logica del profitto e delle sue conseguenze come le guerre di rapina e le distruzioni ambientali; la fine dell’oppressione imperialista e la solidarietà fra i popoli; la dittatura del proletariato come unica forma istituzionale con cui sia possibile imporre tutto ciò alla classe degli sfruttatori, e costruire una società socialista.

L’unica soluzione giuridica che lo Stato pone è la rinnegazione dell’antagonismo di classe. È il punto più alto dell’ipocrisia della giustizia borghese dal momento che questo processo e la sua sentenza sono chiaramente atti della guerra di classe.

 

La Rivoluzione Proletaria non si processa!

Essa stessa è un processo storico, l’unica via possibile per l’emancipazione dell’umanità dallo sfruttamento feroce e dalle guerre devastanti a cui la putrefazione dell’epoca imperialista del capitalismo la sta costringendo. La via democratica per la trasformazione sociale non è mai esistita, le classi che hanno il potere non lo cedono mai democraticamente, ma sempre in seguito a lotte rivoluzionarie. A noi comunisti resta il compito di indicare e tracciare oggi questa via, la via della Rivoluzione Proletaria.

Possiamo farlo solo costruendo il Partito Comunista della classe operaia che diriga, sviluppando la sua politica rivoluzionaria, la lotta per il potere.

Noi ai proletari non facciamo promesse, non diciamo “vi daremo …”, ma “questa è la via, combatti! Libertà e felicità si conquistano solo con la lotta e nella lotta, dentro un lungo processo rivoluzionario.” I limiti e gli errori del passato, dei precedenti tentativi rivoluzionari non sono un motivo per buttarli via (come la canea borghese urla in continuazione, invocando la morte del comunismo). Limiti, errori, contraddizioni sono la linea di frontiera da cui partire; sono da risolvere nei nuovi tentativi e facendo forza sulle grandi acquisizioni compiute.

Come la pratica e la teoria della Guerra Popolare Prolungata che tanti successi ha consentito nel secolo scorso.

Una politica rivoluzionaria si può fare solo con l’unità del politico-militare in un partito che raccoglie le migliori forze della classe operaia e del proletariato, che unisce le rivendicazioni particolari, economiche e sociali alla necessità dell’abbattimento dell’ordinamento capitalistico in una giusta dialettica partito/masse.

Per questo bisogna affrontare i diversi piani dello scontro, nel senso dello sviluppo dell’autonomia politica della classe: promuovere la crescita di organismi di massa dentro alle lotte, e costruire il Partito Comunista Politico-Militare per dirigere la lotta per il potere.

Il che vuol dire, naturalmente, rompere il cordone ombelicale opportunista con il gioco politico istituzionale sviluppando le lotte nel senso dell’accumulazione di forze entro una precisa strategia di lotta rivoluzionaria: la strategia della Guerra Popolare Prolungata, universalmente valida per le classi ed i popoli oppressi nell’epoca imperialista.

 

L’UNICA GIUSTIZIA È QUELLA PROLETARIA COSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA DELLA CLASSE OPERAIA

NELL’UNITÀ DEL POLITICO-MILITARE UTILIZZARE LA DIFESA PER ORGANIZZARE L’ATTACCO

COSTRUIRE IL FRONTE POPOLARE CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA

MORTE ALL’IMPERIALISMO – LIBERTÀ AI POPOLI

 

Marzo 2008

 

I MILITANTI PER LA COSTITUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE PC P-M

 

Note

 

  • Revisionismo: indichiamo con questo termine la revisione in senso negativo del patrimonio teorico e pratico del movimento comunista internazionale. Esso consiste nella revisione dei principi marxisti fondamentali: alla Rivoluzione armata, come passaggio obbligato per la trasformazione sociale, sostituisce la “via pacifica e parlamentare al socialismo”; alla teoria dello Stato, macchina di classe per l’oppressione di classe, sostituisce l’impostura dello “Stato di tutti i cittadini, al servizio dei cittadini”. A queste falsità e tradimenti nel campo politico corrisponde l’abbandono degli obiettivi finali del Comunismo: abolizione di capitale e lavoro salariato, estinzione delle classi, delle leggi mercantili, della proprietà privata, infine pure dello

A questi obiettivi programmatici, il revisionismo sostituisce il compromesso con il sistema capitalistico. Sempre più al ribasso (come la recente, squallida storia degli ex-PCI insegna), fino a diventare tutt’uno con il sistema.

Questa deviazione si affermò agli inizi del 1900, e portò la Socialdemocrazia europea a giustificare e schierarsi con la Grande Guerra imperialista, distruggendo così la Seconda Internazionale. Si affermò ancora con Krusciov ed il 20° Congresso del PCUS (’56), aprendo la strada alla restaurazione del capitalismo, e facendo degenerare gran parte del M.C.I (come il PCI, appunto). Furono principalmente Mao e la Rivoluzione Culturale in Cina a guidare il rilancio del MCI.

A questa deviazione, ed all’incapacità dei comunisti a farvi fronte, è da imputare principalmente la sconfitta del socialismo. E ai ritardi del proletariato dei paesi imperialisti nell’esprimere una propria rappresentanza politica autonoma dagli interessi della borghesia.

La lotta al revisionismo ed al riformismo (come sua appendice pratica) è dunque una condizione essenziale per la ripresa del movimento rivoluzionario.

  • Controrivoluzione preventiva: indichiamo con questa categoria l’essenza cui è giunto lo Stato nell’epoca dell’imperialismo. Sin dalla sua nascita, il capitalismo ha usato lo Stato come sovrastruttura finalizzata a mantenere la sottomissione della classe lavoratrice e proletaria, a sancire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Con l’avvento dell’imperialismo ma anche delle vittoriose Rivoluzioni Proletarie in molti paesi, lo Stato si è sviluppato essenzialmente in funzione controrivoluzionaria. Utilizzando riformismo e fascismo come due facce di una stessa medaglia, per ingannare e reprimere il proletariato nella sua strada verso l’emancipazione, per scongiurare preventivamente l’insorgenza rivoluzionaria.

Contro la militarizzazione e la repressione della lotta di classe Resistenza – Rivoluzione. Dichiarazione dei Militanti Comunisti imputati al processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)”

I cambiamenti avvenuti in Italia sono molto importanti: la borghesia è riuscita a dotarsi di un governo forte. Governo dotato di maggioranza solida e ben più omogenea che la precedente e, novità assoluta, con l’estromissione dei residui di sinistra riformista-revisionista dal parlamento, la riduzione della rappresentanza ai due grandi partiti borghesi, di destra e di centro. In effetti, questo “terremoto” è ancor più comprensibile nella strategia collaborativa che i due grandi partiti hanno proclamato ed avviato: oggi in Italia la borghesia è riuscita a dotarsi di un governo forte e di un parlamento di semplice supporto! Non siamo certo noi a piangere su questa semplificazione istituzionale che, al contrario, può rendere più facilmente riconoscibile la natura di classe delle istituzioni, dello Stato. Che può permettere, più facilmente, di liberare i movimenti di massa dall’eterna illusione sull’alternanza governativa.

L’estromissione della sinistra riformista – revisionista, in questo senso è molto positiva: drasticamente ridimensionata, prima che nei voti (1 milione sui 3 precedenti!), dal discredito accumulato nel suo immondo doppiogiochismo, concludente sempre in capitolazione e subordinazione alla politica antiproletaria ed imperialista del governo Prodi. Difficile sarà ora svolgere il suo ruolo di recupero e sabotaggio, dall’interno dei movimenti di massa. Perché questi, in crescita da tempo, si stanno pure radicalizzando in contenuti e forme di lotta. D’altronde lo scenario che si prospetta sta ancora evolvendo e, dalla sua entrata in carica, il governo insieme a Confindustria hanno dato chiaramente la direzione: attacco su tutti i fronti contro il proletariato e, all’esterno, contro i popoli oppressi. Obiettivo immutato: aumentare il tasso di sfruttamento, aumentare i profitti, conquistare posizioni nella competizione mondiale. Uno dei primi provvedimenti è così il salto di qualità repressivo rispetto ad una lotta popolare in corso da lungo tempo. La lotta delle popolazioni della Campania contro il saccheggio capitalistico del territorio (perché questa è la sostanza e la causa della crisi dei rifiuti), verrà affrontata con la militarizzazione, con la minaccia aperta di incarcerazione e pesanti condanne per chi si oppone! Mentre, sul fronte della guerra imperialista, l’ora è alla “revisione delle regole di ingaggio” cioè all’aumento della partecipazione alle operazioni militari dirette da parte delle truppe italiane. Per non parlare dei tanti altri piani di collaborazione con il padrone USA, già avanzati con il precedente governo ed ora destinati ad ulteriore accelerazione: in particolare lo sviluppo dello “scudo stellare”, ed i preparativi di aggressione all’Iran (nuova tappa della neo-colonizzazione del “Grande Medio Oriente” e di dominio delle rotte del petrolio). Questo breve e sintetico quadro per dire che il caso italiano conferma drammaticamente le previsioni: l’aggravamento della spirale di crisi capitalistica (di cui il crack finanziario-immobiliare è la punta dell’iceberg) non poteva che spingere alla recrudescenza della guerra interna e della guerra esterna!

Infatti:

–          Analoga tendenza è in atto nei paesi europei, in particolare nei due “motori dell’UE”: Francia e Germania. In quest’ultima si assiste al tentativo di contenere la rinascita del movimento rivoluzionario, con strategia e mezzi simili alla controrivoluzione italiana. Strumento principe ne sono i reati associativi. Come qui imperversa l’uso dell’articolo 270 (codice fascista), così in Germania è il bismarckiano articolo 129 (ideato per la repressione anti-marxista); e, come qui si colpiscono principalmente i tentativi di dare concretezza al processo rivoluzionario ed al suo strumento fondamentale – cioè il Partito Comunista armato del proletariato – così in Germania vengono colpiti i nuclei militanti che concretamente si pongono, quanto meno, nella prospettiva rivoluzionaria (processo “Militant Grupp”).

–          L’escalation militarista ed oppressiva che, in Euskal Herria, il Movimento di Liberazione Basco affronta coraggiosamente e ad un grande livello politico-militare. E in fronte unito con il PCEr e la Resistenza antifascista (tra cui i Grapo), nella Spagna intera.

–          L’escalation similare in Turchia e Kurdistan, rispetto alla forte Resistenza delle forze rivoluzionarie, indipendentiste e comuniste; per altro come aspetto del più generale scontro attorno ai suddetti piani imperialisti di “Grande Medio Oriente”.

–          In America Latina l’imperialismo Usa, rabbioso per la relativa perdita di controllo, moltiplica aggressioni, provocazioni, manovre. Tra cui le più pesanti mirano a liquidare le potenti guerriglie in Colombia e Perù, ad impedire l’approfondimento del processo rivoluzionario, la sua estensione ad altri paesi.

 

Ci fermiamo a queste realtà, che sono numerose in tutto il Tricontinente. Come già dicemmo anni fa, la questione da comprendere a da tradurre nella prassi è che l’irresolubilità della crisi capitalistica, generale e storica, alimenta irreversibilmente i caratteri autoritari e militaristi dell’imperialismo e la tendenza alla guerra inter-imperialista. E che, l’ungi dal rifugiarsi in lamentele garantiste e di invocazioni alla democrazia e al diritto violati (che politicamente fanno il paio con tattiche opportuniste e neo-revisioniste), bisogna affrontare lo scontro per quello che è. Anzi, farne occasione per imparare a lottare e combattere, terreno di crescita del movimento di classe verso l’unica prospettiva concreta: la lotta di potere, per il rovesciamento del sistema. Questa maturazione, questo processo rivoluzionario si danno trasversalmente su più piani. Evidentemente sono diverse le esperienze di organizzazione territoriale o di fabbrica, ed ancor più i percorsi di Organizzazione rivoluzionaria tendenti al Partito, ma oggi si intravedono preziose possibilità di muoversi tutti insieme, parallelamente. Per esempio, nella lotta contro la repressione ed in sostegno ai prigionieri/e politici/e, perché, più di ieri si comprende che, al di là delle loro posizioni politiche, attraverso essi/e si gioca quello che è interesse generale di classe e del movimento di classe rivoluzionario nel suo insieme. Perché, più di ieri si comprende che le forme avanzate di repressione – isolamento, la carcerazione speciale: 41 bis in Italia, Fies in Spagna, Tipo F in Turchia, ecc – tendono a quella militarizzazione della lotta di classe; sono vere e proprie armi puntate contro il movimento rivoluzionario. All’avanguardia di questa internazionale del terrore chi altri se non gli Usa? È chiaro che Guantanamo, Abou Ghraib, le prigioni segrete, sono l’orrenda punta di lancia della macchina terroristica dell’imperialismo. Che esse informano e conformano l’arsenale di tutti gli altri Stati imperialisti, a gradi diversi però. Non bisogna fare un indistinto amalgama demagogico tra livelli ben diversi di repressione e/o annientamento; mentre è vero che il filo che li attraversa e li unisce è lo stesso: il filo nero dell’oppressione del proletariato e dei popoli. Perciò la lotta intorno al carcere, ai prigionieri/e, ed il fronte unito dei movimenti di classe contro la tendenza alla militarizzazione è, oggi più che mai, trasversale, necessario, e terreno su cui costruire una nuova e più avanzata unità.

 

CONTRO LE PRIGIONI DELL’IMPERIALISMO!
CONTRO L’IMPERIALISMO PRIGIONE DEI POPOLI!
AFFRONTARE LA REPRESSIONE, PREPARANDO LA RIVOLUZIONE!

19 giugno 2008

Militanti Comunisti imputati al processo PC(p-m) di Milano.

 

Al momento di spedire questo intervento veniamo informati del grave attacco contro alcuni compagni/e belgi/e, fra cui alcuni/e impegnati/e nel Soccorso Rosso da anni. Esprimiamo loro tutta la nostra solidarietà e fraternità! Viva l’unità internazionalista proletaria – uniti si vince!

La rivoluzione non si processa. Processo “Partito Comunista Politico-Militare (PCp-m)”. Dichiarazione di Claudio Latino, Alfredo Davanzo, Davide Bortolato, Vincenzo Sisi

Innanzitutto vogliamo ribadire che non riconosciamo la giustizia borghese che viene esercitata in quest’aula, perché essa è espressione del più generale sistema capitalista, fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento delle masse proletarie. Abbiamo deciso di partecipare a questo processo nel preciso intento di dare voce agli interessi generali e storici della nostra classe, la classe operaia ed il proletariato, che oggi sta subendo per prima i pesanti effetti della crisi economica del sistema di cui voi siete i tutori giuridici.

La crisi del capitalismo è scoppiata in tutta la sua virulenza.

Ottenebrati dalla loro stessa propaganda ideologica, i partiti borghesi per anni hanno negato questa realtà, finendo per credere alle proprie barzellette sulla “fine della storia”, sulla “morte del comunismo”, sulla “eternità del capitalismo”… Eccoli lì oggi, sconvolti e increduli di fronte alle oscene devastazioni economico-sociali prodotte dal loro “incantevole” sistema!

Qualcuno arriva a chiedersi se il marxismo non ci avesse visto giusto…

In effetti, la violenta caduta attuale è una manifestazione particolarmente acuta ma pur sempre manifestazione di quella spirale di crisi strutturale che travaglia il capitalismo da ormai tre decenni. E che non trova, non può trovare, soluzione per ordinarie vie economiche.

Il marxismo, oltre ad aver indicato le cause della crisi nelle stesse leggi proprie del modo di produzione capitalistico, ha anche dimostrato che essa non può che incancrenire la realtà economico-sociale fino a portare sull’unica soluzione compatibile al sistema capitalistico: la guerra inter-imperialista per la ripartizione del mondo, la sconfitta dei concorrenti strategici, le immani distruzioni e l’approfondimento dello sfruttamento necessarie al rilancio dell’accumulazione di capitali.

La profondità della crisi si manifesta anche nel grande impulso ai movimenti di massa. Già da anni questi si stanno intensificando: dalle numerose lotte operaie in Europa, alla rivolta delle banlieu e degli studenti contro la precarietà in Francia, alla formidabile esplosione in Grecia in risposta alla violenza poliziesca. O allo stesso movimento studentesco qui in Italia e, di nuovo, in Francia (dove il governo è corso ai ripari, temendo una ripetizione del 2006). Per non parlare della molteplicità di lotte territoriali che vanno intensificandosi, come risposta immediata e spontanea della classe agli effetti della crisi.

Molte di queste lotte si caratterizzano per crescente radicalità, perché nei fatti toccano una fondamentale contraddizione di interessi. Nel contesto della crisi restano ben pochi margini per mediare, tutti i conflitti e le contraddizioni del sistema si acutizzano: fra capitale e lavoro, fra merci e bisogni sociali, tra profitto privato e bene comune, tra guerra imperialista e guerra di liberazione dei popoli, ecc.

D’altronde, lo si vede bene in Palestina cosa valgono la “democrazia borghese” ed i “trattati di carta”, per i criminali sionisti, alleati dei nostri padroni: ai popoli viene concessa la libertà di scegliere i propri cani da guardia al guinzaglio dei potenti. Altrimenti sono bombardamenti, strangolamento economico, ricatti e terrore imperialista.

Allo stesso modo, sul fronte interno del nostro paese si vede bene quale sia la ricetta per affrontare la crisi: cassa integrazione e licenziamenti per centinaia di migliaia di salariati, e bastonate agli operai che si ribellano come alla INSEE di Milano o alla FIAT di Pomigliano.

Oltre alla repressione, governo e ausiliari aizzano le masse popolari verso la mobilitazione reazionaria, alimentando campagne mediatiche che puntano a dividere e contrapporre settori di massa. Terreno strategico per la borghesia, tanto che a Roma viene preposto all’organizzazione delle “ronde civiche” niente meno che il gen. Mori, ex capo del SISDE.

Ma ancor più strategico per gli apparati repressivi dello Stato è il monitoraggio, la prevenzione e la repressione di percorsi politici di costituzione in politico-militare del proletariato; di costruzione dell’unico strumento in grado di creare una prospettiva positiva di uscita dalla crisi capitalistica, e cioè di sostenere il processo rivoluzionario che porta all’uscita e al superamento del capitalismo stesso. Passando per la decisiva tappa di scontro per il potere, condizione basilare per avviare il processo di edificazione del socialismo. La costruzione cioè di un Partito Comunista basato sull’unità del Politico-Militare.

Questo è il contesto politico in cui si colloca questo processo.

Perché il nostro percorso politico-organizzativo, i nostri arresti e la seguente vicenda giudiziaria e carceraria fanno pienamente parte dello scontro di classe e della sua tendenza più coerente e necessaria: lo sbocco nello scontro per il potere, tramite lo sviluppo di un processo rivoluzionario.

Tutte le parti in causa lo sanno.

E se la parte che lo accusa non lo ammette esplicitamente, se anzi cerca di mistificarlo, è il suo agire che lo rivela. Così, dal giorno degli arresti si è dato un dispiegamento mediatico da “grande avvenimento”. Ora, la cosa è pure in stridente contrasto con la realtà dei fatti: purtroppo la ripresa del processo rivoluzionario è ancora lenta, agli stadi iniziali. Ma c’è!

Ed è questo pericolo che lo Stato vuole scongiurare, stroncando sul nascere ogni embrione di organizzazione rivoluzionaria che si doti degli strumenti politico-militari necessari a sviluppare conseguentemente lo scontro di classe. Il tutto nel solco dei grandi cicli di lotte del Movimento Comunista Internazionale storico; passando necessariamente nel nostro paese anche per l’ultimo “assalto al cielo”, degli anni ’70/‘80.

Perciò la campagna mass-mediatica è stata una vera offensiva politica tesa a delegittimare i compagni arrestati: “terroristi, infiltrati nella classe operaia, gente dalla doppia vita, isolati…”

Campagna, però, che ha dovuto fare i conti non solo con i prigionieri e gli imputati, anche quelli estranei al nostro progetto politico, determinati comunque a difendere la propria identità e a sostenere la prospettiva rivoluzionaria per cui si lotta, ma anche con un’ondata di solidarietà che da subito si è sollevata su tutto il territorio nazionale e in alcuni ambiti europei (tanto da sconcertare l’allora Ministro dell’Interno, preoccupato per le 200 e più azioni di solidarietà riscontrate nei soli due primi mesi). Fin da subito dopo gli arresti, alla manifestazione nazionale di Vicenza contro la nuova base USA (febbraio 2007), molti compagni e proletari hanno rivendicato l’identità dei prigionieri e l’internità al movimento di classe, facendo conoscere la loro militanza d’avanguardia nel territorio e sul lavoro. Così è stato in seguito, ai cortei del 25 Aprile e del 1° Maggio; così in numerose e forti iniziative in Europa.

Assemblee, cene di solidarietà, raccolta di fondi nei luoghi di lavoro e tra amici e parenti, fino a culminare nella prima forte manifestazione di sostegno all’apertura della stagione processuale (il 12 dicembre ’07) con l’udienza preliminare e con le nostre prime dichiarazioni collettive in tribunale. E anche con l’inizio del primo sciopero della fame contro l’isolamento, nostro e in generale come campagna internazionale (incentrata sulla ricorrenza del 19 dicembre, giorno del massacro dei prigionieri in Turchia, in lotta contro le carceri speciali).

Nella strategia dell’accusa, il trattamento carcerario è ovviamente parte integrante dello scontro. Lo si è usato per attaccare il diritto alla difesa, con la dispersione in diversi carceri durante tutto l’arco del processo e con l’allontanamento a Catanzaro (a 1200 km di distanza) durante le pause. Così si è reso pressoché impossibile il contatto con gli avvocati. Tramite giochetti burocratici si è cercato di impedire pure i contatti telefonici con loro, e ci si è impedito sistematicamente di portare in aula i nostri testi, da concordare assieme e da leggere pubblicamente.

Ma il perno del trattamento carcerario è consistito nell’arbitraria imposizione di lunghi periodi di isolamento, fino al massimo di un anno. L’isolamento (considerato forma di tortura pure secondo alcuni organismi borghesi internazionali) è praticato in tutto il mondo come arma repressiva contro i movimenti rivoluzionari e di liberazione.

Arma impiegata assieme alle classiche intimidazioni e pestaggi, come quello avvenuto presso il carcere di Rebibbia, ed all’interno del più generale circuito di trattamento differenziato (culminante nel regime del 41 bis, vera e propria tortura legalizzata), al preciso scopo di piegare, spezzare la resistenza dei militanti ed estorcere capitolazione e dissociazione.

Ma proprio su questo terreno si è data una prima positiva verifica: quasi tutti i compagni hanno fatto fronte dignitosamente alla repressione, pur nella diversità di posizioni e di investimento militante. Il disegno repressivo volto a disarticolare e disunire è stato ribaltato in occasione di unità e riaffermazione delle ragioni rivoluzionarie, fra gli imputati e fra questi e la mobilitazione solidale esterna. Un’unità che ha permesso di contrastare efficacemente l’isolamento con gli scioperi della fame promossi dai prigionieri, sostenuti dalle iniziative esterne davanti alle carceri.

Conquistando la fine dell’isolamento stesso.

L’avvio del dibattimento, il 27 marzo ’08, esplicitava tutti i termini dello scontro: la militarizzazione del tribunale, l’accanimento del P.M. ad impedire, a tutti i costi, l’espressione politica dell’istanza rivoluzionaria, hanno dato il tono sin dall’inizio.

Trovando però la nostra determinazione a fare di questo processo politico quello che è: un momento di scontro all’interno della lotta di classe, per l’affermazione e lo sviluppo della tendenza rivoluzionaria.

Invece, la giustizia borghese tenta sempre la carta della criminalizzazione; arma fondamentale che la classe degli oppressori usa per isolare e screditare chiunque si ribelli e si sottragga all’ordine imposto. Si indica alla “pubblica indignazione” il proletariato che, per sottrarsi alla miseria cui viene condannato, va a rubare; nascondendo così la realtà di un sistema basato su quel crimine legalizzato che è l’appropriazione del prodotto del lavoro sociale. Furto, rapina e persino omicidio continuati e reiterati ai danni della classe operaia e del lavoro sociale nel suo insieme. Un sistema di cui la presente esplosione di crisi fa emergere il profondo ed immanente carattere criminale, basato sullo sfruttamento, il taglieggiamento, la spoliazione di masse enormi di popolazione.

Ma la giustizia borghese si è spinta a peggiori bassezze: non solo ha letteralmente falsificato alcune prove, artefacendo trascrizioni ed intercettazioni, essa ha pure convocato contro di noi il peggior squallore del loro sistema. Da Forza Nuova, tra le principali organizzazioni di stampo fascista, protagonista in questi giorni di aggressioni razziste e antiproletarie, alle squallide figure di infami come Maniero. Fino alla provocatoria presenza dell’on. Ichino, tra i principali studiosi ed architetti dell’incessante smantellamento del sistema di tutele e di diritti conquistati con le lotte storiche del movimento operaio.

A queste meschine congetture e provocazioni abbiamo risposto e ribadiamo che il movimento rivoluzionario del proletariato ha sempre rivendicato le proprie pratiche – fra cui l’esproprio proletario, come legittimo atto di riappropriazione nei confronti del grande rapinatore sociale, cioè il Capitale – così come rigetta tutte quelle pratiche che, ispirate da pura avidità e disprezzo per le masse popolari, diffondono miseria e autodistruzione.

Rivolgiamo invece al potere borghese le sue stesse accuse: che spieghi a chi sono funzionali quelle forze reazionarie che aizzano guerre fra poveri, proprio nel momento in cui è necessario nascondere i veri responsabili della crisi. Spieghino a chi sono funzionali gli “infiltrati” (questi sì, visto che non hanno mai conosciuto un’ora di lavoro in fabbrica) che stanno dentro al sindacato, lavorando a scardinare il sistema di diritti acquisiti e di organizzazione operaia, a subordinare rigidamente la classe operaia al Capitale. Spieghino dove conducono i fili del grosso traffico internazionale di droga, di chi sono amici, o meglio servi, i narco-regimi di Colombia, Afghanistan, Thailandia, Turchia, Kosovo, ecc.

La pratica del movimento comunista rivoluzionario è una pratica nota a tutti. Altrettanto non si può dire dello Stato borghese e delle sue svariate bande armate, che hanno costellato la storia del nostro paese di stragi, massacri, repressione, per sottomettere le masse popolari e garantire ai capitalisti l’egemonia sociale.

Per quanti limiti ed errori ereditiamo dal passato delle rivoluzioni realizzate e poi degenerate, crediamo sia necessario, impellente, e soprattutto possibile, riprendere il cammino. E proprio risolvendo quei limiti ed errori che, ne siamo coscienti, furono sfruttati ed alimentati dall’imperialismo proprio per far degenerare le rivoluzioni e riassorbirle.

Non si tratta solo di limiti, però! Le rivoluzioni realizzate ci hanno lasciato un enorme patrimonio ed avanzamenti, che infatti vengono impiegati nei processi rivoluzionari e nelle guerre popolari ora in corso nel Tricontinente. È quell’insieme di acquisizioni che si riassumono nel Marxismo-Leninismo-Maoismo e nella teoria della Guerra Popolare Prolungata. In effetti, se si vuole uscire dai recinti istituzionali in cui il conflitto sociale viene addomesticato, bisogna dotarsi dei mezzi necessari per diventare una forza autonoma, capace di proporre un’alternativa sociale.

Mezzi che sono anche il risultato di un’“analisi concreta della situazione concreta”, in base all’obiettivo di trasformare le forze espresse dalla resistenza dei movimenti di massa in vera forza d’attacco, in forza capace di progettare e sostenere lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Obiettivo che si può realizzare solo nell’unità del politico-militare, come concretizzazione di queste esigenze e possibilità.

Mezzi che permettono la costruzione di una politica che riesca a coniugare l’espressione dell’autonomia di classe con movimenti di attacco capaci di incidere sui rapporti di forza generali, concretizzando nell’unico modo serio e conseguente il rapporto con Stato e padroni: l’attacco.

In sintesi: la politica rivoluzionaria come realizzazione, portato, del Partito Comunista Politico-Militare.

Dall’intento di impedire tutto ciò scaturisce l’attenzione repressiva da parte dello Stato, che concentra il peso del suo apparato soprattutto contro le istanze comuniste impegnate nel suddetto percorso di costruzione.

È una questione strategica sia per la borghesia imperialista e la sua sopravvivenza, sia per il proletariato e la sua emancipazione dalle catene dello sfruttamento: la partita decisiva, nello scontro di classe, per aprire (o, viceversa, impedire) il processo rivoluzionario, si dà attorno alla costruzione del Partito, in quanto organizzazione adeguata alla guerra popolare di lunga durata.

Questa è la partita, questo è il nodo attorno a cui verte lo scontro.

Modestamente, e con tutti i limiti del caso, i comunisti presenti in questo tribunale borghese, firmatari di questo testo, lo sono per queste ragioni, per queste esigenze della via rivoluzionaria, qui ed oggi.

Il nostro contributo politico-ideologico-organizzativo è così motivato, si fonda in queste inderogabili esigenze per la lotta rivoluzionaria.

Per questo ci troviamo qui a confrontarci con la giustizia borghese, quale momento del più generale scontro e nell’interesse generale della nostra classe.

Questo processo, come tutti i processi politici, oltrepassa la stretta questione giudiziaria. Anche perché la parte in causa esiste in quanto ipotesi di attacco all’ordine costituito, e affermazione di un “nuovo ordine possibile”: il socialismo.

Non è perciò nel quadro giuridico, pilastro di questo stesso sistema, che vi può essere la soluzione. Il quadro giuridico fa parte del problema non certo della soluzione. In altre parole, storicamente affermate: “Non riconosciamo l’ingiustizia borghese, la combattiamo!”. Questo grido è risuonato nelle aule di tribunale dove si intendeva giudicare i militanti della Resistenza al nazifascismo, i militanti africani, asiatici, sudamericani, della liberazione anti-coloniale, ed i combattenti dei partiti comunisti e organizzazioni dei giorni nostri.

Al diritto borghese, espressione dell’ordine di oppressione e sfruttamento di classe, si oppongono l’idea e la prassi rivoluzionaria per dare voce e corpo alle aspirazioni di libertà delle classi oppresse.

Ribadiamo il nostro essere qui presenti per affermare le ragioni, le possibilità della rivoluzione proletaria, e la necessità del Partito come suo strumento essenziale.

  • LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA
  • È GIUSTO RIBELLARSI
  • DEMOCRAZIA È IL FUCILE IN SPALLA AGLI OPERAI
  • CONTRO L’IMPERIALISMO, PRIGIONE DEI POPOLI, TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA RIVOLUZIONARIA DI CLASSE
  • COSTRUIRE, NELLA PRASSI RIVOLUZIONARIA, IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE

 

Allegato agli atti del 4/5/2009

I militanti per la costituzione del Partito Comunista Politico-Militare PCp-m: Claudio Latino Alfredo Davanzo Bortolato Davide Vincenzo Sisi

 

 

 

Firenze, processo alla Brigata “Luca Mantini” – Comunicato letto in aula da Maria Cappello e Fabio Ravalli

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente siamo qui unicamente per rivendicare la giustezza dell’attività rivoluzionaria svolta dalle BR in questi venti anni, in stretta dialettica con i contenuti più avanzati dell’autonomia politica di classe; conseguentemente ribadiamo la validità dell’impianto politico-organizzativo delle BR e il complesso degli avanzamenti teorico-pratici maturati nel vivo dello scontro in specifico durante il processo di riadeguamento iniziato con l’apertura della Ritirata Strategica.

È all’interno della Ritirata Strategica, nel quadro della relativa difensiva nelle posizioni di classe e rivoluzionarie, che le BR hanno posto le basi della Ricostruzione come una fase rivoluzionaria in cui l’agire della guerriglia, a partire dal combattimento sulle contraddizioni centrali tra classe e Stato, è volto alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie e delle condizioni politico-militari per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

Su questa direttrice di movimento le BR hanno intrapreso il processo di riadeguamento per potersi misurare con i mutati caratteri assunti dallo scontro, in primo luogo con l’approfondimento del rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione. Malgrado la durezza delle condizioni di scontro e il ripiegamento avvenuto, le BR hanno potuto portare l’attacco allo Stato e all’imperialismo, colpendone i progetti centrali contrapposti al proletariato, contribuendo al loro relativo inceppamento e, conseguentemente, contribuendo alla tenuta del campo proletario dentro al confronto con le politiche antiproletarie e controrivoluzionarie attuate dallo Stato.

In questo processo materiale effettuato dalle BR per intero nel vivo dello scontro in stretta relazione a quanto espresso dal campo proletario, si sono dati i margini politici necessari per l’avanzamento del processo rivoluzionario, ovvero nella capacità di valorizzare e riproporre in avanti nella pratica tutto il percorso rivoluzionario messo in campo a partire dagli assi strategici fondamentali e cioè: l’unità del politico e del militare, la strategia della lotta armata, la guerra di classe di lunga durata, la costruzione del Partito Comunista Combattente, l’attacco al cuore dello Stato, l’internazionalismo e l’antimperialismo come impostazione stessa del processo rivoluzionario, la clandestinità e la compartimentazione come principi offensivi dell’agire della guerriglia e dell’organizzazione di classe sulla lotta armata.

In questo modo le BR hanno potuto acquisire gli ulteriori insegnamenti che consentono di precisare meglio modalità e leggi di movimento relativi alla conduzione della guerra di classe nella metropoli, ma soprattutto hanno posto i termini concreti e prospettici per costruire lo sviluppo in avanti del processo rivoluzionario.

Uno sviluppo in avanti del processo rivoluzionario che proprio nel contesto delle attuali condizioni di scontro, a fronte dell’acutizzarsi di tutti i fattori di crisi della borghesia imperialista si riafferma più che mai necessario e possibile, dato che solo la lotta armata è in grado di riportare sul terreno del potere le istanze più mature che produce l’antagonismo di classe, organizzandole e ricomponendole sul piano più avanzato posto dallo scontro; la strategia della lotta armata, cioè, si impone continuamente come la discriminante su cui si coagulano, in un processo necessario di rotture soggettive, le avanguardie che intendono effettivamente misurarsi con i nodi posti dal terreno rivoluzionario, più precisamente l’assunzione soggettiva di questo terreno deve necessariamente relazionarsi ai contenuti maturati dalla prassi rivoluzionaria sviluppata dalle BR come solo modo di essere adeguati a misurarsi con lo scontro in atto, in particolare a misurarsi con i compiti che sono emersi con la fase di Ricostruzione, in quanto passaggio ineludibile su cui si dà avanzamento e rilancio alla guerra di classe di lunga durata e che per questo è obiettivamente il quadro entro cui vengono a collocarsi quelle avanguardie che intendono confrontarsi con il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria.

All’interno di questa condizione generale sosteniamo l’iniziativa dei Nuclei Comunisti Combattenti fatta a Roma il 18/10/’92 alla sede della Confindustria «Contro il patto Governo-Confindustria-Sindacato, concretizzatosi con l’accordo sul costo del lavoro del 31 luglio», «Come un primo momento del più generale e complesso rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria che le avanguardie comuniste combattenti devono saper operare all’interno del processo di guerra di classe di lunga durata aperta a suo tempo con la proposta a tutta la classe della strategia della lotta armata».

La necessità del rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria è perciò posta all’ordine del giorno proprio dallo stesso andamento dello scontro perché è già dimostrato che è il solo modo per il proletariato di attrezzarsi per sostenerlo e confrontarsi con il livello di offensiva statale in atto. Un’offensiva che sulla base degli attuali rapporti di forza in favore della borghesia imperialista cerca di far passare, decreto dopo decreto, l’impoverimento generalizzato e la compressione delle conquiste politiche e materiali del proletariato col fine di garantire ai gruppi dominanti del capitale monopolistico i margini di recupero dei profitti e della competitività sui mercati internazionali. Tutto ciò mentre si va concretizzando l’attuale delicato passaggio di rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato, passaggio che ha nei lavori della bicamerale la sua sede istituzionale di rappresentazione politica, ma nello scontro di classe il terreno concreto che ne determina la fattibilità. Da qui il clima politico intimidatorio suscitato dall’Esecutivo, fatto di veri e propri attacchi politici e materiali al proletariato e di rafforzamento degli strumenti coercitivi e repressivi quali elementi da far pesare sulle relazioni politiche classe/Stato, relazioni dalle quali dipendono in ultima istanza i reali equilibri per la materializzazione o meno della svolta alla Seconda Repubblica.

Una svolta che è il progetto centrale su cui lo Stato punta per far fronte alla grave crisi in cui la borghesia ha precipitato il paese e che nelle sue velleità dovrebbe dare soluzione all’instabilità politica, economica e sociale. È questa instabilità che mette a nudo una volta di più i limiti politici della borghesia imperialista e del suo Stato a gestire la crisi, poiché approfondisce la divaricazione degli interessi di classe contrapposti e accentua i caratteri controrivoluzionari dello Stato borghese, a malapena mascherati dalle campagne ideologiche orchestrate di volta in volta per spostare dal reale portato delle contraddizioni in campo e dalle conseguenze delle scelte antiproletarie, controrivoluzionarie e guerrafondaie operate in questa fase.

Così dietro la lotta alla “criminalità” e ai decreti liberticidi che l’accompagnano si creano i presupposti per la restrizione delle libertà generali come strada per la criminalizzazione dello scontro di classe; dietro alle mistificanti “operazioni umanitarie” si organizzano i preparativi di guerra, nell’attiva partecipazione alle aggressioni imperialiste. In questo senso l’occupazione della Somalia, prima ancora che una spedizione alla “riconquista d’Africa” segna un ulteriore passaggio di quella progressione bellica che dal dopo Iraq è necessaria alla maturazione delle condizioni politico-militari per sfondare la barriera yugoslava. È questo infatti il vero banco di prova della catena imperialista, USA in testa, per lo sbocco di guerra sulla direttrice Est-Ovest, e su cui anche la borghesia imperialista nostrana punta maggiormente, nelle sue velleità revansciste e guerrafondaie.

L’attuale quadro di crisi economica, politica e istituzionale nel paese definisce le scelte della borghesia imperialista e, tra queste, la stesa preparazione alla guerra si impone all’ordine del giorno. Scelte queste che riversandosi nello scontro non possono che complessificarne i caratteri odierni, tenuto conto che questi caratteri sono anche il risultato dei mutamenti avvenuti nell’ultimo decennio segnati in modo principale, per parte dello Stato, dai sostanziali passaggi nell’accentramento dei poteri all’Esecutivo, nell’ambito di una ridefinizione avvenuta su tutti i piani, delle relazioni classe/Stato in senso fortemente antiproletario e controrivoluzionario; ma, il recupero nei rapporti di forza a favore della borghesia imperialista, non ha comunque consentito a tutt’oggi di saldare stabilmente gli equilibri generali tra le classi in suo favore, questo per la difficoltà di governare le contraddizioni di classe e di neutralizzarne l’istanza rivoluzionaria, nella impossibilità di istituzionalizzare il conflitto dentro ai reticoli della democrazia rappresentativa borghese, se non in modo puramente formale e divaricato dallo scontro reale. Questo nonostante la “pacificazione” che lo Stato ha perseguito con la controffensiva degli anni ’80 contro la guerriglia e il movimento di classe, ma che lontano dalle sue velleità non ha potuto sradicare il portato strategico della lotta armata, né azzerare le espressioni di autonomia politica di classe, risolvendosi piuttosto nell’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Si è cioè dimostrata l’impossibilità di rimuovere dai caratteri dello scontro quello che la prassi combattente vi ha immesso in venti anni di processo rivoluzionario aperto e sviluppato sulla strategia della lotta armata e questo nonostante i colpi militari inferti dallo Stato alla guerriglia. Una prassi rivoluzionaria che inserendosi sempre al punto più alto dei momenti di scontro succedutisi nel paese ha potuto praticare gli interessi generali del proletariato, una prassi rivoluzionaria che, proprio perché è in grado di pesare sui termini dello scontro, si è sedimentata nelle condizioni politiche generali tra classe e Stato e tra rivoluzione e controrivoluzione fino a maturare un vero e proprio punto di non ritorno; questo per la capacità della guerriglia di incidere sul terreno dei rapporti di forza a partire dall’attacco ai progetti dominanti della borghesia imperialista, sui criteri di centralità, selezione e calibramento dell’attacco, e sullo spazio aperto dalla disarticolazione, disponendo e organizzando le forze rivoluzionarie e proletarie sul terreno della lotta armata in ogni fase dello scontro. Se questi sono gli elementi specifici di radicamento della lotta armata in Italia, la sua valenza generale e strategica risiede nell’essersi imposta come l’adeguamento della politica rivoluzionaria alle mutate condizioni storiche dello scontro nella metropoli imperialista e che, nel confronto che si è determinato tra rivoluzione e controrivoluzione, imperialismo e antimperialismo si è affermata come il grado più avanzato della scienza proletaria della rivoluzione possibile e necessaria per abbattere lo Stato, instaurare la dittatura proletaria e costruire una società comunista.

Rispetto a questa sede di tribunale, coerentemente con la nostra identità politica il nostro atteggiamento non può non tenere conto del reale rapporto che intercorre tra noi militanti delle BR prigionieri e questa sede giuridica, perché anche qui si riproduce pur in forma particolare il rapporto di guerra stabilitosi tra la guerriglia e lo Stato nel corso del processo rivoluzionario. Per questa ragione non riconosciamo nessuna legittimità a questo rito giuridico e dei nostri atti politici rispondiamo solo alle BR e con esse al proletariato di cui sono l’avanguardia rivoluzionaria.

18/1/1993

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Maria Cappello, Fabio Ravalli.

Fonte: senzacensura.org

Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila – Comunicato di Nadia Lioce

Le ragioni per garantire che il prigioniero rivoluzionario sia tenuto in un “regime di carcere duro” in cui possa essere, in astratto, “speso” nello scontro di classe in funzione deterrente e di disorientamento, col passare degli anni non scemano affatto, anzi si rafforzano.

Del resto come potrebbe essere altrimenti se – è sotto gli occhi di tutti e ancor di più lo sarà nei prossimi anni – dal 2007 ad oggi, tutte le promesse neoliberiste di eterna crescita economica e di miglioramento progressivo delle condizioni di reddito e sociali generali sono state clamorosamente smentite e purtroppo con drammatiche conseguenze per vasti strati sociali e numerosi popoli? È insieme a queste premesse che, forte degli esiti di processi controrivoluzionari, ha preso piede la negazione ideologica dello scontro tra le classi e addirittura l’esistenza stessa delle classi e delle ragioni storico-sociali e politiche dello scontro rivoluzionario considerato dalla borghesia e dai suoi pensatori incidente storico, prodotto ideologicamente arbitrario del secolo scorso.

Il riferimento ad una “crescita”, ovvero ad una riproduzione allargata del capitale senza soluzione di continuità, salvo aggiustamenti ciclici e strutturali specifici, è stato un elemento tipico del paradigma della progettualità politica della borghesia e dell’operato degli esecutivi dei paesi capitalistici di questi decenni, tanto quanto quello della massima ricattabilità e del crescente sfruttamento del lavoro salariato che avrebbero dovuto assicurarla e che a loro volta ne vengono giustificati. Le condizioni e i passaggi di rimodellamento economico, sociale, politico e giuridico costruiti negli ultimi trent’anni sono stati funzionali a favorire l’affermarsi di un sistema di produzione che, in una dinamica di crisi/sviluppo del capitale per la quale quanto più è elevato il grado di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso tanto più esso volge verso l’approfondimento della sua crisi, punta a recuperare quote di plusvalore relativo ed anche assoluto a fronte della caduta tendenziale del saggio di profitto e, perciò convoglia quote di plusvalore sociale crescenti a sostegno dello sviluppo della formazione monopolistica ed al rafforzamento del suo ruolo dominante nell’accumulazione del capitale e in direzione di quei nuovi mercati che la ricerca dell’innovazione tecnologica continua e il movimento del capitale finanziario dovrebbero essere in grado di creare all’infinito. Condizioni costruite da quelle politiche e misure nel complesso denominate neoliberiste che, avviate dal polo statunitense e per il ruolo dominante che con il suo capitale monopolistico svolge nei mercati e nelle relazioni economiche internazionali, sono state adottate a diversi gradi, autonomamente o no, da ogni paese.

Esse, in funzione dei livelli di sfruttamento crescenti imposti da un modello di produzione che, subentrante al fordismo, ha la saturazione dei mercati come suo presupposto strutturale, hanno spinto verso la precarizzazione generalizzata del lavoro salariato e la riduzione dei salari sotto la soglia del valore storico della forza-lavoro ed hanno garantito la massima ricattabilità del lavoro salariato. Con i salari agganciati a “produttività” e “redditività” la forza-lavoro viene ridotta a variabile dipendente del capitale e della sua crisi mentre avanza l’attacco e l’erosione fino all’abbattimento, lì dove c’erano, di diritti del lavoro secolari, conquistati dal movimento operaio del novecento al prezzo di lotte durissime e sanguinose, e riconosciuti e istituiti a suo tempo, soprattutto nel continente europeo, anche come risposta politica della borghesia ad un pericolo rivoluzionario avvertito incombente. In questo quadro viene ad essere ridefinito anche il ruolo economico sociale dello Stato.

Con i processi di privatizzazione e liberalizzazione, in particolare con la privatizzazione e finanziarizzazione di sanità, previdenza, istruzione, ecc., lo Stato è andato e va ritraendosi da ambiti di produzione di beni e servizi sociali o dalla gestione di risorse naturali, aprendo queste attività all’intervento del capitale, dove più, dove meno, dove con vincoli, dove no, offertegli come nuovi mercati e per ciò stesso garanzia di efficienza… così che con la trasformazione di tali ambiti in campi di appropriazione privata di ulteriori risorse produttive, umane, naturali, in poche parole in occasioni di allargamento della riproduzione del rapporto di capitale, la fruizione di tali beni e servizi non va più a dipendere da scelte politiche e atti amministrativi, ma è stata sempre più sottomessa alle necessità di valorizzazione del capitale a scapito della loro funzione nella riproduzione sociale.

Lo Stato, il “soggetto pubblico” è andato quindi consumando il suo ruolo di regolatore sociale svolto su un parziale riequilibrio – tramite atti politici, assetti giuridici ed atti amministrativi – del rapporto capitale/lavoro, teso a frenare la crescita esponenziale delle diseguaglianze e la divaricazione incolmabile degli interessi antagonistici in seno alle formazioni economico-sociali capitalistiche. E dunque si è anche ritratto progressivamente da quei compiti di redistribuzione dei redditi la cui assunzione nella fase precedente, politicamente condizionata dagli equilibri generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista in senso meno favorevole a quest’ultima, era finalizzata a sostenere l’estensione della produzione accrescendo i consumi di massa.

Compiti che nei paesi capitalistici erano stati determinabili su quel terreno di mediazione materiale tra interessi sociali conflittuali che dava fondamento alle politiche di riformismo economico-sociale e alle evoluzioni delle forze che le hanno perseguite e, in generale, a una mediazione politica connotata dall’inclusione e dall’istituzionalizzazione del conflitto sociale nel quadro delle moderne democrazie rappresentative a contenuto politico più o meno corporativo e, se non altro, dal governo delle contraddizioni e disuguaglianze sociali tramite l’impiego delle risorse pubbliche nazionali.

Successivamente, invece, nel contesto strutturale e sovrastrutturale rimodellato dalle politiche neoliberiste, con i processi generalizzati di compressione salariale e di tagli alle tutele sociali e con le politiche monetarie espansive, la mediazione materiale tra interessi in conflitto si è trovata sempre più affidata al “mercato” dove sono venuti costruendosi dei legami concreti – la cosiddetta coesione sociale – tra interessi borghesi e interessi proletari particolari in parte propri a fasce di aristocrazia proletaria, con i secondi catapultati sul mercato spesso dalle “riforme” e naturalmente in posizione subordinata ai primi, mentre il lavoro salariato è rimasto sempre più schiacciato da una pressione ricattatoria potenziata anche dai debiti contratti per rispondere ai bisogni storicamente ordinari.

Specialmente nel polo dominante dove storicamente è massimo il potere e il peso della BI e viceversa marginalizzato sul piano storico il ruolo politico del proletariato, e in generale in relazione a come l’andamento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione struttura o disperde termini di autonomia politica nello scontro di classe, la “coesione sociale” è arrivata anche ad intrappolare politicamente e sul lungo periodo la conflittualità di classe che corrispettivamente è stata vincolata da normative atte a limitarla e depotenziarla politicamente nel quadro di complessive strategie controrivoluzionarie sviluppate dalla soggettività politica della BI, andando a pesare sugli equilibri tra le classi a favore della progressiva realizzazione delle riforme strutturali e della trasformazione della rappresentanza e degli assetti politico-istituzionali delle democrazie borghesi nel senso dell’indiscutibile centralità degli interessi della BI negli indirizzi delle forze politiche e nei programmi degli esecutivi, del rafforzamento degli esecutivi stessi, e di una sempre maggiore riduzione in direzione dell’esclusione della rappresentanza politica delle classi subalterne.

Processi economici e politici maturati nel centro imperialista contemporaneamente alla crescente penetrazione del capitale monopolistico non solo nel sud del mondo ma, dagli anni ’90, anche nell’ex campo socialista che, con lo smantellamento delle economie pianificate, veniva integrato nel mercato capitalistico. Questo movimento e l’enorme depredamento che ha reso possibile – ha dato respiro al capitale in crisi, ha favorito la formazioni di capitali monopolistici autoctoni e di economie esportatrici il cui sviluppo a sua volta ha contribuito alla crescita delle attività economiche mondiali e il cui basso prezzo della forza-lavoro ha determinato una discesa dei prezzi dei beni di sussistenza importati dai paesi capitalistici, e infine ha dato luogo a livelli di integrazione e di interdipendenza economica internazionale assai superiori e più profondi che in passato, e al formarsi di equilibri finanziari peculiari connotati dalla separazione tra ruolo finanziario e monetario dominante da una parte, e accumulazione monetaria, dall’altra. In questo quadro, la crisi finanziaria avviata dal credito costruito soprattutto negli USA sulla garanzia fornita da una merce quale la forza-lavoro destinata al deprezzamento in una via strutturale nell’attuale modello di produzione, credito pertanto inesigibile per definizione, in virtù del ruolo dominante della finanza e moneta statunitensi, e in un ambito economico così integrato e interdipendente, si è propagata “in tempo reale” e contemporaneamente ovunque, trasformandosi in una crisi economica generale che, stante l’irresolubilità delle contraddizioni antagoniste insite nella natura stessa del capitale, riprodotte, estese ed approfondite dallo sviluppo del capitale stesso, imbriglia la capacità del polo dominante e della BI di governare la crisi accrescendo le quote di plusvalore sociale di cui si appropria ed impedendo così il precipitare dei paesi a capitalismo avanzato in una lunga e complessa fase di contrazione economica che, per altro, rischierebbe di spingere la classe operaia e il proletariato del centro imperialista nel baratro di un impoverimento e di un arretramento di condizioni complessive di lavoro e di vita di portata storica e di dare un duro colpo alla coesione sociale. Ovvero ciò che si dispiega è, in conclusione, l’enorme potenziale distruttivo per l’umana società maturato nel divario storicamente raggiunto tra livello di sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici.

Pertanto ogni passo compiuto dalla soggettività politica della BI per governare la crisi finisce inevitabilmente per alimentare la spinta guerrafondaia dell’imperialismo, nonostante la sconfitta subita dalle strategie di guerra e controrivoluzione dell’amministrazione USA uscente e i consolidamenti limitati e incerti ottenuti nei teatri di guerra nei conflitti aperti dallo schieramento imperialista, essendo il piano bellico l’unico che può convogliare il potenziale distruttivo della crisi del capitale in direzione di eccessi di capacità produttiva delimitabili intorno ad interessi nazionali e paesi non assoggettati alla gerarchia della catena imperialista. Questo per un verso. Per l’altro verso la spinta bellica si traduce in ulteriori oneri per i bilanci pubblici dei paesi dello schieramento imperialista già alle prese con i buchi aperti dagli aiuti al sistema finanziario o con i vincoli UEM, rendendo ancor più critica sia la definizione di precise linee di politica economica, che la semplice tenuta di posizioni imperialiste nei teatri di guerra e nelle aree di crisi che, alle attuali condizioni politiche e militari siano senza sbocchi risolutivi.

Ho cercato sin qui di tratteggiare, davvero in estrema sintesi e senza riguardo per specificità e contingenze, i processi economici e politici di questi ultimi decenni, sotto il profilo dei nodi storici che il rapporto sociale dominante stesso pone all’umanità e, in essa, alla classe che ha la necessità di spezzarlo e di liberarsene, e il ruolo sociale e l’interesse per farsi carico di superarlo storicamente. E, naturalmente, è l’esperienza maturata dalla rivoluzione nello scontro con la controrivoluzione a mettere a disposizione del proletariato e delle sue avanguardie gli strumenti teorici, politici, di progettualità strategica, ecc. per scioglierli, per trasformare i rapporti di forza e politici per conquistare il potere politico, realizzare la socializzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza e lavorare alla costruzione del comunismo. Ora, dal momento che è in rapporto a tali nodi storici che si qualifica una militanza rivoluzionaria, ho ritenuto essere il caso di ristabilire termini e dimensione della responsabilità politica da me assunta verso l’Organizzazione a cui appartengo, le BR PCC, e la classe che rappresentano.

La militante BR PCC
Nadia Lioce

Fonte: procedimento 2008/1433 SIUS , udienza del 09/12/2008