La linea di demarcazione. Carcere di Cuneo – Documento di Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

«…Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “andiamo nel pantano!”

e se si comincia a confonderli ribattono: “che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà di invitarvi a seguire una via migliore?”

Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto noi pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano, e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.

Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la grande parola di libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso». Lenin, Che fare?

 

La controrivoluzione lubrifica le sue armi

L’annunciata campagna d’autunno a favore della «soluzione politica» copre l’ambiziosa intenzione di assestare alla guerriglia il colpo decisivo.

Chi vuol dare «soluzione» al problema dei prigionieri politici si propone in realtà di arrivare alla soluzione finale del problema della guerriglia. Liquidare la guerriglia in Italia: questo è l’obiettivo che accomuna tutte le componenti coinvolte nell’operazione, e su cui convergono oggettivamente le linee più contraddittorie, la cui reciproca distanza va misurata solo in relazione al «far politica» necessario per conseguire l’identico scopo.

Ma appiattire ogni posizione non rende però un buon servizio alla battaglia politica contro la «soluzione»: alcune tesi sono più insidiose di altre, vanno attaccate proprio mentre si propongono di creare un movimento «di massa» che le copra, legittimandole.

Oggi c’é chi dal carcere appoggia la guerriglia e chi invece lavora per il suo disarmo ideologico e politico-militare: questo è l’unico valido criterio di giudizio che i rivoluzionari devono adottare in un momento difficile e complesso che vede i più variegati polveroni teorici incapaci di occultare la reale portata della posta in gioco, ma più che sufficienti – e lo si è verificato in questi mesi – a seminare veleni ideologici, dubbi, incertezze e una paralizzante confusione. In particolare la pausa di riflessione che vari compagni hanno ritenuto opportuno prendere prima di pronunciarsi con chiarezza, è stata cinicamente utilizzata per accreditare la falsità di un attendismo generalizzato, preludio all’appiattimento sulle tesi della «soluzione politica» di tutte le componenti «più serie» dei prigionieri comunisti.

Ora non è più tempo di attese né di ambiguità.

La linea di demarcazione tra noi e il nemico di classe va rideterminata in modo netto, senza equivoci o ulteriori ritardi. Le prime dichiarazioni pubbliche contro la trattativa infame con lo stato avviata ai margini del Moro-ter, hanno rotto il silenzio inchiodando alle loro responsabilità quanti pensavano di poter continuare ad agire tranquillamente contro la guerriglia, contro le Brigate Rosse, in assenza di una decisa opposizione tra i prigionieri. Ma non basta. Se è vero che più si dispiega trovando compiacenti interlocutori e più la «battaglia di libertà» aperta da Curcio e colleghi si denuncia da sola al movimento rivoluzionario mostrando la miseria, l’opportunismo e la vigliaccheria di un ceto politico che vende il suo fallimento personale come il fallimento dell’intera esperienza della lotta armata, è altrettanto vero che, come ogni campagna intrapresa dal nemico, la «soluzione politica» deve essere contrastata, inceppata, sabotata.

Prima di tutto va attaccato a fondo l’alibi della «irreversibilità» con il suo corollario di disgregazione e disfattismo sparsi a piene mani. Da troppe parti l’analisi concreta della situazione concreta è stata svilita a banale buon senso bottegaio e la verifica dei rapporti di forza in campo ridotta a giustificazionismo a posteriori di scelte già prese.

Indossati per l’occasione i panni di un accorto e puntuale uso della tattica, gli aderenti alla presunta ala sinistra del soluzionismo sostengono che la tendenza è irreversibile perché la trattativa andrebbe comunque in porto; tanto vale adeguarsi, seguire la corrente per deviarla al momento opportuno traendone almeno dei vantaggi utili per tutta la «sinistra di classe».

Noi di irreversibile possiamo constatare solo il progressivo slittamento di queste tesi nel campo delle posizioni che stanno oggettivamente portando al disarmo della guerriglia.

Ma, in generale, sono evidenti i guasti provocati da una concezione che vuol dipingere quanto sta accadendo fra i prigionieri come una sorta di destino ineluttabile, che coinvolgendo tutti non evidenzi le responsabilità di nessuno, permettendo a chiunque – col solo fatto di starsene zitto – di aggregarsi al carrozzone soluzionista senza compromettersi con l’una o l’altra cordata. Questa è stata la carta giocata con abilità veramente dorotea dal gruppo iniziale dei soluzionisti, cervello politico dell’intera operazione.

Il tandem Curcio-Moretti, grazie alla perfetta conoscenza della situazione di relativa debolezza dei prigionieri comunisti all’indomani di una serrata battaglia politica culminata in una nuova scissione delle Brigate Rosse, ha potuto venire allo scoperto proprio contando sul «né aderire né sabotare» che la maggioranza dei compagni sembrava nelle condizioni di esprimere come massimo livello di coscienza.

Come è ormai noto l’asse portante della «soluzione politica», cioè il concreto terreno di incontro con le forze borghesi interessate o direttamente coinvolte nella trattativa, può essere riassunto con la formula: far pesare il carcere sull’esterno, il passato della lotta armata contro il suo presente e il suo futuro. Si vuol buttare sul piatto della bilancia dell’impegnativa fase che la guerriglia sta attraversando tutto il carico della presunta autorevolezza dei «capi storici». Costoro, dall’alto del piedistallo di personaggi «giustamente famosi» (costruito dalla propaganda borghese e purtroppo in parte assunto da errate concezioni presenti nel movimento rivoluzionario) sanciscono che un ciclo storico di lotte politico-sociali, a cui apparterrebbe per intero l’esperienza delle BR, ha ormai esaurito il suo corso, pretendendo così di togliere ogni legittimità ai comunisti che continuano a impugnare le armi. Appropriatisi indebitamente delle chiavi del patrimonio d’organizzazione (quella continuità che è stata anche la forza delle successive rotture operate dalla guerriglia) le vogliono mettere all’asta aggiudicandole alla controrivoluzione e, subito, a quell’arco di forze trasversale all’intero sistema dei partiti in grado di garantire la loro liberazione. Forse più smaliziati di certi loro interlocutori, che in periodo elettorale hanno creduto pagante confondere queste chiavi politiche con chiavi metalliche di un archivio segreto, i soluzionisti sono consapevoli dei limiti di una autorevolezza non politicamente sostanziata. Da anni esclusi dal dibattito rivoluzionario, estranei ad ogni componente od area organizzata, forti solo di un carisma prefabbricato, Curcio e Moretti dovevano coinvolgere da un lato militanti ancora legati a vincoli organizzativi e comunque rappresentativi di linee esistenti, dall’altro ostentare di parlare a nome di tutti i prigionieri.

Infatti, per quanto famoso possa essere, un piccolo gruppo di arresi resta sempre tale e nessuna presa di distanza morale dall’abiura può evitargli di essere identificato come l’ultimo acquisto della dissociazione, specie in presenza di spezzoni dell’apparato statale che con scarsa preveggenza si accontenterebbero di incanalarlo in questo vicolo cieco.

L’avvio della manovra ha avuto l’esito che conosciamo.

Il logorroico florilegio di lettere apparse sul manifesto, suggella l’avvenuta crescita di peso contrattuale nei confronti dello stato della cordata Curcio-Moretti. La prima tappa è superata; Moretti dimostra di non aver millantato credito sostenendo in una intervista all’Espresso (un po’ in anticipo, ma i tempi appaiono accuratamente concertati) di avere in tasca l’adesione di chi solo poco prima era fra quanti rivendicavano l’azione politico-militare attuata dalle Brigate Rosse tutt’altro che… esaurita! Ma c’è dell’altro: l’aver finalmente arruolato alcuni militanti già organizzati nelle BR/PCC permette ai soluzionisti di far intravvedere allo stato, dopo tanto fumo, l’arrosto che stanno cucinando. Ora infatti la speranza di riuscire a condizionare dal carcere la guerriglia non è solo affidata al ricatto ideologico che toglie ai combattenti il retroterra della legittimazione attraverso la cesura della continuità ( i «capi storici» che disconoscono i «nuovi terroristi»). Il ricatto sull’esterno diventa direttamente politico, una aperta pressione operata da chi si suppone possa avere più concreta voce in capitolo.

Eppure è proprio all’apice del successo pubblicitario che l’area della «soluzione», giunta alla maggiore espansione numerica, mostra tutta la sua debolezza politica.

Nascono le prime divisioni interne, la corsa dei vari soggetti a differenziarsi per mantenere con la «reciproca autonomia» la possibilità di giocare su più tavoli. Il manifesto pubblica un intervento di alcuni prigionieri che vogliono estromettere Curcio dalla gestione della storia e auspicano che «la sinistra nella sua accezione più ampia» si faccia carico della vertenza, superando quella «miopia» che in passato la portò invece a favorire la dissociazione. Si tratta di una posizione che, come abbiamo accennato e come analizzeremo meglio, non cambia per niente il giudizio dal punto di vista rivoluzionario sui contorsionismi ideologici di questi neotogliattiani in relazione al disarmo politico della guerriglia. Del resto è proprio la Rossanda a riconoscere che la patina di sinistra di certe tesi, pur essendo ancora un tantino ostica da digerire, copre solo in superficie l’implicito allineamento sulla parola d’ordine «la guerra è finita, tutti a casa». Ma il fiato corto dei soluzionisti alla vigilia della loro campagna d’autunno non nasce certo da queste contraddizioni, relative ad un campo contro cui vogliamo accelerare la costruzione di una polarizzazione rivoluzionaria fra i prigionieri comunisti che intendono appoggiare fino in fondo la guerriglia, le Brigate Rosse.

Caduta la fragile impalcatura della rappresentatività di Curcio e Moretti, portavoce solo di se stessi e dei liquidazionisti, denunciati pubblicamente i termini tecnici delle offerte democristiane ai conciliaboli di Rebibbia, tutt’altro che scontata la disponibilità di spezzoni di movimento alla possibilità di gestirla da sinistra, la «soluzione politica» oggi è in difficoltà, ma non è stata battuta nei presupposti, nelle implicazioni immediate e nei guasti che può ancora produrre in prospettiva.

Con il nostro intervento ci proponiamo di fornire nuovi spunti di riflessione alla battaglia politica da ingaggiare con il massimo impegno contro questo ennesimo attacco della borghesia e dei suoi ventriloqui alla guerriglia. La necessità di prendere posizione in tempi brevi e la convinzione che il dibattito aperto troverà in futuro spazi e strumenti per crescere costruttivamente, ci impongono di concentrare l’attenzione solo su alcuni aspetti. Sarebbe sbagliato, oggi, pretendere di esaurire un discorso tutto da sviluppare.

 

«Soluzione politica» e democrazia compiuta

Una prima domanda. Ma è possibile? È possibile che una sera il telegiornale diffonda la dichiarazione del Ministro di Grazia e Giustizia annunciante la scarcerazione dei «capi storici» delle Brigate Rosse?

Il modo corretto di impostare la questione non è se ma perché potrebbe essere possibile. La risposta sta tutta nella natura dello stato imperialista di questo scorcio di anni ’80, vista in relazione alle nuove caratteristiche del conflitto sociale dentro il quadro dei rapporti di forza generali scaturiti dalla sostanziale vittoria della ristrutturazione.

Rispondere significa delineare uno scenario i cui elementi principali sono già tutti presenti nella situazione politica e sociale odierna, sottesi da dinamiche economiche ormai affermatesi in tendenze di lungo periodo, confermate e non smentite dalle oscillazioni cicliche che semmai ne accentuano visibilmente la costante peculiarità. Che la forma stato attuale, ibrido prodotto dell’intreccio fra obsolescenza istituzionale della repubblica post fascista e crisi divenuta cronica del sistema di potere democristiano, si stia avviando a rappresentare una camicia di forza per gli obiettivi strategici della borghesia imperialista italiana, è un fatto troppo noto perché valga la pena di suffragarlo con qualche autorevole citazione confindustriale.

Sul punto di concludersi un breve ciclo relativamente favorevole – e già divenuto aureo nella apologetica craxiana d’uso corrente – i tradizionali vincoli strutturali dell’economia si stanno riproponendo ad un grado tanto più elevato quanto si è accresciuto il ruolo del paese nel complesso del sistema imperialista. Questi vincoli sono tutti riconducibili alla sfera statale di regolazione del rapporto fra l’incremento dei livelli di integrazione competitiva nei confronti delle altre economie imperialiste e la gestione delle condizioni sociali e politiche che lo rendono ottimale. E’ un ruolo sempre più contraddittorio dal momento che le politiche economiche neoliberiste, che nel resto d’Europa hanno drasticamente ridisegnato il rapporto stato/società, trovano in Italia un preciso limite di applicazione nell’adattamento alle particolari caratteristiche del patto sociale (uniche, nell’intero occidente, per storia, funzione e articolazione) che ha consentito da più di 40 anni la riproduzione della sostanziale stabilità del sistema anche nei momenti congiunturalmente più difficili per la borghesia. Il patto sociale che ha favorito l’integrazione contraddittoria del proletariato nelle istituzioni attraverso la mediazione della sinistra storica, è continuamente ridiscusso dai rapporti di forza originati dalle successive fasi della lotta di classe, ma non può essere denunciato, nella sua sostanza, da una borghesia seppur fortissima, nemmeno in presenza del minimo di espressione dell’autonomia della classe e della massima contrazione del suo peso generale nella sfera politica.

Esemplare di questa realtà è l’attuale relazione stato/padroni/sindacato da un lato e PCI/partiti borghesi dall’altro.

Nelle recenti e maggiori vertenze industriali, originate dalla versione italiana della privatizzazione di importanti comparti produttivi già pubblici o a partecipazione statale, i padroni – per voce di Romiti – hanno detto chiaramente che le stesse ragioni che li condussero a strappare al sindacato l’enorme potere accumulato negli anni ’70, oggi impongono di tenere artificialmente in vita la sua funzione di mediazione/controllo, pur essendo la realtà del rapporto capitale/proletariato tale da consentire direttamente l’applicazione della legge capitalistica classica della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro.

Il superamento – nei fatti – dell’ipotesi di patto neocorporativo come regolatore istituzionalizzato di uno degli aspetti del patto sociale, dimostra solo che il contrappeso contrattuale della sinistra storica nei confronti dei suoi partners borghesi si è ulteriormente affievolito. Il che non smentisce certo che il problema della riqualificazione del ruolo di governo e contenimento dell’antagonismo proletario di PCI e sindacato debba comunque essere ridefinito – anche formalmente – nella prospettiva del suo più organico inserimento nelle future politiche statali di pacificazione imperialista del fronte interno.

Allo stesso modo la riduzione del welfare è la strada obbligata per contenere il debito pubblico crescente, eterna fonte di spinte inflazionistiche che obbligano a ricorrenti aggiustamenti recessivi in ovvio contrasto con le esigenze espansive di una borghesia imperialista tutta proiettata nell’acquisizione di nuovi spazi di mercato, ma trova un confine nella capacità della sinistra di ammortizzare socialmente gli inevitabili squilibri che da tale riduzione derivano, in presenza di un tasso di disoccupazione strutturalmente ineliminabile.

Napolitano che si mostra sdegnato più perché il PCI non è stato cooptato preventivamente nell’iter decisionale della scelta interventista, che per lo stesso invio della marina militare nel Golfo Persico, è una bella fotografia dello stesso problema visto in un’altra dimensione politica.

L’installazione dei missili americani non avvenne forse grazie al sostanziale avallo del PCI? E la mistificazione del carattere di «missione di pace» a proposito del contingente italiano a Beirut non fu costruita forse con l’apporto decisivo dei revisionisti? L’accettazione dell’«ombrello protettivo» della NATO, la svolta dell’EUR, il coinvolgimento anche militare nell’attacco alla guerriglia e nella repressione dei movimenti antagonisti, la pianificazione della cercata (e ottenuta) sconfitta operaia al referendum sulla scala mobile, sono tutti esempi dell’articolazione sul versante del lealismo istituzionale, di quel patto sociale varato con l’inserimento di Togliatti fra i padri costituenti della repubblica.

Altro che blocco progressista messo alle strette dalla svolta reazionaria! L’opera gentilmente prestata dai revisionisti allo stato imperialista deve trovare un riflesso gratificante anche sul piano politico formale, pena l’incepparsi di un meccanismo prezioso e indispensabile in un futuro che è già agitato da venti di guerra.

Il necessario aggiornamento del patto sociale negli anni’90 dovrà portare il PCI a poter votare «i crediti di guerra» per la repubblica democratica, come fecero i socialisti tedeschi nel ’14 per il Kaiser, senza perdere gli attuali legami di massa.

Le modalità politiche di questo processo si intrecciano così con lo scioglimento di un altro nodo fondamentale, tutto interno questa volta alla crisi di rappresentatività partitica delle esigenze dirette della borghesia imperialista e di cui il contrasto cronico tra le forze di maggioranza indica solo il sintomo più superficiale.

La ristrutturazione del welfare, la sua contrazione e riadeguamento, sono una garanzia strategica imprescindibile per il sostegno dello stato alla espansione concorrenziale di un’economia necessariamente sbilanciata sull’esportazione. Ma l’aggiornamento del welfare è un passo irrinunciabile per i piani della borghesia che si scontra da tempo con la crisi del sistema di potere democristiano, incapace di autoriformarsi in quanto tradizionalmente basato sul controllo delle leve di formazione della spesa pubblica oltre che sui meccanismi finanziari di erogazione del credito, fonti insostituibili di riproduzione della sua piattaforma di consenso interclassista e – insieme – ammortizzatori sociali di collaudata efficacia. La lotta per l’efficienza dell’azienda Italia contro le distorsioni del parassitismo clientelare è da anni un luogo comune – e terreno di incontro con la sinistra – la facciata propagandistica di una critica di fondo che coinvolge tutti i partiti, evidenziando la contraddizione fra i costi di mantenimento della lottizzazione partitocratica, ovvero la «costituzione reale» odierna, e i vantaggi della modernizzazione del sistema politico in funzione di una rifondazione dello stato nel senso voluto dal grande capitale. La fatiscenza istituzionale dello schema democratico post fascista (ruolo dell’esecutivo subordinato alla tripartizione dei poteri, sistema bicamerale, sistema elettorale proporzionale, rapporto centralismo/autonomie locali ecc.) è accelerata dal divaricarsi di questa contraddizione. Il riadeguamento dei partiti, sul doppio binario della ristrutturazione interna efficientista, moralizzatrice e modernizzante e dell’acquisizione pubblica dei temi della riforma istituzionale, marcia così sui tempi della ricerca concorrenziale del riconoscimento di interprete generale più affidabile della borghesia imperialista.

La seconda repubblica, dunque, è matura. La sua costruzione dipende dalla velocità di questa dinamica. La seconda repubblica coronerà il processo di formalizzazione sul terreno politico-giuridico-istituzionale di una realtà già data nelle sue linee economiche e sociali essenziali, risultato – come abbiamo ripetuto più volte – della sconfitta subita dalla classe con il dispiegarsi della controffensiva statale e padronale dell’inizio anni ’80. E quale migliore inizio per ratificare solennemente l’avvio di un nuovo corso dell’Italia imperialista finalmente messasi alla pari ad ogni livello del ruolo che già le compete, che la definitiva chiusura della sgradevole parentesi dei «terribili» anni ’70?!?

Ecco che la nostra domanda d’apertura ha così trovato risposta.

La legittimazione storica della seconda repubblica si costruirà dimostrando di aver ricomposto le contraddizioni e archiviato i problemi ereditati dalla prima. Non sarà uno stato socialdemocratico né, tantomeno, fascista. Sarà la democrazia compiuta in un paese del centro imperialista nell’epoca dei concreti preparativi per la guerra. Per questo è possibile leggere in filigrana nella «soluzione» tutte le categorie politiche, ideologiche e culturali fondanti il nuovo ordine che la borghesia ci sta allestendo. La «soluzione politica» allora non è solo il proseguimento del progetto di disgregazione per linee interne della guerriglia iniziato con l’uso degli infami e proseguito con quello dei dissociati. È un’operazione di ampio respiro, su cui si misura anche la capacità delle forze politiche candidate a governare i passaggi della ristrutturazione istituzionale e che dalla liquidazione della guerriglia si propongono di trarre il miglior attestato di affidabilità che si possa esibire agli occhi del grande capitale. È anche, fin da ora, terreno di scontro/incontro tra queste forze, non affare privato dei democristiani. La gestione iniziale della DC, incerta, contraddittoria e presto trasformata nella solita serie di ricatti incrociati e di facili speculazioni pre-elettorali, dimostra piuttosto la lunga strada che il partito di Piccoli e Cavedon deve ancora compiere per rivelarsi all’altezza della situazione. È un progetto controrivoluzionario che richiede la partecipazione diretta e indiretta di tutti i protagonisti che stipuleranno il nuovo patto costituzionale, PCI compreso. Il ministro, che potrà dare in televisione l’annuncio della sua conclusione, non potrà certo essere un ministro qualsiasi di un governo qualsiasi.

 

«L’alternativa di sinistra» e la sua sterzata a destra

Si può forse pensare di dare un autentico carattere di sinistra alla «soluzione politica»?

Tutto nasce da un equivoco: il ritenere che l’attaccamento ai valori, principi ed all’ideologia m-l, basti di per sé a definire il campo dei comunisti rivoluzionari. Il fatto è che l’elemento politico-ideologico se non si lega e realizza in una teoria-prassi che concretamente opera quale inimicizia e rottura radicale degli assetti borghesi, scade in una mera coscienza politica, imbelle e non necessariamente rivoluzionaria. La strategia della lotta armata, l’unità del politico e del militare (fin da subito e non in chissà quale futuro), è il modo di essere comunisti rivoluzionari in un paese imperialista. Fuori da una tale concezione possono anche esserci «bravi compagni», ma che muovendosi su un terreno tutto politico, vengono per così dire assorbiti nell’ambito di una conflittualità convenzionata che, in quanto tale, non determina alcuna rottura rivoluzionaria.

Se i contenuti e le proposte del gruppo Curcio sono solamente evidenti nel porsi fuori e contro il movimento rivoluzionario, in maniera diversa si pongono invece quelle tesi che possono inquadrarsi in un tentativo di «gestione da sinistra» della questione dei prigionieri politici. Ci riferiamo alla lettera apparsa sul manifesto a firma di un gruppo di prigionieri che dichiarano di riconoscersi «in quella parte delle BR che si denomina UCC» (come se le BR fossero divise in correnti).

Lo scritto – che la Rossanda inserisce a pieno titolo nella rassegna di posizioni interessate ai problemi sollevati da Curcio – sembra mosso da una preoccupazione: riportare la questione della prigionia politica nell’ambito di una battaglia che riguardi tutta la sinistra. Una battaglia che «può costituire un momento importante di quel generale rilancio della sinistra…». I «nostri» vogliono così differenziarsi dal discorso di Curcio, ritenuto pericoloso in quanto tutto interno ad una logica che favorirebbe «l’offensiva conservatrice delle forze eternamente al governo».

Ma cosa implica l’apparentemente lodevole tentativo di riproporre la problematica della prigionia comunista il Italia? In una fase in cui è evidente l’assenza di un forte movimento di classe capace (come negli anni ’70) di considerare la liberazione dei prigionieri comunisti una parte integrante della più vasta lotta contro lo stato, non si comprende proprio quale possa essere questa sinistra interessata a vedere i rivoluzionari imprigionati come un patrimonio da liberare, e attraverso cui riscattarsi dalla bassa marea di questi anni. Certo è che nella sinistra, anche quella cosiddetta di classe, molti sono stati i settori e le forze interessate a dare soluzione al problema dei prigionieri politici: dal PCI, al manifesto, passando per DP ed alcune aree del sindacato, si è assistito a svariati interventi che con fare più o meno possibilista guardavano con attenzione ad una proposta di amnistia. Ma questi non erano certi atti di disinteressata generosità, né tantomeno frutto di un atteggiamento per così dire unitario che li portavano a difendere una serie di forze anche rivoluzionarie, per far fronte comune contro la «svolta reazionaria».

L’attenzione nei nostri confronti è invece dettata dalla storica logica riformista di ritagliarsi maggior spazio e potere contrattuale all’interno della società e dello stato borghese, cercando di essere «i patroni» ora dei movimenti di massa, ora delle lotte, ora delle varie emergenze, fino all’attuale nodo dei prigionieri politici. Così come nei confronti delle avanguardie di lotta operaie e proletarie l’appoggio viene fornito finché esse non acquistano una reale autonomia e non mettono in discussione la pace sociale, allo stesso modo l’eventuale «interessamento» per le avanguardie combattenti imprigionate presuppone il loro concreto abbandono della lotta armata.

Rivolgersi alla sinistra, storicamente interna al sistema borghese e che da svariati decenni non rappresenta più gli interessi storici e generali del proletariato reprimendone (anche militarmente) le spinte antagoniste, era un suicida gioco al ribasso già, se operato tatticamente, 20 anni fa. Oggi ha il significato di totale subalternità alle regole dettate dalla democrazia borghese. E allora: contrapporre una gestione di sinistra a quella che Curcio e la DC vogliono imprimere alla «soluzione» e chiamare tutta la sinistra a raccolta su questa base, non significa forse rappresentare di fatto l’altra faccia della medaglia? La stessa medaglia!

Sia chiaro che la liberazione dei comunisti non può essere delegata a nessuna forza operante nel rispetto della legalità borghese o che si muove entro una sorta di conflittualità democratica.

Solo un movimento rivoluzionario che combatte e lotta radicalmente contro l’ordine della borghesia può far propria la liberazione di quei prigionieri comunisti che rappresentano una parte inscindibile del suo patrimonio. Sia infine chiaro che la ventilata amnistia, che a non pochi ha fatto perdere la testa, oggi non può che passare per l’abbandono della lotta armata, cioè per un attestato di fedeltà alle leggi «democratiche». Che lo si faccia alzando il pugno o abbassando la cresta è per la borghesia questione assai relativa.

Tutte le argomentazioni di questa posizione nascono da un quadro di fondo che fa proprie tesi estranee a quei punti forti (e fermi) che la teoria rivoluzionaria ha espresso in oltre 15 anni di esperienza.

Una delle questioni su cui la lettera al manifesto si dilunga è l’affermazione che ci si trova di fronte a una «offensiva conservatrice» diretta dalle forze borghesi storicamente antiproletarie (DC in testa). La contrapposizione a questa offensiva dovrebbe rappresentare l’occasione per un rilancio della sinistra. È questa una visione della società borghese che pensavamo superata da svariati decenni, cioè da molto prima della morte di uno dei suoi più insigni ispiratori: Togliatti. È la visione di un sistema borghese al cui interno vi è un blocco conservatore e reazionario espresso dalla DC e un altro progressista e di sinistra in conflitto con il primo. Che all’interno dello stato esistano diversi schieramenti in relativa contraddizione è cosa fin troppo nota. Sono contraddizioni spesso profondamente laceranti, ma mai antagoniste, essendo riflesso di forze altrettanto responsabili e compartecipi della riproduzione del sistema capitalistico. Riformismo e conservatorismo son l’uno la ruota di scorta dell’altro, combaciano nell’articolare un sistema statale in grado di dosare sapientemente controllo, repressione e assorbimento delle contraddizioni di classe, di integrarsi all’imperialismo occidentale mantenendo una pur relativa autonomia, di favorire e incentivare i processi di ristrutturazione generale promuovendo lo sviluppo imperialista con la sua penetrazione e sfruttamento delle aree della periferia.

Riformismo e conservatorismo (o progresso e reazione? O democrazia conseguente e clerico-fascismo?… tanto per utilizzare categorie proprie dell’area teorica di riferimento dei «nostri») si scontreranno/incontreranno anche per giungere a quella ridefinizione istituzionale ormai necessaria per garantire ad un grado più elevato, negli anni ’90, tutto quanto abbiamo prima accennato. Su questa univocità di intenti si regge quel patto sociale che dal dopoguerra si è creato in Italia tra le forze della sinistra storica e la borghesia e che sta alla base della solidità della democrazia borghese. Non ci scordiamo, per non andare troppo lontani e sforzandoci di adottare la stessa visione del gruppo Gallinari & C., che la cosiddetta «svolta reazionaria» non poteva dispiegarsi senza la complicità di PCI e sindacato, che la resero possibile attuando quell’altra svolta (quella dell’EUR) responsabile di aver fatto pagare alla classe tutti i costi di una feroce ristrutturazione. In realtà, visto che il loro appello alla sinistra, intesa esplicitamente in «senso ampio» (includendo anche il PCI), vorrebbe porsi come elemento catalizzatore di un ipotetico fronte ampio del… progresso contro la canea reazionaria, l’unica cosa chiara della loro proposta diviene quindi che la guerriglia va sacrificata (oppure congelata, il che non cambia molto) sull’altare dell’unità con le sinistre, o al limite concepita quale arma da utilizzare per ultima ratio contro la reazione per la difesa della «democrazia»! Ma anche al di fuori dei partiti storici della sinistra con chi altri vorrebbero dialogare? Approfondire il rapporto con la Rossanda e DP? oppure privilegiare la variopinta (di muffa e incrostazioni opportuniste) area del vecchio gruppismo emmellista? Ovvero rivalutare, dopo averlo combattuto per anni, un arco di forze caratterizzato da una pratica imbelle e codista diretto da un ceto politico che è potuto sopravvivere nella democrazia borghese anche grazie al viscerale attacco alla lotta armata in generale e alle BR in particolare e spesso approdato ad un attivo fiancheggiamento della dissociazione? La strategia della lotta armata fin da subito si pose come elemento di rottura con questa sinistra. Che senso ha oggi volerle ridare peso, attenzione e legittimità? O si è vittime di una incurabile miopia ultratatticista che impone di ritrovare terreni di incontro con i Brandirali di oggi e le Rossanda di sempre, o al contrario si spera di essere ritrovati da costoro per esserne legittimati! Del resto il discorso dei «nostri» può portare ancora più lontano (dalla strada della rivoluzione, è chiaro!). Dal concetto di svolta reazionaria a quello di rifondazione e unità della sinistra a quello del più ampio fronte contro la conservazione si arriva, seguendo un filo a piombo, al concetto di movimenti popolari e di blocco storico. Qui il referente diretto non sono più i settori rivoluzionari del proletariato, i soggetti politici e le aree sociali da inseguire si ampliano, diventando appunto un blocco storico. Ma i blocchi storici sono sempre stati un raggruppamento eterogeneo-interclassista composto da figure sociali notoriamente antagoniste agli interessi politici del proletariato, che in alcune congiunture ne possono favorire lo sviluppo sociopolitico per usarlo quale massa di manovra. La contraddizione principale è così spostata dallo scontro proletariato/borghesia al contrasto tra blocco progressista e blocco conservatore. Di questo passo, a quando la proposta del «patto fra produttori»? o dell’alleanza «capitale-lavoro contro la rendita»? o dell’appoggio alla piccola e media industria nazionale contro lo strapotere delle multinazionali? Ma Gallinari & C. se ne sono accorti? La loro lettera contiene in nuce tutti gli elementi di progressiva degenerazione revisionista che lo stesso PCI ha maturato in decenni!! Eppure, sostengono di non voler abbandonare il patrimonio delle BR e riaffermano sdegnati la distanza dall’abiura e dalla dissociazione, volendo rivolgersi a settori capaci di organizzare la mobilitazione di un movimento di massa sulle loro tesi. Dal punto di vista teorico una tale posizione non fa che arretrare di più di 20 anni il dibattito nel movimento rivoluzionario, riproponendo grottescamente l’anacronistico ciarpame togliattiano, ancor più banalizzato da improrogabili (per loro!) urgenze tattiche. Dal punto di vista politico l’esistenza stessa della guerriglia si pone come un ostacolo insormontabile per i loro obiettivi. È ovvio allora che queste tesi tendano oggettivamente a inserirsi fra quelle che ne auspicano la conclusione. La realtà si incaricherà di deluderle!

 

La perestrojka dei pragmatisti

Nel composito e variegato campo della «soluzione politica» e del disarmo della guerriglia un discorso a parte merita quel gruppo di prigionieri che con puntualità camaleontica è passato (nel volgere di breve tempo) dall’appoggio e sostegno alle iniziative della guerriglia, all’apologia di Curcio e del peggiore disfattismo. Su questo gruppo di elefanti in via di addomesticamento va fatta una breve premessa onde evitare facili e disoneste strumentalizzazioni. Qualcuno infatti potrebbe essere indotto a legare l’indecoroso tonfo del gruppo in questione con l’impianto teorico-politico delle BR/PCC, mostrandone così la fragilità stessa, e la sua inadeguatezza. Diciamo subito che una tale operazione oltre ad avere il fiato corto, altro non farebbe se non portare ulteriore acqua al putrido mare del liquidazionismo.

Fatta questa premessa, va chiarito, che il corpo di tesi con cui oggi questi signori tentano di giustificare l’adesione alla «soluzione politica», è del tutto estraneo al patrimonio teorico e politico delle BR stesse. Le tesi in questione sono in realtà il frutto di un percorso teorico distorto che nel suo divenire si è progressivamente ma significativamente estraniato dalle direttrici strategiche della guerriglia.

È il caso ad esempio di teorizzazioni sostanzialmente vicine ad una versione aggiornata della «quinta colonna». Che in due parole si può sintetizzare nel seguente assunto: in una fase di assenza dei movimenti antagonisti, di debolezza delle forze rivoluzionarie, di tenuta e ripresa dell’imperialismo, la possibilità di dare impulso e sviluppo ad un processo rivoluzionario è legata all’andamento immediato delle contraddizioni internazionali in particolare tra il campo socialista e quello imperialista. Si tratta allora di legarsi a queste dinamiche favorendo il campo socialista la cui avanzata si riflette automaticamente (in termini di ricaduta positiva) in ogni processo rivoluzionario nazionale. Alla fin fine nel quadro di questa analisi la contraddizione tra est ed ovest viene assunta ad immediatamente determinante nello spostamento dei rapporti di forza generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista, tra rivoluzione e controrivoluzione. L’inadeguatezza e i rischi di degenerazione di tale impostazione sono notevoli. Così infatti si va a ricondurre il proprio avanzamento all’andamento per così dire ciclico dello scontro tra est e ovest, a questo (di fatto) vengono subordinate le sorti di una forza rivoluzionaria in questa fase. E così oggi, che il new-deal gorbacioviano ha dato impulso ad una nuova fase di «distensione» (per altro congiunturale) e di «apertura» verso l’ovest, allineando (più o meno ordinatamente) ad una tale politica alcune forze o stati del campo antimperialista (vedi OLP sull’opzione della conferenza internazionale, oppure la Siria), in questo quadro, e con una ritenuta debolezza della guerriglia e dei movimenti di classe, il passo ad «allinearsi» diventa molto breve… come infatti è stato per il gruppo inizialmente citato.

Sullo sfondo di certe tesi (quelle sopradette) vi è un approccio metodologico che, per le sue conseguenze nefaste, crediamo non sia affatto irrilevante sottoporre a critica. Nel particolare ci si riferisce ad un metodo materialistico-dialettico che nella pur giusta e necessaria battaglia contro il dogmatismo e lo schematismo libresco presenti nel movimento rivoluzionario, è alla fine sconfinato nella estremizzazione opposta, assolutizzando (de facto) l’analisi concreta della situazione concreta, piegando così alla mera realtà immediata (o congiunturale) il campo dell’analisi, del necessario e del possibile… insomma siamo al pragmatismo!!

L’analisi delle tendenze generali e obbligate dell’imperialismo, delle contraddizioni storiche tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, della lunga durata di una strategia di guerriglia, venivano per così dire relativizzate in virtù del primato della realtà concreta e di una viscerale avversione a quel determinismo che invece rappresenta l’essenza stessa del marxismo.

Tutto questo non può che portare ad una accentuazione/sopravvalutazione delle dinamiche immediate che ritenute centrali, vengono così rese autonome e slegate (recise) dalle tendenze storiche generali. Ad esempio la relativa ripresa dell’economia capitalistica mondiale (tanto enfatizzata dalla borghesia ma ormai al tramonto), e la timida apertura dei mercati dell’est viene quasi scambiata per un nuovo ciclo espansivo dell’imperialismo. Quando invece i suoi effetti non possono che essere temporali ed effimeri, se inquadrati non solo nell’epocale senilità dell’imperialismo, ma e soprattutto nella crisi generale storica apertasi attorno agli anni ’70.

Oppure, per fare un altro esempio chiarificatore, il discorso di un’avvenuta distensione e pacificazione a livello internazionale e interno. Anche questa congiuntura distensiva (pur relativa e assai precaria) se così si può chiamare, non può essere disgiunta dalle tendenze generali della fase storica apertasi da oltre un decennio; una fase attraversata da tali e laceranti contraddizioni, che i conflitti, le guerre, le rivoluzioni diventano passaggi obbligati. Si confonde, per usare una metafora militare, la pausa tra un combattimento e l’altro con la presunta fine delle ostilità.

Per concludere si può senz’altro affermare che l’arco di tesi qui sinteticamente affrontato, si distacca fortemente da quella che è la teoria-prassi della strategia della lotta armata in un paese del centro imperialista. Detto questo, il gruppo di donne e uomini fino a ieri interni alla guerriglia, al di là di una patina rivoluzionaria che cerca di mantenersi, in realtà sostiene anch’esso la sporca operazione di disarmo e isolamento politico e ideologico della guerriglia e del movimento rivoluzionario. Sia chiaro che d’ora in poi ce li troveremo contro nel mentre, con il buon senso dei giusti, e il realismo dei vecchi saggi difenderanno il trattato di resa, la pacificazione sociale… contro i «vuoti irriducibilismi».

Che se ne tornino pure a casa, i loro nomi e la loro fine non potrà che accantonarsi nell’ammuffito ripostiglio dei vecchi quadri!… dove l’unica attenzione che riceveranno sarà quella della… rodente critica dei topi.

 

Dal crollo delle ragioni alle ragioni del crollo

Sullo sfondo di quanto abbiamo sostenuto fino ad ora resta il problema delle motivazioni profonde che stanno alla base del desolante panorama offerto dal crollo di tanti ex rivoluzionari. Un crollo che va assumendo le proporzioni del tramonto definitivo di una certa generazione di militanti e che non può essere liquidato – come pure si sarebbe tentati di fare, specie di fronte a certi comportamenti – con il facile ricorso a categorie che esulano dall’analisi politica, rientrando in altre discipline scientifiche.

È necessario fare qualche passo indietro: nella riflessione su questi anni di lotta armata dobbiamo sottolineare ancora una volta l’elemento di rottura davvero epocale che la guerriglia ha rappresentato nel processo rivoluzionario, entrando nel merito di ciò che ha permesso questa rottura e di quanto essa ha irradiato nei passaggi successivi.

Questo elemento di rottura è stato la «fusione» del politico e del militare. L’uso della violenza rivoluzionaria era sempre stato concepito come uno strumento tattico dalle organizzazioni proletarie d’avanguardia, uno strumento come molti altri, che «si tirava fuori» solo in alcune fasi, dispiegandosi compiutamente solo in quella insurrezionale e diventando elemento strategico nella guerra civile, in cui la dominanza passava al militare come fattore determinante di vittoria.

In dialettica con questi diversi passaggi si ponevano gli altri aspetti della politica del partito proletario. Così, a grandi linee, la codificazione del rapporto tra il politico e il militare nell’impianto terzinternazionalista.

Con l’assunzione della strategia della lotta armata questo rapporto trova una dimensione totalmente nuova e originale. La fusione del politico e del militare dà al partito, che ingaggia sin dall’inizio la lotta armata come strategia per la presa del potere, una connotazione altrettanto originale: nasce il partito comunista combattente.

Le BR, che già dal loro sorgere si muovevano «da partito», danno tutto il segno di questa originalità, di questa rottura irreversibile nella storia del movimento operaio e comunista italiano.

Alla luce dei recenti avvenimenti riteniamo che quanto abbiamo ricordato, e che pure ogni compagno dovrebbe conoscere a memoria, non sia stato ancora compreso in tutta la sua portata. Non solo: lo squallore della «soluzione politica» è l’ultimo episodio che ci fa pensare come anche chi questa rottura epocale l’assunse facendola propria (da un punto di vista soggettivo) e chi addirittura la promosse, l’abbia interpretata come una assunzione più «formale» che «sostanziale».

Se questo è vero, attraverso un’altra lente troveremmo migliore lettura di quanto può apparire superficialmente indecifrabile, cioè di come una buona parte di un’intera generazione di militanti di allora sta arrivando, seguendo i sentieri più vari, allo stesso traguardo: il crollo.

Con questa chiave di lettura non pretendiamo di esaurire tutte le «motivazioni profonde» dei cedimenti a cui stiamo assistendo, ma ogni altra spiegazione deve tener ben presente questo aspetto.

E allora «storicizziamo» schematicamente, come pare vada di moda oggi, ma con intenti opposti a quelli degli imbalsamatori della lotta armata.

Ricordiamo il quadro di dinamiche oggettive e soggettive da cui emerse quella rottura. A cavallo degli anni ’60-70 fu la classe a ritenere esaurita, nel ruolo di rappresentante generale e storico dei propri interessi, la sinistra istituzionale. Una maturazione di consapevolezza frutto di dinamiche oggettive proprie del grado di sviluppo del MPC nel loro intrecciarsi ad altri fattori interni e internazionali.

1) Nei cicli produttivi delle grandi fabbriche del nord, l’incontro fra l’operaio professionale, con la sua eredità resistenziale mai sradicata del tutto dal PCI, e la forza-lavoro di riserva meridionale, strappata dal suo contesto sociale nella fase espansiva del boom, dotata di un bagaglio di cultura contadina antistituzionale incontrollabile per la sinistra storica.

2) L’impatto di questa realtà con quella studentesca, espressione delle contraddizioni nate dalla scolarizzazione di massa in rapporto al mercato del lavoro, che pone in discussione radicalmente tutto l’apparato ideologico e si dimostra l’elemento consapevole – dal punto di vista soggettivo – di quante potenzialità quella fase di crisi degli assetti sociali, economici, politici conteneva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari.

3) I riflessi della lotta internazionale contro l’imperialismo (Vietnam, paesi della periferia) e contro il fascismo (Grecia, Spagna, Portogallo), l’onda lunga guevarista della Rivoluzione cubana e la Rivoluzione culturale cinese.

È un periodo di grande disordine sotto il cielo in cui, tra l’altro, la contraddizione tra gli elevati livelli di scolarizzazione e il massimo livello di alienazione della grande fabbrica spinge oggettivamente il proletariato – nei suoi settori più avanzati – all’assunzione soggettiva della necessità di ricomporre il lavoro intellettuale con quello manuale, un obiettivo comunista maturo che si rifletterà in modo dirompente anche nel processo di formazione delle avanguardie di classe. Sostanziare l’acquisizione di questo elemento traducendolo nella sfera dell’attività rivoluzionaria significava già porre le condizioni dell’unità del politico e del militare, significava fare il primo passo per riscattare la violenza rivoluzionaria dal suo orizzonte tradizionale nella storia del movimento comunista – la tattica – collocandola in una prospettiva strategica. Pena il riassorbimento in tempi più o meno brevi nel quadro istituzionale. I gruppi e gruppetti che si formarono, non riuscendo a comprendere qual era la strada da imboccare e tentando livelli di mediazione con questo passaggio obbligato, finirono per riprodurre una versione più estremista di quanto avevano già rappresentato per la classe PCI e PSI. Anche Togliatti, utilizzando la sinistra del PCI, per più di un decennio riuscì a prendere per il culo i proletari con le astuzie del «doppio binario», simulando la possibilità di ricostruire l’apparato militare da mettere in campo in vista della leggendaria «ora x». I gruppi ne fecero la serissima parodia organizzando i servizi d’ordine. Anche chi propugnava le idee più avanzate (ma dentro la stessa visione del processo rivoluzionario, da Potere Operaio alla prima LC e, meglio ancora, dai GAP alla XXII Ottobre) non poteva che equivocare, oscillando dalla «militarizzazione» del movimento al rinverdimento di vecchi allori resistenziali con concezioni da braccio armato di tutta la sinistra. E dove questa contraddizione non trovò «rientro» produsse lacerazioni e accelerò la fuga nell’opportunismo di tanti sessantottini.

I soli a capire la necessità del salto da operare furono i compagni che diedero vita alle Brigate Rosse, che ruppero verticalmente con quanto sino ad allora era stato concepito e praticato nel processo rivoluzionario in Occidente a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, prolungando politicamente la rottura orizzontale già operata dai settori più avanzati della classe. Vediamo meglio. La nascita della lotta armata, storicamente definita in un quadro di condizioni ovviamente peculiari ma frutto della maturazione delle dinamiche di un’intera epoca, seppe interpretare dal suo sorgere, anzi, con, il suo sorgere, la necessità di trasporre su un piano più elevato -quello strategico- le spinte delle avanguardie dello strato di classe allora più combattivo e tendenzialmente egemone sull’intero proletariato. Spinte che pure alludevano alla questione fondamentale della presa del potere politico, ma che – di per sé – non esaurivano l’inverarsi di tutte le condizioni richieste per definire una data congiuntura come effettivamente rivoluzionaria. Ma questa «trasposizione» non può essere identificata con le caratteristiche della situazione contingente che la resero possibile (inizio anni ’70) e quindi condannata a condividere la sorte del progressivo affievolirsi e spegnersi del presunto «clima rivoluzionario» di quel periodo.

Fu un salto di qualità che approdò alla concezione della guerra rivoluzionaria di lunga durata nella metropoli imperialista e non certo al prolungamento soggettivista e «in altre forme» di una insurrezione abortita, o – peggio – alla copertura militare dell’antagonismo di una specifica figura proletaria destinata (ABC del marxismo-leninismo!), come tutte quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno, ad estinguersi o trasformarsi nelle successive fasi di sviluppo del MPC.

La guerriglia fu una svolta epocale che ha significato per gli autentici comunisti un’acquisizione irreversibile, perché ha indicato al proletariato l’unica strada vincente per la conquista del potere politico in un paese del centro… al proletariato come classe e non all’operaio massa, cioé a uno specifico referente protagonista di un momento ritenuto rivoluzionario, da paragonarsi all’operaio della manifattura per la Russia del ’17 o all’operaio professionale per l’Ordine Nuovo di Gramsci. Il fatto che oggi l’operaio massa della grande fabbrica, dopo la vittoria della ristrutturazione, abbia mutato il ruolo che occupava nella composizione proletaria, il fatto che esista l’addetto ai robot mentre le foto degli scarriolanti delle bonifiche padane sono conservate nei musei della «cultura contadina», non smentisce ma conferma la continuità della lotta di classe e il ruolo che in essa hanno i comunisti, per lo meno fino a quando questi ultimi non scambieranno l’ascesa dei titoli azionari con l’uscita dell’imperialismo dalla crisi generale e storica che conduce alla guerra. Questo lo evidenziamo per ricordare a chi legge la voluta imbecillità di tesi ricalcate dai pezzi di colore di Giorgio Bocca e che legano la fine congiunturale di un ciclo di lotte offensive di una particolare figura proletaria alla fine della strategia della lotta armata. Voluta imbecillità. A meno che, sino da allora, non si sia frainteso a livello macroscopico quanto si stava facendo, confondendo «strategia» con «tattica». Una assunzione «sostanziale» e non «formale» delle categorie fondanti della guerriglia non avrebbe certo lasciato spazio ad un «equivoco» del genere, protrattosi negli anni successivi in tutta una serie ben conosciuta di deviazioni nel rapporto partito/masse.

Il partito comunista combattente è un partito nuovo e diverso da tutte le esperienze organizzative che l’hanno preceduto, non è uno strumento che si possa piegare a una prassi che la sua stessa esistenza dimostra di aver radicalmente superato, così come l’originalità della sua strategia non può essere ridotta a una sinergia di tattiche ereditate da altri impianti. La soggettività rivoluzionaria organizzata nella strategia della lotta armata per il comunismo non opera come un qualsiasi partito della sinistra storica proteso ala ricerca di una maggioranza sociale o di un’ampia influenza su di essa da spendere come peso contrattuale nella coabitazione con le forze borghesi entro la cornice vincolante delle istituzioni democratiche. Il partito comunista combattente è vettore di una strategia capace di articolarsi nelle tappe di un processo rivoluzionario senza appiattirsi sulle diverse congiunture, determinando la tattica e non risultandone determinato.

A distanza di anni, e ci siamo soffermati sul passato per parlare del futuro, chi vuole inchiodare le BR agli anni ’70 inchioda se stesso a una estraneità storica dalla guerriglia; conferma nei fatti, pur avendo – magari – sempre sostenuto il contrario, una concezione fuorviante e distorta del partito comunista combattente e dei suoi compiti; una militanza segnata fin dall’inizio da contraddizioni accantonate e mai ricomposte al punto da esplodere alla prima proposta democristiana veramente allettante.

I militanti che hanno indossato solo ideologicamente i panni del guerrigliero sopra abiti tratti da vecchi guardaroba, ora si trovano nudi di fronte al loro fallimento o esibiscono senza ritegno la consunta tenuta da braccio (e per di più disarmato!) dell’intera sinistra. Alla fine della loro parabola hanno di nuovo separato il politico dal militare. Storicizzato (e archiviato) il militare, usano il politico come categoria borghese operante entro i limiti della «conflittualità democratica», strumento di trattativa… garanzia di scarcerazione.

 

La fine e l’inizio

I nemici della guerriglia stanno sbagliando i loro calcoli. I giornalisti in divisa e i carabinieri in doppiopetto, gli esponenti dei partiti, il personale istituzionale, stanno condividendo lo stesso equivoco di fondo. La guerriglia non è un esercito borghese che, abbandonato o tradito dai suoi generali, si sbanda al punto da ridursi a fenomeno eliminabile con un fortunato rastrellamento poliziesco. Ne siamo perfettamente consapevoli proprio mentre partecipiamo alla battaglia politica contro la «soluzione» per sconfiggere l’ultimo più articolato e insidioso progetto di liquidazione della guerriglia in Italia. La situazione attuale, in quanto rimette in luce vecchie e recenti incrostazioni teoriche, vecchie deviazioni riproposte e aggiornate, impone lo scioglimento di nodi ben conosciuti, rappresentando così l’occasione decisiva per rivitalizzare il dibattito nel movimento rivoluzionario e, per quanto ci riguarda direttamente, fra i prigionieri comunisti che appoggiano la guerriglia in generale e le BR/PCC in particolare.

La strategia della lotta armata trae forza dalla continuità della sua esperienza per uscire dalle secche del continuismo e affrontare le tappe del processo rivoluzionario negli anni ’90 in un paese del centro imperialista. La storia delle Brigate Rosse si conferma ancora una volta irriducibile alle distorte letture di parte, vitalmente refrattaria a chi vuole «conservarla» per svenderla, a chi pretende di «trasformarla» per diluirla nel pantano socialdemocratico, a chi sogna di confezionarla in un accattivante pacco dono da anni ’70 pronto per l’immissione nell’industria culturale postmoderna. È un processo che si arricchisce giorno per giorno costruendosi nella lotta di classe, rafforzandosi nelle sconfitte e alimentandosi della materia sociale in movimento.

L’esperienza delle Brigate Rosse è un’arma che continueremo a impugnare. Perché la rivoluzione sa appendere i quadri storici al muro e trovare la strada per la vittoria.

 

Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

 

Cuneo, settembre 1987.

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