Scheda storica Collettivi politici veneti

Da Potere operaio all’Autonomia operaia

Agli inizi di giugno del 1973, durante la IV Conferenza nazionale d’organizzazione di Rosolina, in provincia di Rovigo, si manifestano profonde divergenze all’interno di Potere operaio. A scontrarsi sono l’area romana di Franco Piperno e quella delle Assemblee operaie autonome, che ha come riferimenti principali Toni Negri e l’assemblea di Porto Marghera-Venezia. Negri ritiene possibile un doppio binario di militanza. Da un lato, un ruolo di direzione delle iniziative, in grado di interpretare l’illegalità di massa, dall’altro un livello di clandestinità associativa, che guidi il percorso della lotta armata verso la guerra di classe. Piperno sostiene invece la necessità politica per il militante di Potere operaio di essere un quadro complessivo, capace di agire come riferimento sia sul piano politico sia su quello militare. Nessuna delle due ipotesi si dimostra possibile. Potere operaio si scioglie. Per un breve periodo qualcuno tenta di tenere in piedi il gruppo continuando a far uscire un giornale, il «Potere operaio del lunedì». Il dibattito che si sviluppa nei mesi successivi fra i militanti del Veneto, con l’esclusione delle sezioni di Venezia e Verona, porta alla nascita dei Collettivi politici padovani per il Potere operaio.

L’area dell’Autonomia operaia

Le strutture organizzate rappresentano solo un aspetto di una realtà più variegata. L’Autonomia nel suo insieme non è mai stato un gruppo o una somma di gruppi, ma un’area che ha raccolto situazioni di lotta, militanti determinati a condurre una battaglia contro il lavoro e lo Stato a partire dalle proprie condizioni materiali di sfruttati. Operai, studenti, precari, donne, omosessuali.

Negli anni Settanta i gruppi extraparlamentari formulano una lettura strategica di fascistizzazione dello Stato, concentrando buona parte della loro attività sull’antifascismo militante. L’Autonomia considera invece prioritaria la battaglia contro il capitale. Solo in alcuni periodi, soprattutto nella realtà romana, l’antifascismo diviene un tema centrale, che non si riconosce nelle campagne per l’Msi fuorilegge, ma vuole essere espressione di un contropotere finalizzato a liberare i quartieri dai neri e dai loro covi. Anche a Padova, dove la presenza neofascista è molto forte, lo scontro con gli squadristi condotto in termini offensivi, oltre che difensivi, crea intorno ai Cpv un diffuso consenso giovanile.

L’uso della forza è in quegli anni patrimonio di buona parte della sinistra extraparlamentare. Le divergenze fra i gruppi e le Brigate rosse non riguardano la necessità e l’opportunità della lotta armata, ma impostazioni tattiche e strategiche. L’Autonomia intende mantenere un fronte di attività legale, critica le azioni esemplari condotte da un’avanguardia esterna accusata di non tenere conto dei livelli raggiunti dal movimento e dagli organismi di massa. Il combattimento è considerato espressione del punto più alto di costruzione del contropotere proletario. Il precariato viene individuato come forma-lavoro centrale del nuovo ciclo produttivo. Il soggetto di riferimento non è più l’operaio massa ma l’operaio sociale. Ovvero chiunque, sottoposto al rapporto di produzione, subisce una tendenziale proletarizzazione. Disoccupati, emarginati, donne, studenti. La prima protesta sui bisogni riguarda i prezzi dei trasporti pubblici. Poi il conflitto si allarga. Nel territorio, in quella che viene definita fabbrica diffusa, dove si annulla la separazione tra lavoro e vita. A metà degli anni Settanta si inizia a parlare di proletariato giovanile. Soggetti che esprimono il proprio antagonismo attraverso l’uso della marijuana e l’esproprio di merci, il sesso libero e gli scontri di piazza, il rock e lo sciopero selvaggio. Fra il 1975 e il 1976 a Milano nascono i Circoli del proletariato giovanile, che si diffondono in tutta Italia. I primi centri sociali. I loro militanti occupano case ed effettuano autoriduzioni nei cinema, non pagano i concerti, saccheggiano negozi, attaccano i bar dell’eroina. Insieme alle femministe sono i «nuovi» soggetti dell’Autonomia. Rifiutano il lavoro e le regole borghesi, la divisione fra il personale e il politico, considerano l’intero tempo di vita inglobato nei processi di produzione capitalista. Concepiscono la rivoluzione come pratica quotidiana.

Nel marzo 1976 a Roma si svolge il convegno per creare a livello nazionale l’Autonomia operaia organizzata e rendere più organico l’intervento combattente sul territorio.

I due fronti di lotta

Potere operaio, in linea con la tradizione del movimento comunista, aveva impostato la propria azione su due fronti di militanza. Uno pubblico, di massa, considerato prevalente, e uno articolato nella struttura Lavoro illegale, per realizzare le prime azioni armate collegate al movimento.

Potere operaio vuole essere il «partito dell’insurrezione», inteso come partito, come formazione organizzata che si propone di dirigere e di armare il movimento di massa della classe operaia […]. Muovere il movimento verso lo sbocco di potere significa dirigere l’intera articolazione del movimento delle masse verso la lotta armata.

L’Autonomia operaia, e i Collettivi politici veneti per il Potere operaio, alla violenza diffusa, prolungamento dell’illegalità di massa delle iniziative sociali, affiancano un’organizzazione clandestina d’avanguardia, per effettuare azioni politico-militari volte a indebolire lo Stato.

I Collettivi politici veneti per il Potere operaio

I Collettivi politici veneti per il Potere operaio nascono nel 1976 su base territoriale. A caratterizzarli è il forte radicamento nella realtà locale, la presenza di una struttura unitaria articolata su un fronte politico-legale e uno militare-illegale, fra loro complementari, un confronto dialettico e rapporti logistici con le organizzazioni clandestine, la volontà di agire da partito.

La I Circolare della Commissione Politica dei Collettivi Politici Padovani, principale articolazione dei Cpv, dichiara che l’obiettivo è costruire nuclei di combattenti comunisti omogenei su tutti i problemi attinenti una linea di condotta rivoluzionaria, per mettere a punto un progetto strategico d’organizzazione per il partito armato degli operai comunisti. Nel primo numero del giornale dei Collettivi padovani, uscito come supplemento a «Linea di condotta» nell’ottobre 1976, si definisce la guerra civile un fenomeno grandioso e immenso in cui il bisogno si fa progetto e il progetto si arma per realizzarsi, in cui tutte le contraddizioni della vita delle masse si concentrano e si liberano, è l’unico punto di riferimento a cui far risalire la ricerca del metodo, la struttura dell’organizzazione, la materializzazione del programma, l’azione quotidiana e strategica dei comunisti. […] Forme di potere politico vero e proprio si sono andate estendendo, dall’autoriduzione ai prezzi politici, dal rifiuto del contratto al virtuale rifiuto della contrattazione, dall’Autonomia di classe alla sua indipendenza, riaggregatasi sull’uso della forza che ne ha messo in luce l’intera energia politica.

Alla base dei Cpv ci sono i Gruppi sociali. Organismi territoriali pubblici che mettono in atto, nella fabbrica e nel sociale, un programma comunista centrato sulla pratica del contropotere, come si legge nel bollettino ciclostilato Ben scavato vecchia talpa, del 1978. I Gruppi devono costituire comitati sui temi più conflittuali. Comitati di zona, Comitati e Collettivi di studenti medi e universitari, Comitati e Coordinamenti operai. In ogni Collettivo territoriale (Padova, Vicenza, Venezia, Rovigo) c’è un Nucleo, a cui spetta la direzione politico-militare, e un Attivo, la realtà militante più ampia dove si discute la linea generale. La struttura pubblica dei Cpv comprende inoltre Radio Sherwood a Padova, che dal 1977 diviene una delle voci dei Collettivi e dà vita, tra il 1978 e il 1985, a omonime emittenti a Thiene poi a Venezia. Nel 1978 esce il settimanale «Autonomia», i cui redattori vengono arrestati nell’ambito dell’operazione «7 aprile». Il giornale continuerà a essere pubblicato periodicamente fino alla metà degli anni Ottanta.

La struttura semiclandestina dell’illegalità di massa utilizza una serie di sigle, ognuna corrispondente ad un determinato livello dell’organizzazione, con cui vengono rivendicate le azioni di attacco contro le strutture e/o gli uomini degli apparati del comando politico-sociale e produttivo. Organizzazione operaia per il comunismo, Proletari comunisti organizzati, Ronde armate proletarie. Colpiscono agenzie immobiliari, abitazioni, automobili, sedi di società con ordigni esplosivi o bottiglie incendiarie. La struttura clandestina, militare, che impiega armi da sparo, si firma Fronte comunista combattente. Rivendica nove azioni, fra cui tre ferimenti.

Dal 1975 i Collettivi fanno un salto organizzativo in tutta la regione, effettuando spettacolari iniziative politico-militari di massa. Picchetti, sabotaggi, azioni contro i capetti, il lavoro nero, gli straordinari. Incendi di fabbriche, automobili, sedi fasciste e democristiane. Si sviluppa una pratica quotidiana di contropotere nei quartieri, con occupazioni di case, autoriduzione di bollette, imposizione di prezzi politici nei trasporti, nelle mense, in negozi e supermercati, ma anche espropri di beni di lusso, per sancire il diritto a godere la vita riappropriandosi di quanto ingiustamente tolto dal capitale. La rottura con la politica dei sacrifici promossa dalle organizzazioni storiche del movimento operaio è netta.

I Collettivi a Padova – la città in cui sono più forti – dedicano una particolare attenzione all’università, ritenuta un fulcro del modo di produzione capitalista, del meccanismo di estrazione di plusvalore, una fabbrica del consenso, una sacca di lavoro per la fabbrica diffusa. Per lottare contro la selezione e allargare spazi politici, vengono effettuate occupazioni, ronde contro i baroni reazionari o legati al Pci, interrotte lezioni ed esami, imposto un voto politico sulla base della frequenza ai seminari autogestiti.

Nel 1976 si sedimenta un rapporto politico-organizzativo fra i Collettivi e i compagni di «Rosso», che nel 1978 viene denominato «Rosso per il Potere operaio». Si vuole cercare di dare una direzione nazionale alla ricchezza sociale dell’autonomia e ai fenomeni armati nel movimento.

Dopo il convegno contro la repressione di Bologna del settembre 1977, mentre si continua a discutere del progetto di centralizzazione denominato Autonomia operaia organizzata, i Collettivi politici veneti promuovono il Movimento comunista organizzato veneto (Mco), per salvaguardare la specificità territoriale all’interno del percorso per la creazione di una forza politica nazionale.

Fra il 1977 e il 1979 l’intervento si rivolge contro la ristrutturazione e il comando sul lavoro, in fabbrica e nel territorio, e contro le infrastrutture dell’università. In questo quadro maturano numerosi sabotaggi e i ferimenti, a Padova e provincia, di un giornalista, del direttore dell’Opera universitaria, di un docente.

Illegalità di massa, lotta armata e contropotere

Per i Cpv, come per altre realtà dell’Autonomia operaia, l’uso della forza e l’illegalità di massa sono strettamente legate all’attività pubblica e finalizzate all’estensione di un effettivo contropotere volto all’abbattimento del sistema capitalistico. Rispetto ad altri settori dell’Autonomia, i Cpv si caratterizzano per il rifiuto dello spontaneismo, la costruzione di fronti di organizzazione differenziati ma unificati da una direzione politico-militare centralizzata.

Nel febbraio 1979 esce sul settimanale «Autonomia» un articolo, con estratti di documenti interni, Sulla linea di combattimento, che traccia la strategia dei Cpv.

Il soggetto comunista deve essere disciplinato dentro un progetto centrale d’organizzazione capace di «armarlo» per disarticolare l’intero arsenale di comando e di controllo dello stato capitalistico. Il movimento deve essere arricchito della complessità dei problemi: occorre operare perché si rafforzi e possa sostenere e accettare la sfida capitalistica su tutti i terreni dove si rapportano i conflitti di classe. […] Quindi, linea di combattimento dentro la pratica del programma proletario a livello territoriale, dentro l’esperienza dell’illegalità di massa e dello sviluppo del movimento comunista organizzato. Movimento come rete soggettiva di un potere proletario che cresce sull’uso della forza, via via commisurata ai possibili salti e alle forzature della e nella intera soggettività proletaria. Quindi un’articolata e complessa pratica della lotta armata.

Il controllo del territorio

Una forma di contropotere e di guerriglia urbana simbolicamente efficace, messa in atto a Padova, è il controllo dei territori. L’occupazione di una zona cittadina, effettuata da un centinaio di militanti, con armi e molotov. Alcuni chiudono gli accessi con macchine messe di traverso sulla strada e copertoni bruciati, per ritardare l’arrivo della polizia, mentre altri compiono azioni nella zona «liberata». Questa pratica viene attuata nel quartiere padovano dell’Arcella il 9 giugno 1976, quando sono colpite case e punti di ritrovo dei fascisti, poi in quello di Brusegana, nell’autunno dello stesso anno, dove tra l’altro è effettuato un esproprio in un supermercato. I clienti vengono fatti uscire senza pagare e gli alimenti sottratti sono poi distribuiti davanti alle case popolari. Il controllo del territorio è di nuovo attuato al Portello-Stanga il 19 maggio 1977, nell’ambito della lotta contro la soppressione delle festività. Sono danneggiate anche due agenzie immobiliari, considerate responsabili della crisi e dell’aumento dei prezzi degli alloggi.

All’inizio di dicembre del 1979, per protestare contro il divieto della manifestazione regionale in solidarietà con gli arrestati del 7 aprile, circa duecento militanti armati dei Cpv bloccano gli snodi viari di Padova. Auto incendiate, colpi di pistola, espropri alla cassa di un supermercato, danneggiamento di agenzie immobiliari, molotov contro una sede Dc. L’iniziativa è rivendicata da un volantino firmato Per il comunismo.

Le campagne d’organizzazione

Un intervento tipico della rete regionale dei Cpv sono le campagne d’organizzazione, chiamate dalla stampa «notti dei fuochi», una serie di azioni tematiche in contemporanea, condotte dalle diverse strutture provinciali, rivendicate con varie sigle ma coordinate da una direzione centralizzata. Ne vengono effettuate dieci, a partire dall’aprile 1977. La prima, rivolta contro i piccoli imprenditori, mira colpire i loro beni e chiudere i covi del lavoro nero. L’ultima, alla fine di ottobre del 1979, ha come bersaglio le filiali Fiat della zona per protestare contro il licenziamento politico a Torino di 61 operai.

Durante le altre, obiettivi ricorrenti sono sedi Dc, stazioni dei carabinieri, funzionari di polizia, carceri, abitazioni e ritrovi fascisti, locali di associazioni industriali. In una occasione, nel 1978, vengono sparati colpi di pistola sulle finestre dell’abitazione di Pietro Calogero, allora titolare dell’inchiesta padovana contro sessanta militanti accusati della costituzione di un’associazione per delinquere riferibile ai Collettivi politici padovani per il Potere operaio. Lo stesso giudice sarà l’artefice del processo «7 aprile», a cui i Cpv rispondono con la nona «notte dei fuochi», alla fine di aprile del 1979. Contro la repressione, vengono attaccate nelle province di Padova, Venezia, Vicenza, Rovigo oltre venti caserme dei carabinieri, sedi politiche e istituzionali.

Il «caso 7 aprile»

Il 7 aprile 1979 scatta una vasta operazione di polizia contro l’Autonomia operaia in tutto il territorio nazionale (principalmente a Padova, Milano, Roma, Rovigo e Torino). Gli arresti proseguono nei giorni e nei mesi successivi. Si tratta per lo più di intellettuali, docenti, ricercatori universitari, scrittori, giornalisti, leader dei movimenti del post Sessantotto. Toni Negri viene indicato come capo di una sorta di «cupola» della sovversione italiana, e accusato delle più varie azioni delle organizzazioni armate. Compreso il sequestro di Aldo Moro. È persino indicato come l’uomo che telefonò a casa dello statista.

Fra gli inquisiti ci sono Franco Piperno, Oreste Scalzone, Nanni Balestrini. Associazione sovversiva, insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Imputazioni da ergastolo mai usate prima nell’Italia repubblicana. Sulla base di quello che viene definito «teorema Calogero», dal nome del sostituto procuratore di Padova che conduce l’inchiesta, sono accusati – attraverso ordini di cattura non sostenuti da elementi di fatto – di essere a capo di un fantomatico partito armato in Italia. Secondo il giudice, infatti, un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato. A guidare tutto sarebbe l’Autonomia operaia organizzata, sotto nomi e forme diverse. Dall’inchiesta madre nascono varie indagini locali. In carcere finiscono più di cento persone. Una montatura mediatico giudiziaria.

I fatti di Thiene

Durante la preparazione di una campagna di organizzazione in risposta all’operazione repressiva, l’11 aprile 1979 tre militanti del Collettivo politico di Thiene, in provincia di Vicenza, creato nell’ambito dei Cpv, muoiono dilaniati dallo scoppio accidentale di un ordigno che stanno confezionando. Sono Angelo Del Santo, 24 anni, Alberto Graziani, 25 anni, Maria Antonietta Berna, 22 anni. Nei giorni successivi vengono emessi vari mandati di cattura. Lorenzo Bortoli, compagno di Antonietta, è arrestato perché intestatario dell’appartamento in cui è avvenuto lo scoppio. Durante una perquisizione nella casa sono ritrovati esplosivi, armi da fuoco, documenti politici. Lorenzo, 26 anni, si suicida nella notte fra il 19 e il 20 giugno in una cella del carcere di Verona. Nel dicembre 1981 il Fronte comunista per il contropotere rivendica il ferimento di Antonino Mundo, medico del carcere di Vicenza, dove il giovane aveva effettuato un tentativo di suicidio.

Gli anni Ottanta

All’inizio degli anni Ottanta le divisioni interne, unite alle ondate repressive, contribuiscono all’esaurimento dei Cpv. Duecentocinque persone vengono inquisite con l’accusa di avere costituito organizzato e diretto una associazione sovversiva costituita in banda armata denominata Collettivi Politici del Veneto per il Potere Operaio, mirante a sovvertire con la violenza gli ordinamenti repubblicani vigenti. I Collettivi affrontano la stagione dei processi sfiorati solo marginalmente dai fenomeni del pentitismo e della dissociazione. Il 9 marzo 1985, a Trieste, il militante dei Cpv Pietro Maria Greco, detto Pedro, latitante, viene ucciso dalle forze di polizia mentre rientra nella casa in cui è ospitato. Conclusa una realtà organizzativa, l’esperienza politica prosegue, fra continuità e differenze, con un impianto e forme di lotta ridefinite in rapporto alle mutate condizioni dello scontro sociale. L’area dei Cpv ha un ruolo importante nella costruzione del Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, che conduce tra l’altro campagne per la liberazione dei prigionieri politici, azioni e blocchi nelle centrali nucleari in costruzione. Dalla metà del decennio vengono poste le basi per la ricostruzione di un radicamento nel territorio, con la creazione dei centri sociali occupati.

 

Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.

 

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