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Abbiamo alternative?

Nulla è scontato in quanto si dia soltanto sul piano teorico. La più giusta delle teorie in campo politico deve trovare conferma nella pratica, deve tradursi in elemento concreto e vivo per il soggetto sociale cui si riferisce. Questo postulato, più volte richiamato da P., sta assumendo una urgenza inaggirabile. Perché quello che salta agli occhi sono due fatti:

1) la corrispondenza tra il decorso della crisi capitalistica e la visione teorica M.L. cui ci rifacciamo, la corrispondenza teorica quindi tra gli sviluppi della lotta di classe e lo sbocco politico prospettato dai comunisti;

2) la non corrispondenza tra questi presupposti, tra queste potenzialità, tra queste occasioni storiche ed i passi concreti compiuti dai comunisti. Abbiamo già più volte preso atto di come la stagnazione del movimento comunista nel nostro paese (e più generalmente in Europa) sia da ricondurre ad alcuni grossi avvenimenti che, nell’insieme, hanno determinato un contesto negativo: sconfitta tattica della L.A. comunista agli inizi degli ’80 con un naufragio del tentativo del salto al Partito; arretramento nei rapporti di forza tra le classi con la grande e continuativa offensiva borghese dello stesso decennio; crollo del revisionismo all’Est che, se resta globalmente un fatto positivo, ha consentito e consente un pesante attacco trasversale al Comunismo, comunque un suo momentaneo ridimensionamento come prospettiva concreta per i movimenti di massa (M.M.).

Lo stesso decorso della crisi capitalista, per quanto segua una linea tendenziale ben precisa, favorevole all’acutizzarsi dello scontro di classe, ha visto però nei paesi imperialisti il contrastante agire di fattori negativi per il processo di ricomposizione di classe: margini di manovra nei processi ristrutturativi che hanno consentito un profondo attacco all’omogeneità del corso di classe, manipolazione di elementi di divisione (soprattutto in migrazione dai paesi periferici), emergenza del peso politico delle mezze classi piccolo-borghesi che, anch’esse intaccate dalla crisi e dallo strapotere della B.I., reagiscono a modo loro e riuscendo però ad incanalare dietro sì settori di massa in fuorvianti guerre interborghesi.

D’altronde, se si vuole, quante controtendenze alla ricomposizione di classe sono l’altra faccia della crisi che non è solo attacco alle condizioni economico-sociali del proletariato, ma anche costante pressione preventiva politico-militare e culturale contro il nemico di classe. Insomma nella giusta visione teorica M.L. sul decorso di quella crisi capitalista non c’è solo lo sbocco rivoluzionario, c’è anche la disgregazione sociale, la decomposizione sociale, la barbarie. Tutte queste considerazioni per dire che indubbiamente in Europa hanno agito precise controtendenze al processo politico di ricomposizione rivoluzionario del proletariato e per non sprofondare in eccessi autocritici di fronte alla nostra attuale situazione.

Ma queste condizioni evidenziano, se lette nel loro nesso dialettico che non c’è nulla di scontato e di meccanico nell’affermazione della tendenza o delle controtendenze perché l’una avanza a spese delle altre e viceversa e molto dipende dall’affrontamento, dallo scontro, dal rapporto di forza tra le classi, che continuamente si rinnova. Certo vanno considerati questi fattori oggettivi e quelli soggettivi di dimensione storica (come il crollo e l’ulteriore mutazione del revisionismo) che non sono risolvibili nell’ambito della lotta immediata. Ma c’è tutto l’ambito dello scontro d’attualità, del presente, della fase in corso, in cui non è scontato l’esito se non che per la capacità della forze di classe di riunirsi, concentrarsi e dare battaglia.

Ed è precisamente anche l’accumulo degli esiti di queste numerose battaglie di fase che determina la maturazione di un salto di qualità piuttosto che di un altro nei suddetti grandi fattori di dimensione storica, che determina un contesto piuttosto che un altro: per esempio è così spiegabile, con il diverso sviluppo della lotta di classe e dei suoi percorsi politici, la differenza qualitativa del movimento di classe in paesi peraltro simili come quelli europei.

Per quanto “negativa” possa essere la situazione attuale, essa è ancora ben insufficiente per gli obiettivi e la strategia della B.I., per cui essa continuerà a perseguirli intensificando l’attacco di classe. Come possiamo dare per scontato il suo sviluppo, gli scontri cui darà luogo, gli sviluppi politici che potrà indurre? Come possiamo ritenere ininfluente lo sforzo ricompositivo dei comunisti di oggi per avere un ruolo politico dentro questo scontro in futuro? Come possiamo non “avere fretta” sapendo che solo la presenza dei comunisti può incanalare positivamente un’energia di massa che, viceversa, verrà fuorviata, manipolata ed infine fatta implodere (come tanti fenomeni di autodistruzione ed autolesionismo sociale oggi testimoniano)? Se non avanza un percorso politico rivoluzionario, questi fenomeni negativi avranno sempre più il sopravvento, provocheranno ulteriore degenerazione nel tessuto sociale proletario: insomma più si va avanti così peggio sarà e ancor meno potremo attenderci un’anonima ripresa rivoluzionaria di massa, come i Bordighisti di sempre attendono.

Lo scontro di classe a venire sarà sicuramente molto aspro e su questo non ci sbagliammo anni fa quando denunciavamo le mistificazioni sull’ampiezza e la realtà effettiva delle ripresine economiche di turno. Ognuna di queste (’84, ’88) si è conclusa con un tonfo recessivo più pesante dei precedenti: al di là di questi alti e bassi della curva ciclica, è la crisi c. ormai datante dal ’73 che non si risolve e che continua. Prevedemmo in gran parte anche gli sviluppi sociali e politici di questo andamento: perché in futuro non dovrebbero accentuarsi ancora, visto che la base economica che li riproduce è sempre orientata su quella tendenza? In questo senso la situazione è favorevole. Ma sembra essersi largamente diffusa nel M.R. un’attitudine di stampo bordighista per cui si giustificano i ritardi soggettivi con la preponderanza ed il peso della controrivoluzione.

Questa contraddizione merita due parole perché spesso sconfina anche tra di noi. È un metodo di analisi “storicistico-giustificazionista” nel senso che prima ancora di assumersi le responsabilità politiche del presente (con relativi rischi di errore) si storicizza il presente stesso, considerandolo sempre e comunque immaturo quanto a condizioni rivoluzionarie (e pur concordando sulla definizione della presente epoca come rivoluzionaria), leggendo la lotta di classe che si presenta sempre e soprattutto nei suoi limiti per confermarsi nella convinzione che le espressioni di classe sono arretrate e quindi soggette al peso della controrivoluzione. Dalla banalità dialettica (peso “complementare” di rivoluzione e controrivoluzione) si finisce all’assolutizzazione meccanicistica (dunque ad una forma di idealismo) di un fattore, la controrivoluzione. È un’assurdità: non si dà mai prevalenza totalizzante, sennò addio dialettica! Ciò vuol dire che la presenza della rivoluzione, del campo rivoluzionario, di due possibilità politiche si dà sempre, a maggior ragione in un’epoca storica di crisi generale capitalista (d’altronde in quest’epoca i Bordighisti han fatto prova del loro fallimento sostanziale, visto che sono mancati ad un appuntamento da loro stessi fissato: bisogna ricordare la loro attesa di questa crisi generale che fu anzi da loro datata, con molto anticipo, attorno al ’75 – ed in questo senso confermando le loro capacità teoriche – ed al punto tale di dedicargli il titolo di una casa editrice) La dine dei ’70 vide invece che un loro rinnovato protagonismo politico, la loro crisi disgregativa più grave.)

Il fatto è che l’elemento positivo, tendenzialmente rivoluzionario. non si presenta in forma pura, cristallina, ma convive e si confonde con altri elementi meno avanzati e pure arretrati che vivono e persistono dentro le manifestazioni di classe. Per di più la sua emergenza in seno ai M.M. dipende esattamente dalla interrelazione, dalla dialettica politica con il Partito (o con il suo embrione); di certo è un’altra assurdità assolutistica l’attesa di un Movimento di Massa Rivoluzionario, tra l’altro invocato come una delle condizioni di un’effettiva fase rivoluzionaria, a sua volta indispensabile per la costruzione del Partito (infatti nella visione bordighista la rinascita del “Partito formale” è un fatto che viene dopo, o comunque durante, il presentarsi di tutte le condizioni favorevoli della situazione rivoluzionaria: con il che non si capisce proprio dove sarebbe il suo ruolo d’avanguardia, né l’utilità della lotta politica.)

In più interventi abbiamo cercato di sintetizzare l’esperienza storica del Movimento Comunista Internazionale per giungere ad una corretta impostazione del rapporto tra dinamica delle masse e dei loro movimenti e dinamica dell’avanguardia, del Partito.

Siamo giunti ad affermare l’insostituibilità e l’indispensabilità dell’una e dell’altra: non si più impostare alcuna strategia Rivoluzionaria che non sia basata sulla dialettica rispetto ai Movimenti di Massa ed alla finalità suprema della loro maturazione in senso Rivoluzionario (strategia che quindi consideri sempre attentamente la realtà di classe da cui si parte) né si può attendere dai Movimenti di Massa una coscienza Rivoluzionaria compiuta (e quindi programma, strategia, organizzazione), perché quest’ultima è propria dell’avanguardia, del Partito.

E la situazione attuale è paradossale perché vede una presenza già significativa di Movimenti di Massa (soprattutto a partire dal ’92), mentre quello che è gravemente deficitario è il percorso di ricostituzione dell’avanguardia: finché quest’ultimo non farà concreti passi avanti, i Movimenti di Massa non potranno dare granché in più. Da anni a questa parte compito prioritario non è un presunto lavoro di ricucitura dei Movimenti di Massa (come gran parte degli opportunisti va proclamando), bensì quello di costituzione dell’avanguardia (possibilmente del Partito) che sola può operare una ricucitura ed un elevamento politico dei Movimenti di Massa. I limiti, le esitazioni dei Movimenti di Massa sono dovuti alla mancanza di una prospettiva politica, cioè di un soggetto politico che sappia farsi carico dei nodi irrisolti e delle contraddizioni accumulate del passato per risolverli dentro un percorso d’avanguardia concreto e credibile.

Fermiamoci un attimo ad osservare la dinamica dei Movimenti di Massa. Nell’autunno ’92 abbiamo una violenta precipitazione di crisi, con un’esplosione di massa molto significativa. Per la prima volta da anni, assistiamo ad uno strappo di massa rispetto ai sindacati: per simultaneità, estensione ed intensità fu un fenomeno di prim’ordine, tant’è che diede il via ad alcuni mesi di conflittualità intensa e diffusa. Ma va soprattutto sottolineato che l’attacco ai vertici sindacali fu, in sé, segno di una certa maturazione, di una positiva evoluzione in seno alle masse, segno della valenza politica insita nelle lotte, delle potenzialità insite nella stessa lotta difensiva.

Ma proprio in casi avanzati come questi si vedono i limiti del Movimento di Massa: un livello di scontro del genere necessitava e richiedeva sbocco politico, non poteva trovare soluzione nelle capacità di autorganizzazione di massa (peraltro necessari ed auspicabili). Controprova possono essere l’incapacità dei Cobas (pertanto rete consistente e diffusa) a sfondare il muro del loro minoritarismo ed il fatto eclatante di queste masse enormi in piazza che, cacciati i sindacalisti a suon di bulloni, restavano lì senza che nessun gruppo politico riuscisse a prendere l’iniziativa.

Abbiamo avuto poi altri M.M. importanti: quelli di singole fabbriche e settori, come quelle di Crotone, Sulcis, Pordenone, lotte che sono giunte all’uso organizzato della violenza; la lotta alla Fiat dove si è invertito il ciclo di riflusso degli ’80 e dove si è massificato un fenomeno di primaria importanza, cioè la partecipazione degli impiegati alla lotta.

È vero che globalmente la quantità annuale degli scioperi ristagna (rispetto ai ’70) ma questo è un fatto ricorrente nei periodi di crisi capitalista: non si può sottovalutare il fatto che il proletariato vive sotto permanente ricatto e che, comunque, i conflitti che si esprimono sono mediamente radicali nel contenuto e nelle forme. In Europa vale la pena di citare le lotte “vincenti” di Air France e dei giovani francesi contro il “salario d’ingresso” e di alcuni settori operai in Germania ed all’Est.

Diciamo che queste lotte sono difensive, ma nel momento e nel contesto in cui si situano mettono in discussione tutta la logica che governa le istituzioni sociali e l’organizzazione del lavoro. Sulla stessa stampa borghese se ne discute sempre più, per quanto strumentalmente: a molti non sfugge che, pur nei limiti tollerabili dal sistema, bisognerà comunque operare una ripartizione di reddito e lavoro per contenere le attuali devastanti conseguenze dei processi ristrutturativi (ardua intenzione vista la tendenza concreta su cui si muovono i gruppi capitalisti ed i governi).

Quindi, ciò che ci interessa è l’esistenza di un terreno concreto su cui svolgere un ruolo politico, in cui ricercare un rapporto dialettico tra la nostra proposta politica, come sintesi (per quanto difettosa ed approssimativa) del nuovo Movimento Rivoluzionario sorto dalla ripresa dei ’70. Quello che manca, e che da alcuni anni sta diventando mancanza pericolosa, è un livello minimo per operare politicamente sul terreno suddetto, è la capacità di fare alcuni passi visibili e verificabili, è la capacità di far vivere la proposta non più e no solo nel circuito dei “vecchi” rivoluzionari ma dentro il vivo dello scontro di classe.

È una tesi fondante per noi, non più rinviabile: l’unità del politico-militare deve darsi da subito (pur ai livelli minimali concretamente sostenibili) come dato costitutivo dell’Organizzazione d’avanguardia, perché è elemento che struttura, che dà credibilità alla proposta rivoluzionaria, perché è l’elemento che sintetizza e rilancia le punte più alte raggiunte dal Movimento rivoluzionario.

Quindi noi affrontiamo questa contraddizione: arretratezza delle condizioni oggettive di classe e della sua espressione comunista, necessità di rilanciare una proposta politica basata sulla centralizzazione delle Forze rivoluzionarie e sulla sua strutturazione complessiva. Sentiamo cosa dicono i compagni belgi al riguardo (anch’essi alle prese con grosse difficoltà):

 

I rivoluzionari in Belgio si trovano di fronte ad una situazione di vuoto completo, in cui tutto dev’essere apportato, tutto deve essere costruito. Da parte nostra abbiamo l’abitudine di dire che le C.C.C. sono il prodotto di questa estrema povertà del M.R. di classe e, più ancora, dell’imperativa necessità storica di uscirne. (…) e se la modestia e la fragilità della nostra O. hanno testimoniato l’atomizzazione e la dispersione dell’insieme delle forze proletarie, ciò va messo in rapporto con la durata e la profondità dello sbandamento del M.C. nel paese e va compreso, di conseguenza, che questa atomizzazione e questa dispersione sono a tal punto radicate che caratterizzeranno ancora per un certo tempo la realtà su cui agire.

Sarebbe dunque vano sperare di veder sorgere, qui ed a breve scadenza, una forza organizzata realmente presente in tutti i settori proletari (o per lo meno nei principali) e che potrebbe quindi ambire alla polarizzazione dell’insieme delle iniziative delle avanguardie R. di classe. (…) le condizioni oggettive per ciò non sono semplicemente riunite.

Pertanto questa centralizzazione è d’importanza capitale. Questo è il motivo per cui i comunisti e i proletari d’avanguardia devono lavorare prioritariamente all’emergenza di queste condizioni.

Praticamente, ciò implica secondo noi la costituzione di una vera e propria rete di iniziative R., la costruzione responsabile di numerose piccole unità p.m. attive, il più generalmente – purtroppo – isolate le une dalle altre. Qui si dà il principio strategico della parola d’ordine “che mille cellule nascano”: poiché attualmente la costituzione d’una O.R. in grado di esercitare un’azione centripeta è fuori portata, è dovere di ogni compagno di operare concretamente all’impulso di iniziative R., quali che ne siano i limiti o il grado d’isolamento iniziali. Solo la comparsa di tale rete (il cui sviluppo si farà naturalmente in trama), la sua propria dinamica e la sua azione sulla realtà politico-sociale consentiranno il superamento della disgregazione e del disarmo attuale (in tutti i campi ed in primo luogo politico) del campo R., la conquista di tappe superiori di lotta per la R.

Tuttavia, che ci si comprenda bene: questa concezione strategica particolare d’emergenza è indissociabile dall’obiettivo primordiale della costruzione dell’O. unica, politica e combattente, centralizzata e gerarchizzata, catalizzante e sintetizzante le aspirazioni dell’insieme del proletariato in una prospettiva storica, raggruppante gli elementi d’avanguardia della classe. Perché il peggiore errore sarebbe certamente di stabilizzarsi nella frammentazione o di accomodarsene politicamente: più presto avremo finito di averne bisogno, meglio sarà! Questa situazione non è tollerabile che nell’esigenza della sua liquidazione più rapida e completa.

(…) A nostro avviso, i seguaci della tesi dogmatica, che subordina una volta per tutte la pratica armata all’esistenza ed alla direzione del M.C., commettono un doppio errore. Il primo è che non comprendono il ruolo politico ideologico essenziale della L.A. nel processo R. all’interno delle metropoli imperialiste. Il secondo è che la loro concezione del P.R. e del suo processo di edificazione è idealista.

Il P. non nasce né fuori né prima della lotta. Nasce nella lotta R., come espressione dello sviluppo e della maturazione delle F.R., come segno della radicalizzazione dello scontro di classe. Ai primi tempi del processo R. corrispondono forze deboli o relativamente isolate (come le C.C.C.). Al secondo stadio emerge un’O. (che noi chiamiamo “O. combattente dei proletari”) che polarizza le manifestazioni crescenti della lotta R. e costituisce l’embrione partiti sta. E solamente in seguito, ad un livello superiore, appare il P. come espressione organizzata dell’avanguardia R. del proletariato, capace di rappresentare gli interessi generali e particolari di tutto il proletariato nella lotta di classe. Il P. non si proclama, non si decreta: si fonda nella lotta ad un certo momento del processo R., ben dopo le prime iniziative – armate o non – d’agitazione, di propaganda e di strutturazione. Considerato ciò, rinviare l’inizio della propaganda a dopo la fondazione del P. equivale, nella situazione delle metropoli imp. D’oggi, ad intralciare il progresso R. e dunque ogni cammino che porta alla fondazione del P. Tale rinvio consiste infine nel rifiutare un elemento capitale per la riunione delle condizioni necessarie alla fondazione del P.

 

Allo stato attuale non possiamo che ribadire: bisogna affrontare questo nodo dialettico, questa relazione dialettica indissolubile tra il presente della difficile realtà di classe ed il suo unico futuro concepibile, la lotta R. sulla base del programma comunista, la relazione dialettica tra il presente della disgregazione ed il futuro della centralizzazione, dell’unificazione. Perciò dobbiamo avere sia la massima attenzione e presenza possibili nelle realtà di classe, sia la massima tenuta sul terreno del programma comunista e del progetto di costruzione del P., trovando i ponti, i legami possibili tra i due livelli.

Rinunciare ad uno dei due elementi di questa relazione significa rassegnarsi, perdere, rinunciare.

 

Cellula per la costituzione del Partito comunista combattente

1997.

La lotta di Melfi – Bozza di volantino

La lotta di Melfi ha riportato in superficie la condizione da “dannati del sottosuolo sociale” di buona parte della classe operaia. Melfi è il simbolo delle nuove fabbriche, frutto della frantumazione e dislocazione delle storiche concentrazioni industriali (la sua apertura coincise con la chiusura della Lancia di Chivasso), della nuova disposizione del ciclo produttivo su un territorio “totale” (dalle regioni meno industrializzate d’Italia ai continenti della nuova mondializzazione), simbolo della riduzione della grande fabbrica a segmento di montaggio finale con corrispettivo decentramento di crescenti parti della produzione componentistica. La stessa componentistica ha seguito questo movimento di frantumazione-dislocazione, con un’accelerata cadenza di rinnovamento e mobilità degli stabilimenti.

L’apertura delle nuove fabbriche ha sempre significato livelli intensificati di sfruttamento. Un’organizzazione del lavoro imperniata su macchinari e robotizzazione che incorporano cadenze altissime (ricordiamo che mentre nel gruppo FIAT la media del parametro-base della produttività si situava intorno alle 30 vetture all’anno per dipendente, Melfi apriva a partire da 60 e oggi ne è a 95!), la predisposizione di un terreno di sfruttamento ideale con la cogestione sindacale delle nuove “gabbie salariali” e di condizioni di lavoro e flessibilità pesanti, l’utilizzazione degli strumenti messi a disposizione dalle leggi anti-operaie degli anni ’90 (fino alla famigerata ultima legge del “compianto” Biagi) o dei classici strumenti del clientelismo; l’insieme di questi strumenti hanno caratterizzato l’apertura di fabbriche alla “giapponese”. È il loro sogno: fabbriche a ritmi infernali, lavoratori silenziosi e gettabili, partecipi all’ideologia d’impresa e alla guerra di concorrenza.

Così l’esplosione imprevista di questo bagno penale dello sfruttamento capitalistico – Melfi -, la trasformazione repentina di tanti operai “silenziosi e sottomessi” in lottatori determinati e uniti ha mandato in frantumi tante chiacchiere borghesi, tante falsità mediatiche, tante strategie di pacificazione concentrata.

Questa lotta ha fatto venire in superficie la drammatica realtà del sottosuolo sociale, della persistenza del rapporto di sfruttamento (particolarmente della classe operaia) come del pilastro su cui regge tutto l’edificio capitalistico. Cioè se è vero che la struttura economico/sociale si è complessificata, ricollocandosi differentemente sul territorio internazionale e se è certo che qui, nei paesi del centro imperialista, sono cresciuti settori terziari, anch’essi sfruttati ma meno brutalmente, ciò non toglie che le nuove e vecchie concentrazioni industriali restano il perno del sistema di sfruttamento su cui si rovescia tutta la brutalità del rapporto di oppressione capitalistica.

Questa lotta ha messo in evidenza non solo le chiacchiere borghesi sulla fine della classe operaia ma pure i limiti di ogni sistema di oppressione. Dov’è finito il bel giocattolo della produzione “a flusso teso”, “just in time”?! Ma come, gli scioperi non dovevano essere superati da questo bel sistema tecnologico, così preciso e così “pulito”?!

La lotta di Melfi ha rotto questo bel giocattolo. La fermata decisa di uno stabilimento ha scompaginato quasi tutto il ciclo produttivo del gruppo FIAT. Così come lo sciopero dei ferrotranvieri ha scompaginato il decorso del ciclo economico della metropoli.

Ecco la grande potenzialità della classe operaia!

Proprio per questo, ogni volta che si determina un tale momento di unità e determinazione operaia, assistiamo allo schieramento delle diverse forze politiche e istituzionali, allo svelarsi della loro vera natura di funzionari del capitale. In particolare si è ben visto da che parte stanno le direzioni sindacali. Si è ben visto come la loro più grande preoccupazione fosse la ripresa del lavoro, il ristabilimento dell’ordine dello sfruttamento, con quale compartecipazione alle ansie padronali abbiano vissuto lo scontro.

Storia arciconosciuta, le direzioni sindacali sono parte integrante della catena di dominio dello Stato borghese, loro funzione principale essendo quella di ingabbiare, recuperare, devitalizzare le spinte operai alla lotta e all’autonomia di classe. Ma non è storia conosciuta da tutti ed è con l’esperienza vissuta nelle lotte che nuovi strati proletari vi accedono.

Percorso di conoscenza e di coscienza che si pone ancor più all’interno dell’attuale tessuto di classe attraversato profondamente dai tanti processi di ristrutturazione che hanno portato alla riduzione e/o rilocalizzazione dei grandi stabilimenti, all’emergere di un fitto tessuto di piccola impresa, alla diffusione di precarietà e fragilità normativa.

Abbiamo il problema di come organizzare le diverse realtà del lavoro precario di trovare percorsi di ricomposizione che permettano di nuovo di stravolgere il territorio dello sfruttamento in luoghi di lotta, vita, organizzazione. Andando a toccare l’insieme delle condizioni di vita e di lavoro sempre più compresse dal ritmo globale di una macchina capitalistica tirannica.

Per esempio, quante malattie professionali, quanti cancri causati da questi livelli di sfruttamento selvaggio? Quante esistenze rovinate, quante vite distrutte? Quanti incidenti e morti sono causati direttamente dal taglio ai costi di manutenzione e sicurezza? Quanti dall’eccessiva mobilità e pressione sui ritmi, con conseguente esposizione a rischi non conosciuti? A cosa si riduce la vita proletaria con il prolungamento degli anni lavorativi e la demolizione delle strutture sociali?

Le lotte come quelle di Melfi e dei ferrotranvieri toccano alcune di queste questioni e arrivano a sconvolgere un vasto ciclo produttivo, l’area metropolitana, a dare voce a una rabbia diffusa e sotterranea. Senza essere ancora forme di avanguardia di massa, possono aiutare altri strati proletari a emergere, lottare, unirsi, trovare i modi e le possibilità per ribellarsi. E questo soprattutto nel tessuto del precariato e della fabbrica diffusa. Ma è evidente che ciò non basta.

Non basta perché Stato e Capitale hanno portato lo scontro ad un livello più alto, dove i margini di mediazione sono strettissimi e dove le armi classiche di pressione e ricatto sconfinano in tendenza alla militarizzazione dei rapporti sociali. Non si può non tenere in conto tutta l’involuzione sociale-istituzionale del dopo-11 settembre… stravolgimento dello “stato di diritto”, sospensione di garanzie storiche giuridiche (arresto arbitrario, senza mandato – segregazione in carceri speciali – tribunali militari, ecc…), leggi speciali che estendono la connotazione terrorista a fasce intere di “delitti sociali”, mirando esplicitamente a criminalizzare i movimenti di classe…

Questi aspetti costitutivi del nuovo contesto sociale innervano profondamente la realtà del mondo del lavoro, del proletariato. Repressione delle manifestazioni di autonomia di classe e organizzazione neo-corporativa sono il tentativo borghese di impedire la tendenza rivoluzionaria, deviando nello stesso tempo la crescente rivoluta di massa verso il sostegno alle imprese imperialiste nel mondo. La repressione acquista sempre più i caratteri di un’autentica “guerra del fronte interno”, versante interno dello stato di guerra “indefinita”, decretata all’esterno.

Ecco un fatto secondo noi determinante: ogni dinamica di lotta e organizzazione di classe deve saper affrontare questa connessione “guerra interna guerra esterna dell’imperialismo”, della guerra come forma attuale della società capitalista, della guerra come prolungamento dello sfruttamento, come “continuazione dello sfruttamento con altri mezzi”.

Il tutto fondato alla radice del sistema stesso, nella storica e ineluttabile crisi generale da sovraproduzione di capitale, alla quale non esiste altra soluzione che la guerra inter-imperialista come distruzione in grande scala, regolamento di conti tra concorrenti e, in seguito, rilancio di un nuovo ciclo sulla base di una nuova spartizione del mondo.

Loro vorrebbero intrupparci nello spirito di concorrenza e conquista dei mercati (mobilitazione reazionarie attraverso i movimenti identitari, razzisti, sciovinisti), fino alla guerra come sua logica conseguenza.

A questo noi abbiamo una sola risposta: PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITI!!

Dall’alto di un armamento che non ha eguali nella storia, gli imperialisti predicano “pacifismo e buoni sentimenti” per impedire agli oppressi del mondo l’unico sbocco necessario:

ARMARSI IDEOLOGICAMENTE, POLITICAMENTE, MILITARMENTE, PER LA RIVOLUZIONE!

UNIRSI ALLA RESISTENZA – SVILUPPARE L’AUTONOMIA DI CLASSE!

GUERRA ALL’IMPERIALISMO!

COSTITUIRE IL PARTITO!

 

Per il Partito Comunista Politico-Militare

 

Autunno 2004

Bozza di Circolare campagna organizzazione (maggio-dicembre)

Per il partito comunista politico militare

Diamo avvio alla nostra terza campagna sull’organizzazione quando la crisi generale del capitalismo ha fatto compiere un grande salto alla tendenza alla guerra con la guerra imperialista e l’occupazione militare angloamericana dell’Iraq.

Tutti gli eventi che sono accaduti nell’ultimo periodo ci hanno mostrato un continuo acutizzarsi delle contraddizioni da quella di classe che vede la classe operaia impegnata a fondo nella lotta in difesa delle conquiste, del posto di lavoro e delle condizioni di vita, a quella tra imperialismo e nazioni oppresse che vede il confronto tra guerre imperialiste di conquista e guerre popolari di liberazione, a quelle interimperialiste che mostrano il campo imperialista diviso e contrapposto nella contesa della ripartizione del mondo.

Questo influisce significativamente sulle condizioni oggettive del processo rivoluzionario anche nel nostro paese.

Il governo Berlusconi è direttamente coinvolto e invia truppe in Iraq come ha già fatto in Afghanistan. Truppe inviate con il mandato di garantire l’ordine pubblico che vuol dire che partecipano alla guerra di aggressione imperialista con il compito di stabilizzare l’occupazione militare. In pratica si contrapporranno alla resistenza delle masse popolari irachene contro l’invasione.

Le truppe italiane inviate sono corpi di élite dei carabinieri, dei paracadutisti e dei bersaglieri, le migliori forze di intervento rapido dell’esercito italiano. Partono con il voto favorevole non solo della maggioranza governativa ma anche di buona parte dell’opposizione compresi riformisti e revisionisti (Margherita, Ulivo e DS). Il movimento contro la guerra si è sviluppato in maniera ampia con decine di manifestazioni e che ha espresso anche forme di azione radicale dovrà assumere il contenuto dell’opposizione all’occupazione militare dell’Iraq e schierarsi a fianco della guerra popolare prolungata di liberazione della dominazione imperialista che fin d’ora si va sviluppando in Iraq. In questo processo di trasformazione il movimento dovrà fare i conti con la direzione revisionista che, con il suo falso pacifismo, nasconde il carattere imperialista della guerra e le vere ragioni del suo sviluppo legato alla crisi generale del capitalismo. Le condizioni materiali di sviluppo della guerra con le sue nuove tappe (Siria o Iran) mostreranno sempre più chiaramente il disegno imperialista e di conseguenza indeboliranno sempre di più la posizione revisionista aprendo nuovi spazi per la posizione rivoluzionaria; la posizione che sostiene che la guerra si può fermare solo con la mobilitazione rivoluzionaria principalmente contro il proprio imperialismo, il servile imperialismo italiano che mendica qualche briciola dei superprofitti che si realizzeranno con l’occupazione.

Noi sappiamo che, per utilizzare quegli spazi che si vanno aprendo, e percorrere la via rivoluzionaria che le condizioni determinate dalla crisi e dalla guerra imperialista rendono possibile anche in paesi imperialisti come il nostro, dobbiamo costruire l’organizzazione in grado di promuovere l’organizzazione delle forze.

Dallo sviluppo delle condizioni oggettive che concorrono a determinare la situazione come situazione rivoluzionaria anche per il nostro paese emerge una spinta alla determinazione soggettiva da parte dei settori di avanguardia della classe operaia e delle masse popolari. Dobbiamo raccogliere questa spinta per un nuovo impulso a fare risoluti passi in avanti nel lavoro di costruzione del partito comunista nel nostro paese.

Le nostre stesse condizioni soggettive sono influenzate positivamente da questa spinta e registrano una fase di crescita. Una piccola crescita che ci permette di articolare meglio il nostro lavoro e ci pone di fronte nuovi problemi a cui dare una soluzione. Una piccola ma importante crescita sia sul piano quantitativo, con l’adesione di nuovi compagni e la presenza in nuove situazioni, sia dal punto di vista qualitativo con l’espressione di un livello operativo più elevato concretizzatosi in una iniziativa di propaganda armata. Una crescita che ha come riflesso una maggiore esposizione rispetto alle attenzioni degli apparati informativi della controrivoluzione preventiva. Attenzioni che da tempo già subiamo anche indipendentemente dallo sviluppo della nostra azione politica.

Abbiamo definito che siamo nella fase in cui la raccolta delle forze soggettive che si pongono l’obiettivo della ricostruzione del partito e che sono omogenee sulla strategia, sulla natura e sul carattere del partito da costruire si realizza con processi di fusione organizzativa. Oggi siamo nelle condizioni di poter avviare la prima esperienza in merito e dobbiamo risolvere il problema di costituire una direzione comune ed elaborare e sviluppare una linea organizzativa comune tra due forze soggettive che, dopo aver condotto un approfondito confronto politico, hanno deciso politicamente di fondersi.

Ad ogni linea politica deve corrispondere una linea organizzativa in grado di svilupparla ed ad ogni obiettivo politico un impianto organizzativo in grado di perseguirlo. Al di fuori di questa concezione vi è l’anarchismo o il dogmatismo, l’anarchismo di chi non si pone il problema o il dogmatismo di chi considera l’organizzazione una cosa che si materializza all’occorrenza.

Per questo vogliamo promuovere una campagna unitamente con la forza soggettiva amica sul tema dell’integrazione organizzativa. E proponiamo come obiettivo principale:

–          Promuovere la fusione costruendo una direzione unica del lavoro di costruzione del partito.

Nell’ambito di questa campagna vogliamo verificare la possibilità di costituire un gruppo dirigente che si assuma la responsabilità di condurre in porto il processo di fusione organizzativa dirigendo la campagna e pianificando la riorganizzazione delle forze come un’unica organizzazione che si pone nelle condizioni di poter perseguire ad un livello più avanzato l’obiettivo della ricostruzione del partito comunista.

Per quanto riguarda la nostra esperienza abbiamo una piccola organizzazione che si articola in strutture centrali di direzione e strutture locali di radicamento. Abbiamo definito che il lavoro di costruzione del partito va distinto dall’atto costitutivo e si concretizza oggi principalmente nella costruzione di organismi di partito nella forma di nuclei e che lo sviluppo di questo lavoro è necessario per creare le condizioni della costituzione formale del partito.

In merito al lavoro per nuclei abbiamo già alcune piccole esperienze da cui possiamo trarre insegnamenti per proseguire individuando e facendo tesoro degli errori e generalizzando i successi, portando avanti la parola d’ordine 10,100,1000 nuclei per la ricostruzione del partito.

Considerando la natura del partito che intendiamo costruire, che è necessariamente riflessa (nella forma della semi) negli organismi di partito che fin da ora stiamo costituendo, il limite principale che abbiamo riscontrato nelle esperienze organizzative da noi fin qui condotte è stata l’immaturità del nostro impianto logistico. È un limite che non ci permette di andare oltre ai livelli espressi complessivamente nel nostro lavoro sia sul piano della propaganda che sul piano operativo, sia sul piano della propaganda degli scritti (foglio) che su quello della propaganda tramite azioni. Per questo dobbiamo mettere al centro del lavoro di costruzione del nostro quadro, che è un quadro pm, la capacità di sviluppare lavoro logistico come dato essenziale per la natura del percorso che vogliamo realizzare. Sviluppare il settore logistico diventa quindi un compito essenziale per questa campagna. Senza una crescita su questo terreno il nostro percorso ne risulterà rallentato o si esporrà più del dovuto alla possibilità di essere represso.

Nello sviluppo del nostro lavoro abbiamo verificato che non sempre, nelle situazioni in cui abbiamo una presenza possiamo costituire nell’immediato un nucleo. Questo dato deve essere registrato e ci deve portare a considerare che allo stato attuale e probabilmente anche in futuro la nostra organizzazione sarà composta anche da militanti che non hanno una collocazione all’interno di nuclei perché nelle loro situazioni questo livello di organizzazione non è ancora realizzabile.

Dalle esperienze che abbiamo fin’ora condotto possiamo trarre l’insegnamento che dobbiamo raccogliere e dirigere il lavoro di questi compagni sul piano centrale promuovendo la loro collaborazione con le strutture centrali dell’organizzazione ponendoci così in grado di dirigere il loro lavoro sul piano locale con l’obiettivo principale di costruire il nucleo.

Pertanto consideriamo che questa campagna debba essere condotta su tutti e tre i livelli. Quello delle strutture centrali, quello delle strutture locali e quello dei singoli militanti che in quanto tali sono coordinati con il lavoro dell’organizzazione.

In merito ai contenuti da sviluppare per perseguire l’obiettivo principale e gli obiettivi locali che i diversi ambiti possono darsi proponiamo che per quanto riguarda le strutture centrali siano:

1) Discussione dello sviluppo congiunto della campagna. Relazione di valutazione generale delle rispettive esperienze organizzative, dibattito sulla bozza di circolare di produrre poi in forma definitiva, nomina del responsabile generale della campagna.

2) Elaborazione e sviluppo comune di una linea organizzativa. Definizione degli ambiti in cui si articola l’organizzazione. Definizione delle funzioni dei diversi ambiti. Divisione dei compiti all’interno degli ambiti, ecc…

3) Elaborazione dei piani di lavoro centrali per lo sviluppo del settore logistico. Logistica centrale per riunioni e lavoro redazionale del foglio. Operazioni di finanziamento.

4) Valutazione delle singole situazioni locali e delle loro possibilità di sviluppo organizzativo. Spostamento di quadri e accorpamenti.

5) Continuità nel lavoro di produzione e distribuzione del foglio di propaganda comune.

Per quanto riguarda le strutture locali siano:

1) Valutazione e riorganizzazione del proprio lavoro organizzativo. Revisione della divisione dei compiti.

2) Attuazione di seminari sul partito per la formazione e la cooptazione di quadri.

3) Elaborazione di piani di lavoro locali per lo sviluppo del settore logistico locale e contributo a quello centrale. Reperimento informazioni e piccole operazioni di finanziamento.

4) Diffusione del foglio comune di propaganda.

Per quanto riguarda i singoli militanti siano:

1) L’inchiesta sulle forze soggettive della zona.

2) Il reperimento di informazioni su disponibilità di tipo logistico e finanziamento.

3) Diffusione del foglio comune di propaganda.

 

N.B. La circolare nella sua forma definitiva è il testo di orientamento e il piano generale della campagna. Ogni organismo locale e i compagni singoli delle altre situazioni sono invitati a nominare un proprio responsabile della campagna, a formulare un proprio obiettivo principale e i contenuti attraverso i quali intende perseguirlo e comunicarlo al responsabile generale. Il piano va concepito come uno strumento per l’orientamento del lavoro. È particolarmente utile anche in sede di bilancio per valutare il lavoro svolto in rapporto a quanto pianificato.

 

Maggio 2003

Comunicato in ricordo di Sergio Spazzali (Pino)

Compagni e Compagne,

nella notte del 22 gennaio è morto in Francia il compagno Sergio Spazzali, nome di battaglia Pino, fondatore e dirigente della Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente.

I giornali di regime hanno svilito il suo ruolo di militante e dirigente comunista, descrivendolo come l’avvocato delle B.R., oggi povero esule in Francia che si arrabatta tra gli stenti, e prepara il suo rientro in Italia ormai stufo di tale situazione.

La militanza rivoluzionaria di Pino smentisce radicalmente questa versione edulcorata di regime, e ci rivela il suo impegno e dedizione alla causa dell’emancipazione proletaria e della Rivoluzione Comunista. A partire dagli anni sessanta, Pino rifiuta gli agi e i privilegi della casta avvocatizia, è sempre presente nelle lotte del movimento operaio e studentesco, presente nei gruppi Marxisti-Leninisti del periodo, presente nelle delegazioni in Cina e in Corea del Nord, fondatore del centro Franz Fanon. Pino è animatore di Soccorso Rosso prima e del comitato per la difesa dei detenuti politici in Europa, a fianco dei compagni Greci e Spagnoli e nel Sud del mondo con l’M.P.L.A. dell’Angola, è parte attiva nel percorso del movimento rivoluzionario degli anni settanta, avvocato degli operai, degli inquilini, avvocato militante al servizio delle Avanguardie Comuniste Combattenti. Sino alla scelta della clandestinità in Francia, dove rifiuta ogni tipo di patteggiamento con lo Stato Francese e si dedica totalmente a ricostruire una presenza Comunista combattente in Italia e in Europa.

In questo contesto nell’85 è tra i fondatori della Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente e nell’89 della rivista Per il Partito, delle quali è militante, contribuendo attivamente al loro sviluppo fino alla sua morte.

La stessa scelta del rientro in Italia nulla ha a che vedere con presunte nostalgie della sua terra natia, ma si tratta di una scelta politica collettiva.

Per i Comunisti Rivoluzionari e i proletari coscienti la morte di Pino è una di quelle morti che pesano come una montagna, in noi, suoi compagni di lotta ed amici, la sua morte lascia un vuoto umano e politico incolmabile.

Ma non gioiscano le classi dominanti, sapremo far vivere Pino seguendo il suo esempio e continuando con determinazione la lotta per la costituzione del P.C.C. e per l’affermazione della Rivoluzione Comunista.

 

Onore al Compagno Pino
Pino vive nella lotta per il Comunismo

 

Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente

 

Febbraio 1994.

Per il partito – N.1

Cellula comunista per la costituzione del PCC
Aprile 1989
PRESENTAZIONE

La cellula comunista per la costituzione del PCC è formata da compagni provenienti da diverse ipotesi organizzative, che si collocano all’interno dell’esperienza storica del movimento comunista internazionale e, nel particolare di questi ultimi 20 anni fanno riferimento agli insegnamenti prodotti dall’avanguardia comunista combattente nel nostro paese, alla quale, nel bene e nel male, ed ai vari livelli della loro coscienza un contributo hanno dato. Individuando come asse centrale della propria riflessione oggi, la valorizzazione dell’esperienza delle B.R. che nel panorama delle varie OCC degli anni ’70, hanno rappresentato la componente M.L., ed oggettivamente l’unica alternativa credibile al progetto revisionista (al di là di ogni tipo di scelta che può aver maturato oggi la maggioranza dei suoi ex dirigenti).
Il naufragio delle prospettive di costituzione del P.C.C., il non aver saputo adeguarsi alle nuove condizioni economico/politiche, il non aver superato gli errori di “giovinezza” del movimento rivoluzionario, sono state le principali cause della sconfitta politica del movimento rivoluzionario dei primi anni ’80, e la non soluzione di questi problemi rimane la principale “impasse” per la ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
Sulla base di queste considerazioni e dell’omogeneità di fondo a cui sono pervenuti sulle tematiche centrali ed essenziali, i compagni della Cellula hanno preso l’iniziativa di rilanciare la proposta di costituzione del partito nell’odierna situazione.
Rilanciare questo disegno vuol dire per la Cellula reagire a quella sconfitta contrastando il clima liquidazionista e revisionista che essa ha prodotto in parte del movimento rivoluzionario, nella certezza che le sorti della lotta di classe e della lotta armata in Italia non si sono decise in quella congiuntura, per quanto grave e drammatica essa sia stata.
I problemi politici che questa ambiziosa scadenza – la fondazione del P.C.C. – pone, sono di grande dimensione e richiedono la definizione di un quadro di riflessione di grande respiro; necessitano quindi di allargare il confronto al maggior numero di compagni possibile, al fine di approfondire il dibattito per valorizzare l’esperienza passata collocandola all’interno del patrimonio storico del movimento comunista internazionale, in modo da poter articolare una posizione politica complessiva capace di costituire la base di un vero e proprio apparato di tesi per il congresso di costituzione del partito. Necessita inoltre una grande battaglia politica nel movimento rivoluzionario al fine di superare le tesi soggettiviste e battere con decisione il risorgente revisionismo, ipotesi queste che confondono le prospettive e chiudono il dibattito in un vicolo cieco, incapaci entrambe di dare una risposta politica da un punto vista marxista e rivoluzionario, che permetta ai comunisti di riprendere l’iniziativa.
Queste profonde convinzioni ci hanno portato a decidere di pubblicare una rivista periodica, contenente articoli di approfondimento teorico/programmatico che riesca ad essere strumento di battaglia politica e veicolo del dibattito precongressuale.
I compagni della Cellula sono ben consci delle difficoltà a cui un tale lavoro va incontro, e che pertanto quanto da essi prodotto non può dirsi, allo stato in cui si trova, esauriente. Gli stessi temi affrontati in questo numero dovranno essere approfonditi ed altri vasti temi affrontati. Ciò si darà all’interno del dibattito e riguarderà la pubblicazione dei prossimi numeri.
Per la realizzazione di tale progetto (il necessario lavoro teorico/programmatico e organizzativo che comporta la costituzione del P.C.C.), i compagni della Cellula si augurano di poter contare sul più grande numero di compagni rappresentativi della realtà di classe, siano oggi in parte organizzati o più o meno dispersi e privi di collegamenti fra di loro, ma risoluti a tenere alta la bandiera del comunismo nel nostro paese.
Dalla capacità, volontà, impegno concreto di questi compagni, dipende il fatto che si possa uscire dall’attuale crisi del movimento rivoluzionario italiano; che si possano recuperare i ritardi e gli errori commessi in questi anni (da cui certo non ci esentiamo); che le tappe per arrivare alla costituzione del partito vengano percorse nel più breve tempo possibile e che il partito possa cominciare ad agire come tale. Questo è l’obiettivo della Cellula e questa rivista è uno degli strumenti per perseguirlo.

CELLULA COMUNISTA PER LA COSTITUZIONE DEL P.C.C.

L’AMNISTIA “DI SINISTRA” E LE NUOVE INFLUENZE REVISIONISTE
NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO ITALIANO

Ci sembra che nel corso dello scorso anno (88) sulle posizioni che vanno dal dissociazionismo stile Negri/P.L. alla più recente operazione Curcio-Moretti-Balzerani, il dibattito abbia fatto sufficiente chiarezza. Una linea di demarcazione netta fra questi ex militanti ed il movimento rivoluzionario si è evidenziata. Non è perciò di queste posizioni che vogliamo qui parlare. In questo documento vogliamo invece riferirci a quell’area che “utilizzando” i problemi concreti che l’avanguardia comunista si trova di fronte e gli stessi errori del movimento rivoluzionario, propone tesi all’apparenza “piene di buon senso”, che si richiamano formalmente ai principi del M.L., alla lotta contro il soggettivismo, ecc., ma che in sostanza si rivelano liquidazioniste ed opportuniste. Si tratta delle posizioni di alcuni noti militanti detenuti delle U.C.C., della rivista “POLITICA E CLASSE”, ecc., insomma di quell’area che propone l’amnistia “di sinistra”, la ridefinizione di una “sinistra di classe” nella quale si confondano i confini fra riformisti, revisionisti e rivoluzionari, le alleanze con i “sinceri democratici” e con i partitini legali (con o senza braccio armato). Quell’area nella quale si dibatte di un “movimento politico unitario” con le forze della sinistra non socialdemocratica, nella quale si predica il realismo delle situazioni difficili e la difesa a parole dell’esperienza degli ultimi 20 anni di L.A. in Italia, nonché la necessità di trarne un bilancio per riprendere l’iniziativa. Ma di fatto non di valorizzazione si tratta, nei fatti ed a un esame accurato dei testi, questa pretesa “valorizzazione” si riduce ad una semplice “storicizzazione”. Di bilancio non si tratta, ma di un abbandono definitivo dello strumento della L.A., ingombrante per quelle alleanze che ricercano nell’ambito della “sinistra nella sua accezione più ampia”.
In vero un dibattito già avvenuto venti anni fa in Italia e non solo in Italia, fra l’ipotesi riformista/revisionista e quella rivoluzionaria, un dibattito già risolto nei fatti dal movimento rivoluzionario, nella assunzione del principio dell’unità del politico/militare nell’agire dei comunisti anche nella fase non rivoluzionaria.
Si dice spesso che nodo cruciale da sciogliere è quello della coniugazione tra il patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale e gli insegnamenti estraibili e generalizzabili dell’esperienza della L.A. in Italia. Ciò è giusto. Ma siamo sicuri che questi ultimi costituiscano davvero una novità sostanziale o non siano piuttosto una forma specifica, caratteristica della organizzazione rivoluzionaria di classe nelle metropoli imperialiste? Quando diciamo che elemento di valore storico di quest’esperienza è l’aver riattualizzato la via rivoluzionaria, il nodo del potere politico nei paesi del centro imperialista ed in questo periodo storico, non diciamo implicitamente che essa, pur con alcune caratteristiche proprie, ha sostanzialmente ripreso contenuti di principio che intanto si confermano validi in quanto sono chiavi di lettura scientifica di un’intera epoca e dei modi e tempi della transizione? Insomma se il punto fondamentale è stato il riaffermare l’esigenza per il proletariato di costituirsi in classe per sé, dotandosi di indipendenza ideologica, politica e militare, la scelta della forma combattente ne è un derivato ed ha trovato ragion d’essere, legittimazione nella prima e non viceversa. Con questo si vuol dire che non ha senso contrapporre l’uso delle armi per come si è caratterizzato nella recente esperienza a quello fatto nella tradizione terzinternazionalista. Questa contrapposizione, che viene rimarcata col fatto per cui l’esperienza nostra non avrebbe precedenti nella storia dei P.C., non fa che indebolire la proposta. È semmai l’elemento di continuità, di affinità, di approfondimento, che va ripreso e che può darci forza nel dimostrare la necessità, la praticabilità e l’utilità di un P.C.C. E non è un caso poi il verificare che proprio nel tentativo di sostanziare questa “originalità” non si riesca a produrre lo sforzo di elaborazione desiderato e si registri l’attuale impasse. In effetti un bilancio della L.A. e del M.R. degli anni ’70/80 è maturo da tempo e si tratta di recuperarne i contenuti generalizzabili, che più conseguentemente hanno valorizzato la tradizione storica del Movimento Comunista Internazionale.
Ciò su cui va posto l’accento non è tanto il fatto che il P.C.C. si fonda sull’aspetto centrale dell’uso delle armi, quanto sul fatto che nel processo di costituzione in classe indipendente, il partito utilizza tutti i mezzi possibili e che tra questi, la L.A. ha valore centrale perché esplicita nel modo più chiaro ed efficace il programma comunista, perché incanala nel miglior modo le energie proletarie, scongiurando sia gli avventurismi sconsiderati, sia il riflusso nel puro contrattualismo e riformismo. E questo è un punto su cui ci si ricollega al miglior Lenin del “Che fare?”. Anche allora, infatti, ci si poneva il problema dell’organizzazione di combattimento e sono note le polemiche contro chi pensava di poterne fare a meno, accusando i bolscevichi di cospirativismo e terrorismo. Se è vero che l’attività militare non fu centrale, è certo comunque che tutto l’impianto politico-organizzativo era formato alla lotta per il potere, clandestinità e L.A. compresi.
Si tratta cioè di applicare la teoria ed i principi del M.L. alla nostra epoca (esperienze soggettive, fatti materiali, acquisizioni….) e, al contempo, di definire quindi la tattica, la strategia, la linea politica ed il programma politico adeguato per affrontare questa situazione.
Tutto ciò, come si può ben capire, non ha niente a che vedere con presunte innovazioni della teoria M.L. o con i dibattiti relativi alla crisi della sinistra. Si tratta di una discussione tutta interna al movimento comunista rivoluzionario e deve quindi avere a nostro avviso due precise discriminanti: il riconoscimento dei principi M.L. ed il carattere combattente del partito nella fase attuale. Solo in questo si può parlare di valorizzazione dell’esperienza passata, solo in questo modo è possibile rilanciare una proposta di progetto politico forte e di ampio respiro e costruire l’organizzazione rivoluzionaria capace di guidare le masse nel nostro paese alla rivoluzione proletaria ed alle successive tappe sino al comunismo, salvaguardando l’unità del politico/militare, evitando così sia deviazioni che vedono negli aspetti parziali della lotta di classe o nel lavoro politico di massa e legale, il fine dell’agire del partito, tanto quanto le posizioni militariste che vedono nel solo combattimento (nello sparare per resistere) il fine ultimo dell’agire del partito.
Fingere di non vedere questa situazione, l’affermarsi cioè di queste posizioni opportuniste/revisioniste all’interno del movimento rivoluzionario, rifiutarsi di capire che l’affermazione di queste posizioni è estremamente legata all’assenza di una presenza chiara e forte da parte dei comunisti rivoluzionari ed ai problemi che tale assenza ha prodotto, pensare quindi che in fondo basta andare avanti come prima, “continuare a combattere per dimostrare di esistere” perché ogni autocritica del passato, ogni risoluzione dei problemi posti dalla sconfitta porta all’opportunismo e alla liquidazione dell’esperienza passata, o a limitare la critica a queste posizioni a un dibattito ristretto, ad un’area limitata di simpatizzanti o militanti del proprio gruppo, rifiutando di dargli da subito in tutte le situazioni la necessaria battaglia politica e rinviando ciò alla futura costituzione del partito, o non considerare importante la lotta politica a queste posizioni in quanto già sconfitte storicamente, ci sembrano posizioni perdenti, che in ultima istanza permettono proprio l’affermarsi di queste posizioni.
Sebbene la sconfitta di queste posizioni si darà in forma piena nella capacità dei comunisti di costituire il P.C.C., noi crediamo che la battaglia politica a queste posizioni sia necessaria sin da subito e vada svolta sia con i mezzi illegali propri di un dibattito tra comunisti sulla ripresa dell’iniziativa politico/militare e la fondazione del P.C.C., sia con tutti i mezzi legali possibili atti a smascherarli nelle situazioni di movimento e di lotta nel nostro paese dove essi cercano di inserirsi, saper dare questa battaglia al di là delle forze limitate che si possono avere e che fan sì che oggi non si evidenzi una forza marxista rivoluzionaria capace, per autorità politica e strumenti organizzativi, di unificare tutti i comunisti nella costituzione di un solo polo rivoluzionario, cioè del partito, necessariamente oggi un P.C.C., vuol dire lavorare nella direzione della costituzione del partito, far chiarezza, battere le idee errate, far emergere la linea giusta. Questa è attività che ci si dà sin da ora e non è rinviabile alla futura attività del partito, in quanto è premessa del necessario lavoro di costituzione dello stesso, momento di confronto che riguarda tutti i comunisti.
Vediamo quindi di affrontare con ordine la questione, di vedere in cosa consiste il loro revisionismo ed opportunismo, di vedere qual è la parabola che ha dato vita a quest’area in cui si trovano oggi uniti ex militanti rivoluzionari e vecchi opportunisti incalliti. Per avere una riprova di questa unione basti vedere l’associazione di firme ed interventi nel primo e secondo numero della rivista “Politica e Classe”.
Per procedere con ordine non si può che riferirsi al dibattito in corso da diversi anni nel movimento rivoluzionario italiano in seguito alla sconfitta dell’82.
Sconfitta che, vorremmo precisare onde non lasciar spazio ad equivoci, fu dovuta ad elementi di ordine oggettivo, la mutata situazione concreta e l’offensiva padronale in atto, e di ordine soggettivo: l’impreparazione dei comunisti ad adeguare il proprio impianto politico a questa situazione. Ogni riflessione che colga uno solo di questi due elementi si dimostra oggi incapace di prospettive durevoli alla ripresa dell’iniziativa comunista in Italia.
A partire da questa situazione, l’avanguardia comunista si trova di fronte alcuni problemi che la realtà si era incaricata di far emergere in tutta la loro gravità e che erano già precedentemente interni all’esperienza combattente in Italia: il giovanilismo, il soggettivismo, l’economicismo, ecc.
Per superare questi limiti era innanzi tutto necessario trarre un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni di lotta rivoluzionaria nel nostro paese e condurre una riflessione politica e teorica sulla esperienza della L.A. in Italia.
Esperienza che si era posta nei fatti come unica alternativa concreta all’ipotesi revisionista, e ciò soprattutto nella sua componente M.L., le BR. Quindi collocare questa esperienza all’interno del patrimonio storico del Movimento Comunista Internazionale.

I termini essenziali del dibattito
Negli ultimi venti anni infatti assumevano carattere dominante due ipotesi sulla possibilità di trasformazione sociale. O la strada indicata dalle BR o quella indicata dal PCI. Se, come abbiamo visto, la sconfitta tattica dell’ 82 aveva ragioni oggettive e soggettive, bisognava analizzare la realtà alla luce del bilancio quali erano stati gli errori dell’impianto precedente che non gli avevano permesso di adeguarsi alla realtà e di rispondere a quell’urgente richiesta di direzione politica proveniente da ampi strati di proletariato. Ciò significava discutere di tattica e di strategia, del rapporto crisi/tendenza alla guerra imperialista, guerra di lunga durata/insurrezione, della centralità operaia, di quale forma di partito, del legame con l’esperienza del movimento comunista internazionale, del rapporto partito/masse, ecc. Tutti problemi tutt’oggi più che attuali e dalla soluzione dei quali dipende la possibilità di rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria in Italia. In merito a queste problematiche si può dire che il dibattito e la riflessione, e quindi le risposte da parte del movimento rivoluzionario si sono divise in un certo modo in due posizioni dominanti all’interno del movimento rivoluzionario (altre posizioni come PG, COLP ecc. si sono infatti sciolte come neve al sole, dimostrando l’inconsistenza delle loro proposte, alcuni constatando la sconfitta delle loro ipotesi sono confluiti nel fronte della dissociazione e della resa, altri, i più onesti che non sono passati al soldo della borghesia, propongono oggi di riunificare i vari cocci delle passate O.C.C. in una sorta di ampio fronte anti-imperialista, come se niente fosse successo). Le due posizioni dominanti a cui ci riferiamo sono quelle note come la Prima e la Seconda posizione, nate in seguito alla spaccatura delle BR nell’ 84.
Intendiamo evidentemente queste posizioni in senso largo, ovvero non riferito ai soli militanti delle BR che hanno aderito all’una o all’altra di queste posizioni, ma nel senso dell’area di riflessione e di dibattito che intorno all’una o all’altra si sono costituite.
Possiamo dire in modo schematico (in quanto in modo più approfondito demandiamo ai documenti precedentemente prodotti sull’argomento dalle varie posizioni) che il dibattito si è incentrato su due diversi modi di concepire la ritirata strategica e quindi la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria. Da un lato i compagni della Prima posizione che affermano sufficiente liquidare gli aspetti più eclatanti del soggettivismo presenti nelle BR degli anni 80, come loro stessi sostengono: “Quel modo fallimentare di analizzare i fenomeni sociali sostituendo al movimento reale storico concreto i movimenti tendenziali dati come già realizzati…”, senza però mettere in discussione la scelta strategica della lotta di lunga durata come processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste e senza mettere in discussione l’idea gradualista di costruzione del partito, irridendo al necessario lavoro politico di educazione delle masse, fino ad arrivare oggi a proporre la costituzione del fronte antimperialista.
Fronte basato sulla strategia della L.A. assunta come guerra di lunga durata contro la NATO ed i vari centri decisionali dell’imperialismo con sede nei vari stati nazionali dello stesso, operazione politica questa che permette così di unificare chi intende la L.A. come lotta in favore del Terzo Mondo, chi lotta in dialettica con i paesi “socialisti” e con chi crede che questi paesi non siano per niente socialisti. Relegando così le masse e la situazione politico/sociale come aspetti marginali del conflitto (preoccupandosi al massimo che comunque esistono le contraddizioni sociali e trovando in ciò le proprie legittimazioni).
La guerra di lunga durata e la strategia della L.A. ad essa collegata si trasformano quindi in impianto teorico/ideologico-tattico/strategico, sostituendo principi e programma e trovando così la legittimazione del loro esistere e si pongono così in modo talmente generico da porsi al di là del conflitto sociale per come esso è dato, neutralizzando così nei fatti la loro attività soggettiva.
L’attività politica non è vista in funzione delle contraddizioni sociali che si manifestano. Le lotte delle masse non sono importanti per il livello di esperienze che acquistano e per le forme organizzative che producono e che manifestano l’autonomia di classe di fronte alla borghesia e alle direzioni revisioniste. Semmai interessano solo in quanto servono ad incrementare l’area della guerriglia e a sprigionare nuove forze disponibili alla guerra di lunga durata (quanto poi questa sia una pia illusione è la realtà stessa a dimostrarlo, escluse alcune eccezioni individuali che non fanno certo testo).
In realtà la disponibilità delle masse alla L.A. non è data dal convincimento individuale, ma viene da momenti di lotta contro la borghesia in cui esistono le condizioni complessive entro cui è possibile l’insurrezione di massa e la conquista del potere politico; condizione che a nostro avviso per i paesi imperialisti restano valide per come indicate da Lenin (nota 1).
Come si può capire, una tale impostazione indica un modo assai strano di concepire il partito leninista ed i principi leninisti sia sui compiti e sull’agire pratico del partito, sia sulle forme che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti, sia sul rapporto partito/masse, ecc.
Una posizione quindi che, nonostante le dichiarazioni di principio di voler superare l’economicismo ed il soggettivismo precedenti alla ritirata strategica, nei fatti propone una sorta di continuismo che non riesce a risolvere i problemi posti dalla crisi dell’ 82, anche se si propone di colpire i progetti politici dominanti della borghesia imperialista (come nel caso Ruffilli), si trova poi incapace di assumere una gestione politica adeguata, inseguendo il fronte unico antimperialista e, per conseguenza, non comprendendo la possibilità/necessità di staccare l’Italia dalla catena imperialista, ma immaginandosi un’interconnessione assoluta tra i vari paesi imperialisti (una sorta di super imperialismo mondiale), elude i compiti necessari a tale scopo.
Dall’altro lato si è sviluppato il dibattito della Seconda posizione, che ha prodotto prima il libro “Politica e Rivoluzione”, sebbene i suoi autori per un eccesso di tatticismo e pragmatismo di cui vedremo in seguito a quali posizioni approdi, non abbiano sostenuto fino in fondo la battaglia politica prodottasi nelle BR nell’84, ma anzi al contrario al momento della spaccatura si siano schierati a fianco della posizione che in modo chiaro avevano criticato nel suddetto libro.

Gli sviluppi della Seconda posizione
Poi l’uscita del libretto rosso della Seconda posizione che cercava di sistematizzare e definire quali fossero i compiti dell’avanguardia comunista oggi nel nostro paese; primo fra tutti la necessità di ricollocare l’esperienza italiana nell’esperienza più generale del movimento comunista internazionale, quindi di ridefinire l’impianto politico informandolo ai principi del M.L.
Cercava quindi di definire le differenti strategie e le differenti forme conseguenti che assume il processo rivoluzionario nei paesi imperialisti e nei paesi dominati, il diverso rapporto che ha quindi il partito là dove deve occuparsi della “strategia” del sale e del riso, della gestione delle zone liberate in rapporto ad un partito che opera nel cuore del centro imperialista.
Cercava quindi di affrontare, valutando le condizioni oggettive e soggettive createsi negli anni 70 in Italia, la questione della fondazione del P.C., superando quel concetto gradualista di costruzione dello stesso, parimenti legato all’ipotesi della strategia della guerra di lunga durata.
Come si può ben capire, questa seconda tesi che sostenevamo al tempo, pur non essendo militanti BR, e che ancora oggi sosteniamo come unica soluzione per riprendere in modo durevole e continuativo l’iniziativa politica dei comunisti nel nostro paese richiedeva e richiede un enorme sforzo di elaborazione teorica e di analisi della società, soprattutto in un movimento rivoluzionario dove, a causa della degenerazione revisionista del PCI (che ha rinnegato del tutto le tesi su cui si era costituito) si è interrotto, o quanto meno si è offuscato, quel filo rosso di continuità nel movimento comunista del nostro paese. Infatti la ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria negli anni ’60 ha subito sin dal suo nascere questa pesante ipoteca ed ha fatto sì che assumessero valore dominante o comunque significativo le teorie operaiste e le concezioni fochiste e tupamaros all’interno del nascente movimento rivoluzionario italiano.
A partire da queste considerazioni molti compagni (noi tra loro) iniziarono quel necessario lavoro di approfondimento tecnico/programmatico che la realtà poneva come non più rinviabile, e di ricostruzione di legami politici/organizzativi che consentissero di arrivare alla fondazione del P.C.C. Questo lavoro, pur tra difficoltà ed errori, è continuato e continua come questa rivista dimostra, coscienti come siamo che la fine della ritirata strategica si darà solo sapendo adempiere a quest’obiettivo.
Per quanto riguarda invece le BR-P.C.C. pensiamo sia a tutti i compagni noto come perseverino, seppur combattendo in modo deciso contro lo Stato, nella concezione antimperialista e della guerra di lunga durata e quindi ripropongano tesi a nostro avviso soggettiviste, incapaci di condurre le masse del nostro paese verso il socialismo.
Vi è invece quel gruppo di detenuti ex U.C.C. interno all’area “amnistia di sinistra” che, viste le difficoltà che tale percorso di ridefinizione e riorganizzazione teorico/strategico richiedevano e richiedono, ha via via abbandonato i principi per cui si era operata la rottura dell’84 nelle BR, arrivando non a un rinnovamento dell’esperienza che ne rappresentasse la continuità e la valorizzazione, ma ad un rinnovamento che la ha storicizzata e ne ha profondamente mutati i principi, giudicandoli troppo ingombranti e quindi dichiarati a parole, ma immediatamente messi ai margini nella pratica, in quanto inconciliabili con l’impianto politico che andava via via delineandosi e con le relative proposte politiche.
I primi sintomi di questa tendenza si sono infatti manifestati con le U.C.C. che, se da un lato si dichiaravano “diretta discendenza della esperienza BR”, nonché la sua componente “realmente M.L.” e quindi, era sottinteso, l’unica in grado di contrastare e dare battaglia politica alle posizioni arroccate e soggettiviste della BR/PCC del dopo 84, nei fatti di contro mettevano insieme ipotesi e tesi fra le più strampalate, senz’altro estranee al ML. In merito basti vedere il documento “Nuove prospettive del movimento rivoluzionario” ed il documento di rivendicazione Giorgieri, dove leggiamo della lotta per la vera pace e gli appelli agli intellettuali onesti su tale terreno (invece di una analisi di classe sugli intellettuali e sulla guerra), il filosovietismo (invece di una battaglia contro ogni imperialismo e di approfondire l’analisi marxista sul social-imperialismo), la proposta di costituzione della base legale della L.A. (invece di una seria analisi che distingua natura e clandestinità del partito e rapporto con la classe, ecc.).
Come la pratica si è incaricata di confermare, invece di operare un passo in avanti, si immettevano nel movimento i primi germi di revisionismo ed avventurismo armato che portavano un anno dopo le UCC, o quanto meno molti tra i suoi più illustri esponenti prigionieri, a dichiararsi a favore dell’amnistia.
Anche in questo caso, con la classica caratteristica del voler utilizzare un linguaggio pseudomarxista, si fa propria questa indicazione (l’amnistia) che viene proposta all’intera sinistra di classe, prendendo atto che in ogni caso l’area curciana e il blocco di potere legato alla DC si pongono su questo terreno.
Per questo motivo pare loro “rivoluzionario” e “sensato” contrapporsi a questi ultimi con una proposta di amnistia “di sinistra” ricercando per questo i propri interlocutori nella sinistra nella sua accezione più ampia e ciò nell’interesse di tutte le forze rivoluzionarie, nonché dei movimenti di massa.
L’amnistia quindi non viene colta per il suo carattere di ennesima operazione tesa al recupero/integrazione di una parte di ex rivoluzionari da giocare contro il futuro del movimento rivoluzionario; ennesima operazione per veicolare un messaggio di resa e, più in generale, l’improponibilità di oggettive trasformazioni radicali della società, nonché dell’abbandono della LA che si dà oggi come il perno centrale dell’attività dei comunisti che rende possibile questa trasformazione.
Essa viene colta solo nell’aspetto dichiaratamente filodemocristiano, proprio dell’area Curcio-Moretti. Il messaggio è quindi abbastanza chiaro: trovare una soluzione che permetta di non “sporcarsi del tutto la faccia”, pur essendo disponibili al progetto amnistia, individuando quindi gli interlocutori nell’area della sinistra revisionista e a essi rapportandosi come il “figliol prodigo” che dopo anni di estremismo e lotta armata ritorna a casa riproponendosi come forza politica di sinistra matura e responsabile.
Come si vede tutto ciò non ha niente a che vedere con il movimento rivoluzionario che ogni mutamento politico, amnistia compresa, affronta sempre tenendo presenti le condizioni politico/sociali presenti, gli interessi in campo in rapporto agli interessi generali del proletariato ed alla strategia rivoluzionaria di ogni singolo paese. Sostenere infatti che tale strumento (l’amnistia) è stato spesso utilizzato dai vari movimenti rivoluzionari, erigere ciò a principio significa non cogliere la differenza tra un’amnistia concessa da un regime in crisi ed un’amnistia come quella attuale, tesa a sancire l’impossibilità della LA nel nostro paese.
Significa porre il problema della prigionia politica come ceto politico, senza capire che essa è parte del generale processo di emancipazione proletaria, quindi un portato della lotta di classe e risolvibile all’interno del decisivo ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi.
Come si vede quindi, né le forze rivoluzionarie né il proletariato hanno alcun interesse al progetto amnistia nel nostro paese e nelle condizioni attuali, se non quello di farlo fallire nel modo più deciso possibile.
Che cosa infatti poteva significare la tesi UCC sulla ricerca di un blocco sociale interessato ad una svolta sostanziale nella direzione politica della società che in blocco comprende più classi, se non l’abbandono di categorie marxiste che vedono nei paesi imperialisti solo il proletariato come classe sociale interessata non a una svolta sostanziale ma ad una vera e propria rivoluzione, che modifichi gli attuali rapporti di produzione, abbatta lo Stato borghese, instauri la dittatura del proletariato. Poteva significare solamente inseguire e dialettizzarsi con forze dell’estrema sinistra piccolo-borghese, come DP, forze interclassiste, su cui, per avere un’idea chiara, basta vedere il loro atteggiamento di sostegno alla dissociazione, di politica estera filo-imperialista, di disarmo della classe (rifiuto della violenza, ecc.).
Significa inseguire il movimento sempre più al ribasso, sino a concordare oggi per l’essenziale con le posizioni di “Politica e Classe”, che nel movimentismo e nel rifiuto della LA ha il suo fondamento.

Questioni “piene di buon senso”
Quali sono le questioni in apparenza “piene di buon senso”, anti soggettiviste, anti settarie ecc. che dapprima le UCC in modo ambiguo, e quest’area oggi in modo dichiaratamente revisionista propongono?
Prendiamo ad esempio le più significative: dapprima le UCC e poi quest’area insistono sulla svolta reazionaria avvenuta negli anni 80 nel nostro paese (che loro definiscono reazionario-moderata) e ad essa associano sia la crisi della sinistra istituzionale e dei vari movimenti riformisti (proletari e non) sia la crisi del movimento rivoluzionario, e nell’uscita da questa crisi vedono possibilità-necessità comuni tra la sinistra nella sua accezione più ampia (rivoluzionari e riformisti insieme), senza cogliere la diversa natura e gravità dei vari soggetti politici, confondendo così crisi tattica e crisi strategica.
Se è chiaro infatti che il processo di ristrutturazione imposto dalla crisi, ed il conseguente attacco subito dal proletario e della sua avanguardia rivoluzionaria nel nostro paese agli inizi degli anni 80, come ogni fenomeno economico-sociale, ha informato e ridefinito il ruolo delle varie forze sociali e politiche e dei vari partiti, e quindi vi è uno stretto legame tra questa situazione determinatasi e l’eventuale crisi della sinistra “nella sua accezione più ampia”, per dei rivoluzionari si tratta però di definire i motivi e la natura di questa crisi che per quanto riguarda il movimento rivoluzionario consideriamo tattica e dovuta all’incapacità di adeguarsi alle condizioni attuali, ma di contro strategica per quanto riguarda il partito comunista e le varie forze vecchie e nuove di stampo riformista e socialdemocratico, in quanto si è dimostrata impossibile ed utopica la loro strategia di via pacifica al socialismo nel nostro paese.
Con la crisi infatti sono crollate le illusioni borghesi di un capitalismo che sapesse garantire a tutti nei paesi imperialisti, seppur a scapito dei paesi del Terzo Mondo, il diritto ad una casa, un lavoro, a dei servizi decenti ecc.
È crollato quindi il modello del welfare su cui si basavano le social-democrazie europee e lo stesso PCI, in questa fase di crisi infatti l’intervento statale si attua sempre più a sostegno delle imprese private e deve per contro tagliare sempre più la spesa sociale.
La lotta “per gli asili nido, la lotta per la scuola di massa”, la lotta quindi pacifista e democratica di un polo progressista-riformatore, che con questa sua pressione intende modificare l’intervento dello Stato (senza mettere in discussione la sua natura di classe) si trova quindi di fronte al venir meno di un surplus che concedeva a queste stesse forze uno spazio di mediazione tra le esigenze della borghesia e del capitale e le esigenze immediate dei proletari nella fase di sviluppo economico. Su questa capacità di mediare si è infatti retta, e solo oggi inizia a sgretolarsi, la direzione dei partiti e sindacati riformisti sui movimenti di massa. La fine delle condizioni economiche che rendevano possibile questa mediazione coincide con la perdita di ruolo, credibilità e strategia di queste ipotesi riformiste, riducendosi, dove sono nell’area governativa a gestire in prima persona il taglio dell’occupazione, la ristrutturazione ed il taglio delle spese sociali (come ad esempio il partito socialista e quello comunista francesi), sia spostandosi sempre più a destra e sostenendo la politica dei sacrifici, le campagne antiguerriglia ecc. , o mantenendo una posizione “responsabile” come il partito comunista ed i sindacati in Italia, abbandonando quindi via via ogni idea di trasformazione socialista della società (seppur per via pacifica) come dimostrato dalle tesi del PCI.
Il venir meno delle possibilità di mediazione tra gli interessi borghesi e proletari e quindi la crisi strategica della sinistra riformista.
Come si vede niente a che vedere con la crisi tattica del movimento rivoluzionario che della crisi della sinistra riformista, al contrario, ha tutto da guadagnare.
Per dei comunisti non è possibile alcuna confusione a questo proposito (come pare faccia spesso e volentieri l’area politica che stiamo criticando), salvo ricadere nel peggior riformismo.
La crisi strategica della socialdemocrazia e dei partiti revisionisti va infatti analizzata con estremo interesse, non certo per aiutarli a superarla (cosa peraltro impossibile, in quanto essa, come abbiamo visto, ha origini oggettive, sulla base di precise leggi economiche nel rapporto di capitale), ma per cercare di acutizzarla e di denunciare alle masse l’impraticabilità del progetto revisionista, lavorando a scalzarne la direzione nei movimenti di massa. Oggi infatti, in presenza dell’enorme crisi e delle laceranti contraddizioni che attanagliano il PCI e la CGIL, illuderli di poter costruire alleanze con quella parte (cossuttiani, bertinottiani ecc.) che rendendosi conto della crisi di progettualità degli stessi e dell’abbandono totale sia delle richieste di socialismo (sia pur per via pacifica), sia il sindacato “conflittuale”, rilanciano l’ipotesi riformista degli anni passati (il PCI di Togliatti, o il sindacato anni 70), significa non capire come la crisi attuale stia proprio alla base degli impianti strategici di queste forze e sia proprio alla base del togliattismo e del sindacato anni 70, che trovava la sua legittimazione nelle capacità di mediare e contenere la conflittualità di classe.
Il referente e la posizione che i comunisti devono assumere di fronte a questa crisi non può essere quindi un’alleanza con gruppi politici e apparati burocratici “riformisti tradizionali” contro la destra del PCI o del sindacato (questi giochi li lasciamo fare all’onorevole Ingrao). Quello che invece ci deve interessare ed a cui bisogna lavorare è, da un lato, un lavoro dal basso (da ciò l’importanza di essere presenti con i propri militanti in tutte quelle organizzazioni di massa, seppur a direzione riformista e socialdemocratica, come i sindacati confederali in cui comunque le masse ancor oggi si riconoscono) per fare il massimo di chiarezza sulle origini di questa crisi e sull’improponibilità delle soluzioni proposte dalla cosiddetta “sinistra PCI o sindacale”, costruendo un ampio fronte dal basso su problemi concreti capaci di unificare nella lotta i vari proletari al di là delle tessere di partito di appartenenza, masse che solo nell’esperienza pratica quotidiana riusciranno sempre di più a verificare l’inconsistenza e l’inconseguenza dei gruppi revisionisti vecchi e nuovi; dall’altro, rappresentando dall’alto nel rapporto con i partiti, col governo e con le forze della borghesia la vera opposizione comunista attraverso una politica rivoluzionaria che inserendosi con puntualità e con decisione nella vita politica del paese e difendendo con intransigenza gli interessi di classe sappia rappresentare una valida alternativa alla crisi della sinistra.
Quando invece l’area del “realismo politico” propone alleanze ibride tra i vari rottami della estrema sinistra, con i cossuttiani, con DP, ecc., sostenendo che solo in questo modo è possibile ricostruire un’organizzazione rivoluzionaria adatta alla situazione attuale, in realtà non fa altro che creare un’ulteriore confusione, proponendo un cartello sotto il quale dovrebbero convivere le posizioni più disparate, forse accumunate da un solo odio comune, quello contro la LA per il comunismo.
Le motivazioni che costoro danno per il formarsi di tale cartello è la necessità di superare i limiti del settarismo, del minoritarismo, della subalternità politica, dell’avventurismo ecc.
Concordiamo senz’altro con loro sul fatto che questi limiti sono stati presenti più o meno in grande misura in tutte le forze del M.R. in Italia, ma non pensiamo certo che si risolvano associando le più svariate tesi, tantomeno scendendo a compromessi sul piano dei principi tra marxisti rivoluzionari e riformisti.
Come possono infatti convivere nella stessa struttura organizzativa forze che hanno tolto dalle proprie tesi la necessità della dittatura del proletariato, come ad esempio DP, forze che sostengono il social-imperialismo ed ancor peggio il processo di liberalizzazione dell’economia avviato recentemente in URSS, forze che negano il partito leninista o comunque che intendono rinnovarlo in modo da renderlo irriconoscibile, forze che sostengono l’ipotesi togliattiana del partito nuovo ecc., con forze rivoluzionarie?
Inoltre all’interno di queste stesse forze rivoluzionarie quante tesi, ipotesi ed orientamenti diversi esistono?
L’ipotesi quindi di unificare tutto questo in un solo cartello, unificato forse nel trovarsi d’accordo per mobilitarsi su singole questioni della lotta di classe, ci sembra una vera e propria follia, peraltro un dibattito per niente nuovo, ma già tentato più volte negli anni passati con risultati ogni volta catastrofici.
Pensare di risolvere i problemi prodotti dalla sconfitta tattica dell’ 82, ricostituendo il “movimento”, questo grande ombrello sotto cui possono convivere le più disparate posizioni è in ogni caso una tesi opportunista e revisionista che ha come conseguenza pratica lo sviare il dibattito dai temi propri dell’avanguardia comunista, primo tra tutti il ruolo centrale che assume la L.A. nella politica rivoluzionaria dei comunisti oggi. Ciò significa svilire e non comprendere il significato né del partito né della necessaria lotta politica che si deve fare nel costituirlo.
Prima di unificarsi i comunisti devono demarcarsi, confrontarsi sui problemi di tattica, di strategia ecc. L’unità dei comunisti infatti si può dare solo nel partito e significa il prevalere delle idee giuste su quelle sbagliate, unità tra le avanguardie più avanzate per esercitare egemonia su quelle più arretrate (non certo per scendere sul piano dei principi a compromessi con esse): quindi costituzione di un punto di riferimento generale.
Il fatto che oggi il punto di vista rivoluzionario possa essere minoritario e controcorrente, non modifica di una virgola il problema.
Pensare di risolvere questa situazione con i compromessi sopra citati, significa solo annacquare il punto di vista rivoluzionario e rimandare all’infinito la risoluzione dei problemi di fondo di questa crisi.

La riaggregazione dei movimenti di massa
In stretto legame con l’ipotesi del cartello quest’area sostiene che la riaggregazione rivoluzionaria si dà solo dopo una riaggregazione dei movimenti di massa.
Ancor più, in questo caso, ci si allontana dal leninismo, che ha sempre separato con estrema chiarezza il problema dell’aggregazione rivoluzionaria (decisione soggettiva) dall’aggregazione dei movimenti di massa, che da un lato ha leggi propriamente oggettive e che in modo durevole non può darsi che sul terreno politico, che non nasce certo spontaneamente dalle lotte. In questa ipotesi, da un lato la politica diventa secondaria, la riaggregazione intorno alla politica è messa da parte, la costituzione del partito, la definizione della strategia e della tattica necessaria per il processo rivoluzionario nel nostro paese, viene ricercata nelle espressioni spontanee delle masse. I comunisti invece di portare la coscienza dall’esterno e invece di adempiere al ruolo di direzione politica delle masse nel rapporto dialettico masse/partito/masse, vanno a cercare una soluzione ai problemi teorico/politico/organizzativi dell’avanguardia nel movimento spontaneo.
Secondo queste ipotesi i comunisti si troverebbero così a costituirsi in organizzazione rivoluzionaria in funzione dei flussi e riflussi della lotta di classe, invece di intervenire per lavorare alla riaggregazione dei movimenti di massa, attenderebbero di intervenire in funzione di questa avvenuta aggregazione.
Come si è visto un tale impianto si allontana sempre più dai principi del M.L. (che svende nel mercato della politica), come dalla più importante acquisizione di questi ultimi 20 anni : l’unità politico-militare nell’agire del partito. Coloro che dall’esperienza della L.A. arrivano ad adottare un’ipotesi di tale tipo non possono infatti far altro che utilizzare questa esperienza per imbalsamarla, sia in cambio di una mobilitazione di questa aggregazione di forze in favore dell’amnistia, sia come riconoscimento di lealtà “democratica e progressista” all’interno di questo cartello.
Cercare infatti di mettere insieme le forze più disparate impone questi scambi, inoltre in un tale progetto la L.A. non avrebbe alcun senso rivoluzionario, come infatti ha dimostrato l’esperienza UCC. Il venir meno dei principi ML, il cercare strane alleanze neo frontiste tra proletariato, ricercatori onesti e piccola borghesia rovinata dalla crisi, tenendo insieme all’interno della stessa organizzazione le posizioni più disparate, non può che portare da un lato all’avventurismo e ad una pesante sconfitta militare, dall’altro a rendersi conto che in un tale impianto sconfusionato e revisionista la L.A. diventa più un ingombro che altro.
Vediamo infatti (anche se era già chiaro da tempo) come nel numero 2/3 della rivista “Politica e Classe”, sia un raggruppamento di prigionieri, sia il contenuto della rivista insistono decisamente sulla necessità di considerare chiusa l’esperienza della L.A. nel nostro paese, per poterla tranquillamente storicizzare e renderla inoffensiva.
Un passo dei prigionieri ci sembra significativo a tale proposito:
“ Gli obiettivi di una simile svolta storica (si riferiscono all’abbandono della L.A.) sono il contribuire a rimuovere il ricatto della prassi emergenziale nei confronti dei movimenti di massa e rivendicativi e, al contempo, l’apertura di una più matura riflessione unitaria nella sinistra di classe tale da favorire l’incontro tra la nostra e le altre esperienze di lotta”.
Nelle prime appare chiaramente la presunzione e l’illusione ben poco materialistica che vede la fine dell’ “emergenza” o del ricatto emergenziale in relazione con la cessazione dell’iniziativa combattente nel nostro paese, ignorando completamente come l’emergenza sia la conseguenza di un patto sociale ormai irrimediabilmente interrotto, di quella mediazione tra interessi proletari e interessi borghesi che la crisi non rende più possibile.
Porsi come forza politico-operativa significa, per contro, articolare la proposta politica di fondazione del PCC sul piano della tattica, della politica congiunturale: analisi concreta ed indicazioni di massima sulle grandi questioni al centro dell’attenzione nella fase, come mezzi, ponti, per “agganciare” nuove avanguardie ed avvicinarle alla proposta di partito e, quanto meno, per allargare, approfondire le nostre capacità di conoscenza reale sullo stato del M.R. e della classe: sarà banale, ma non inutile, sottolineare l’importanza dell’inchiesta e della prassi politica (unità di teoria-pratica) come strumenti di interazione con la realtà. La conquista delle migliori avanguardie comuniste può darsi nella misura in cui si offre anche un punto di vista tempestivo ed articolato, convincente, almeno sulle grandi questioni di congiuntura e degli sbocchi politico-organizzativi che non siano solo quello finalistico della fondazione.
L’attacco al diritto di sciopero, le nuove proposte di legge anti-droga, la repressione contro i lavoratori stranieri, la pratica quotidiana dell’emergenza sia in fabbrica che nella società, sono per l’appunto la conseguenza di quella crisi economica che l’assenza dell’attività politica dei comunisti, che l’assenza della L.A. come asse centrale di questa attività, rendono più facilmente realizzabili, non certo il contrario.
Il ragionamento si fa più evidente e pienamente conforme a quanto da noi detto e da tanti altri compagni sostenuto, sia dall’apparire della proposta “amnistia di sinistra”, ovvero che i giochi in merito alla realizzazione della stessa, la dialettica aperta tra questa area di prigionieri e le forze della sinistra nella sua accezione più ampia non potevano che vertere su un assunto di fondo, la rinuncia alla L.A., che, come scritto nel testo sopra citato, serve appunto a favorire tale dialogo.
La proposta di riportare l’esperienza B.R. sul terreno “della lotta politica, aperta di massa” è l’asse portante che segna l’alleanza tra la sinistra e quest’area di prigionieri, che dimenticano facilmente ciò che loro stessi hanno spesso detto in questi anni, cioè che la L.A. è per l’appunto il modo che assume la lotta politica dei comunisti e pertanto che rinunciare alla L. A. significa proprio rinunciare alla lotta politica. Per l’occasione viene scomodato il parallelo esempio del “movimento de liberacion nacional-tupamaros” uruguaiano ed il suo riciclaggio come formazione politico-legale, dimenticandosi però di dire che tale formazione negli ambienti della sinistra rivoluzionaria uruguaiana è considerata una formazione revisionista e che recentemente, in un comunicato stampa, questa formazione ha dichiarato: “Il movimento di liberazione nazionale tupamaros ribadisce la sua decisione e volontà di convivenza pacifica, di lotta politica chiara per una democrazia piena e partecipativa“.
In questo contesto si inserisce altresì la proposta di raggruppamento dei prigionieri politici di sinistra in un solo carcere, come dicono gli stessi autori della proposta “senza discriminanti relative alla diversità delle posizioni politiche e giuridiche”. Il neo frontismo proposto all’esterno del carcere con tutti i vari gruppi revisionisti, viene riproposto all’interno del carcere in una grande ammucchiata neo corporativa, estremamente legata al progetto stesso di amnistia, teso all’ulteriore isolamento e differenziazione dei comunisti dentro le carceri creando invece per i cosiddetti “prigionieri politici di sinistra” , “ragionevoli” aggiungiamo noi, condizioni di privilegio nella detenzione e di maggiori spazi al fine di elaborare meglio la loro posizione di delegittimazione della L. A., e formando così un luogo fisico dove far confluire le nuove reclute di questo fronte.
Si tratta, come si vede, di un’operazione per niente nuova, se non per la fraseologia pseudo marxista che utilizza, ed il coinvolgimento di molti ex dirigenti del movimento rivoluzionario (ed è ciò che la rende estremamente pericolosa), operazione per niente nuova in quanto ripropone il vecchio minestrone riscaldato delle aree omogenee nel contesto di un carcere omogeneo, e ciò al di là delle varie enunciazioni sul non porre alcuna discriminante che, come la pratica insegna, varranno solo per le diverse sfumature dei vari soggetti portatori del progetto di liquidazione o storicizzazione della L.A. in Italia. Per contro, porterà all’interno delle carceri ad una maggiore differenziazione ed al peggioramento delle condizioni di detenzione verso tutti i proletari rivoluzionari che di tale progetto sono acerrimi nemici.
Come abbiamo visto seppur in modo schematico e per l’essenziale, la proposta politica “amnistia di sinistra” è una pura espressione di revisionismo ed opportunismo, sia per quanto riguarda gli assunti di fondo della teoria M.L., sia per quanto riguarda la sua azione politica concreta.
Il loro allontanarsi dai principi del M.L. li ha portati via via a sostituire gli interessi generali del proletariato con gli interessi particolari e perciò corporativi dei prigionieri, ponendosi così come ceto politico; a sostituire con il politicantismo e i compromessi senza principi, la tattica dei comunisti che concepisce le mediazioni solo se queste avvengono senza mettere in discussione i principi stessi; a sostituire il necessario lavoro di bilancio, valorizzazione e riorganizzazione dei comunisti a partire dall’esperienza rivoluzionaria degli ultimi venti anni con la proposta di unità dell’intera sinistra sia rivoluzionaria che riformista, ecc.
Lasciando in questo modo irrisolti tutti quei problemi, tutti quei nodi politici dalla cui soluzione solo può riprendere l’iniziativa comunista con una proposta che come abbiamo visto ben lungi dal risolverli, svia unicamente il dibattito conducendolo in un vicolo cieco al fondo del quale non si può fare altro che consegnare l’esperienza della L. A. ad uso e consumo dei revisionisti e riproporre se stessi in forma di partitino o organizzazione legale completamente impotente, insomma ricacciarsi in quel pantano da dove con duri sforzi e col contributo e la stessa vita di molti compagni, il movimento rivoluzionario, ed in particolare le B.R. , oltre 20 anni fa erano uscite.
Ma, se tale è la deriva opportunistica raggiunta da questa posizione, non di meno e proprio per sconfiggerla è necessario affrontare con chiarezza le questioni di fondo tuttora irrisolte del movimento rivoluzionario, che permettono in un certo qual modo il prevalere di queste posizioni revisioniste nello stesso.
Se infatti la chiave di lettura principale di queste posizioni si evidenzia nell’abbandono graduale dei principi M.L. e nella liquidazione/storicizzazione della L.A., si tratta allora per noi di cogliere le interconnessioni tra questi due elementi al fine di ridefinire un progetto ed un’ impianto politico rivoluzionario nel nostro paese.
La lotta armata e la questione dei principi
Un bilancio dell’esperienza di questi ultimi 20 anni ci dimostra che senza una solida base di principi non vissuti come dogma, ma come guida per l’azione, la L.A. e l’intervento dei rivoluzionari viene svilito, diventa incomprensibile e porta inevitabilmente alla sconfitta.
La L.A. senza questi solidi principi viene intesa come strumento di pressione contrattuale e come dimostrazione della propria, o come tante altre cose, tranne per quello che è, lo strumento centrale della politica rivoluzionaria comunista nella metropoli imperialista.
In una prima fase (quella che da più parti è stata definita fase della propaganda armata) la L.A. ha potuto evitare di affrontare sin da subito questo problema, in quanto segnava la rottura definitiva con l’eredità revisionista che aveva ormai imputridito i partiti comunisti dei paesi imperialisti usciti dal Comintern e diventava il vettore fondamentale, il mezzo di rappresentazione più efficace della determinazione di una nuova leva di avanguardia proletaria e ripercorrere la via rivoluzionaria, dava voce all’antagonismo proletario, ne amplificava la portata, ne esaltava i contenuti più avanzati, indicava uno sbocco politico e tracciava, pur faticosamente e tra molte contraddizioni, un percorso per porre di nuovo la questione del potere politico.
In questa fase quindi indubbio è stato il suo valore nel discriminare in modo chiaro tra il campo che si poneva conseguentemente la questione rivoluzionaria, ed il tempo “extraparlamentare” che scivolava via via nel parlamentarismo e nel pacifismo. All’interno di essa vi erano però diversi limiti teorici e deviazioni estranee all’impianto M. L., in particolare il peso di alcune influenze internazionali, come il guevarismo ed i tupamaros, determinava un fondamentale eclettismo teorico, e dall’altro l’influenza dell’operaismo. L’ibrida composizione del movimento rivoluzionario, la forte presenza di settori d’aristocrazia proletaria influivano su molte future degenerazioni. Tra le quali la stessa generale sopravvalutazione di lotte operaie che, per quanto radicali e massificate, erano ancora espressioni di un ciclo capitalistico espansivo e quindi di un’autonomia proletaria relativa. Sopravvalutazione che portava ad anticipare i tempi di una situazione rivoluzionaria ancora di là da venire ed a fare un grosso errore di soggettivismo. È il contesto stesso in cui matura la scelta della L.A. a spingere verso certe deviazioni. L’esigenza di farsi largo tra varie posizioni del M.R. determinava, in ultima istanza, una sua assolutizzazione. Così la L.A. diventava la principale discriminante (che, se necessaria, non era e non è per questo sufficiente), su cui si cercava il consenso e si aggregava: solo così si può capire il formarsi di un vero e proprio coacervo di posizioni politiche ed ideologiche dietro questa comune discriminante e le aperture verso formazioni europee che, pur praticando questo terreno di lotta, sono motivate da programmi e prassi molto diversi.
Il periodo di “accelerazione concorrenziale della fine anni 70”, senza dar risposta all’esigenza che la realtà imponeva di agire soggettivamente da partito, dopo aver agito oggettivamente da partito con la campagna di primavera ed il sequestro Moro, innescava anche nelle B.R. una spirale inarrestabile per cui l’aspetto militare prevaleva sempre più a scapito della complessità necessaria, nonché del rapporto con la classe, con cui pure si erano raggiunti buoni rapporti di dialettica.
Parole d’ordine come “la conquista delle masse alla L.A.” o “la guerra sociale totale” o “l’organizzazione del contropotere sul territorio” sopravvalutano la disponibilità delle masse che, per quanto radicalizzatesi nelle lotte, non erano certo sul punto di mettere conseguentemente in discussione la vivibilità nel MPC.
Al tempo stesso le organizzazioni non davano risposta a quella richiesta di direzione politica che dalle stesse masse emergeva. Il non aver saputo dare risposta a questa richiesta, il non aver saputo rapportarsi con la nuova situazione politico/sociale che da un lato lo sviluppo della crisi, e dall’altro la stessa esperienza di 10 anni di lotte operaie e proletarie e di L.A. dei comunisti nel nostro paese (soprattutto con la sconfitta del progetto di solidarietà nazionale) avevano creato, portarono alla sconfitta dei primi anni 80.
Con il dibattito apertosi in seguito nelle B.R., con la polemica sulla strategia della guerra di lunga durata, si rimetteva al centro della giusta dialettica tra le condizioni soggettive del processo rivoluzionario e condizioni oggettive, su cui non si può incidere e che esprimono caratteri diversi nelle fasi storiche, definendo le possibilità ed i limiti dell’iniziativa soggettiva. Cioè l’impostazione leninista, laddove definisce tre presupposti oggettivi fondamentali caratterizzanti una situazione rivoluzionaria e la concezione dell’insurrezione come punto di incontro eccezionale, all’interno delle tre precedenti condizioni, tra l’iniziativa politico/militare del partito e l’attività delle masse.
In altre parole l’aspetto militare prevale e diventa decisivo nella dinamica della lotte di classe solo in periodi relativamente brevi, mentre nei periodi non rivoluzionari, la L.A. assume un altro peso e significato.
Significato e peso di una più precisa e dialettica visione del processo storico che porta all’insurrezione, all’interno di una visione del processo rivoluzionario per tappe in cui va ribadita prima di tutto la centralità del partito e dell’impianto teorico M.L. che, soli, possono permettere la conduzione di un corretto rapporto avanguardia-masse e più in generale del processo rivoluzionario.
La necessità di riprendere il filo storico dei fondamentali principi M.L. è dimostrata proprio dalle ultime esperienze che ne hanno riconfermato in modo eclatante la validità e vitalità nei movimenti in cui essi ci permettono di basare scientificamente il processo di costruzione del proletariato in classe per sé, indipendente, cioè, ed armata ideologicamente, politicamente e militarmente, mentre il loro abbandono o travisamento riporta verso le più svariate deviazioni già sofferte in altri cicli di lotta.
Come abbiamo visto nell’ipotesi UCC ecc., questi principi non possono essere concepiti solo come statuto e, peggio, come materiali d’archivio, sorta d’icone da rispolverare di tanto in tanto, ma ben altrimenti come sostanza viva, scheletro e cuore intorno ai quali solamente può ricostruirsi l’organizzazione di classe rivoluzionaria. Nel loro insieme costituiscono un tutt’uno indivisibile, una visione unitaria, un contenuto ed un metodo che, attivati nella prassi politica, possono renderla più scientifica ed aderente alla realtà. Attivazione nella prassi politica significa il far vivere i principi in relazione alle mutevoli forme del M.P.C. alle sue particolarità storiche e geografiche, ben tenendo presente che, per quanto mutate e “complessificate”, queste rimangono forme di un contenuto immutato da quanto esiste il M.P.C.
In questo senso i principi (come fissazione dei nessi economico/politici del M.P.C. nel loro divenire storico e nel processo del loro superamento e come fissazione del relativo processo politico di accelerazione e direzione di questo processo), rimangono la chiave di lettura fondamentale ed imprescindibile, capace di centralizzare, omogeneizzare e unificare le avanguardie delle più disparate e lontane situazioni di classe contro la puntuale tendenza centrifuga e disgregatrice insita nella prevalenza delle forme particolari e specifiche di singole esperienze, per quanto di vasta portata. Proprio perché essi costituiscono la lettura profonda della nostra epoca, nel suo divenire, la loro mediazione con una realtà specifica e parziale non può mai essere che “dall’alto in basso”.
La tattica da praticare non è neutra, indifferente, ma organicamente legata alla nostra visione del processo storico rivoluzionario, dunque discende dai principi. Solo ponendosi su questo terreno si può affrontare, seppure con i dovuti rischi, il campo della tattica: con sufficienza chiarezza sui risultati che si vogliono ricavare dalla situazione particolare, per consolidare il percorso strategico. Significa subordinare in via di principio e nella pratica l’iniziativa politico/militare di congiuntura agli obiettivi strategici, verificare costantemente la compatibilità di iniziative locali o parziali con la finalità massima, raccogliere i risultati politici in vista di quest’ultima.
Generalmente lo scadimento verso deviazioni “tatticistiche” si dà nel momento in cui questa finalità massima, questi obiettivi strategici, pur formalmente riconosciuti, vengono accantonati lasciando il posto centrale alla campagna congiunturale di turno, i cui obiettivi e caratteristiche finiscono per informare gli sviluppi successivi della forza politica che se ne fa carico, in una spirale auto-alimentantesi.
Il bilancio ampiamente svolto in questi anni della recente esperienza italiana, la sua collocazione dentro la tradizione del movimento comunista internazionale (MCI), la sintesi operante per ricavarne i contenuti validi e generalizzabili, oltre lo specifico periodo della sua esistenza, ci hanno condotto alla riconferma ed alla ripresa dei principi M.L., coniugandoli all’unica fondamentale “innovazione” costituita dalla forma combattente del partito.
Questi principi vertono attorno ad una precisa visione della crisi generale storica del M.P.C., ed i suoi passaggi obbligati per il proletariato ai fini della fuoriuscita dal M.P.C. stesso: costituzione in classe per sé, partito, presa del potere politico, dittatura proletaria.
Porre al centro questi principi significa che ad essi deve riferirsi il risultato di qualsiasi soluzione tattica, dell’agire congiunturale, che ovviamente si sostanzia di parole d’ordine parziali, del fare politica in generale.
L’ordine di priorità/subalternità stabilito tra principi e tattica, tra principi e politica rivoluzionaria, dipende dalla scelta a monte che ogni forza politica fa e, gli esempi non mancano, le varie deviazioni nascono già nell’impianto teorico, di principio, a monte. Lo stesso riconoscimento formale dei principi M.L., seguito dal loro accantonamento, è la realtà scelta di altri obiettivi centrali, che poi finiscono gradualmente per esautorare totalmente anche quel simulacro di principi formali.
Ed in questo abbandono dei principi si trovano infatti sia coloro che negano la LA, sia coloro che la propongono come strategia. Entrambi, infatti, negano il ruolo politico della LA, negano la necessità di fare politica per il partito nella fase non rivoluzionaria, riproponendo una vecchia deviazione della sinistra comunista italiana degli anni 20 a proposito della partecipazione al parlamento, sostenendo che o la situazione è rivoluzionaria, e allora i mezzi legali sono inutili, oppure la situazione non è rivoluzionaria e quindi la stessa partecipazione al parlamento è inutile in quanto il partito non si pone sulla scena politica come forza agente e che la determina in prima persona, ma si limita alla propaganda teorica ed alla formazione dei propri militanti.
Questa tesi aspramente combattuta e sconfitta da Lenin e dalla Internazionale Comunista, come si vede ci viene riproposta oggi in relazione alla L.A. Noi al contrario pensiamo che il partito comunista deve fare politica sia nella fase rivoluzionaria sia in quella non rivoluzionaria, utilizzando ogni forma di lotta in rapporto ai livelli politico istituzionali del paese ed a livello di conflittualità e di autonomia di classe espressi nella realtà al fine di rappresentare gli interessi di classe nella scena politica determinata, scompaginando i progetti della borghesia, orientando e facendo crescere la coscienza di classe nei movimenti di massa, e aprendo spazi crescenti all’autonomia proletaria.
La L.A. quindi come azione politica del partito che contribuisce a scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendone problematica l’attuazione, evidenziando ed acutizzando le contraddizioni del fronte borghese, individuando il progetto borghese che assume la valenza di nemico principale in quella congiuntura, al fine di farlo fallire e realizzare l’interesse congiunturale della classe, aprendo spazi all’autonomia proletaria ed elevando la consapevolezza delle masse dalla lotta difensiva, alla capacità offensiva, in un rapporto costante con l’agitazione/propaganda che svolge “dal basso” con la presenza dei suoi militanti nei movimenti di massa.
Il PCC quindi, come un qualsiasi partito, entra nell’arena politica e nella vita del paese per come essa è, e non come ci piacerebbe che fosse, gradua quindi il combattimento ed il suo agire complessivo in funzione della situazione reale come si presenta e degli obiettivi politici che il partito si pone in funzione di questa ultima analisi della realtà, che per non cadere nel politicantismo devono però essere sempre legati alla sua linea politica ed alla sua strategia. La critica al soggettivismo e la sconfitta del neo revisionismo rinascente, la sconfitta delle varie ipotesi di liquidazionismo e storicizzazione della L.A. in Italia, sono parte integrante e non rinviabile del percorso alla costituzione del PCC, in quanto la dialettica marxista ci insegna che le posizioni giuste si affermano solamente combattendo quelle sbagliate.
A partire da questi assunti di fondo, la validità dei principi M.L., la L.A. come asse centrale della politica rivoluzionaria, la necessità oggi di costruire il partito, va allora affrontato il problema tra comunisti per uscire dalla crisi del movimento rivoluzionario, solo questa è la base di partenza di ogni dibattito che non voglia cadere nell’opportunismo, ricercando improbabili alleanze con riformisti, confondendo così la necessaria unità dal basso nei movimenti di massa, con l’unità tra proposte politiche differenti. Si tratta allora di dedicare tutti gli sforzi e tutte le energie per questo scopo, da un lato approfondendo tutti gli aspetti teorici e programmatici relativi, definendo quindi: linea politica, linea di massa ecc., attualizzando l’analisi economica sulla società, capendo quali siano i cambiamenti veri, per esempio nella composizione di classe, e quali le apparenze, ecc. Dall’altro ricostruendo presenza, rapporti, strutture logistico/organizzative che permettano al partito di agire come tale.
Senza questi cambiamenti obiettivi, indipendenti dalla volontà, non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti obiettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche rivoluzionarie in occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché?
Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni obiettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si farà cadere”.

Nota 1) Lenin ha affrontato in diversi testi il problema della definizione della “situazione rivoluzionaria” la citazione che noi riportiamo è tratta da: (il fallimento della seconda internazionale), Opere, vol. 21, Editori Riuniti
“Per il Marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Certamente non sbagliamo indicando i tre sintomi principali seguenti: 1) l’impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificare la forma; una qualche crisi negli “strati superiori”, una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che (gli strati inferiori non vogliano), ma occorre anche che (gli strati superiori non possono) vivere come per il passato; 2) un aggravamento, maggiore del solito, della angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento della attività delle masse, le quali, in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi (strati superiori), ad una azione storica indipendente.

PER IL DIBATTITO NEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO EUROPEO

Nel marzo 82 il PCE(r) – Partito Comunista di Spagna (ricostituito) – ha pubblicato un opuscolo intitolato: “Textos para el debate en el movimiento revolucionario europeo” che ci fornisce una buona occasione per esporre il nostro punto di vista su alcune questioni importanti, per evitare confusioni con linee e pratiche politiche di altre organizzazioni europee, e per fornire elementi di dibattito al movimento in Italia ed in Europa, in vista di una ripresa della iniziativa rivoluzionaria nella situazione presente.

1
Il contenuto dell’opuscolo
L’opuscolo si divide in tre parti. Nella prima (in tre articoli dell’85/86) il PCE(r) esprime il suo punto di vista sugli argomenti del partito e della lotta armata. Nella seconda (in tre articoli dell’85/87 il PCE(r) svolge una polemica mirata contro la politica del c.d. “fronte antimperialista” ed in particolare contro la RAF. Nella terza parte sono pubblicati un articolo di F. Oriach (85), uno delle CCC belghe (85) ed due articoli di Azione Proletaria (Germania Occidentale) dell’85 e 86, articoli che i compagni spagnoli ritengono in sostanziale accordo con la loro posizione.
Ci soffermeremo sulla prima parte, dato che le altre due presentano un minore interesse ai nostri fini. Quindi cercheremo di sviluppare il più chiaramente possibile il nostro punto di vista.
Fin dalla breve prefazione viene posto in evidenza che per i compagni spagnoli la strategia della guerra di lunga durata costituisce uno degli assi portanti intorno a cui realizzare momenti essenziali di unità all’interno del movimento rivoluzionario in Europa. Sempre nella prefazione si chiarisce che ad avviso dei compagni spagnoli, l’obiettivo della insurrezione va inserito entro la strategia della Guerra di Popolo di Lunga durata (pagg. 3 e 4). Su questi temi concentreremo essenzialmente la nostra attenzione.
Il primo articolo, del novembre 86, è costituito da un attacco contro l’articolo di un certo P.B. Becker pubblicato dall’organo del MRI (in Italia nel 1985) con il titolo: “La falsa via della guerriglia urbana in Europa Occidentale”. Nel punto 2 di questa nota esamineremo particolarmente l’argomentazione contro Becker. Ora ci interessa soprattutto evidenziare quanto emerge da questo articolo sulla concezione propria dei compagni spagnoli della lotta armata.
A p. 5 si afferma che il dibattito/polemica in corso negli ambienti rivoluzionari dell’Europa Occidentale coinvolge in modo crescente operai, studenti e altri democratici a causa della persistenza e grande estensione del c.d. “fenomeno terrorista”, e cioè della incapacità degli Stati imperialisti di annientare il movimento di resistenza popolare che si innalza da ogni parte contro i loro mezzi di sfruttamento ed oppressione.
Ciò vorrebbe dire che da ogni parte si sviluppa (nov.86) la lotta armata (il c.d. “fenomeno terrorista”) come manifestazione di resistenza popolare allo sfruttamento ed all’oppressione, coinvolgendo l’interesse crescente di operai, studenti ed altri democratici. Sviluppo della L.A. che gli Stati imperialisti non riuscirebbero ad annientare.
Due osservazioni: che la L.A. in Europa Occidentale abbia mai avuto (dopo la fine della resistenza partigiana) il carattere di una resistenza democratica allo sfruttamento e all’oppressione, è una pura invenzione. Che a parte ciò, la L.A. in E.O., nel novembre 86 ed a tutt’oggi si stia innalzando da ogni parte, è una pura fantasia. Se la seconda affermazione (quella dello sviluppo da ogni parte della L.A. nei nostri giorni) fa parte di una ben nota retorica trionfalista, sulla quale non merita soffermarsi, la prima affermazione, quella sul carattere della L.A. in Europa di lotta di operai, studenti e altri democratici contro lo sfruttamento e l’oppressione, ci sembra importante perché estremamente caratteristica delle posizioni dei compagni spagnoli che assumono, come in seguito vedremo confermato, che la L.A. in E.O. è una continuazione della resistenza antifascista (che ha degli obiettivi suoi propri, di necessità, distinti da quelli del partito comunista).
Nel secondo articolo (marzo 85, scritto dai prigionieri di Soria), si afferma esplicitamente (in questo contesto si parla particolarmente della Spagna) che il conflitto odierno fra masse popolari e Stato è la continuazione della distruzione da parte del fascismo del potere popolare nel 1936 (p.17) e che la strategia della guerra di popolo di più lunga durata (inaugurata in Spagna negli anni 70) è una continuazione della esperienza della lotta quotidiana del movimento rivoluzionario da quando il fascismo si è imposto con le armi (p.18). (Nell’Italia del secondo dopoguerra si sarebbe parlato di una visione politica tipo quella della Volante Rossa o, negli anni 70, di una visione politica tipo quella dei Gap/Feltrinelli).
Questa conclusione è coerente con quanto si dice del “blocco sociale” su cui poggerebbe oggi il processo rivoluzionario in Spagna. Pag.21: “tutti quei settori della popolazione che oggi si scontrano col fascismo e lo sfruttamento monopolistico, difendendo i propri interessi di fronte al fascismo e al monopolismo… i contadini, i piccoli commercianti, i settori popolari delle nazionalità oppresse dello Stato spagnolo, gli intellettuali democratici e progressisti e la gioventù lavoratrice e studentesca, le donne lavoratrici e le grandi masse popolari, insieme alla classe operaia…”.

È naturale che la contraddizione principale avendo oggi questo carattere, sia su questo terreno che, secondo i compagni spagnoli, si legittima il più alto livello di antagonismo, quello espresso dalla lotta armata. Pag. 25 “In Spagna il carattere fascista del regime monopolista, imposto con le armi al popolo nel 39 e mantenuto col terrore per più di 40 anni, ha legittimato l’uso della lotta armata rivoluzionaria, come complemento essenziale del movimento di massa; grazie a questa lotta violenta il movimento popolare ha potuto e può svilupparsi e avanzare verso la conquista dei suoi obiettivi.” Vale la pena di sottolineare che recentemente, anche in Italia, specialmente da parte della UCC, una tesi sul “blocco sociale” e sul carattere di “basso profilo” della iniziativa politica “rivoluzionaria” nel nostro paese, sono state più o meno chiaramente avanzate. Nella nota precedente abbiamo cercato di disegnare il quadro politico generale in cui queste posizioni si sono venute collocando. Infine nel terzo articolo (del febbraio 86, sempre dei prigionieri di Soria), si affronta tematicamente la questione del rapporto fra politico e militare.
Fin dalle primo righe dell’articolo (pag.33) emerge il concetto fondamentale, pienamente coerente con tutto quanto esposto: “la forma superiore di organizzazione politica del proletariato rivoluzionario è il Partito Comunista.
Ad altro livello si trova la organizzazione militare che, nella sua forma attuale di guerriglia urbana, gioca un ruolo di prima importanza nel Movimento Politico di Resistenza delle grandi masse operaie e popolari.” Subito dopo si aggiunge che il Partito deve esercitare un ruolo di direzione politica sulla guerriglia. Dal che deriva la netta distinzione fra il politico (ruolo del Partito) e il militare (ruolo delle organizzazioni del Movimento Politico di Resistenza).
Ma cos’è questo M.P.R.? qui l’analisi dei compagni spagnoli estende a tutta l’Europa Occidentale gli elementi già identificati per la Spagna. Infatti (pp. 35/36): “Ciò che è più caratteristico di questo nuovo movimento rivoluzionario che si estende per tutta Europa è di aver acquisito la forma di Movimento Politico di Resistenza: una combinazione originale di movimento di massa e azioni guerrigliere che sono fra loro complementari e che di giorno in giorno confluiscono sempre più l’uno nell’altro…”. Questo movimento ha imposto “metodi di lotta violenti, scioperi radicali, manifestazioni fuori dal controllo dei sindacati e partiti riformisti, picchetti per estendere la lotta e il sabotaggio, la disobbedienza civile e altri tipi di resistenza…”
“In questa situazione generale si sviluppa la lotta armata nella forma della guerra di guerriglia, di piccoli gruppi o distaccamenti di combattenti che mettono in scacco più di una volta il potente Stato dei monopoli.” La tesi della continuità fra le forme di violenza di massa e la L.A. è palese ed applicata a tutta l’Europa Occidentale.
Pag. 38: “Guerra di lunga durata e insurrezione sono due concetti complementari che non si escludono.” “Possiamo dire che la nostra rivoluzione passerà per due fasi: quella della difensiva strategica, dello sviluppo della guerra di popolo di lunga durata, e la fase della insurrezione.” “Poiché (p.42)”la guerra di guerriglia è una forma di guerra civile che, per quanto larvata, è presente e matura. Dunque la guerra civile è in atto – una guerra civile antifascista, in tutta Europa. Questa sarebbe l’analisi dello stato attuale del conflitto di classe. Dall’esempio spagnolo (PCE-r e GRAPO) si ricaverebbe la regola generale che il partito deve dirigere politicamente (ed in certa misura, anche militarmente) organizzazioni guerrigliere che si costituiscono a livello di massa, esprimono la contraddizione tra il popolo e il fascismo e (e si spera) si pongono all’orizzonte l’obiettivo del Governo Democratico Rivoluzionario (come previsto dal programma minimo del Partito del 1975). La distinzione fra il politico e il militare non è perciò solo una questione di funzioni, ma di livello politico diverso su cui si pongono da una parte il partito, dall’altra le organizzazioni della guerriglia. Si tratta molto di più di una teorizzazione della distinzione fra partito e suo “braccio armato”, stante che la organizzazione armata si costituisce su obiettivi politici che le sono propri e non si identificano con quelli del partito. Che a questa “teoria” corrisponda poco la realtà, lo confessano gli stessi compagni, quando dicono (p.45): “fino ad ora, il maggior numero di adesioni alla guerriglia è provenuto dalle file del PCE(r) e, in minor misura da altre organizzazioni democratiche antifasciste.” Ma, tant’è. Questa teoria dovrebbe interpretare il movimento rivoluzionario in tutta Europa.
Questo il contenuto della parte principale dell’opuscolo. Il secondo e terzo articolo si trovano in italiano rispettivamente a p.173 e p. 289 del volume “Dalla Spagna la voce del PCE(r) e dei GRAPO” – Maj Editore – Milano 1987.
La nostra numerazione delle pagine si riferisce alla edizione spagnola. Ugualmente dei tre articoli contro la RAF, due si trovano tradotti nel libro ora citato, rispettivamente a p. 263 e p. 317 (quest’ultimo in versione un po’ differente).

2
La questione fondamentale
I documenti del PCE(r) polemizzano essenzialmente contro due diverse posizioni: da una parte contro la posizione dello emmellismo più stantio che attribuisce significato strategico alla L.A. e nella sola forma dell’insurrezione nella situazione rivoluzionaria e nei paesi del centro imperialista, o nella successione “lotta armata delle masse – insurrezione” nei paesi della periferia, e nega di conseguenza ogni ruolo alla L.A. nella situazione non ancora rivoluzionaria. Il riferimento attuale è al MRI (più che al PCP peruviano di cui il MRI si pretende espressione, non si sa con quale legittimità); da un’altra parte nei confronti degli “antimperialisti” europei, per i quali la L.A. ha un valore strategico anche nella fase non rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che non è più e non sarà probabilmente mai più quella di classe. Il riferimento principale è alla RAF.
Il PCE(r) intende affermare (con i richiami alle posizioni di Oriach, delle Cellule Comuniste Combattenti –CCC– belghe e di Azione Proletaria):
1) che la L.A. ha attualmente in Europa un significato strategico nella fase non ancora rivoluzionaria, come espressione di una contraddizione che tende ad identificarsi con la contraddizione di classe.
2) che essa di fatto da diversi decenni si manifesta come momento avanzato della lotta contro il fascismo, lotta della quale il conflitto di classe è il momento centrale, benché coinvolgente strati popolari più ampi che non il proletariato in senso stretto.
A nostro parere sono errate, su questo punto, sia le posizioni del PCE(r) che quelle del tipo MRI o del tipo RAF. La nostra posizione su questo tema è, da molti punti di vista importanti, diversa e l’occasione fornita dalla pubblicazione dei “Textos” ci sembra utile per metterla in chiaro.
Giustamente i compagni del PCE(r) attaccano duramente l’articolo di Becker pubblicato dalla rivista del MRI nel 1985. L’emmellismo “stantio” (a prescindere dai dubbi sull’onestà politica e personale di Becker) si è andato caratterizzando in modo netto da ormai un ventennio, e con le sue caratteristiche tipiche è ben riflesso nell’articolo in questione.
Si tratta di quanto segue: a) contrapposizione corretta alla propaganda revisionista nei confronti delle masse, in merito a possibilità/necessità della instaurazione del socialismo, carattere necessariamente violento del processo rivoluzionario, necessario coinvolgimento delle grandi masse proletarie in questo processo; b) ma, d’altra parte, abbandono, implicito od esplicito, causa di gravi violazioni di questioni e di drammatiche inefficienze, dell’insegnamento leninista circa la necessità per il partito comunista di fare politica in prima persona (ed a prescindere dall’indispensabile opera di propaganda, agitazione e organizzazione tra le masse) anche nella fase che precede la situazione rivoluzionaria, nella quale ultima lo scontro di classe assume tendenzialmente la forma insurrezionale. Poiché in effetti le iniziative di carattere offensivo (ma anche difensivo) dei comunisti rivoluzionari in Europa, in questa fase storica, hanno assunto la forma della lotta armata, questo abbandono ha significato, da parte degli emmellisti stantii, essenzialmente il rifiuto della L.A. e della organizzazione clandestina del partito.
Non stiamo qui a discutere quale nesso ci possa essere tra questo emmellismo “stantio” del MRI e la teoria e la pratica del PCP a cui si richiamano. Questo è un problema che riguarda essenzialmente il PCP, e chi vivrà, vedrà. Intendiamo chiarire che il modo in cui i compagni del PCE(r) criticano l’articolo di Becker (e l’emmellismo stantio del MRI), a nostro parere, è fuorviante.
Becker afferma che la L.A. in Europa negli anni 70 non è stata espressione delle masse proletarie, ma di gruppi della piccola borghesia, e pone questa “constatazione” alla base della condanna di questa esperienza (ancor più se riferita agli anni 80). I compagni del PCE(r) rispondono sostenendo che la lotta armata degli anni 70 (e oggi) in Europa è stata espressione delle masse popolari (con al centro le masse proletarie), contro la continuità fascista dei regimi della borghesia europea, dopo la seconda guerra mondiale.
Naturalmente il loro riferimento particolare è alla Spagna, ma come abbiamo visto estendono questa interpretazione a tutta l’E.O. Noi riteniamo che questa interpretazione sia sbagliata. È senz’altro vero che la resistenza antifascista armata in Europa fino alla II guerra mondiale è stata espressione popolare, e principalmente proletaria e che questa realtà nella Spagna franchista ha avuto una propria continuità fino a metà degli anni 70 (come in Grecia e Portogallo). È anche vero che le divaricazioni interne ai partiti comunisti rispetto al problema della portata della L.A. antifascista ed al seguito da dare alla politica dei “fronti popolari” dopo il VII congresso del IC, sono stati elementi importanti nel dibattito per la formazione delle avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. Ma è arbitrario stabilire una continuità senza soluzione, fra la L.A. antifascista (la resistenza) e la L.A. dell’avanguardie comuniste combattenti degli anni 70 in Europa. E ciò in modo particolare per quanto concerne l’Italia. Innanzitutto per quanto riguarda gli obiettivi. Le avanguardie comuniste armate degli anni 70 in Italia hanno avuto fin dall’inizio avanti a sé chiaro l’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese e si sono qualificate per organizzazioni rivoluzionarie comuniste e non genericamente antifasciste, nelle componenti più importanti (BR) esplicitamente dirette a costituirsi in partito comunista e combattente. Non può essere messa in discussione la partecipazione di significativi strati di massa, basterebbe fare riferimento a quantità e qualità sociale degli arrestati. Ovviamente non è particolarmente rilevante, per il problema che qui ci interessa, la questione del numero in assoluto. La tesi del carattere “antifascista” (o non) di questo ciclo di lotte non si risolve attribuendogli (o non) un carattere più o meno vasto di massa. Quello che ci interessa è di evidenziare la qualità politica offensiva espressa dalle avanguardie rivoluzionarie e dalle avanguardie comuniste, come parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti. Dove Becker sbaglia (in buona o cattiva fede) non è nel giudizio sul carattere più o meno di massa della L.A. degli anni 70, ma nel non riconoscere il carattere che essa ha avuto di parte integrante della lotta politica del partito dei comunisti, quanto meno da parte delle avanguardie comuniste che si muovevano in una prospettiva offensiva, in contrapposizione all’immobilismo impotente dell’emmellismo “stantio” di cui egli si fa portavoce. Negli esempi non solo della Spagna, ma anche della Grecia e del Portogallo, dove la L.A. “resistenziale” antifascista si è prolungata fino a metà degli anni 70, dopo la caduta dei regimi di Franco, Caetano e Papadopulos, le forze combattenti antifasciste hanno avuto la più grande difficoltà a riconvertirsi nei loro obiettivi politici ed anche nei loro metodi di lotta. In Italia, non a caso, esperienze come quelle dei GAP degli anni 70, si sono dissolte in quanto proposte politiche, di fronte alla maturazione delle nuove esperienze delle avanguardie rivoluzionarie che andavano formandosi. La soluzione semplicistica dei compagni spagnoli, per i quali nulla è cambiato dopo Franco e tutto continua come prima, ci sembra inaccettabile ed incapace di dare frutti concreti. Non è verosimile dire che Gonzales e Franco, Soarez e Caetano, Papandreu e Papadopulos sono la stessa cosa. Come era assurdo dire che Adenauer e Hitler, De Gasperi e Mussolini, erano la stessa cosa nell’immediato secondo dopoguerra. Gli strumenti di governo sulle masse, beninteso negli interessi di classe di sempre, cambiano (fra la repressione più pura, la manipolazione del consenso, la depoliticizzazione di massa, ecc.) e di conseguenza le forme politiche del dominio di classe, della resistenza di classe, della offensiva rivoluzionaria di classe, cambiano anche essi.
Dopo la caduta dei regimi fascisti in Europa, la resistenza armata antifascista ha perso di senso, e la L.A. ha assunto un nuovo senso come strumento decisivo (non come unica espressione dell’attività del partito, ma come fondamentale discriminante fra rivoluzionari ed opportunisti) dei partiti dei comunisti rivoluzionari nella lotta per il socialismo ed il comunismo. Questa differenza è oggi essenziale. Milagros Caballero dei GRAPO (la organizzazione che conduce la lotta armata oggi in Spagna sotto la direzione politica del PCE(r)) dice (al suo processo a Parigi il 21.5.87): “L’organizzazione (GRAPO) non ha un’ideologia definita. Essa è composta di comunisti, anarchici, democratici, antifascisti” (Bollettino dei Comitati contro la Repressione n. 28). Attribuire alla L.A. questa dimensione politica (il che non vuol dire ovviamente, disarmare le masse) comporta di privarla oggi del suo ruolo decisivo di strumento della lotta politica di partito. Altra questione è quella posta dalla L.A. di ETA e IRA, che in un quadro di lotte di liberazione nazionale, ha effettivamente carattere di massa, e che pone problemi che qui non possono essere sviluppati e per i quali rimandiamo ad altra occasione.
Più incisivi sono i compagni del PCE(r) nella loro polemica con il “fronte antimperialista” ed in particolar modo con la RAF. Nell’insieme ci sembra corretta la critica al concetto di “sistema unificato” (gesamtsystem) dell’imperialismo che caratterizza la RAF. Del pari corretta la critica all’estremismo soggettivista degli “antimperialisti”, per i quali ogni contraddizione di classe nel centro metropolitano si riduce alla inimicizia insanabile fra i soggetti coscienti (quale che sia la loro collocazione sociale) e la macchina criminale del sistema unificato dell’imperialismo. Questa concezione ha fatto strada anche in Italia, dopo la disgregazione delle principali organizzazioni combattenti, presso quei militanti che non hanno ceduto alla tentazione della resa, ma che non hanno saputo ridefinire il ruolo della avanguardia comunista nel contesto di una analisi di classe del presente momento storico. È tipico che questo estremismo soggettivista abbia avuto origine in Germania (non per nulla con echi in Francia dopo il disfacimento della “Sinistra Proletaria”, naufragata proprio sullo scoglio della L.A.), dove la tradizione comunista era stata brutalmente sradicata dal nazismo e dal postnazismo (comunismo=pericolo di aggressione da Est), e dove la ricerca di una decente identità nazionale occupa dal dopoguerra in vari strati di piccola borghesia e di proletariato privilegiato, una posizione “ideale” più o meno esplicita, privilegiata rispetto alla ricerca di una identità di classe. Così lo sdegno contro gli elementi di continuità nazista e contro la integrazione della Germania nel quadro dell’imperialismo americano (fatti strettamente legati fra loro) si costituiscono in “coscienza rivoluzionaria radicale” con riferimento al conflitto Nord/Sud. La L.A. in questo contesto vuole essere esempio destinato ad espandersi nel quadro di un “fronte”, esplicitamente neutrale rispetto a prospettive ideologiche più determinate eventualmente patrimonio delle sue componenti. La estrema semplificazione del meccanismo di identificazione degli obiettivi che questa concezione della L.A. comporta, la assenza di qualsiasi esigenza di verifica nel movimento di classe, la varietà delle possibili forme organizzative che consente (come, nell’insieme, i compagni del PCE(r) notano giustamente) avvicinano queste esperienze più a quelle dell’anarchismo rivoluzionario che a quelle del comunismo. Si spiega così la estensione di questo esempio fra i compagni dispersi delle OCC in Italia dopo la sconfitta dell’82,che hanno rifiutato la prospettiva della resa, ma hanno abbandonato l’analisi M.L. della realtà senza fare i conti col soggettivismo. Per noi questo orientamento è completamente fuorviante e dovrà essere riassorbito, in senso marxista, solo da una riaffermazione nei fatti delle prospettive di una iniziativa comunista, essendo altrimenti destinato a stagnare endemicamente nell’area del ribellismo destinata ad estendersi nella società borghese in disfacimento.

3
Sintesi della nostra posizione

La nostra concezione della lotta armata è dunque diversa. Per noi non si può parlare di significato strategico della L.A. in se stessa, in quanto la strategia dei comunisti si definisce nell’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese, della istituzione dello Stato della dittatura proletaria per la costruzione del comunismo, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe, delle quali la prima tappa nel nostro paese è la rivoluzione proletaria condotta attraverso la L.A. delle masse contro lo Stato della borghesia, nella fase rivoluzionaria. La lotta armata delle avanguardie comuniste, nella fase che precede la situazione rivoluzionaria (fase che può durare più o meno a lungo) ha un carattere marcatamente diverso ed attribuirle un carattere strategico, non significa praticamente nulla. Non si tratta della L.A. delle masse proletarie (sempre non nel senso della quantità, ma del livello politico), benché nessuno ignori che esistono livelli di violenza spontanea delle masse (che come abbiamo visto per es. i compagni del PCE(r) confondono deliberatamente con la L.A. delle avanguardie) la cui importanza non può essere sottovalutata. Si tratta della lotta armata del partito ed ha come obiettivi propri gli obiettivi che caratterizzano la lotta politica in generale del partito nella fase che precede la fase rivoluzionaria. Cioè scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendo più acute le contraddizioni che la attraversano al di là di qualsiasi intervento soggettivo, rendendo più o meno inefficiente l’uso della macchina statale (il che non dipende dal volume di fuoco, ma dalla qualità politica del combattimento); orientare, dirigere ed organizzare il movimento di massa in qualunque forma esso si esprima, ed in definitiva aprire spazi alla crescita dell’autonomia proletaria. Contribuendo così (insieme alla attività di propaganda, agitazione ed organizzazione fra le masse) alla maturazione di quegli elementi soggettivi che andranno costituendo una delle componenti determinanti della situazione rivoluzionaria. L’abbattimento dello Stato borghese, nel senso leninista di distruzione della macchina statale della borghesia (vedi Lenin di “Stato e rivoluzione”), nei paesi del centro imperialista, non può essere realizzato, nella fase rivoluzionaria, che attraverso la lotta armata delle masse proletarie dirette dal partito e non può avere altro scopo che quello della sua sostituzione con lo Stato della dittatura proletaria.
La concezione che attribuisce un significato strategico alla L.A. in sé e per sé, tende a cadere nel vero e proprio “terrorismo”, avente per scopo quello di creare disordine, con l’inevitabile risultato di aprire spazi di credibilità alle ipotesi più autoritarie. Le grandi masse non chiedono disordine, ma una nuova organizzazione sociale. Le grandi masse, anche proletarie, di fronte al puro disordine, rischiano di farsi mobilitare in senso reazionario. La L.A. del partito, nella fase non rivoluzionaria, è quindi finalizzata, nei paesi imperialisti, al conseguimento di obiettivi politici determinati, che naturalmente mutano nel tempo, a seconda della situazione politica concreta. Non può essere ripetizione di azioni simboliche di antagonismo astratto ed assoluto, destinate (secondo i loro autori) a moltiplicarsi per virtù dell’esempio, ed a realizzare così gradualmente l’attacco allo Stato. Concezione quest’ultima che avvicina paradossalmente i compagni spagnoli, i compagni tedeschi e, come abbiamo visto, anche certi compagni italiani. La L.A. del partito, momento centrale della sua lotta politica, ha lo scopo di scompaginare i disegni politici della borghesia, smascherando il loro significato agli occhi delle masse e rendendone problematica la realizzazione, colpendo quei rapporti politici, quei quadri politici dirigenti concreti, nei quali le forze contraddittorie della borghesia trovano provvisori equilibri e connivenze (quello che è stato definito il cuore dello Stato). Così facendo evidenzia ed acutizza le contraddizioni del fronte borghese (che obiettivamente esistono), alza la consapevolezza delle masse e ne orienta il movimento, sviluppando contraddizioni nello stesso disegno repressivo, naturalmente anche con i metodi tradizionali del movimento rivoluzionario, che consistono nella eliminazione di spie e torturatori e nella distruzione di strutture della controrivoluzione. Innalza cioè il livello dell’autonomia proletaria. È ovvio che la lotta armata non è l’unico strumento di lavoro politico del partito. Abbiamo detto e ripetiamo che in questa fase storica e qui è però il metodo decisivo. Per comprendere la portata di questa affermazione bisogna considerare quella che Lenin chiamava la differenza fra azione dal basso e azione dall’alto del partito. Se è vero che dal basso, legalmente e/o clandestinamente, il partito educa attraverso la propaganda e mobilita ed organizza attraverso l’agitazione le masse, dall’alto il partito, come qualsiasi partito, attacca il partito avversario, i partiti avversari, le condizioni politiche, le solidarietà politiche della borghesia che la costituiscono in forza capace di governare lo Stato al servizio dei suoi interessi. Come conduce questo attacco dall’alto? La storia fornisce numerosi esempi che vanno dalla campagna scandalistica, all’azione parlamentare, al controllo delle autonomie locali, all’infiltrazione nei gangli più sensibili dello Stato (per es. le forze armate). Non esistono principi in proposito, ma solo scadenze concrete. Nessun metodo è stato, è o sarà adottato una volta per tutte. La scelta dipende da un’analisi della situazione storica e sociale, condotta sulla base dei principi del marxismo-leninismo.
L’antiparlamentarismo della “sinistra comunista” italiana è stato una linea errata di rifiuto dell’azione dall’alto, e come tale criticato da Lenin. Qui ed in questa fase storica il metodo di importanza decisiva dell’azione dall’alto del partito è la lotta armata. Non intendiamo escludere che si possano insieme ad esso impiegare altri metodi, ma quello che ci preme e ci discrimina è che quello della L.A. viene da noi assunto come metodo decisivo, nel senso che è quello che decide della capacità di sviluppare lo scontro di classe a partire da quel livello offensivo, che nella sua sostanza e nelle sue forme, si è andato determinando, al di là dei contingenti flussi e riflussi.
Nella fase dell’imperialismo lo scontro di classe si approssima sempre più al suo momento decisivo, e logicamente la controrivoluzione alza di conseguenza il tiro cercando di prevenire l’offensiva proletaria (e solo episodicamente manifestandosi come “conseguenza” degli attacchi subiti). Il modo tradizionale di fare politica per un partito comunista rivoluzionario – attraverso un accumulo di forze con metodi “pacifici”- trova spazi sempre più esigui. Prenderne atto e trarne le conseguenze è d’obbligo.
Non si tratta solo né principalmente di rispondere (cioè di reagire ad una repressione sofisticata) ma di tenere quel terreno che logicamente ed inevitabilmente deve essere tenuto, dato l’attuale sviluppo storico del conflitto di classe. Non ci sono perciò “spazi democratici” da recuperare con le armi, ma c’è da portare ancora più avanti il livello di scontro quale si è venuto storicamente determinando.
Dunque la nostra concezione della L.A. del partito non ha nulla a che vedere con la L.A. spontanea delle masse, con la L.A. delle avanguardie di massa contro il fascismo e la repressione, con la L.A. delle anime belle contro i criminali vecchi e nuovi, dell’imperialismo USA e/o europeo/asiatico, ecc. Non abbiamo nulla a che vedere neppure con le concezioni che dividono politico e militare e che sboccano in strutture tipo partito e suo braccio armato. Non nella versione dei compagni spagnoli, dove è palese la diversa valenza politica tra un PCE(r) e i GRAPO, ma neppure in diverse versioni che vorrebbero il “braccio armato” strettamente subordinato, come una pura funzione “tecnica” al partito. Dubitiamo che la L.A. possa essere considerata una funzione “tecnica” (semmai tal genere di funzione esistesse in generale) e siamo convinti che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato (per es. nella resistenza antifascista, ma anche nelle guerre di liberazione) che la pretesa di dirigere dall’esterno una tale “funzione”, non potrebbe in definitiva che condurre al suo abbandono al livello più basso del movimento di massa, quello egemonizzato politicamente da riformisti e revisionisti. Con l’inevitabile effetto di “rimbalzo” di dare legittimità e forza a questo livello per pretendere alla direzione delle strutture politiche.
Nulla abbiamo ovviamente infine a che vedere con l’extraparlamentarismo di quei gruppi che o, fatalmente, finiscono nel parlamentarismo più bieco (vedi DP), oppure restano in un extraparlamentarismo acefalo, nel quale il rifiuto della lotta parlamentare null’altro ha prodotto di diverso perché il partito non solo possa agire dall’alto, ma possa in definitiva anche agire coerentemente dal basso in mezzo alle masse (vedi MRI e proposte tipo “Politica e Classe”). Nel dibattito europeo, come presentato dal libro dei compagni spagnoli, la nostra è una posizione diversa, che intendiamo confrontare con tutte le esperienze politiche rivoluzionarie in Europa ed in particolare con tutti quei comunisti che oggi in Italia si pongono il problema della fondazione del P.C.C. al fine di realizzare la massima unità nella chiarezza dei principi, che ci permetta, attraverso un confronto dialettico teorico e pratico, di giungere quanto prima a realizzare, attraverso il contributo di tutti questi gruppi o singoli compagni, il comune obiettivo.

IN TEMA DI PROGRAMMA COMUNISTA

L’argomento della continuazione della lotta di classe sotto la dittatura del proletariato.
Le esperienze storiche e qualche considerazione di attualità

La necessità di giungere alla costituzione del partito impone non solo un bilancio delle esperienze del movimento comunista in Italia, limitandosi alle sue pretese originalità, ma deve inserirsi all’interno della tradizione del movimento comunista internazionale, e da esso trarre tutti gli insegnamenti che si sono prodotti, sia nelle esperienze positive che negative. Fingere che questo processo si sia svolto in modo lineare e senza arretramenti e sconfitte, e quindi non discutere di questi problemi prodottisi per superarli, è un modo ben strano di porsi per dei marxisti che non hanno mai avuto paura dei propri errori ed hanno sempre operato col metodo della critica ed autocritica. Solo un tale metodo può permettere di rilanciare oggi il programma dei comunisti senza falsi ottimismi sul “paradiso di bengodi” o di lasciare alla borghesia la descrizione della società socialista, come di un immenso “gulag”. Data la complessità del problema, questo vuol essere solo un primo contributo. Siamo ben consapevoli che esso è carente nell’analisi dei problemi della struttura economica di fondamentale importanza necessita certamente di un ampio approfondimento. Tutta questa grande questione potrà trovare una sua forma definita solo all’interno del partito e nel dibattito del movimento comunista internazionale. Questo non vuol dire che oggi possa essere ignorata.
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Ci sembra importante porre all’attenzione del dibattito il fatto che le rivoluzioni proletarie in Russia e in Cina hanno subito dei gravi rovesci sul terreno stesso della lotta di classe; cioè che attualmente sia in Russia che in Cina le conquiste politiche del proletariato, cioè il suo potere, sono state rovesciate, e che la borghesia sia in Russia che in Cina ha restaurato il suo potere. Non si tratta di sclerotizzazioni burocratiche di Stati operai, né di deviazioni di linea, più o meno gravi, di “partiti comunisti” nei due paesi. Ciò ci impedisce di usare ancora il concetto di “campo socialista”,come invece molti compagni continuano a fare. Inutile dire che nello stesso tempo assumiamo che in questi paesi la lotta di classe continua su livelli più elevati di prima e che nutriamo la più ferma convinzione che il proletariato, anche grazie alle lezioni derivate dai rovesci subiti, ribalterà nuovamente la situazione a suo vantaggio e riprenderà il potere nelle sue mani.

È di fondamentale importanza esaminare con la massima cura le contraddizioni attraverso le quali si è sviluppato il processo rivoluzionario in questi paesi, per trarne i dovuti insegnamenti per la rivoluzione nel nostro paese. Benché la situazione nella quale il processo rivoluzionario si è sviluppato in questi paesi sia molto diversa dalla nostra situazione, come traiamo gli insegnamenti positivi ed utili a noi da queste esperienze, così dobbiamo essere capaci di trarre anche gli insegnamenti derivanti dai limiti oggettivi e dagli errori soggettivi di queste esperienze. Sarebbe infatti criminale imboccare una strada che ciecamente ci portasse alle stesse tragiche conseguenze che oggi si possono osservare nel processo rivoluzionario in Russia e in Cina.
Cercheremo quanto meno di delineare le questioni fondamentali che il movimento comunista deve affrontare. Queste questioni sono:
➢    attualità della tesi sul “socialismo” e la “dittatura proletaria”
➢    la continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria
➢    lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato
➢    qualche insegnamento dalle esperienze storiche
➢    particolarità maggiori della nostra situazione attuale
Attualità della tesi sul socialismo e la dittatura proletaria
La tesi secondo la quale la “fuoriuscita” (come oggi si suol dire) dal capitalismo verso la società comunista deve avvenire attraverso una fase di transazione caratterizzata dallo Stato della dittatura proletaria, fase detta da Lenin “socialismo”, è già una tesi di Marx (vedi specialmente “Critica al programma di Gotha”). Essa si fonda sulla seguente elaborazione teorica: per costruire la società comunista è necessario trovarsi in presenza di un altissimo livello di sviluppo delle forze produttive e di una trasformazione soggettiva a livello di massa del proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di una completa coscienza del ruolo di governo della natura (e non più di una classe sull’altra) che la società comunista implica per l’intero proletariato, sia nel senso della acquisizione a livello di massa di grandi capacità tecniche-scientifiche (elemento fondamentale dello stesso sviluppo delle forze produttive). La crisi capitalistica, crisi di carattere generale e storico, che implica un blocco ed a periodi sempre più ravvicinati una distruzione di massa delle forze produttive è destinata ad intervenire (e non può che essere così dato che è lo stesso processo di valorizzazione del capitale che ingenera la crisi, col conseguente processo progressivo di distruzione delle forse produttive), quando lo sviluppo delle forze produttive non sarà ancora al livello richiesto dalla società comunista, benché questo sviluppo sarà già relativamente elevato, all’interno del sistema capitalistico mondiale nel suo complesso, benché con sempre più profondi dislivelli all’interno dei singoli paesi e nelle diverse aree del globo, a seconda del modo in cui è avvenuta la penetrazione e la valorizzazione del capitale. Parimenti la crisi capitalistica interverrà in un momento in cui il proletariato come massa non avrà ancora raggiunto uno sviluppo soggettivo, nel senso sopra detto, quale la società comunista richiede, benché una consistente sua avanguardia (i comunisti) disporrà di un bagaglio culturale ricco e di una coscienza politica avanzata. Così il problema della fuoriuscita dal capitalismo si porrà prima che le condizioni per la costruzione della società comunista siano completamente presenti. Da ciò la necessità della fase di transizione, del “socialismo”.
Che nei casi concreti della Russia e della Cina questo fosse lo stato delle cose al momento dell’abbattimento dello Stato della borghesia, non vi è alcun dubbio. Anzi in questi paesi la prima fase del processo rivoluzionario consiste in una successione rapida di rivoluzione democratica e rivoluzione socialista. Il nostro problema è di verificare se un tale stato di cose si presenti anche oggi nei paesi a capitalismo avanzato, e particolarmente nel nostro paese.
Per quanto concerne lo sviluppo delle forze produttive anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed ancor più nel nostro paese, esso non è oggi tale da consentire la immediata applicazione del principio “a ciascun secondo i suoi bisogni”. È da una parte evidente che la semplice redistribuzione fra i proletari della ricchezza sociale consumata dai ceti abbienti, non innalzerebbe di molto il livello di vita complessivo dei proletari (chiunque può fare dei semplici calcoli). Anche da questo solo punto di vista si dimostra pericolosamente errata quella versione della tesi sulla “maturità del comunismo” che ha avuto ed ha ancora qualche popolarità, secondo la quale oggi nei paesi a capitalismo avanzato, il problema del soddisfacimento dei bisogni proletari sarebbe una pura e semplice questione di distribuzione, risolubile nella anticipazione costituita dal saccheggio delle salumerie e dei negozi di dischi. Ma da un’altra parte sta l’aspetto più complesso della questione. È stato detto sarebbe sufficiente riconvertire il processo produttivo, cambiando la natura dei prodotti (p. es. – ma gli esempi possono essere tanti – trasformando l’industria bellica in industria di pace) per dar luogo ad una vera e propria abbondanza di beni di consumo proletari, tale da costituire dal punto di vista della capacità produttiva, una solida base per l’edificazione della società comunista. Tale affermazione è errata perché fondata sul noto sofisma della “neutralità delle forze produttive”. Questo sofisma vorrebbe che la “semplice” volontà politica fosse in grado di riconvertire l’uso delle forze produttive presenti, le quali sarebbero perciò neutrali rispetto al sistema politico che le ha prodotte e organizzate. In realtà le forze produttive presenti nel sistema capitalistico sono essenzialmente informate alle finalità proprio del sistema, cioè la produzione di profitto. La loro riconversione al fine di produrre per il soddisfacimento dei bisogni proletari, implicherebbe (ed implicherà) un alto livello di distruzione della loro capacità produttiva (è molto difficile riconvertire una fabbrica di siluri in una fabbrica di formaggini). Ed ancora più lo sviluppo delle forze produttive in un paese a capitalismo avanzato è condizionato da un particolare tipo di “vincolo esterno” che è costituito dal fatto di essere funzionale al super sfruttamento imperialista della periferia, super sfruttamento attraverso il quale una buona parte dei bisogni proletari nei paesi a capitalismo avanzato, viene attualmente soddisfatta. Cessato il legame di super sfruttamento imperialista, buona parte della produzione orientata allo scambio con la periferia dovrà essere riconvertita. Il che richiederà un certo tempo.
Questione importante, poiché dalla possibilità di stabilire un rapporto di corretta collaborazione economica con i paesi progressisti ed antimperialisti dipenderà in buona parte la possibilità per il nostro paese di approvvigionarsi di materie prime e di prodotti alimentari, dei quali è (e certo resterà) deficitario. Tutto ciò senza considerare la facilmente prevedibile distruzione di forze produttive che un conflitto mondiale, lo stesso processo rivoluzionario, ed il sabotaggio interno ed internazionale della borghesia, provocherà. Non c’è dunque da farsi soverchie illusioni sullo stato del sistema produttivo che la rivoluzione si troverà dinnanzi. In special modo considerato il livello richiesto dalla edificazione di una società comunista. Per quanto concerne lo sviluppo della soggettività proletaria, l’aspetto della diffusione a livello di massa della conoscenza tecnico-scientifica (aspetto che ha molto a che vedere anche con lo sviluppo delle forze produttive, ed in particolare della forza-lavoro come la principale delle forze produttive) lascia molto a desiderare, poiché la scuola capitalistica e gli altri strumenti di diffusione della cultura nel capitalismo hanno come scopo principale la formazione di una umanità docile, duttile e polivalente, passivamente orientabile nei consumi e nei comportamenti: qualcosa che è l’esatto contrario di un altro livello di diffusione della conoscenza tecnico-scientifica, la quale ultima è invece riservata a ceti ristrettissimi di selezionati agenti del capitale. La coscienza proletaria di massa degli interessi storici della classe e del ruolo che il proletariato è chiamato a svolgere nella società comunista, benché a tratti presente e stabilmente presente nell’avanguardia comunista, a livello di massa non è per niente radicato e diffuso e non va confuso con la diffusa e radicata insoddisfazione nei confronti dello stato di cose presente e con lo spirito di ribellione che vi è connesso. Infine non bisogna dimenticare che il proletariato dei paesi capitalisti avanzati è abbastanza profondamente diviso in strati diversi sia dal punto di vista economico che culturale; una divisione che pone gravi problemi già nella fase pre-rivoluzionaria e che continuerà a porre gravi problemi nella transizione al comunismo.
Dunque anche nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro, la crisi del sistema capitalistico si verificherà fatalmente in circostanze in cui le condizioni per la edificazione della società comunista saranno ancora immature e sarà perciò necessario un periodo di transizione, il periodo della società socialista. In questo periodo il potere sarà esercitato dalle avanguardie del proletariato, in stretto legame con l’intera massa del proletariato ed all’interno di un processo orientato alla più ampia diffusione delle responsabilità di direzione politica e di gestione amministrativa ed economica fra tutti i proletari. In questo periodo di transizione lo Stato avrà la forma della dittatura proletaria. Sarebbe un errore considerare che la dittatura sia una forma del potere resa necessaria di per sé dall’arretrato livello di sviluppo delle forze produttive e dell’arretrato livello di sviluppo della soggettività proletaria a dimensioni di massa. Tali condizioni, benché possano dar luogo a contraddizioni nella società, non danno però luogo necessariamente a contraddizioni di tipo antagonista. Ciò che, come già Marx ed ancora più Lenin hanno messo in evidenzia, ed ancor più l’esperienza storica dalla Comune di Parigi ai nostri giorni, rende indispensabile l’esercizio della dittatura proletaria dopo la conquista del potere da parte del proletariato sotto la guida della sua avanguardia, è il fatto inevitabile che la borghesia non solo non scompare istantaneamente nella società, ma anzi si arrocca su posizioni di resistenza e di controffensiva, appoggiata da potenti alleati internazionali. Nei confronti della borghesia alla controffensiva, interna ed internazionale, si sviluppa una contraddizione altamente antagonista, che può facilmente evolversi in guerra civile (o anche esterna) più o meno prolungata. Il governo di questa contraddizione altamente antagonista è affidato alla dittatura del proletariato, il quale è diventato l’aspetto principale della contraddizione. Ma la dittatura del proletariato si rende necessaria anche per un’altra ragione. In tutto il periodo del socialismo non solo la lotta di classe continua contro i residui della borghesia reazionaria, ma anche contro le tendenze assolutamente prevedibili di formazione di nuovi strati di una nuova borghesia, come risultato delle contraddizioni che permangono nella società socialista e che possono facilmente degenerare in contraddizioni di classe, come la storia ha dimostrato.

La continuazione della lotta di classe sotto la dittatura proletaria

La lotta di classe continua dunque sotto la dittatura proletaria contro i residui della borghesia reazionaria e la dittatura del proletariato è, appunto, strumento di questa fase della lotta di classe che vede il proletariato divenuto l’aspetto principale della contraddizione. Ma ancora, contraddizioni proprie della società socialista (manifestazioni particolari del marchio borghese da cui non si è ancora liberata, come diceva Marx) possono diventare contraddizioni di classe. In particolare il rapporto fra proletariato e la sua avanguardia presenta diversi aspetti contraddittori. Innanzitutto tutto non si può identificare formalisticamente l’avanguardia del proletariato con il suo partito, il partito comunista. Il partito comunista è una struttura organizzata e formalizzata. L’avanguardia del proletariato è invece un concetto che allude agli strati del proletariato più avanzato politicamente, organizzati o no nel partito, benché per definizione il partito tenda razionalmente ad organizzare tutti gli elementi più avanzati del proletariato dotati di coscienza comunista. Nella società socialista partito, avanguardia e massa proletaria (come del resto anche nella società capitalista, sia nella fase pre-rivoluzionaria che nella fase rivoluzionaria), non sono concetti identici. Si tratta di realtà diverse fra le quali intercorrono dei rapporti. Il carattere contraddittorio di questi rapporti è costituito dal fatto che la direzione del lavoro politico, amministrativo ed economico è svolto dalla avanguardia del proletariato ed in particolare dal suo partito, che dirige politicamente gli organi dello Stato. Questa direzione ha, fra i suoi scopi principali, quello di innalzare le capacità tecniche e culturali e la coscienza politica del proletariato tutto intero, per farne il protagonista della società comunista, nella quale lo Stato stesso e con esso ogni forma di potere di uomini su uomini si sarà estinta. Dirigere a non essere più diretti costituisce un rapporto che contiene una palese contraddizione. L’evoluzione razionale e dialettica di questa contraddizione porta alla società comunista, dove non vi sono più dirigenti e diretti. Ma poiché non solo la borghesia mantiene delle posizioni economiche rilevanti nella società socialista (non fossero che quelle residuate dal monopolio della conoscenza tecnica e scientifica), ma mantiene anche delle forti posizioni nella cultura ed una grande capacità di diffondere la ideologia dell’individualismo e che influenze di questo genere vengono costantemente dal circostante mondo capitalistico, nonché dalla tradizione culturale borghese massicciamente presente nello stesso proletariato (il quale neppure da un punto di vista economico costituisce un tutto unico ed omogeneo), nulla è più facile che questa contraddizione invece di evolversi in senso razionale e dialettico, mostri tendenze anche assai pronunciate a trasformarsi in contraddizione di classe, in contraddizione antagonista. Non si tratta del fatto che le avanguardie proletarie che gestiscono il potere si possano trasformare in burocrazia pigra ed inerte. Questo sarebbe il meno e sarebbe un male ancora rimediabile in modo non troppo difficile, dato che la pigrizia può essere difficilmente ideologizzata. Il fatto è che nella realtà si verifica una tendenza di queste avanguardie a trasformarsi in classe che gestisce il potere nel suo proprio interesse, cioè in una nuova borghesia, che interiorizza e propaganda ideologicamente la vecchia e consolidata ideologia della classe borghese, con appena qualche modesto abbellimento. Non vale essere membri del partito per essere vaccinati da questa tendenza. Si tratta, ed in concreto in Russia ed in Cina si è trattato, di una tendenza concretamente emersa, fino agli esiti drammatici che conosciamo. Non esiste come abbiamo detto, un vaccino contro questa “malattia”. Alle avanguardie proletarie, dentro e fuori dal partito, consapevoli di questo pericolo, spetta il compito di condurre una lotta, che è lotta di classe, contro la vecchia e nuova borghesia, sia che essa costituisca le sue posizioni di potere fuori o dentro il partito. Su questa linea mobiliteranno le masse svolgendo appieno in senso razionale e dialettico il loro ruolo di dirigere a non essere più diretti, rinnovando il partito quando ciò si renda necessario. Il partito è strumento necessario alla lotta di classe, ma la sua integrità comunista non è garantita da nulla se non dalla capacità delle avanguardie proletarie che lo compongono e anche da quelle che si formano al suo esterno, di sottoporlo costantemente ad un processo di critica e rinnovamento, attraverso la mobilitazione delle masse. Così il martello è indispensabile per piantare i chiodi, ma nulla garantisce che col martello non ci si possa anche schiacciare le dita. Questa concezione della politica comunista è quell’elemento del patrimonio della cultura di classe che consente di tenere sempre aperto lo spiraglio della lotta di classe anche nelle situazioni più difficili, e che perciò deve essere oggetto di costante insegnamento. Cercheremo di vedere, per sommi capi, come storicamente questi problemi siano stati in concreto affrontati. È comunque preliminarmente evidente che questi problemi hanno un modo caratteristico di evidenziarsi. Questo modo è quello che riguarda il processo di transizione che investe lo Stato nella fase del socialismo.

Lo Stato in transizione, ovvero il processo di estinzione dello Stato

Nella società comunista lo Stato si estingue. Ma evidentemente non si estingue da un momento all’altro, per suo proprio decreto. Questo significa che lo Stato in senso proprio, organo dell’esercizio della dittatura di una classe su un’altra (e perciò caratterizzato dal diritto e dalla giustizia, da organi deputati alla repressione delle attività reazionarie, da costituiti livelli di centralità nella formazione delle decisioni politiche, amministrative ed economiche), è anche Stato in un senso speciale. La società socialista non corrisponde ad una formazione economico-sociale particolare, a fianco della società feudale, capitalista, comunista. La società socialista è soltanto una società di transizione dal capitalismo al comunismo. Dunque lo Stato nella società socialista, e fin tanto che essa rimanga tale, è caratterizzato dal essere uno Stato in costante trasformazione. In ogni momento di sviluppo della società socialista si deve evidenziare questa trasformazione in corso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale al lavoro per costituire e rafforzare istanze periferiche sempre più articolate alle quali trasferire i suoi compiti, mano a mano svuotando se stesso. Questo vuol dire che in ogni momento si deve vedere l’organo centrale, per garantire il processo di cui si è detto, promuovere e rafforzare funzioni ed organismi di controllo dal basso del suo operato.
Gli organi della giustizia e della repressione professionali devono man mano trasformarsi in tribunali popolari ed in milizie proletarie non professionali ecc. O questo processo di trasformazione è concreto e visibile o non si tratta di una società socialista in transizione verso il comunismo. È chiaro che nello specchio costituito dalle strutture statuali si riflette nel modo più chiaro quella contraddizione di cui sopra si parlava fra funzione del dirigere ed obiettivo di superare l’esigenza stessa di direzione. Le strutture dello Stato socialista sono materialmente costituite da uomini: gli elementi di avanguardia del proletariato, e fra questi, in posizione di massima responsabilità politica, dai militanti del partito comunista. A questi uomini compete la grande responsabilità di guidare la transizione, che andrà avvenendo man mano che le grandi masse proletarie verranno portate alla assunzione delle responsabilità della direzione politica, della gestione amministrativa ed economica della società. Questo processo è contemporaneo, anzi strettamente intrecciato allo sviluppo delle forze produttive (nel senso di una reciproca dipendenza dei due elementi), su di un punto centrale (oltre che ovviamente sul contestuale sviluppo centralizzato della ricerca scientifica e tecnica, della pianificazione economica ecc.): lo sviluppo della forza produttiva principale: il lavoro umano, man mano emancipato dalla forma di forza-lavoro mercificata, e messo in condizione di dominare e sviluppare al livello più ampio e diffuso il processo produttivo, controllandone in modo determinante modalità e finalità.
È ovvio che questo tipo di trasformazione va contro senza sfumature agli interessi della vecchia borghesia, il cui potere è stato rovesciato, contro gli interessi del mondo capitalistico in generale, ma anche contro gli interessi che premono per costituire gli uomini che partecipano agli organi del potere politico della società socialista, in nuova borghesia, in nuova classe sfruttatrice. Sul terreno di queste trasformazioni si svolge dunque la lotta di classe nella società socialista. Nulla può garantire a priori l’esito di questa lotta.
Le esperienze storiche lo dimostrano in modo drammatico.

Qualche insegnamento delle esperienze storiche

Richiamiamo l’attenzione innanzitutto su alcuni passaggi dell’esperienza sovietica.
All’incirca fino alla fine degli anni 20, la società uscita dalla rivoluzione proletaria appare come un “capitalismo di Stato diretto dalla dittatura proletaria” (l’espressione è di Lenin). Ciò significa che l’economia è in parte nazionalizzata ed in parte controllata da uno Stato nel quale il potere è nelle mani dell’avanguardia del proletariato. Nel caso concreto gli organi di questo Stato sono rappresentati dai soviet elettivi (degli operai, soldati e contadini) che si centralizzano nel Congresso panrusso dei Soviet, il quale a sua volta esprime uno o più organi esecutivi centrali. Il partito svolge il ruolo politicamente dirigente in questi organi, in quanto per così dire “avanguardia dell’avanguardia”. Le imprese economiche, sia quelle nazionalizzate che quelle private, sono controllate dall’alto da un organismo centrale (Consiglio Nazionale dell’Economia) e dal basso dai comitati (operai e impiegati) di fabbrica, a loro volta centralizzati da un Congresso panrusso (apparato costituente nel suo insieme l’apparato del c.d. “controllo operaio”). Anche in questi organismi il ruolo di direzione politica spetta al partito. In sostanza si vede bene come lo schema fondamentale del potere, sia in campo più strettamente politico che in quello economico, è costituito da un rapporto dialettico fra un polo centrale ed una diffusione periferica di poli di base ai quali partecipano direttamente i lavoratori addetti alla produzione. Il partito raccoglie le avanguardie comuniste e dirige politicamente l’evoluzione di questo rapporto dialettico. Nel senso di una progressiva estensione del potere degli organismi di base e periferici. Questo processo si è verificato nella realtà? La risposta non può che essere negativa. Anche mano a mano che l’emergenza della ricostruzione economica veniva superata e che le forme giuridiche della proprietà privata venivano del tutto abolite (specialmente a partire dalla fine degli anni 20) e che un impetuoso sviluppo delle forze produttive veniva realizzato, non solo questo processo non si è verificato, ma si è verificato il contrario: gli organi del potere centrale si sono rafforzati e quelli periferici e di base si sono quasi completamente svuotati, se non sono del tutto scomparsi (come gli organi del c. d. “controllo operaio”, scomparsi ancora Lenin vivente). Un ultimo tentativo di promuovere una spinta di controllo dal basso, attraverso una struttura di vertice, fu tentato da Lenin nell’ultimo periodo della sua vita, attraverso un apposito ministero (il Commissariato all’Ispezione operaia e contadina, poi fuso con la Commissione Centrale di Controllo del Partito), esperienza fallita alla nascita.
A questo punto l’unico canale di esercizio del potere proletario è divenuto quello rappresentato dal ruolo dirigente del partito comunista, in quanto costituito dall’avanguardia comunista del proletariato. In questa situazione il partito ha manifestato da una parte la tendenza ad identificarsi con tutta l’avanguardia proletaria (con la conseguenza di un abbassamento del livello politico del partito) e dall’altra la tendenza ad identificarsi con gli organi del potere statale. Questa soluzione ha avuto il merito di evitare in un primo momento che la società socialista regredisse al capitalismo, attraverso l’ampliamento e la istituzionalizzazione della NEP ed anzi che nazionalizzazione e collettivizzazione dell’economia ed instaurazione della sua gestione pianificata, fossero portati a compimento (meriti particolari di Stalin).
Ma è certo anche che la trasformazione della società socialista in società comunista ha subito un pericoloso stallo, nel quale sono andate maturando le condizioni per una vittoriosa controffensiva della borghesia. In sostanza il partito, invece di promuovere la mobilitazione delle masse proletarie contro le classi reazionarie vecchie e nuove, elevandone la coscienza ed allargandone il ruolo dirigente sull’intera società (dirigendo così la lotta di classe nel socialismo), ha condotto la lotta contro la borghesia vecchia e nuova attraverso la occupazione dei gangli fondamentali del potere politico ed economico, con metodi prettamente amministrativi. Ammalandosi così della stessa malattia che pretendeva di curare. La arretratezza dello sviluppo delle forze produttive ereditata dal regime zarista, le distruzioni della guerra, l’accerchiamento internazionale ed il permanere di rapporti di produzione basati sulla piccola proprietà, sono stati i fattori materiali decisivi che hanno determinato questa situazione. La principale ragione soggettiva che ha condotto a questo risultato è stata la grande arretratezza politica del proletariato e degli strati inferiori delle campagne nella Russia della rivoluzione e la conseguente debolezza dello stesso partito bolscevico fuori dai grandi centri urbani. Questo fatto ha reso, specialmente nel primo decennio, estremamente difficile, se non impossibile, la mobilitazione di classe di grandi masse proletarie.
Ma si è trattato anche di ragioni dovute ad errori politici soggettivi del partito, ed al prevalervi di deviazioni economiciste più o meno esplicite (come quello che ha tenacemente affermato che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato ad un automatico adeguamento dei rapporti di produzione), con la conseguenza che poca o nulla attenzione fu posta allo sviluppo della coscienza politica proletaria anche quando le condizioni oggettive (cioè unificazione, generalizzazione e ed elevamento della condizione proletaria) andavano maturando (cioè durante gli anni 30). A correggere tali errori nessun contributo è venuto dalle varie “opposizioni di sinistra” degli anni 20, le quali si sono tenacemente arroccate su concezioni autogestionarie, corporativiste, particolariste ed in sostanza non meno economiciste di quelle della maggioranza, oscillando fra una difesa sindacalista degli interessi economici operai ed una concezione autogestionaria delle unità economiche, proprio e totalmente in contrapposizione frontale all’esigenza di portare l’avanguardia proletaria alla direzione di tutta la società. Il risultato inevitabile è stato il consolidamento di un forte strato di nuova borghesia nello stesso partito (oltre che in maggior misura nell’apparato statale) che, dopo la morte di Stalin, sarà in grado di imporsi apertamente come la nuova classe detentrice del potere.
La conclusione principale che ne possiamo trarre è che anche sotto la dittatura proletaria il ruolo del partito non può essere quello di rappresentare gli interessi proletari al posto del movimento proletario di massa, ma che il suo compito principale è proprio quello di suscitare il movimento proletario di massa sul fronte della lotta di classe.
Vediamo ora brevemente quali lezioni sono state tratte dai comunisti cinesi, ed in particolare da Mao, dalla evoluzione negativa del processo rivoluzionario in Unione Sovietica.
A metà degli anni 50 gli esiti verso i quali si dirigeva la situazione in URSS erano chiari per tutti. In quel periodo in Cina le strutture del potere politico ed economico ed il ruolo del partito comunista erano sostanzialmente modellati sul tipo sovietico, comportante perciò gli stessi rischi di degenerazione. Sotto l’impulso di Mao si scatenano, sotto la direzione di una parte del partito e contro un’altra parte, due grandi movimenti di massa sulla frontiera della lotta di classe: il primo è il Grande Balzo in Avanti (seconda metà degli anni 50), il secondo è la Rivoluzione Culturale (seconda metà degli anni 60). È completamente errato ritenere che si sia trattato di movimenti sociali di riforma economica o “culturale” in senso stretto. Si è trattato di autentici episodi di lotta di classe che hanno mobilitato imponenti masse proletarie, si sono svolti attraverso scontri anche assai cruenti ed hanno scosso tutto l’apparato del potere statuale e della gestione economica, coinvolgendo in profondità lo stesso partito. La caratteristica principale del Grande Balzo in Avanti è stata la costituzione delle Comuni Popolari nelle campagne e la lotta in tutti i campi contro il burocratismo ed i privilegi, in particolar modo quelli nascenti dalla separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, sia negli aspetti economici che soprattutto politici.
Senza entrare in dettagli si può limitarsi a sottolineare che la costituzione delle Comuni Popolari ha conciso con un vero e proprio capovolgimento della politica economica in merito alla priorità da attribuire allo sviluppo dei diversi settori, nel contesto di un processo di rapida collettivizzazione nelle campagne. Secondo il modello sovietico la priorità andava data alla industria pesante a scapito dell’agricoltura e dell’industria leggera. I cinesi decidono di capovolgere il modello dando luogo ad una spunta alla collettivizzazione nei campi nello stesso tempo in cui tentano di stabilire un rapporto equilibrato fra industria e agricoltura. Le Comuni Popolari sono strutture di gestione economica di unità cooperative molto grandi, altamente integrate di funzioni amministrative e dotate di larga autonomia rispetto al potere centrale.
Nello stesso tempo una forte campagna investe anche le città contro i burocrati staccati dalle masse e potenziali, se non già, elementi di una nuova borghesia. A ondate successive questa lotta continuerà fino a che nel 65 si scatenerà la Rivoluzione Culturale, conseguenza diretta del precedente movimento che porterà l’attacco della classe lavoratrice contro le strutture politiche più alte dello Stato, presidente della Repubblica compreso, comportando con la sua vittoria nei primi anni 70, una modifica della Costituzione dello Stato e degli stessi statuti del partito. Il carattere principale del movimento di lotta è costituito dal fatto che la frazione del partito diretta da Mao mobilita le masse proletarie, normalmente di senza-partito, contro i borghesi a tutti i livelli, ivi compresi i militanti di partito su posizioni reazionarie, destituendoli dalle loro funzioni e dando vita a nuovi organismi dirigenti delle unità economiche e di tutte le strutture politiche, a carattere elettivo e revocabili dal basso, detti Comitati Rivoluzionari, generalmente costituiti da un buon numero di quadri rivoluzionari senza partito. La frazione del partito diretta da Mao, mantiene sempre una funzione di direzione. Fino al 71 la vittoria della Rivoluzione Culturale e della frazione maoista appare completa. Ma all’interno stesso della frazione maoista andava maturando una grave contraddizione. Anche in questo caso (come già abbiamo visto in URSS), le difficoltà di mobilitare su un terreno di classe le grandi masse, specialmente contadine, è stata grande. Molti dei nuovi quadri non sono stati politicamente troppo solidi, mentre i vecchi quadri sinceramente (e non opportunisticamente) maoisti,  non devono essere stati proporzionalmente troppo numerosi.
Nello stesso quadro della Rivoluzione Culturale perciò si era creato uno spazio per delle tendenze opportunistiche mascherate dall’estremismo verbale più spinto, che fecero leva su errori di soggettivismo idealistico diffusi fra i nuovi quadri rivoluzionari. Queste tendenze si personalizzarono in Lin Piao (massimo dirigente del movimento) il quale, evidentemente non da solo, tentò di cristallizzare la Rivoluzione Culturale in una formalità rituale dietro la quale costruire una rigida gerarchia di potere di tipo burocratico, intorno alla quale coagulare nuovi e vecchi strati privilegiati, formalmente “riformati” dal culto della personalità di Mao. Fra il 71 e il 73 la frazione maoista si trovò in gravi difficoltà. Attaccata al suo interno, cercò una tregua con la vecchia frazione di destra sconfitta dalla Rivoluzione Culturale  (p. es. Deng Xiao-Ping) per liberarsi di Lin Piao. La probabile tendenza della vecchia destra a cercare una confluenza col bonapartismo linpiaoista fu così efficacemente spezzata, ma il prezzo pagato ai vecchi nemici della Rivoluzione Culturale era stato alto. Subito dopo la morte di Mao (76), la borghesia vecchia e nuova, non del tutto veramente sconfitta, riprende in mano le redini del potere. La principale conclusione che si può trarre da questi avvenimenti è che Mao ha certamente visto giusto nella necessità di mobilitare le grandi masse e di promuovere le avanguardie proletarie nella lotta di classe anche sul terreno della sovrastruttura ma, da parte degli stessi dirigenti comunisti a lui più vicini (come il cosiddetto gruppo dei quattro), è stata sviluppata una pericolosa deviazione che, non tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali il processo rivoluzionario andava svolgendosi, ha portato a sottovalutare l’impreparazione tecnica e la scarsa capacità politica di molti quadri rivoluzionari, l’arretratezza in genere delle forze produttive e il permanere di rapporti di produzione arretrati specialmente nelle campagne, consegnando così la soggettività volontaristica dei nuovi quadri nelle mani di opportunistici rappresentanti di frazioni della nuova borghesia, del tipo Lin Piao.
La rottura dello schieramento rivoluzionario ha lasciato via libera alla restaurazione borghese e la vittoria su Lin Piao si è rivelata alla fin fine una vittoria di Pirro.
L’insegnamento generale che possiamo ricavarne è che il partito anche nel condurre la lotta di classe nel socialismo, benché giustamente debba mobilitare le masse e non sostituirsi ad esse, promuovere le avanguardie ecc., non può prescindere da una progressiva e relativamente prudente formazione di quadri nella sovrastruttura politica, tenendo conto che la trasformazione dei rapporti di produzione diretta dalla sovrastruttura politica rivoluzionaria non può verificarsi senza un complesso sviluppo di capacità tecniche e politiche, le quali non possono essere sostituite da una generica “buona volontà”, da cui deriva più una tendenza all’inquadramento autoritario che una vera tensione alla crescita politica costante del movimento di massa nel suo complesso. In questo senso il “soggettivismo” non è un errore teorico, ma rappresenta la espressione di interessi di classe borghesi e piccolo borghesi tendenti a saldarsi in un fronte antiproletario. La differenza di classe, così, fra “ribelli” e “rivoluzionari” risulta illustrata in un esempio storico ricco di insegnamenti.

Particolarità maggiori della nostra situazione
Nei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare nel nostro paese, appaiono a vista d’occhio delle particolarità rilevanti, rispetto alle condizioni della rivoluzione sovietica e cinese.
Due sono particolarmente importanti: 1) il proletariato urbano, con tutte le sue stratificazioni anche rilevanti, è la classe sfruttata di gran lunga maggioritaria e dotata di un protagonismo politico consolidato da decenni, seppure di norma sotto l’egemonia dei suoi strati più privilegiati e della loro espressione politica, la socialdemocrazia ed il revisionismo; 2) il sistema produttivo ed il sistema politico che lo governa sono di gran lunga più complessi, già fortemente centralizzati ed internazionalmente collegati di quanto non fossero in Russia o in Cina al momento delle rispettive rivoluzioni. Nonostante queste differenze, dalle esperienze delle rivoluzioni sovietica e cinese dobbiamo e possiamo ricavare molti insegnamenti.
Da una parte alcuni insegnamenti relativi alla applicazione del programma comunista alla nostra realtà concreta dei nostri giorni. Innanzitutto in merito al ruolo del partito nel promuovere e condurre la lotta di classe nel campo della sovrastruttura attraverso una permanente mobilitazione delle masse proletarie.
Fare ciò, sotto la dittatura del proletariato, non significa solo (benché si tratti di un compito necessario) diffondere una formale e verbale adesione alla teoria marxista-leninista nell’ambito della letteratura, dell’arte, della scienza, dell’analisi politica, della morale (cioè nella cosiddetta “cultura” costituita da puri pensieri e pure parole), nel che consiste l’essenza stessa del linpiaoismo, fondamento di una struttura sociale autoritaria, che è l’esatto contrario della promozione del processo di estinzione dello Stato nella società comunista. La sovrastruttura è costituita da concreti rapporti che costituiscono il potere politico. I rapporti di produzione (elementi della struttura) si riproducono in forma capitalistica quale che sia lo sviluppo delle forze produttive, se la lotta di classe non aggredisce attraverso la mobilitazione delle masse i rapporti di produzione capitalistici. Quali sono questi rapporti politici che caratterizzano la sovrastruttura in paesi a capitalismo avanzato, come il nostro, e che costituiranno inevitabilmente l’obiettivo della lotta di classe, dopo l’abbattimento dello Stato della borghesia (abbattimento al quale necessariamente sopravvivranno)? Innanzitutto la professionalità del lavoro politico, riflesso dialettico (cioè reciproco) della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella struttura. Paradossalmente la società socialista erediterà una struttura politica d’avanguardia (il partito) fatta in gran parte di professionisti della rivoluzione, nel cui ceto si cristallizza in certo modo esemplarmente la divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Questa struttura non è stabile nel corso della trasformazione della società socialista. Il partito, nella fase che precede la rivoluzione e nella fase rivoluzionaria, è essenzialmente costituito da uno strato relativamente selezionato di avanguardie. Nel socialismo si allarga ad esempio il numero di avanguardie che sono nella produzione e che in questo processo acquisiscono coscienza comunista. Ugualmente lo Stato della dittatura del proletariato che eredita certi caratteri dello Stato della borghesia, come l’esistenza di un ceto di funzionari professionali, li abolisce progressivamente (e fin dall’inizio tende ad abolirne i privilegi a partire da quelli salariali), compatibilmente con i livelli di sviluppo economico e tecnico, per sostituirli con strutture collettive costituite da proletari della produzione. In generale le funzioni svolte da intellettuali di professione della società capitalista, vengono man mano trasferite ai lavoratori della produzione, la cui formazione intellettuale viene costantemente accresciuta. Gli intellettuali ricevono una nuova formazione inseriti nella produzione. È evidente che questo processo incide nello stesso tempo nell’apparato della burocrazia dello Stato (e del Partito), nella scuola, nelle forze armate, negli organi della ricerca scientifica e nella stratificazione delle funzioni nel processo produttivo. Dalla eliminazione di queste differenze dipende la eliminazione di una delle più potenti sorgenti di formazione della nuova borghesia. D’altra parte una pericolosa fonte di formazione di una nuova borghesia si trova anche nella complessa stratificazione dello stesso proletariato addetto al lavoro prevalentemente manuale, diviso fra addetti alla grande impresa ed alla media e piccola impresa, dell’industria e dei servizi, ecc., con livelli retributivi sensibilmente diversi, diversi sistemi di retribuzione, diversi livelli di intensità di sfruttamento e diversi contesti di vita comportanti livelli di consumo diversi per quantità e qualità. Questa stratificazione non potrà essere abolita immediatamente e “per decreto”. E neppure si può immaginare una immediata scomparsa delle diverse attività economiche basate sulla piccola proprietà.
Da queste differenze nascono dinamiche che spingono fatalmente all’ampliamento dello spirito individualista ed alla cristallizzazione dei privilegi. I meccanismi sovrastrutturali che conservano ed ampliano queste differenze devono essere attaccati, come quelli che riproducono la differenza fra lavoro manuale e intellettuale. A livello della contemporanea integrazione mondiale dell’economia e della società intera, nuove differenze e complessità funzionali alla riproduzione del privilegio dei nuovi strati borghesi, si presentano nella forma del caratteristico razzismo contemporaneo che investe ampiamente lo stesso proletariato dei paesi industrializzati. Si tratti del razzismo nei confronti degli immigrati o nei confronti dei proletari sfruttati nelle aree più povere del mondo. Si tratta ovviamente di differenze che trovano sede nel rapporto dialettico fra struttura e sovrastruttura e non di fenomeni meramente “culturali” in senso stretto, ma la cui aggressione deve avvenire anche a livello sovrastrutturale, in modo da contribuire in modo deciso alla ricomposizione del proletariato, sotto ogni aspetto. Dunque la lotta contro la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, la lotta per l’egualitarismo, contro il razzismo ed il sessismo, sono aspetti essenziali (anche se non esclusivi) della lotta di classe nella sovrastruttura sotto la dittatura del proletariato quale si presenterà nei paesi a capitalismo avanzato, dopo la sconfitta della borghesia. Altro insegnamento derivato dall’esperienza storica, pienamente valido in paesi come il nostro è naturalmente quello della necessità di condurre questa lotta sempre attraverso la mobilitazione di massa e mai con metodi amministrativi.
Da un’altra parte degli insegnamenti possono essere ricavati per quanto concerne l’azione del partito nella fase attuale, che pur non essendo nel nostro paese una fase rivoluzionaria, è tuttavia una fase in cui il partito agisce in vista della maturazione di una situazione rivoluzionaria. Non vi può essere contrasto insanabile fra il modo dell’azione del partito nella fase non ancora rivoluzionaria, nella fase rivoluzionaria e nella fase successiva alla presa del potere. Benché differenze e contrasti da superare (a costo altrimenti di fallire lo scopo) si presentino senza dubbio. Accenniamo a quegli aspetti di questa necessaria “continuità dialettica” che ci sembrano i più importanti e che danno qualche luce sui problemi della situazione più particolarmente attuale. Da una parte vi è una questione di primordiale importanza che riguarda il carattere clandestino e combattente, oggi, del partito ed il rapporto tra il partito e le masse proletarie. L’avanguardia comunista organizzata in partito fa politica in prima persona, prima, durante e dopo il processo rivoluzionario. Agisce direttamente (cioè non solo orientando l’iniziativa di massa, benché faccia ciò in ogni caso) nei modi e coi mezzi adatti al momento e alle circostanze. In questa fase l’esperienza storica nei paesi a capitalismo avanzato ha dimostrato che la forma clandestina e combattente del partito è la sola a consentire questa azione in prima persona del partito. Ciò non vuol dire naturalmente che nella società socialista il partito mantenga la forma clandestina e combattente. In questa fase il partito è legale e l’uso della forza è attribuito agli organi della dittatura proletaria. Per quanto concerne il rapporto tra il partito e le masse, in ogni caso e in ogni fase, il partito non dimentica mai che uno dei punti cardine di ogni disegno politico della borghesia (che è l’obiettivo che il partito attacca per scompaginarlo) è quello di condizionare il consenso o almeno la passività e la rassegnazione del proletariato come massa e di isolarne le avanguardie. È sempre ben conscio che l’intervento delle masse a livelli di consapevolezza man mano crescenti è condizione indispensabile perché si attraversino i momenti decisivi del processo rivoluzionario. Anche al livello più basso non vi è confronto di classe, se non nella misura in cui vi sono protagoniste le masse.
La distruzione dello Stato borghese nella situazione rivoluzionaria non avverrà mai se non in virtù della mobilitazione delle masse. La lotta di classe sotto la dittatura proletaria o coinvolge le grandi masse o di fatto finisce col non esistere proprio.
Dunque il partito nel suo fare politica deve avere in ogni momento presente la necessità di misurarsi col livello di mobilitazione di massa che il suo fare politica comporta. Questa mobilitazione di massa che il fare politica del partito comporta è sempre determinato da due lati. Da una parte il lato oggettivo, rappresentato dal livello raggiunto, momento per momento, dalla struttura (forze produttive e rapporti di produzione) realmente presente. Qui compresi i vincoli internazionali che sulla struttura incidono inevitabilmente, rendendo utopica la prospettiva del comunismo in un paese solo e di conseguenza decisiva politicamente la parola d’ordine dell’unità internazionalista del proletariato. D’altra parte il lato soggettivo, rappresentato dalla capacità del partito di saldare in una visione razionale del mondo gli interessi storici (e cioè obiettivi) del proletariato come classe, con il progetto politico portato avanti per tappe dal partito stesso. La possibilità di un tale rapporto dipende dal fatto che il partito comunista è esso stesso una parte (la parte più avanzata) del proletariato, e si costituisce per rispondere alle esigenze che obiettivamente e storicamente il proletariato si pone nella fase che porta verso la situazione rivoluzionaria e la società della dittatura proletaria prima e verso l’edificazione della società comunista, dopo. E non è – per contro – né una associazione blanquista, né – ancor peggio – anarchica, che rappresenti gli ideali e i progetti di se stessa. Sarebbe completamente errato ritenere che gli sviluppi qualitativi e quantitativi nella struttura, prima e dopo la rivoluzione, producano meccanicamente (come per riflesso) coscienza rivoluzionaria, costituzione del proletariato come classe per sé (autonomia proletaria) e coscienza dell’obbiettivo della ininterrotta trasformazione della società socialista in società comunista. Senza cioè un autonomo intervento di mobilitazione da parte dell’avanguardia nel campo della sovrastruttura. Intervento che costituisce in definitiva la messa in questione culturale dei rapporti di produzione, i quali informano in quantità e in qualità lo sviluppo delle forze produttive. Come del pari sarebbe completamente errato ritenere che questa messa in questione possa avvenire senza considerazione delle tappe che, invece, è necessario attraversare, sia prima che dopo la rivoluzione, tenuto conto di tutte le condizioni oggettive, interne ed internazionali, come se si trattasse di un processo continuo (o, peggio, istantaneo). Il primo errore corrisponde alle innumerevoli varianti dell’ economicismo-movimentismo, il secondo alle altrettanto innumerevoli varianti del volontarismo idealista.
Non è questa la sede per illustrare le deviazioni che la perdita di questa prospettiva comporta per l’azione del partito. Numerosi e attuali esempi sono sotto gli occhi di tutti. Da un’altra parte alcune considerazioni di primordiale importanza si pongono circa la qualità dei quadri chiamati a formare il partito comunista. Bisogna sempre tenere ben presente il carattere di struttura di massima responsabilità che il partito ha fino alla realizzazione della società comunista, e nello stesso tempo il carattere di struttura destinata ad estinguersi nella società comunista per la cui realizzazione esso stesso fortemente opera. Questa contraddizione costituisce per le avanguardie che lo formano un problema di identità, grave, un punto di equilibri permanentemente instabile che non consente per così dire “posizioni di riposo”.
La più grande cura nel selezionare i militanti del partito tra le avanguardie proletarie, non sempre negli esempi storici che abbiamo brevemente esaminato ha dato i risultati sperabili e sperati. Stalin (e prima di lui Lenin) fu costretto ad istituzionalizzare periodiche purghe del partito da elementi che vi si infiltravano, sempre più numerosi, con l’intento (più o meno evidente e persino più o meno consapevole) di costruirsi una situazione sociale privilegiata, almeno per il suo presunto carattere di stabilità. Ciò non toglie che questi elementi potessero ben essere delle avanguardie proletarie, nel senso limitativo di proletari capaci di comprendere l’importanza e di perseguire realmente le finalità di breve periodo poste dal partito. Ma d’altra parte del tutto impreparati a considerare il marxismo come un patrimonio di principi, un metodo, che implica la massima elasticità rispetto alle finalità di breve periodo e soprattutto una totale consapevolezza della direzione verso cui questa mutevolezza si orienta. Direzione che implica la stessa messa in questione del ruolo di direzione proprio del militante. Oggi si può riuscire ad ottenere l’adesione di militanti di ottima fede e ottima qualità che non riescono tuttavia ad andare al di là della identificazione di un obiettivo parziale e/o di breve periodo, caratteristico di una situazione relativamente temporanea, nel quale identificare la realizzazione di una propria socialità attraverso l’adesione all’ organizzazione rivoluzionaria. Una certa parte dei consensi più marcatamente proletari alle OCC in Italia negli anni 70 ha avuto questo carattere negativo. Il fenomeno può facilmente riprodursi ed in misura anche più grande in una situazione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria. Il partito ne risulta sclerotizzato e facile preda di disegni reazionari. Da un’altra parte, specialmente negli strati proletari più privilegiati, meno sensibili alle finalità di carattere parziale o immediato, l’ insofferenza verso lo stato di cose presente può manifestarsi come adesione verbale (ma anche allo stesso tempo di “spiritualità profonda”) a identità di cittadinanza utopica, la cui attualità è puramente predicatoria e le cui attuali realizzazioni si manifestano come testimonianze personali, capaci anche di grande spirito di sacrificio individuale, ma dal punto di vista della politica comunista, totalmente nulle. Anzi perfino tendenti più o meno consapevolmente al loro contrario, cioè alla realizzazione di piramidi gerarchiche moltiplicate all’ infinito e costituite (nella apparenza) sul grado di fedeltà ed abnegazione ad un’idea e (nella sostanza) sul grado di servitù a strutture sociali privilegiate. Nel caso del linpiaoismo storico abbiamo trovato un esempio (drammaticamente cresciuto all’interno di un gigantesco episodio di lotta di classe) che, nella nostra storia recente in misura più limitata, si è verificato nelle aree influenzate da OCC più marcate da una collocazione di piccola borghesia proletarizzata, tipo PL. È chiaro che da una religione all’altra il passo è breve e che il dissociazionismo ne è una pratica connaturata. La pericolosa vicinanza di questi generi di ribellismo di sinistra al ribellismo di destra è del tutto naturale e l’uso che la borghesia ne ha fatto nel passato non è facilmente dimenticabile. Anche attualmente si potrebbe con una certa facilità ottenere l’adesione di avanguardie proletarie o semiproletarie verbalmente “comuniste” di questo genere. Il partito che ne risulterebbe sarebbe una debole struttura che rapidamente si disgregherebbe sotto la pressione del’uso reazionario che la borghesia ne farebbe. I rischi presenti in certi filoni di antimperialismo, ecologismo, antinuclearismo attuali in Europa, caratterizzati dal più spinto ribellismo ed anche da un disinvolto uso delle armi, non dovrebbero essere fuori dalle nostre preoccupazioni. In ogni caso, ed in particolare nei confronti delle avanguardie in lotta inserite nella produzione, compito del partito non è quello di respingere i militanti che si avvicinano alla organizzazione, ma per contro quello di elevarne il livello con un lavoro di propaganda.
Il compito a cui non possiamo sottrarci, di delineare il nostro progetto futuro, che (inutile dovrebbe essere ripeterlo) in nulla si distingue dalla realizzazione dell’interesse storico del proletariato, ci obbliga al costante paragone con le esperienze storiche della rivoluzione proletaria, nei suoi successi e nei suoi fallimenti, ed al compito di trarre dalla esperienza storica gli insegnamenti qui ed oggi rilevanti. Le argomentazioni sopra esposte vogliono essere un contributo al dibattito su questi temi.
RISTRUTTURAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO, LOTTE PROLETARIE, INTERVENTO DEI COMUNISTI.
In questi ultimi anni, a partire dalla fine del periodo di espansione economica, con il manifestarsi della crisi mondiale dovuta alla sovrapproduzione assoluta di capitale, in ogni paese capitalista si è manifestata una precisa tendenza alla ridefinizione in senso reazionario dei rapporti economico/politico/sociali che regolano le democrazie borghesi. Ciò si evidenzia nel processo di accentramento dei poteri da parte dello Stato, nello svuotamento progressivo delle tradizionali forme di democrazia di base che la classe ha conquistato con anni di dure lotte, come il diritto all’organizzazione orizzontale nei luoghi di lavoro, nello smantellamento di una certa “rigidità” nell’organizzazione, nel mercato del lavoro, ecc.
Proprio in questo ultimo campo si assiste sempre più alla messa in discussione dei criteri che sino ad oggi hanno regolato la compravendita della forza lavoro ed alla loro riformulazione in senso ben preciso, consono alla tendenza generale dell’ involuzione reazionaria della società.
Entrando nel merito della questione, vediamo ad esempio che nel mercato del lavoro le leggi, i criteri e le condizioni che lo regolano, stanno progressivamente eliminando tutti quegli elementi di “rigidità” e tutte quelle conquiste ottenute dalla classe operaia e dal proletariato più in generale, con anni di lotta.
Infatti, se nel periodo di “espansione economica”, esistendo per i padroni relativi margini economici dentro cui fare concessioni (comunque sempre al di sotto delle rivendicazioni proletarie) lo scopo di leggi, accordi, ecc., era principalmente quello di “contenere” lo scontro sociale cercando di ingabbiare le grandi lotte proletarie sul terreno istituzionale, facendo a questo scopo concessioni atte a conseguire un se pur relativo “consenso” (è questo il caso dello statuto dei lavoratori); nei periodi di crisi, mancando questo margine di manovra, la mediazione tra interessi borghesi e interessi proletari diviene problematica ed il “consenso” lascia sempre più il posto alla coercizione, nonché ad un generale attacco sul piano ideologico ai valori di classe.
Questo processo di ristrutturazione del mercato del lavoro rende evidente il fatto che, in periodi di crisi, per la borghesia occorre ristabilire le regole del gioco in generale e nel particolare di questa questione, in quanto la concorrenza spietata tra capitali richiede un mercato del lavoro flessibile che permetta di aumentare costantemente la produttività ed abbassare i costi (in particolare quelli relativi alla forza lavoro); il capitalismo dal “volto umano” va allora messo in soffitta, i principi di egualitarismo eliminati ed in loro vece va posta l’esaltazione del profitto, dell’individualismo e della meritocrazia.
La crisi impone infatti sia ai singoli padroni che agli stessi Stati capitalisti, di adeguarsi a questa necessità, pena la perdita di competitività e la possibilità stessa di restare sul mercato mondiale.
Ciò comporta sia in rapporto al mercato del lavoro, che al processo lavorativo una tendenza a livello mondiale basata su un’accresciuta mobilità occupazionale e geografica della forza lavoro, adattamento della forza lavoro alle fluttuazioni della domanda (calcolo del tempo di lavoro su base annua, stagionale, ecc.), una liberalizzazione totale nell’assumere o licenziare, un’erogazione salariale legata al rendimento ed ai profitti, ecc.
Le conquiste operaie del precedente ciclo economico, le regole stabilite in una fase di espansione economica, quindi incompatibili con la fase in corso, diventano un intralcio alle esigenze di valorizzazione del capitale in questa fase, e vanno quindi spazzate via; questa situazione fa sì che la “garanzia” di un posto di lavoro per tutti (se pure ottenuto a spese dei popoli oppressi), grande miraggio dell’utopia capitalista e base di consenso della socialdemocrazia e dei revisionisti dei paesi occidentali, si dimostri irrealizzabile per lungo tempo all’interno del processo di valorizzazione del capitale e che ,in conseguenza della crisi mondiale, venga quindi messa in discussione “la possibilità di un lavoro per tutti”, dimostrando come sia impossibile sottostare alle leggi oggettive del movimento di capitale e garantire a tutti una casa, un lavoro, un diritto alla salute, ecc., come quindi le conquiste momentanee di un ciclo di lotte non garantiscano dei punti fermi, ma per garantirsi ciò, diritto al lavoro, alla casa, ecc., per il proletariato sia necessario prendere il potere, organizzare la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza sulla base del proprio potere e delle contraddizioni di sviluppo date, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe sino al comunismo.
La situazione sopra descritta, la tendenza mondiale alla flessibilità, evidentemente, non è uguale in ogni paese, essendo essa il prodotto delle condizioni economico/sociali all’interno della crisi in ogni singolo paese, nonché dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello stesso, ma assume alcune caratteristiche simili che fanno sì che nei vari paesi capitalistici si possano delineare alcune caratteristiche comuni che rappresentano già una triste realtà per milioni di lavoratori condannati ad una condizione di lavoro sottopagata e precaria, alternata a veri e propri periodi di disoccupazione. Alcuni dati in proposito ci dimostrano infatti che negli ultimi 15 anni nei paesi dell’area OCSE la disoccupazione è passata da circa 10 milioni di unità a circa 35 milioni, con una crescita costante al di là delle oscillazioni “tra ripresa e ricaduta” dovuta alle controtendenze all’interno della crisi. Tale tasso di disoccupazione dopo oltre 5 anni di costante salita non discende sotto l’11%.
In Italia negli ultimi 10 anni i disoccupati sono aumentati dell’84%: nel 1977 erano infatti poco più di un milione e mezzo, nel 1987 sono circa tre milioni.
Nel periodo tra il marzo 1982-1988 in Francia circa un milione di lavoratori ha perso il lavoro stabile, mentre altrettanti si sono trasformati in lavoratori precari, comprendendo in quest’area contratti determinati, lavoro occasionale, part-time, il “falso lavoro indipendente”, che comprende per lo più lavoro in appalto, ma per un cliente “dominante” che spesso è l’ex datore di lavoro. In Germania Federale nell’87 un terzo della popolazione attiva lavora part-time, a tempo determinato o in “proprio” (tenete presente l’esempio, sopra esposto, sul falso lavoro in proprio). In Gran Bretagna dall’81 all’87 i lavori a tempo pieno sono diminuiti di 1.070.000 unità, gli altri lavori sono aumentati di 1.700.000 unità rappresentando il 36% della manodopera. In Italia secondo il Censis due milioni di lavoratori hanno un lavoro discontinuo e irregolare, tenendo presente che tali dati sono al ribasso non contando i lavoratori stranieri, i minori e le “casalinghe” che ogni anno perdono e trovano il lavoro, contando i quali il numero si raddoppia. L’attuale situazione occupazionale nei paesi OCSE verte infatti sull’alternarsi di due fenomeni: precarizzazione generale del posto e delle condizioni di lavoro e aumento del numero dei disoccupati. Nel complesso i due fenomeni producono flussi di entrata e di uscita dal mondo del lavoro, che sono in realtà una mobilità forzata da una sottoccupazione all’altra, in un mix tra lavoro precario ma con i libretti, lavoro nero, extra legalità, ecc., con livelli sia di stagnazione nello stato di disoccupazione, nei confronti della forza lavoro più adulta e meno qualificata (con progressivo aumento dei disoccupati di lungo periodo per i quali non resta che il lavoro nero), sia con una elevazione dell’età in cui si accede al lavoro, con relativo impoverimento generale delle famiglie proletarie costrette a provvedere al mantenimento dei figli. Ed è proprio in virtù di questa doppia situazione che il fenomeno disoccupazione non ha ancora assunto la caratteristica di “esplosione sociale” che ci si attenderebbe, sebbene tale situazione prolungata nel tempo non può che acuire le contraddizioni di classe nella società. Questa situazione non è però dovuta come i padroni, i revisionisti, ed i ricercatori prezzolati del Ministero del Lavoro vorrebbero far credere da un’eccessiva rigidità delle regole del mercato del lavoro, (che impediscono un flusso regolare tra domanda e offerta), dall’espulsione oggettiva che sempre producono le nuove tecnologie, o errori in materia di politica del mercato del lavoro; in realtà essa è la conseguenza della crisi di valorizzazione del capitale, e la conseguenza di questa crisi delle controtendenze che la borghesia e i vari Stati attuano per restare nel mercato mondiale, e che vedono nell’utilizzo precario della forza lavoro, e nella disoccupazione di lunga durata, nella creazione di una fascia secondaria del mercato del lavoro con condizioni di sottosalario, (il sweat-shop americano) un loro cardine. Sia per attuare una produzione basata sulla flessibilità, sia attraverso un uso capitalistico delle nuove tecnologie che cercano di rendere sempre più manipolabile l’intero processo lavorativo con l’eliminazione dello stoccaggio, delle scorte, sviluppando un modello lavorativo legato alla variabilità delle differenti gamme richieste dal mercato, per cui il prodotto deve essere pronto nella quantità e nel momento richiesto, per cui in ogni ramo della produzione e dei servizi prevale la “filosofia” del meglio un lavoratore fisso in meno che uno in più, rispondendo alle esigenze produttive con aumento degli straordinari, assunzioni a termine, subappalto e lavoro nero, aumento delle prestazioni, degli orari, ecc.
Queste misure messe in atto dalla borghesia e dai vari Stati non servono però a superare la crisi ed a rilanciare un nuovo periodo di sviluppo, ma solo ad ingenerare (in alcuni casi per breve periodo) riprese circoscritte all’interno del periodo di crisi generale, amplificando così ogni qual volta la contraddizione iniziale; non è questa la sede per un esame approfondito della questione, ne basti un accenno per mettere in risalto che la logica con cui vengono messi in atto determinati processi di ristrutturazione, risulta in ultima istanza inutile a contrastare la tendenza di fondo della crisi.
In questa sede si vuole invece, alla luce di quanto sopra scritto affrontare nel particolare la questione delle modificazioni che sono avvenute e stanno avvenendo nel nostro paese nell’ambito del mercato del lavoro, nelle condizioni di lavoro e la loro connessione con l’atteggiamento dei padroni, del governo, dei sindacati e del proletariato in rapporto a queste modificazioni in corso.
Per cercare le origini di questa ristrutturazione, dobbiamo risalire all’incirca alla metà degli anni settanta (nei primi anni della crisi) allorché inizia a manifestarsi una certa inversione di tendenza nei criteri che regolano il mercato del lavoro; in questi anni, infatti, l’introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo comporta notevoli modificazioni sia rispetto all’organizzazione del lavoro, caratterizzati dalla segmentazione della catena, tramite il disaccoppiamento delle fasi di lavorazione con creazione di polmoni di scorte intermedi che consentono una certa autonomia delle diverse fasi di lavoro, razionalizzazione o il decentramento dei singoli segmenti, dell’automazione, ecc., che alle condizioni entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro: espulsione massiccia di forza lavoro; utilizzo sfrenato della Cassa Integrazione; blocco del “turn-over”, ecc.
A queste manifestazioni della tendenza che inizia a delinearsi in questi anni, il sindacato accettando i criteri di compatibilità , di fatto contribuì con l’adozione della cosiddetta “politica dei sacrifici”, la stipulazione degli accordi che concedevano ai padroni il massimo di disponibilità su mobilità, festività, ferie, ecc. e, più in generale, con l’accettazione del criterio padronale che vuole il salario operaio “variabile dipendente” dei profitti padronali e che si sviluppa anche sul piano ideologico con la sudditanza all’utilizzo strumentale dei nuovi processi innovativi in chiave sostanzialmente reazionaria che la borghesia fa (attacco ai valori egualitari da sempre patrimonio del movimento operaio, propaganda massiccia dei valori borghesi della meritocrazia, dell’individualismo, ecc.).
A proposito di questi processi innovativi negli ultimi anni si è fatto un gran parlare su un presunto venir meno della centralità della classe operaia e contemporaneamente su di una (sempre presunta) trasformazione qualitativa dell’organizzazione del lavoro in seguito alla introduzione delle nuove tecnologie.
Si rende perciò necessaria una breve parentesi, in realtà; Primo: la innovazione tecnologica non ha significato maggior professionalità per la maggioranza dei lavoratori, ma solo specializzazione per una cerchia ristretta di tecnici e sprofessionalizzazione per la stragrande maggioranza della forza lavoro, che poi questa oggi abbia maggiori titoli di studio, è dovuto alla scolarizzazione di massa, ma non riflette la mansione svolta. L’automazione cioè ha prodotto nuovi mestieri altissimamente qualificati (quali progettisti, analisti, ecc.) che interessano una parte minoritaria della forza lavoro impiegata, mentre per la stragrande maggioranza dei cosiddetti “nuovi lavori” si tratta di mansioni di operatore o controllore a basso livello di qualificazione. Le stesse esigenze di mobilità aziendale e di polivalenza interfunzionale di produzione (in cui tutti devono fare di tutto), la diminuzione degli aspetti di professionalità basati sul mestiere, dimostrano proprio questa avvenuta dequalificazione.
Si può quindi affermare che la sprofessionalizzazione, dovuta ai processi innovativi, allarga le file del proletariato industriale coinvolgendo professioni che godevano privilegi nella fase precedente.
Secondo: l’innovazione tecnologica che ha determinato l’espulsione di un gran numero di lavoratori, indebolendo la capacità di contrattazione di chi restava al lavoro, ha prodotto solo in parte un aumento di produttività, che è stato invece ottenuto (ancora una volta) con il peggioramento delle condizioni di lavoro ed il maggior sfruttamento della forza lavoro restante. Nell’ottantasei, ad esempio, l’aumento di produttività ha battuto ogni record superando il 4,5% ed in due anni più del 10%, questo dato è omogeneo a tutta l’industria, coinvolgendo perciò anche i settori non interessati, o interessati solo marginalmente all’automazione della produzione e dell’informatizzazione.
Alla Fiat la produzione è aumentata, ad esempio in tutte le aree anche nei reparti solo sfiorati dall’innovazione tecnologica, con aumenti del 30%, 50%, 80%. Come si vede, dunque, l’aumento di produttività è stato dovuto solo in parte ai processi di innovazione tecnologica, ma tale innovazione ha comportato una tale “rivoluzione” del processo produttivo, da determinare un aumento dello sfruttamento operaio tramite l’aumento dei carichi di lavoro, della mobilità interna ed esterna, dell’arbitrio dei quadri, con l’imposizione del recupero del tempo perduto anche in caso di guasti o carenze nell’organico (imposizione cioè di fornire la produzione “in ogni caso”), determinando oltre al notevole peggioramento delle condizioni di lavoro, un aumento considerevole degli infortuni a causa dei ritmi massacranti, nonché di macchinari spesso degradati, ecc. (si pensi che nel solo 1985 sono stati denunciati – dati INAIL – 2.012 casi di morte sul lavoro con una media di 6 al giorno; 905.088 infortuni “ufficiali” dato che la portata reale è spesso superiore di 4-5 volte quello ufficiale come rivelano per esempio chiaramente le varie denunce operaie sulle pressioni della Fiat affinché non si denuncino infortuni o li si declassi a malattia). Così come l’uso massiccio dello straordinario sia contrattato che selvaggio (giornate lavorative di 10/12 ore, compresi sabato e domenica e 3° turno), nonché l’attivazione dei premi salariali e dei “circoli di qualità” (aree con lavorazioni omogenee che vengono messe in competizione con altre del medesimo settore) sottoposte ogni mese ad una vera e propria gara di qualità “con premio finale”.
Gare e premi salariali, collettivi e legati ai vari indici tra cui la presenza, hanno l’evidente scopo di ingenerare una competizione continua all’interno dell’area e di creare una collaborazione nelle squadre contro l’assenteismo, spingendo gli operai a diventare “poliziotti” gli uni degli altri al fine di armonizzare automazione, flessibilità e lavoro operaio nella contraddizione controllo gerarchico e consenso. Ripristinando i reparti confino per i “meno prestanti” (le tristemente famose UPA del gruppo Fiat) come invalidi, ecc., e per gli operai più combattivi, allo scopo di isolarli dal resto dei lavoratori e col massiccio uso dei licenziamenti e dell’induzione “all’auto-licenziamento”, in particolare per quei lavoratori considerati dall’azienda improduttivi (in realtà di quegli operai che mostrano maggior resistenza all’offensiva padronale, basti ricordare il caso Fiat del 1980, che ha agito da capofila nel settore).
Sviluppando infine una tendenza al decentramento di fasi decisive del ciclo produttivo con il diffondersi di piccole e piccolissime aziende in cui il tasso di occupazione è di difficile controllo, operando per lo più al nero e con, nel contempo, un aumento delle ditte appaltatrici che lavorano all’interno delle grandi fabbriche, con ulteriore disgregazione degli operai.
I dati sopra riportati sinteticamente, su cui sarà necessario tornare in altri articoli per ragionare sull’attuale processo lavorativo in fabbrica, possono aiutare a comprendere come la classe operaia continui quindi a costituire il cuore della produzione capitalistica, il luogo in cui avviene l’estrazione del plusvalore, nonostante le riorganizzazioni e la ristrutturazione dell’organizzazione del mercato del lavoro: la sua centralità non è quindi messa in discussione da questi processi, ciò che invece lo è, è il modo entro cui avviene lo sfruttamento operaio. Questa riorganizzazione ha infatti determinato un peggioramento delle condizioni di lavoro e di quelle entro cui avviene la compra-vendita della forza lavoro. 
Riportando il discorso alla fine degli anni 70 e sino al 1983, si può dire che questi processi ristrutturativi si sviluppano sul terreno delle modifiche inerenti il processo lavorativo, i licenziamenti, la Cassa Integrazione ed il blocco del turn-over; l’attacco è portato in prima persona dal grande padronato (Fiat in testa) con un ruolo indiretto dello stato (mediazioni, finanziamenti alle aziende, ecc.) e la convivenza suicida del sindacato. Il sindacato infatti, dalla fatidica svolta dell’EUR, posto di fronte alla crisi, reagisce riconoscendo appieno le compatibilità capitaliste, le esigenze di mercato, ecc., allontanandosi sempre più dalla difesa, anche minima, degli interessi della gran parte del proletariato, sempre più burocratico e verticistica (esautora, cioè, in modo autoritario le strutture di base, i consigli di fabbrica, ecc.) inserito in organi collegiali pubblici e dunque sempre più ammanicato con il potere; illuso di poter cogestire le scelte di politica economica del grande padronato e dello Stato.
Un sindacato non solo riformista dunque, ma sempre più rivolto a compiacere governo e padronato, dando la sua disponibilità alla partecipazione della gestione della crisi a livello sociale, ricercando la propria legittimazione da parte dello Stato e dei padroni, e non in rapporto con i lavoratori. Un sindacato che all’interno della crisi economica non può più conciliare difesa del sistema e difesa delle condizioni operaie seppur al ribasso, e sceglie come strategia l’idea di conciliare difesa dell’economia nazionale e politica di sacrifici dei lavoratori nell’immediato, in compenso di un recupero futuro sia dal punto di vista economico, che politico. Come queste fossero pie illusioni la crisi attuale del riformismo e delle confederazioni che nel migliore dei casi cercano nelle teorie del “liberal Dahrendorf” nuovi orizzonti strategici, sta a dimostrarlo. L’originaria politica dei cedimenti si è infatti rivelata via via giustificazione per ulteriori cedimenti, ed in quanto a recuperi economici e politici per i lavoratori, il salario medio operaio e le discriminazioni sindacali alla Fiat la dicono lunga sul come ciò non è avvenuto.
Il 1983 rappresenta un anno di svolta nel processo di controriforma del mercato del lavoro in Italia, in quanto da un lato è l’anno in cui avviene una vera e propria svolta nell’utilizzo della cassa integrazione sia ordinaria che straordinaria, da allora in poi massicciamente adoperata da gran parte delle aziende italiane sia come forma di ammortizzatore sociale, (dal momento che garantisce un reddito se pur ristretto ai lavoratori, senza il quale il conflitto sociale tenderebbe a radicalizzarsi), sia come forma di ricatto sui lavoratori (se scioperi rischi la cassa integrazione) ed ancora come forma per espellere le avanguardie di lotta ed i lavoratori considerati poco produttivi (anziani, invalidi ecc.) e limitare il potere sindacale, ed infine come regolatore della produzione in funzione delle esigenze del mercato (è questo soprattutto il caso della cassa integrazione ordinaria).
Ma ancor più è un anno di svolta poiché lo Stato entra direttamente nel conflitto tra capitale e lavoro, tramite l’accordo Scotti dell’83 e con la legge 869 dell’84 di conversione dei vari decreti e di attuazione di altre clausole dell’accordo che sancisce il “diritto” dei padroni alle libere assunzione riducendo inoltre il salario e, più in generale, gli spazi di agibilità conquistati con anni di lotta.
Tale manovra governativa realizza questi obiettivi attraverso la revisione del meccanismo della scala mobile ed il contenimento degli aumenti retributivi (che con l’accordo Scotti taglia del 20% la contingenza sui salari e col decreto Craxi di tre punti cioè di un altro 40% la scala mobile); attraverso la definizione della durata minima di 3 anni e mezzo dei contratti nazionali contro i due precedenti, ed il blocco della contrattazione aziendale per un periodo di 18 mesi, ancora attraverso lo scardinamento dell’articolo 5 dello statuto dei lavoratori (controlli sulle assenze malattia) con l’imposizione di quella specie di “arresti domiciliari” che rappresenta l’obbligo di restare al proprio domicilio durante le fasce orarie, pena la sanzione disciplinare (anche nel caso venga riconosciuta la reale malattia) e la perdita di indennità di malattia per l’intero periodo di assenza: con la limitazione della cassa integrazione, per cui da “licenziato” con una forma di reddito si diventa licenziato a tutti gli effetti con reddito zero, infine con l’affossamento della chiamata numerica che costituisce un pesante attacco al “diritto al lavoro”, in quanto reintroduce una forma più palese di discriminazione nelle assunzioni, cioè in base alla discrezionalità dell’azienda; tramite la facoltà di assunzione nominativa per il 50% delle richieste numeriche, con i “contratti di solidarietà” e con i contratti di formazione e lavoro, questi ultimi permettono alle aziende il rinnovo del turn-over, con 2 anni di prova sul lavoratore, salario d’ingresso e una regalia di circa 2 mila miliardi l’anno da parte dello Stato e perciò non a caso sono diventati oggi la maggior forma d’assunzione (nota 1) riducendo nel complesso le assunzioni numeriche al 5% della totale forza lavorativa avviata al lavoro.
Inoltre l’ampliamento della possibilità di ricorrere al part-time ed alle assunzioni a tempo determinato, e le basi di una nuova legge sul mercato del lavoro che in seguito dovrà sancire anche in forma di principio ed attraverso determinati organi di gestione, la cosiddetta “deregulation” (osservatorio, agenzia del lavoro, ecc.).
L’accordo Scotti e la legge 863 si pongono perciò come secondo momento di attacco (nella fase di ristrutturazione del mercato del lavoro) delle conquiste proletarie ed indicano chiaramente i successivi passaggi a cui lo Stato e grande padronato si apprestano. L’approvazione della legge 56 del febbraio 87 (nota2) ed i vari provvedimenti presentati dal governo Craxi e poi ripresi in alcuni punti nel programma del governo De Mita rappresentano questo sviluppo.
Tutti i provvedimenti sinora accennati, gli organismi istituiti ed i processi di ristrutturazione messi in atto, rappresentano una vera e propria modifica del mercato del lavoro e del collocamento in particolare che, da organismo con funzioni assistenziali, clientelari, mediatrici, diviene tendenzialmente strumento di controllo-orientamento del mercato del lavoro a puro uso padronale. Ognuno di questi organismi ha infatti funzioni specifiche, ma tutte funzionali a questo riordino del mercato del lavoro; le commissioni e sezioni circoscrizionali (strutture mobili per il controllo immediato e capillare della forza lavoro) sono preposte innanzitutto alla razionalizzazione ed al coordinamento della miriade di uffici di collocamento, premessa di una più funzionale schedatura dei proletari senza lavoro, per la gestione della chiamata domiciliare dopo aver ormai ovunque eliminato la chiamata pubblica, considerata fonte di “disordine sociale” in quanto momento di aggregazione dei disoccupati.
La meccanizzazione del collocamento avviata in alcune regioni italiane e sbandierata come conquista dal sindacato, è al contrario lo strumento necessario a rendere funzionali questi organismi per effettuare la schedatura di massa.
Nota 1: Nel solo gruppo Fiat nel 1988 si sono avute 14.000 assunzioni soprattutto con contratto di Formazione e Lavoro.
Nota 2: La legge 56 prevede un adeguamento alle nuove esigenze padronali, degli organi di gestione del MDL, con l’istituzione di  commissioni e sezioni circoscrizionali, una Commissione Regionale per l’Impiego, gli osservatori sul MDL generale e regionale, le agenzie del lavoro.
Le Commissioni Regionali per l’Impiego sono un organismo di governo del mercato del lavoro locale (composto da componenti del potere centrale e locale, padroni e sindacato) ed hanno ampi poteri di stabilire, anche in deroga alla legge nazionale, ulteriori assunzioni con chiamata nominativa di disoccupati di altre circoscrizioni, possono esprimere pareri sulla cassa integrazione straordinaria, proporre corsi professionali, stabilire convenzioni con imprese. Hanno quindi lo scopo di canalizzare la forza lavoro a seconda delle esigenze capitalistiche (dei piani di sviluppo, investimenti, ecc.) creando casti bacini di forza lavoro regionale flessibile.
Gli Osservatori Regionali e l’Osservatorio Generale che centralizza l’opera svolta da quelli regionali funzionano da centri di rilevazione ed elaborazione dati sull’andamento del mercato del lavoro, di centralizzazione della schedatura dei disoccupati, che fanno anche con scheda propria, oltre a quella già compilata dai disoccupati al momento dell’iscrizione al collocamento.
Questi osservatori sono il centro di elaborazione dati della forza lavoro e sul suo utilizzo, il luogo in cui vengono ulteriormente elaborate le politiche tese a far conciliare (finché possibile) esigenze padronali e necessità del “consenso”, nonostante questo risultato sia sempre meno perseguibile e la loro azione resti perciò sempre più tesa ad orientare i flussi di forza lavoro verso i settori più produttivi per il capitale e di fornire indicazioni sulle cosiddette “zone e situazioni a rischio” rispetto alle quali si tende sempre più ad operare con il bastone in mancanza della “carota”, con buona pace dei trattati sociologici sfornati da vari osservatori (militarizzazione dei quartieri, degli uffici di collocamento, comunità alloggio, ecc.).
Le Agenzie del Lavoro sono il luogo in cui l’attività di ricerca degli osservatori e degli altri organismi si trasforma in atti concreti ed in provvedimenti operativi: sponsorizzate in questi anni dal sindacato come “organi tecnico-progettuali capaci di creare nuovi posti di lavoro” (e così presentati dalla legge 56) sono in realtà l’ente che farà da intermediario tra domanda e offerta di forza lavoro, canalizzando la forza lavoro più debole verso forme di lavoro fittizie e precarie (i cosiddetti “lavori socialmente utili”: i cantieri per disoccupati, ecc.).
Se questi sono gli organismi che dovranno gestire il nuovo mercato del lavoro, gli aspetti più rilevanti delle leggi che definiscono il nuovo mercato del lavoro sono: A) la facoltà di allargare la percentuale di contratti a termine. B) la concessione di ulteriori deroghe alla già misera percentuale di chiamate numeriche. Concessione questa già sancita da varie convenzioni regionali (padroni-sindacato) e dal recente accordo Sindacati Confindustria che oltre a riconfermare i contratti di formazione e lavoro (peraltro peggiorandoli, definendo cioè norme che prima non lo erano, e facendolo al livello più basso, ha reso più difficile o chiuso del tutto possibilità di contrattazione a livello decentrato) ha inserito la possibilità per le aziende di assumere il 10% dell’organico con contratti a termine di durata da 4 a 12 mesi, contratti che per essere attuati non hanno bisogno di rispondere a nessuna esigenza di ordine produttivo, ma che sono il ricatto che i padroni impongono per assumere giovani sotto i 29 anni e bassa scolarità e disoccupati di lungo periodo oltre i 29 anni. Si noti bene che per stabilire il 10% non si contano gli altri contratti a termine richiesti invece dall’azienda per esigenze produttive. C) l’eliminazione delle chiamate numeriche nell’apprendistato, perché l’elevazione sino a 29 della qualifica di apprendista e l’assunzione degli stessi per lavori stagionali nell’artigianato. D) l’instaurazione della clausola che prevede in caso di rifiuto per due volte consecutive da parte del disoccupato del lavoro propostogli (qualsiasi lavoro: nocivo, massacrante, ecc.) la perdita del diritto ad ogni tipo di indennità di disoccupazione e la cancellazione dalle liste di collocamento.
Come si vede si tratta di un’ulteriore passo avanti di quell’opera di definizione dello strapotere padronale, nonostante sia stato stralciato (per il momento) il provvedimento relativo alle chiamate numeriche che costituiscono, congiuntamente alla possibilità di poter licenziare su cui insistono in ogni occasione i padroni oggi, una delle principali conquiste operaie da abbattere, sebbene più come principio che altro, in quanto come si è già visto oggi, in base alle varie leggi e deroghe, nei fatti sono pressoché inesistenti.
Questo decreto-legge (di riforma delle chiamate) rappresenta uno dei provvedimenti del governo De Mita che si differenzia dall’impostazione padronale solo per il fatto che prevede la generalizzazione della chiamata nominativa ed una quota minima di chiamate da una lista per le “fasce deboli” (una sorta di “lista dei disperati”) seppur sempre con chiamata nominativa e su questa impostazione incontra l’assenso sindacale, mentre il mondo padronale spinge maggiormente per l’abolizione di qualunque obbligo di assunzione tout-court lasciando i problemi dei disperati allo Stato, questi due diversi atteggiamenti si spiegano col ruolo che deve svolgere lo Stato nella ricerca della maggior “stabilità, governabilità” possibile, conseguibile tramite la mediazione di interessi diversi.
La riforma della Cassa Integrazione è un’altra questione sulla quale il governo ha nefaste proposte tese a porre fine alla Cassa Integrazione a lunga scadenza, e che sono esplicate nel progetto del ministro Formica.
Il principio è molto chiaro in materia; infatti prevede dopo un periodo di Cassa Integrazione (che in ogni caso non potrà superare i tre anni salvo ulteriori proroghe) la possibilità per il padrone di mettere in mobilità i lavoratori.
Le forme che poi vengono proposte per “ricollocare” i medesimi, sfiorano il ridicolo; essendo basate su un tentativo di armonizzare liste di mobilità e liste di disoccupazione che, vista l’attuale situazione costituirebbero di fatto un’unica lista di disoccupazione, costante. La messa in mobilità, prevede inoltre una notevole diminuzione di reddito, prevedendo un’indennità di 30 mesi inferiore al trattamento salariale d’integrazione ed il cui importo dopo i primi sei mesi viene progressivamente ridotto ogni 5 mesi; come si può ben capire, ciò significa la perdita di ogni forma di reddito nel giro di due anni e mezzo.
Ma oltre l’aspetto salariale/economico, vi è quello più propriamente politico dal momento che perdendo con la messa in mobilità, la titolarità del posto di lavoro viene di fatto indebolita la capacità contrattuale dei cassaintegrati ed ostacolate le lotte per la difesa del posto di lavoro, con una perdita complessiva dell’identità del collettivo. La messa in mobilità assume quindi due connotazioni ben precise: l’isolamento e la progressiva perdita di reddito fino a trovarsi in breve tempo nell’ampia schiera dei disoccupati, insomma, in definitiva se la Cassa Integrazione è sempre stata l’anticamera dei licenziamenti, la proposta di riforma della stessa è il licenziamento immediato e di massa, teso a troncare ogni legame con chi resta al lavoro o chi viene messo in mobilità, e tra i cassaintegrati stessi spinti a cercare soluzioni individuali.
Sempre in questo campo vale la pena di ricordare inoltre quell’ennesimo provvedimento anti proletario che è costituito dalla proposta “dell’irriducibile” Giugni rispetto alla riforma del meccanismo che regola il licenziamento individuale, questa riforma sposterebbe da 15 a 19 il limite numerico al di sotto del quale il padrone non è tenuto a motivare il licenziamento (una vera e propria beffa nei confronti dei proletari che da anni lottano per eliminare ogni limite numerico e ottenere che in tutti i casi il padrone motivi il licenziamento); per le aziende con non più di 80 dipendenti eliminerebbe l’obbligo di riassunzione in caso di licenziamento illegittimo (introducendo una sorta di penale a titolo di risarcimento); concederebbe inoltre al padrone la possibilità di sospendere il lavoro a tempo indeterminato facendo ricorso alla magistratura affinché sia il giudice ad intimare il licenziamento. Nel periodo compreso sino al passato ingiudicato della sentenza (premesso che il giudice abbia ritenuto validi i motivi del licenziamento, ma possiamo essere sicuri che questo non avverrà per almeno il 90% dei casi), periodo che dura almeno 4 o 5 anni, il lavoratore resterebbe così privo di salario, che gli verrebbe corrisposto in seguito solo se riconosciuti infondati i motivi del licenziamento. Questo ultimo dato rappresenta tra l’altro un incentivo all’auto licenziamento, dato che è ben difficile che dei proletari possano resistere 5 anni senza salario.
Come si può ben capire da quanto sopra esposto, le misure già attuate e quelle in via di attuazione, non ultime le proposte di ristrutturazione del pubblico impiego, tendono ad eliminare le conquiste più significative del movimento operaio e proletario del nostro paese in merito all’uso e alla vendita della forza lavoro. Questa vera e propria ristrutturazione del mercato del lavoro in senso reazionario, iniziata a partire dalla metà degli anni 70, ha avuto e ha tutt’oggi essenzialmente due scopi strettamente collegati tra loro: da una parte creare le condizioni per una costante diminuzione del costo del lavoro e per il massimo di discrezionalità da parte padronale rispetto all’utilizzo della forza lavoro, cercando di creare la competizione tra occupati e non, tra chi ha un lavoro stabile e chi precario.
Dall’altra, eliminare tutte quelle espressioni di rigidità operaia, l’egualitarismo e la contrattazione collettiva, nonché tutte quelle forme di organizzazione proletaria che permettono ai proletari di sentirsi parte integrante di un’unica classe e non individui isolati di fronte ai padroni; insomma, sconfiggere ancora una volta il proletariato del nostro paese sul piano politico.
Tuttavia, se queste sono le intenzioni del governo e del grande padronato, bisogna pur dire che la realtà non si svolge esattamente come i loro desideri. Se oggi come oggi possiamo dire che si è avuta una certa restaurazione dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato a favore della borghesia, dobbiamo comunque riconoscere che essa non si è svolta con la linearità che potrebbe dedursi da quanto sinora esposto. Come tutti i fenomeni ed i mutamenti sociali, essa si è infatti svolta nel vivo della lotta di classe, il proletariato del nostro paese ed in particolare la classe operaia ha infatti intuito i reali termini dello scontro ed ha combattuto duramente contro questa ridefinizione del mercato del lavoro, che iniziava per linee generali circa dieci anni fa, ed a tutt’oggi ben lungi dall’essersi affermata e consolidata, proprio a causa di questa capacità di lotta e di resistenza del proletariato. La pesantezza dell’attacco, l’avversità degli interessi della stragrande maggioranza del proletariato da parte delle direzioni sindacali, la messa in campo da parte della borghesia di una serie di strumenti tesi a far “accettare” in qualunque modo la “validità” del capitalismo (da quelli coercitivi a quelli di propaganda ideologica), della meritocrazia e dell’individualismo suoi corollari, (utilizzando a tale scopo i soliti pennivendoli del regime, ex rivoluzionari, ecc.); l’assenza o la presenza incostante dell’avanguardia rivoluzionaria nello scontro sociale, non hanno impedito momenti di mobilitazione e di lotta sia in singole aziende che più in generale a livello nazionale, dalla lotta dei 35 giorni alla Fiat nell’80, a quelle dei cassintegrati e disoccupati in più parti d’Italia, dalle grandi mobilitazioni contro il taglio della scala mobile, sino alle grandi lotte dei portuali di Genova ed alla bocciatura degli accordi sindacali in merito ai contratti nelle maggiori roccaforti del movimento operaio, per giungere sino alle recenti lotte dei Cobas, degli operai di Bagnoli, dell’Alfa di Arese e Pomigliano, ecc.
L’insieme di queste lotte ha messo in evidenza come in questa fase le mobilitazioni proletarie (che pure hanno avuto il limite di essere essenzialmente difensive), a differenza degli anni 70 in cui si individuavano essenzialmente la controparte nel padrone di ogni singola azienda, oggi proprio a causa del maggior intervento a cui in questa fase è chiamato lo Stato (ed in particolare il governo tramite le politiche congiunturali), individuino sempre più non solo il padronato, ma anche il governo e le politiche da questo messe in atto, come diretti responsabili delle condizioni proletarie.
Questo fatto caratterizza queste lotte, pur nella semplice difesa delle passate conquiste, come lotte oggettivamente antigovernative.
Anche per ciò che concerne questo aspetto delle politiche antiproletarie messe in campo dal governo e dal grande padronato, il proletariato italiano ha dunque mostrato la capacità di individuare non solo i diretti responsabili ma il terreno su cui occorre contrapporvisi, quello più propriamente politico nonostante ciò si affermi più come dato oggettivo che come coscienza acquisita, e questo costituisce un importante elemento di cui i comunisti devono tener conto nel proprio agire.
Un altro significativo elemento è dato dal fatto che tutte le questioni generali inerenti il mercato del lavoro, interessando di fatto tutti i settori del proletariato (occupati e non) stabiliscono oggettivamente un legame tra essi e mostrano come questa classe pur nella frammentazione delle varie figure che la compongono, sia accomunata da un interesse unico sulle questioni generali.
Non è un caso che proprio questo dato sia oggetto di mistificazione da parte della borghesia e che essa cerchi di contrastarlo in ogni modo. A questo proposito il ricatto occupazionale, oltre a rispondere a precise esigenze di produzione, funziona a meraviglia allo scopo di dividere il proletariato tra occupati e non; tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri, nonché all’interno della stessa fabbrica, per ottenere un certo grado di “pace sociale”.
Nello specifico di quanto sinora trattato (ristrutturazione del mercato del lavoro e lotte in merito) possiamo vedere che i “contenuti più avanzati”, quelli che possono essere considerati politicamente qualificanti perché contribuiscono ad accomunare i vari settori di classe favorendone così la riunificazione sul piano politico e perché rispecchiano l’interesse generale del proletariato, sono rappresentati dalla opposizione al processo di “deregulation” in atto in questo campo: dalla lotta, cioè, ai vari provvedimenti tramite cui oggi si concretizza questo processo, come la chiamata “nominativa”, i “contratti a termine”, di “formazione-lavoro”, l’istituzione delle agenzie di lavoro, la riforma della cassa integrazione guadagni speciale. Così come l’opposizione più generale a considerare il salario variabile dipendente dall’andamento dei profitti aziendali, la forza lavoro a completa disposizione delle esigenze produttive (vedi l’idea di una “flessibilità selvaggia”) ecc.
Temi ed obiettivi come quelli appena accennati infatti, riaffermando il diritto proletario alla “rigidità” dell’organizzazione e del mercato del lavoro e più in generale al lavoro, pur mantenendo un carattere difensivo (tendendo più ad opporsi allo smantellamento delle conquiste passate che non alla rivendicazione di nuove), acquistando un notevole significato politico se si pensa che proprio questo genere di conquiste hanno consentito negli anni al proletariato italiano di porsi all’avanguardia della lotta di classe a livello internazionale.
Il proletariato del nostro paese ha già dunque individuato in questa contro riforma un nuovo attacco alle condizioni proletarie, un loro peggioramento per ciò che riguarda la compra-vendita della forza lavoro, che accentua la divisione nel suo seno e concede alla borghesia maggiori possibilità di manovra. Ha capito insomma, che tramite questa ristrutturazione vengono messe in discussione la conquiste di anni di dura lotta.
Per i comunisti si tratta allora di operare affinché da questa prima consapevolezza si giunga a quella più generale che mette in relazione le condizione proletarie contingenti con la natura stessa del sistema sociale, e come questo processo di acquisizione e crescita della coscienza di classe, questo percorso cosciente che scaturisce dalla dialettica tra movimento antagonista di massa e avanguardia comunista, non possa avvenire in modo automatico, né darsi da un giorno all’altro. Esso è un processo graduale che può compiersi solo se la soggettività comunista riesce a svolgere correttamente il proprio ruolo: individuando costantemente i temi e gli obiettivi che occorrono ad unire i vari settori di classe ed a farli partecipi della coscienza di essere una classe unica, con un interesse generale medesimo, ed approntando su questo gli elementi del programma politico attraverso cui passa il rapporto (politico) con la classe.
Nello specifico delle questioni sinora affrontate va considerato il modo in cui i comunisti possono articolare il loro intervento politico in merito alla ristrutturazione del mercato del lavoro, sia per ciò che concerne al cuore dello Stato (linea politica), sia per ciò che riguarda il rapporto (dialettico) con la classe (linea di massa) e quello più specifico teso a rafforzarvi, estendervi e radicarvi la presenza del partito tramite la costituzione di proprie strutture (lavoro di reclutamento e costituzione di cellule). Nel passato, ad esempio, da parte dell’avanguardia comunista combattente a questo problema sono state date risposte diverse e quasi sempre errate, allorché da una parte essa disperdeva il proprio intervento politico nell’attacco alle strutture periferiche in cui vengono resi operanti i provvedimenti che regolano la compra-vendita, della forza lavoro (uffici collocamento, ecc.), dall’altra, sottovalutando l’importanza del lavoro di organizzazione, propaganda ed agitazione che la presenza costante dell’avanguardia comunista nelle situazioni proletarie deve garantire, identificandolo in più casi (e quindi sostituendolo) con il lavoro di reclutamento, finendo così per non risolvere correttamente alcuno degli aspetti su cui deve articolarsi la politica rivoluzionaria (lotta politica, lotta di massa, lavoro di reclutamento). Oggi si tratta perciò di rivedere (anche alla luce della riflessione autocritica della passata esperienza), il ruolo dei comunisti nello contro sociale anche per ciò che riguarda questo aspetto particolare delle politiche antiproletarie messe in atto dal governo e dal grande padronato, e delle lotte proletarie in merito.
In base ai criteri generali precedentemente fissati possiamo allora dire che nello specifico della questione “ristrutturazione del mercato del lavoro”, rispetto alla “lotta politica” va affermata la necessità di indirizzare l’offensiva al centro politico in cui determinati provvedimenti vengono elaborati. Non più, dunque, iniziative “diffuse” che di fatto “disperdono” e sviliscono il carattere ed il significato politico che deve assumere l’iniziativa armata, ma azioni “centralizzate” dal partito ed indirizzate contro il personale responsabile a livello politico di detti provvedimenti.
Per ciò che riguarda la lotta di massa, i temi e gli obiettivi consoni all’interesse generale del proletariato che l’intervento del partito tramite il combattimento contro il progetto politico dominante della borghesia contribuisce a rendere evidenti, vanno sostenuti nella classe tramite il programma politico e per mezzo della presenza costante dell’avanguardia comunista alle lotte proletarie in merito.
Questi temi e questi obiettivi sono rappresentati da quelli su cui la classe si sta già mobilitando (opposizione al processo di “deregulation” in atto) e di cui si è detto, Ma anche in questa situazione, nel lavoro quotidiano nella classe cioè, i comunisti devono far di più del limitarsi a sostenere i contenuti già espressi dalla classe. Essi devono innanzi tutto mettere in evidenza il carattere peculiare costituito dal fatto che concorrono ad unire in una sola lotta i vari settori di classe e, contemporaneamente, rilanciare costantemente su di un piano politico, perché dall’individuazione di questo governo come responsabile delle odierne condizioni proletarie, si giunga a quella più generale che vuole il governo come organo ed espressione della classe dominante.
Alla coscienza, perciò, della sua estraneità alla necessità della classe proletaria, alla trasposizione, in definitiva, del conflitto sociale in atto sul piano (politico) della lotta tra due classi antagoniste.
In questo lavoro la continua denuncia della svendita sindacale e revisionista degli interessi della maggioranza del proletariato della loro strategia suicida e inconcludente, è fondamentale affinché la classe proletaria si liberi da queste paralizzanti influenze, ricerchi forme proprie autonome di rappresentanza e le ricerchi su un piano non prettamente economico.
Perché, infine, sia messo in grado di individuare nel partito ( che i comunisti devono necessariamente fondare, il PCC) il rappresentante reale dell’interesse proletario nei confronti dello Stato borghese e dunque nel corso dello scontro sociale, (tendenzialmente) ne riconosce la direzione politica.
Infine, per ciò che concerne l’ultimo aspetto dell’intervento politico del partito (lavoro di reclutamento) va detto che esso tanto non può essere considerato avulso dal contesto politico-sociale in cui viene effettuato, tanto non deve essere frammischiato e sovrapposto al lavoro più generale di propaganda e agitazione che i comunisti svolgono nel proletariato per farvi maturare la coscienza di classe.
I comunisti devono al contrario cogliere, per così dire, ogni “occasione” che si presenti nei momenti di lotta e di aggregazione proletaria, per svolgere (contemporaneamente al lavoro inerente alla lotta di massa), il reclutamento di quelle singole avanguardie di lotta che abbiamo dimostrato di possedere non solo la coscienza dei propri interessi immediati, ma di quelli più generali di classe, una coscienza comunista, perciò, che permetta loro di costituirsi in struttura di partito (cellule), tramite cui dirigere politicamente la classe nello scontro sociale.
La costituzione di strutture di partito nella classe va dunque considerata come un processo distinto (seppur in rapporto dialettico) da quello in cui la classe in quanto tale si auto organizza in strutture politicamente autonome (oggi, ad esempio, i COBAS/autoconvocati, ecc.).
Al contrario, i comunisti ricadrebbero nell’errore passato di “spaccare” i vari momenti di aggregazione proletaria per costituire strutture di sole avanguardie rivoluzionarie (nell’esperienza passata “le brigate del collocamento”).
Questa logica gruppettara va assolutamente rigettata ed è tempo che ne venga acquisita una molto più dialettica, che sappia tener conto di tutti gli aspetti sui cui deve articolarsi una politica rivoluzionaria senza sovrapporli o (al contrario) non considerarli nel loro reciproco rapporto dialettico.
Una logica, insomma, da partito, quale necessariamente oggi l’avanguardia comunista combattente deve possedere.

SUPERARE IL SOGGETTIVISMO E ABBATTERE IL REVISIONISMO
AFFERMARE LA TEORIA MARXISTA LENINISTA!
VALORIZZARE L’ESPERIENZA DELLA LOTTA ARMATA
APPROFONDIRE IL DIBATTITO E DEFINIRE IL PROGRAMMA!
LAVORARE CON DECISIONE ALLA FONDAZIONE DEL PCC!

Scheda storica: Un altro percorso nella Seconda Posizione: dal Nucleo per la Fondazione del Pcc alla costruzione del Partito Comunista politico-militare

Le vicende della Seconda Posizione andarono fin dall’inizio a intrecciarsi con lo sviluppo del dibattito interno al carcere. La pubblicazione del libro Politica e Rivoluzione, opera di quattro prigionieri di rilievo delle Brigate Rosse – Andrea Coi, Prospero Gallinari, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti – rappresentò un primo importante bilancio e sintesi del ciclo di lotte ancora in corso, pur se appesantito dagli eventi del 1982. Ma il notevole ruolo propulsore dello scritto fu in parte invalidato dai successivi passi dei suoi autori, che crearono incertezza e confusione anche fra i militanti all’esterno.

Una prima conseguenza fu la spaccatura, nel 1985, fra il gruppo che andò a fondare l’Unione dei Comunisti Combattenti (UdCC) e quello che si costituì in Nucleo per la fondazione del PCC.

Sostanzialmente il Nucleo accusava l’UdCC di avventurismo e tatticismo, ritenendo invece necessario impostare un lavoro di lunga fase, preparare le condizioni per arrivare realmente alla fondazione del partito, compiendo così quello che era ritenuto il salto decisivo. Proprio l’incapacità di effettuare quel passaggio, di superare una dimensione guerrigliera carica di deviazioni estremiste e soggettiviste, era considerata da tutta l’area della Seconda Posizione una causa fondamentale della sconfitta che si andava delineando. L’UdCC intendeva accelerare la ripresa dell’iniziativa combattente – posizione che il Nucleo riteneva avventurista, alla luce della situazione notevolmente critica delle residue forze militanti – associandola ad una impostazione politico-ideologica di respiro più ampio rispetto a quella delle Brigate rosse. Ma anche su questo aspetto sorsero divergenze. In risposta alle deviazioni soggettiviste, l’UdCC aveva reimpostato alcune questioni ideologiche con una forzatura di segno opposto. Dall’azzeramento del patrimonio storico del movimento comunista tipico dei soggettivisti, si passava a una eccessiva rivalutazione del lascito sovietico, arrivando ad annullare la critica maoista al socialimperialismo. Una posizione tatticamente finalizzata all’apertura di un canale di dibattito con la vasta area proletaria travolta dalla definitiva degenerazione del PCI. Queste e altre divergenze sostanziali, sulla questione sindacale o sulle strutture legali collegate al partito, non permettevano la prosecuzione di un lavoro comune.

Il Nucleo fu però fortemente travagliato da tensioni e difficoltà. Alla notevole consistenza del livello di analisi e del retroterra ideologico, nonché del percorso militante precedente di molti suoi esponenti, non corrispondeva un’altrettanto chiara determinazione sul percorso da intraprendere. La difficoltà oggettiva in cui i militanti si trovavano a fare i conti con gli stessi problemi di sopravvivenza (quasi tutti erano in esilio, in clandestinità, o reduci da carcerazioni), porterà molti all’abbandono e al riflusso in una dimensione individuale. Un piccolo gruppo di compagni decise di proseguire nel percorso, formalizzando una ulteriore ridefinizione, e assumendo il nome di Cellula per la costituzione del PCC.

Questa nuova realtà riuscì a mantenere un livello, seppur minimo, di organizzazione clandestina e armata a supportare l’elaborazione teorico-progettuale. Strumentazioni considerate preparatorie e interlocutorie, utili a ricostituire una sufficiente area di aggregazione con cui concretizzare i passaggi preconizzati verso la costituzione in PCC. I materiali, di dibattito e di iniziale elaborazione di strategia e linea politica, venivano sistematicamente stampati in formato di opuscoli intitolati Per il partito. Una pubblicazione clandestina, di cui uscirono sei numeri, a periodicità irregolare e pressoché annuale. Partendo dal principio dell’unità del politico e del militare, la Cellula riteneva la lotta armata una necessità storica, strumento fondamentale ma non unico di un processo lungo e articolato che prevede la costruzione di un partito clandestino capace di guidare le masse verso l’insurrezione e quindi la guerra civile. Ribadendo la centralità della politica e criticando le concezioni militariste, il gruppo intendeva dare un orientamento alla protesta operaia e dei lavoratori dei primi anni Novanta. I riscontri, pur significativi, non furono in grado di permettere quel salto di qualità operativo, necessario a dare consistenza e verifica alla proposta. Solo agli inizi di questo secolo l’incontro con una struttura organizzata proveniente da un’area politica diversa, quella dell’Autonomia operaia, portò all’avvio di un processo organizzativo frutto di una rielaborazione ma anche di “compromessi” necessari per la fusione, che trascineranno con sé alcune incoerenze. Il lavoro prese comunque un certo slancio, e una nuova rivista, L’Aurora, ne divenne il vettore.

Anche sul piano progettuale fu formalizzata una scansione rispetto al passato. Obiettivo principale rimaneva la costituzione del partito che però, considerando le diversità strategiche ormai nette rispetto al retroterra storico “guerriglierista”, non si riteneva più identificabile nel concetto di PCC. Una nuova formulazione sembrava sintetizzare l’impostazione maturata: Partito Comunista Politico-Militare (PCP-M).

Il percorso avviato sarà marcato da pesanti difetti e inadeguatezze che porteranno a una sconfitta tattica. Proprio nel crescendo dell’impegno operazionale, e di un discreto allargamento d’area, una retata “chirurgica” – presentata dagli inquirenti come azione “preventiva” mirante a colpire il gruppo nel momento in cui si apprestava a diventare operativo – smantellerà l’essenziale della struttura. La cosiddetta Operazione Tramonto, il 12 febbraio 2007, porta a quindici arresti e decine di indagati fra Padova, Milano e Torino, tra i quali iscritti e delegati Cgil, subito espulsi dal sindacato. Forte è l’attenzione della stampa sulla diffusa solidarietà dimostrata dai compagni di lavoro nei confronti degli inquisiti.

Negli anni successivi acquisì un certo valore la battaglia politica all’interno del carcere e durante i processi. L’impegno militante fu preciso e costante, da parte dei compagni prigionieri come di quelli esterni, riuscendo a trasformare le udienze in momenti di significativa affermazione delle ragioni e della prospettiva rivoluzionaria. Smentendo così le pretese liquidatorie con cui il potere credeva di aver seppellito le aspirazioni rivoluzionarie di classe. Questa posizione politico-strategica ha mantenuto una sua vitalità anche dopo la nuova separazione fra le due diverse aree di provenienza dei militanti.