Testimonianza di Silvia Baraldini

11Silvia_BaraldiniSono anni che in molti mi chiedono di raccontare la mia storia, e ho sempre avuto perplessità a farlo. Non ero pronta a mettere la penna su carta, anche perché la mia lettura del passato è in costante evoluzione. Quando Paola Staccioli mi ha domandato se fossi disposta a contribuire a questo libro, mi è sembrata un’opportunità per iniziare a dare un senso, un ordine alle mie esperienze. Non è stato facile. Ma un punto di partenza ci deve pur essere.

Nello scrivere volevo dissipare alcune convinzioni comunemente associate alla mia storia, ad esempio l’appartenenza al Black Panther Party. Spero che il racconto aiuti a capire perché questo non sarebbe mai stato possibile. E presenti, a chi non ne è a conoscenza, il Black Liberation Army, l’organizzazione a cui i miei coimputati afroamericani appartenevano.

Si parla molto di memoria e della sua importanza nel dare nuove chiavi di lettura al passato e, di conseguenza, alla costruzione del futuro; ma la memoria non può escludere esperienze importanti come quelle che questo libro racconta. E le racconta mettendo al centro le donne, sulle quali si è spesso giocata una partita interessante. Da un lato la loro partecipazione alla lotta armata è stata sensazionalizzata, quasi a creare l’idea di donne eccezionali e anomale nelle quali, di conseguenza, in poche potessero identificarsi. Dall’altra si è venuta a creare un’immagine al maschile della lotta rivoluzionaria che non riflette il contributo femminile, sia a livello internazionale che in Italia. Questi due fatti hanno portato verso la stessa conclusione: quella storia non ci appartiene, e non la si deve neanche considerare. Spero che questo libro sia occasione per allargare la discussione, e aiuti a promuovere una visione del passato diversa, esterna al clima di caccia alle streghe che l’ha condizionata.

L’esclusione di queste lotte dalla memoria collettiva ha avuto un altro impatto che dovrebbe preoccuparci. Il diritto alla ribellione è stato abolito. E non si perde occasione per condannare coloro che insistono a esercitarlo. Se c’è una parola di cui oggi si abusa è “terrorista”. Tutti lo sono: dai palestinesi, agli anarchici, a coloro che in Val di Susa si oppongono alla costruzione dell’alta velocità. Il messaggio è martellante, la protesta sarà tollerata solo se rispetta i parametri stabiliti da coloro che rappresentano il potere, e sono perciò l’obiettivo della protesta stessa. Quei parametri saranno fatti rispettare a tutti costi. Leggere le storie di questo libro mi ricorda, e ci ricorda, che osare, ribellarsi, ha una dignità storica che non può essere ignorata.

Infine, vorrei mettere a tacere l’idea, abbastanza diffusa, che io sia finita in carcere solo per reati di opinione, che in qualche modo ero una vittima innocente. È importante per me, anche per onorare i compagni e le compagne ancora detenuti, che questa percezione venga sconfitta. Essere vittima significa aver subito un torto, ma quando rifletto sulla mia storia vedo una donna che, con altre persone sparse in tutto il mondo, ha liberamente scelto di opporsi allo strapotere degli Stati Uniti. E come mi ha spiegato, nel secondo anno in cui ero in carcere, un detenuto che conosceva molto bene la storia americana: They never get mad; they just get even (Non si arrabbiano mai, di certo si vendicano).