… c’era “anche” una donna

Marina Zenobio

25 marzo 2015

“Sebben che siamo donne” è il titolo di una canzone di protesta nata in Val Padana presumibilmente tra il 1890 e il 1914. Oggi è “anche” il titolo dell’ultimo libro di Paola Staccioli, con una inedita testimonianza di Silvia Baraldini, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie (DeriveApprodi 2015, pp. 256, € 16,00)

“Anche” e mettiamo l’accento su questa congiunzione perché, secondo il desiderio dell’autrice, il libro è nato proprio per dare un volto e un perché a questa particella aggiuntiva che appariva spesso nei titoli dei giornali di qualche decennio fa in riferimento ad azioni di lotta armata: “Nel commando c’era anche una donna”. Che ci faceva una donna, armata, in quel commando? Il luogo più comune la poneva lì “per amore di un uomo”, altri perché plagiata da “cattive conoscenze”. L’ipotesi che quelle donne fossero lì per una libera e consapevole scelta, al di fuori del ruolo rassicurante storicamente assegnatole di figlia, sorella, moglie e madre non era (e forse ancora non è) contemplata. In questo libro le storie di alcune di esse riemergono dal recente passato “con la forza delle loro scelte”.

C’erano molte giovani donne fra i militanti delle organizzazioni clandestine dell’epoca che, scrive l’autrice, pur non definendosi femministe, “Impongono pari dignità irrompendo in un territorio maschile. Lottano per il potere come i loro compagni.”

Dieci le storie narrate nel libro, storie “assolute e definitive” di dieci donne che hanno in comune il tragico epilogo della morte: uccise nel corso di un’azione o per un errore nella sua preparazione, suicide. Tra le vite narrate, sette hanno un percorso simile. La militanza in una organizzazione armata in Italia e la morte conseguente a questa scelta: Margherita Cagol, (Mara nelle Brigate rosse), Annamaria Mantini (Luisa nei Nuclei armati proletari), Barbara Azzaroni (Carla in Prima linea), Maria Antonietta Berna (Collettivi politici veneti per il Potere operaio), Annamaria Ludmann (Cecilia nelle Brigate Rosse), Wilma Monaco (Roberta nell’Unione dei comunisti combattenti), Diana Blefari Melazzi (Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente).

Le altre tre storie raccontano invece vicende umane diverse, quelle di:

Elena Angeloni, del Fronte patriottico di liberazione greco. Nata a Milano nel 1939, morta ad Atene, nella Grecia dei colonnelli, nel 1970. Il suo nome cade nell’oblio dopo un primo accanimento della stampa di denigrare la sua figura e la sua dignità di donna. Scrive Staccioli “… I giornali italiani tornano a parlare di Elena nel 2001, dopo i fatti di Genova, quando un suo nipote finisce alla ribalta della cronaca… non ha mai conosciuto la zia, ma un filo li ha legati… il comune desiderio di giustizia, di libertà… Carlo Giuliani”.

Laura Bartolini, nata a Bologna nel 1955, morta a Bologna nel 1984. Militava nell’area dell’Autonomia operaia, si legge nel libro. Fu personaggio di spicco dell’Afadeco, l’Associazione familiari detenuti comunisti di Bologna. “Laura – scrive Staccioli – muove i primi passi politici. Come per molte altre ragazze di quegli anni, la crescita di una coscienza passa attraverso il sentiero del femminismo”. Sarà uccisa da un gioielliere durante un tentativo di rapina.

Maria Soledad Rosas, detta Sole, nata a Buenos Aires nel 1974, morta a Benevagienna (Cn) nel 1998. Siamo nella seconda metà degli ’90, tre giovani anarchici sono arrestati con l’accusa di sabotaggio al No-Tav Torino Lione, tra questi Sole (come la chiamavano gli amici) e il suo compagno Edoardo Massari, detto Baleno perché ha la mania della pulizia. Baleno rifiuta il regime carcerario e si uccide, la giovane argentina Sole lo seguirà pochi mesi dopo. “Nell’estare del 2014 – ricorda Staccioli nel suo libro – il movimento No-Tav ha dedicato a Sole e Baleno il presidio di San Giuliano, in Val di Susa, affermando che all’epoca dei fatti, non comprendendo la portata dell’attacco repressivo, non si schierò chiaramente a fianco degli anarchici arrestati”.

Infine il contributo di Silvia Baraldini, “Una storia americana”, una testimonianza che ripercorre la sua esperienza personale. Tra gli obiettivi di questo suo intervento stimolato da Paola Staccioli, Silvia Baraldini vuole mettere a tacere l’idea, abbastanza diffusa, che sia finita in carcere solo per reati di opinione e che quindi, in qualche modo, fosse una vittima innocente. “E’ importante per me – scrive Baraldini – anche per onorare i compagni e le compagne ancora detenuti, che questa percezione venga sconfitta. Essere vittima significa aver subito un torno, ma quando rifletto sulla mia storia vedo una donna che, con altre persone sparse per il mondo, ha liberamente scelto di opporsi allo strapotere degli Stati Uniti”.

Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, corredato da schede storiche relative alle organizzazioni o aree di appartenenza delle protagoniste, è un libro pieno di passione e sentimento, con un narrato dalla parte di chi quelle storie ha vissuto, cercando di ricostruirne senso, pensieri, azione. Scrive Paola Staccioli: “Si possono non condividere le scelte di queste donne, ma sicuramente sono interne al lungo percorso di progresso ed emancipazione sociale del proletariato e delle masse popolari. Sono parte di noi. Di chi nel mondo si batte per una società senza classi. Queste affermazioni a molti non piaceranno. Non è strano. Finché il divenire storico sarà caratterizzato dalla lotta tra le classi, la memoria non potrà essere condivisa. Ma nemmeno deve trasformarsi in un angolo idilliaco in cui rifugiarsi. Il paradiso degli ideali perduti. Dei pensieri cristallizzati. Deve essere libera da acritiche esaltazioni come da aprioristiche scomuniche. Il passato è materia viva, da modellare al presente”.

popoffquotidiano.it