Tribunale di Cuneo. Documento dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La guerra di aggressione imperialista all’Iraq è un passaggio di importanza storica per il processo rivoluzionario a livello internazionale e anche per le sue implicazioni a livello interno. Sono, questi, “giorni che valgono anni”, che spezzano il tempo in maniera netta tra un prima della guerra e un dopo: niente rimane lo stesso e il processo storico assume qualità e velocità nuove; ogni cosa è messa alla prova da una crisi di dimensioni mondiali e i fatti impongono le loro lezioni.

Gli avvenimenti ancora in corso decideranno esiti e bilanci nello svolgersi delle lotte sul campo, nelle verifiche dei rapporti tra le forze su scala mondiale. Noi qui, come militanti prigionieri delle BR-pcc, intendiamo, rispetto ai movimenti in atto, collocarci, e soprattutto riaffermare la posizione internazionalista e antimperialista del nostro processo rivoluzionario, rivendicare l’internazionalismo e l’antimperialismo nella strategia, nel programma e nella prassi delle Brigate Rosse.

Tutt’altro che una “sorpresa” questa guerra di aggressione è invece un “risultato”, prodotto coerente e conseguente di tutto lo sviluppo del sistema imperialista negli ultimi anni, ed evidenzia, e a sua volta ridetermina, il nuovo contesto in cui hanno luogo oggi le lotte tra le classi e tra gli Stati nel processo di putrefazione dell’imperialismo.

La tendenza alla guerra è insita nella dinamica stessa del modo di produzione capitalistico: è questo il modo in cui esso storicamente ha superato via via le sue crisi, approfondendo, anziché risolvere, le sue contraddizioni di fondo. La distruzione di capitali, forza-lavoro, mezzi di produzione eccedenti, l’ottimizzazione delle condizioni di penetrazione finanziaria e commerciale e l’acquisizione diretta di nuove aree, la ridefinizione dei mercati per una nuova divisione internazionale del lavoro sono l’obiettivo e il prodotto della guerra.

L’ultima guerra mondiale è stata l’inevitabile sbocco della grande crisi del 1929-30 e ha disegnato l’attuale quadro mondiale dominato dall’imperialismo Usa, e in cui le contraddizioni interimperialistiche prima dominanti, sono state sostituite dalla contraddizione Est/Ovest, che è diventata terreno di realizzazione della tendenza alla guerra ed elemento determinante e condizionante nei conflitti succedutisi nel corso di questo dopoguerra.

L’esito attuale della “guerra fredda”, con i nuovi rapporti di forza determinatisi con la crisi interna dell’Urss e il suo ridimensionamento nella scena politica mondiale, e con la ridefinizione della linea di demarcazione a est e lo scioglimento del Patto di Varsavia, hanno consentito agli Usa di scatenare questa guerra imponendo via via le proprie decisioni politiche e militari senza sostanziali condizionamenti.

L’aggressione all’Iraq deriva dalla necessità di ratificare a livello mondiale questi rapporti di forza nel pieno di una grave recessione economica che dagli Usa è andata diffondendosi negli altri Stati del sistema imperialista. Una recessione che giunge dopo dieci anni di “reaganomics“ e di politiche di riarmo utilizzate come volano dell’economia, e nell’ambito della crisi di sovrapproduzione apertasi all’inizio degli anni Settanta, una volta esaurita la fase espansiva innescata dalla seconda guerra mondiale.

Cartina al tornasole per la misura dei rapporti di forza nell’ambito della contraddizione Est/ovest, la guerra all’Iraq segna, con la colossale esibizione di forza e l’insediamento americano nella regione, una pesante riaffermazione dell’egemonia Usa sull’intero sistema imperialista, e rafforza, con il controllo diretto delle fonti energetiche, il peso degli Usa nei confronti degli altri Stati del centro, particolarmente nei confronti di Giappone e Germania. Ed inquadra i processi di coesione tra i diversi Stati europei come coesione nell’insieme del sistema imperialista, riconfermando la sostanziale subordinazione alla leadership Usa; ogni specificità particolare di interessi si esalta nella relazione bilaterale che gli Usa separatamente stabiliscono con i diversi Stati imperialisti europei, subordinando a questo livello i processi di concertazione intereuropei.

La massiccia presenza militare diretta nella regione mediorientale pesa ulteriormente nei confronti della vicina Unione Sovietica, e tende alla risistemazione dell’intera regione, contro ogni spinta che si organizzi come forza tendente a un qualche grado di autonomia e indipendenza sulla base delle contraddizioni determinate dalla struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, contro le spinte antimperialiste e rivoluzionarie, e particolarmente contro l’avanguardia nella lotta delle masse arabe: la rivoluzione palestinese.

Ma, quale che sarà la misura del vantaggio immediato che ne deriva per l’imperialismo, questa guerra non risolve uno solo dei problemi che l’hanno prodotta. Al contrario, l’aver dovuto tentare di risolvere su questo terreno le proprie contraddizioni non fa che approfondirle e accelerarle in termini critici.

Del tutto irrilevante, ovviamente, ogni questione di diritto internazionale violato e balle varie: nel cielo inevitabilmente e completamente borghese del diritto internazionale, in sede Onu avviene soltanto la ratifica formale del rapporto di forza reale. L’Iraq, fatto oggetto di attenzione e di incombente ridimensionamento da parte di un Occidente che, se ben aveva gradito la guerra di contenimento nei confronti dell’Iran rivoluzionario, non altrettanto gradiva l’accresciuta forza regionale che ne era uscita, con l’operazione di incorporazione del Kuwait non ha fatto che muoversi per primo, prendendo l’iniziativa e cercando di determinare, per quanto rimaneva nelle sue possibilità, luoghi, margini e tempi di un affrontamento che era in ogni caso inevitabile e già deciso dalle politiche sionista e imperialista nella regione.

Le masse arabe sfruttate e oppresse hanno visto nella sfida dell’Iraq all’imperialismo ciò che, in altre condizioni storiche, ha rappresentato 1’Egitto di Nasser nella nazionalizzazione del Canale di Suez: il simbolo dell’orgoglio e della dignità dell’intera nazione araba. Milioni di uomini si sono mobilitati, dal Maghreb al Machrek, in questo che è un altro nuovo inizio di processi di lotta e organizzazione i cui frutti matureranno a lungo. La resistenza dell’Iraq ha reso visibile, concreta, viva, la possibilità del rivoluzionamento delle condizioni di oppressione e di sfruttamento di milioni di uomini.

Il rovesciamento dell’emiro del Kuwait, gli attacchi alle petrolmonarchie del Golfo hanno riaffermato nei fatti da una parte la realtà di una nazione araba divisa dal colonialismo e dall’imperialismo, di confini e Stati disegnati dalle potenze occidentali il cui ruolo è quello di agevolare il trasferimento delle risorse economiche arabe a vantaggio degli imperialisti, dall’altra che questa realtà può essere rovesciata.

Gli attacchi allo Stato sionista hanno dimostrato ancora una volta alle masse arabe che esso non è invulnerabile, e hanno riaffermato davanti al mondo che, dal suo insediamento nel 1948, “Israele” è in stato di guerra con tutti gli arabi.

La presenza dello Stato sionista come avamposto politico-militare delle metropoli imperialiste incuneato nella nazione araba è la base materiale sulla quale si fonda l’organizzazione soggettiva della rivoluzione palestinese, centro della mobilitazione araba. Ciò ne fa la questione fondamentale della pacificazione imperialista dell’area, poiché le forze rivoluzionarie palestinesi l’hanno trasformata in un processo rivoluzionario aperto nel cuore della regione.

Dal 1965, data d’inizio della lotta armata in forma organizzata, le avanguardie combattenti del popolo palestinese hanno saputo compiere i passaggi che hanno impedito l’attuazione di tutte le varianti del progetto centrale dell’imperialismo nell’area: la cancellazione della “questione palestinese” e la risistemazione politica della regione intorno allo Stato sionista. Nel ’68, lo stesso anno della battaglia di Karameh, che segna la rivincita della dignità araba dopo la sconfitta del ’67, l’avanguardia combattente palestinese porta la linea del fronte nel cuore stesso dell’imperialismo, in Europa, come già aveva fatto la rivoluzione algerina, affermando così con forza quella linea antimperialista che rende la rivoluzione palestinese un punto di riferimento essenziale per ogni processo rivoluzionario sia nella periferia che nel centro. I massacri che il popolo palestinese ha subito nel corso della sua storia, da Deir Yassin al “Settembre nero”, da Tall El Zatar a Sabra e Chatila, ai continui assassinii in tre anni di intifada, non hanno fermato la rivoluzione palestinese, e le forze rivoluzionarie non hanno mai smesso di combattere, anche in questi mesi, in una situazione che si è fatta oggi estremamente difficile.

L’imperialismo si è infatti, con questa operazione, massicciamente impiantato nella regione, determinando così l’imposizione di rapporti di forza ad esso favorevoli sui piani militare, politico-diplomatico, economico. Ma la presenza di mezzo milione di soldati Usa nella regione ha già attivato tutte le forze, nazionaliste e comuniste, che, ai bordi della Palestina occupata, hanno trovato un eccezionale momento di confronto e unità. La guerra rivoluzionaria riparte da qui con maggiore forza e qualità politica.

Nelle dinamiche attivatesi in questa guerra si è vista la realtà e il peso del dominio imperialista e, insieme, la materializzazione della prospettiva rivoluzionaria della storia.

L’Iraq è stato sopraffatto sul campo e questo, negli attuali rapporti di forza, è stato inevitabile; ma ha combattuto e resistito, e questa resistenza, per le questioni che ha posto e nel significato rivoluzionario che ha assunto per le masse arabe e per tutti gli antimperialisti, è stata davvero una vittoria. In questo l’Occidente ha perso: nella sua enorme forza tattica ha messo a nudo agli occhi degli oppressi di tutto il mondo anche la sua debolezza strategica, il suo essere una “tigre di carta“. La possibilità della resistenza, della lotta, è la possibilità della vittoria. Il fuoco che covava sotto la cenere è riemerso e non sarà facile soffocarlo: l’imperialismo stesso lo ha suscitato, ed esso troverà oggi e da oggi nuove forze rivoluzionarie e nuovi attacchi sulla sua strada.

Già immediatamente, nel corso della guerra, nel mondo intero, dalla periferia al cuore stesso dell’imperialismo, le forze rivoluzionarie hanno saputo attrezzarsi e combattere da subito contro questa guerra di aggressione, attaccando uomini, strutture e interessi della forza multinazionale imperialista, proseguendo e rilanciando la lotta contro i progetti imperialisti, la Nato, la macchina militare americana.

Nella nostra area geopolitica, oltre agli attacchi delle forze rivoluzionarie arabe, i compagni di “Dev-Sol” in Turchia, e in Grecia i compagni dell’organizzazione “17 Novembre” hanno sviluppato campagne offensive di largo respiro, i compagni della Raf hanno mitragliato l’ambasciata USA in Germania, colpi di mortaio hanno raggiunto il Ministero della difesa e il Ministero degli esteri britannici per opera dell’Ira, e altri attacchi sono stati portati un po’ dovunque, in rapporto alle condizioni delle forze rivoluzionarie e alla maturità delle situazioni.

Attaccare i progetti centrali dell’imperialismo, attaccarlo alle spalle, rendere insicuro il suo retroterra, cacciare gli imperialisti dalla regione mediorientale, nella prospettiva del rovesciamento dei rapporti di forza tra imperialismo e rivoluzione, è infatti il compito delle forze rivoluzionarie dell’intera area.

L’Italia è entrata in guerra. Lo Stato imperialista italiano ha partecipato alla pianificazione e all’attuazione di un’immane carneficina, condotta industrialmente al livello di sviluppo tecnologico contemporaneo, che in poche settimane ha prodotto in serie, in una grande catena di montaggio, un numero sterminato di cadaveri di uomini, donne e bambini iracheni.

Lo Stato italiano ha sempre svolto la sua parte nel ruolo che storicamente e strutturalmente è proprio del centro imperialista, e sempre si è adeguato alle esigenze dell’imperialismo nelle diverse fasi al livello necessario. Questo passaggio ratifica ora un livello di maturazione raggiunto, e ridetermina le nuove responsabilità che l’Italia va ad assumere in campo imperialista, la sua collocazione nel sistema, e i vantaggi in campo economico e politico che derivano dalla sua posizione nel dominio sulla regione.

Il ruolo assunto con la partecipazione attiva in questa guerra rende naturalmente ancora più urgente, e impone una nuova accelerazione, a quei riadeguamenti in campo istituzionale, a quella ridefinizione dei poteri dello Stato già all’ordine del giorno per la borghesia imperialista per adeguare lo Stato imperialista italiano al livello delle democrazie più avanzate del centro imperialista, ratificando in ciò i rapporti di forza acquisiti nei confronti del proletariato metropolitano. Questi rapporti di forza sono oggi il risultato di venti anni di scontro di classe, particolarmente della controrivoluzione degli anni Ottanta, e dei nuovi equilibri determinatisi negli ultimi anni a livello internazionale, fino a questa guerra.

Viene così ulteriormente riaffermata, imposta dai fatti, la piena attualità del progetto di riforma istituzionale che la nostra organizzazione ha individuato e attaccato con l’azione contro il senatore DC Ruffilli nell’aprile ’88, come il progetto centrale della borghesia imperialista in questo paese: quello che abbiamo definito il cuore dello Stato.

L’entrata in guerra ratifica anche un livello di sviluppo della controrivoluzione preventiva e dell’attività rivolta a incanalare le spinte antagoniste nello schieramento lealista e all’ingabbiamento delle spinte autonome di classe, finalizzata a ottenere il massimo grado possibile di pacificazione interna.

In ciò ha un ruolo anche una gestione ideologica costruita negli anni, e che ha sviluppato una coscienza imperialista a supporto del nuovo grado di impegno militare diretto: i movimenti di opinione che si sono “schierati” in questa vicenda sono infatti direttamente la sovrastruttura politico-ideologica di questa guerra di aggressione e dei suoi macellai. Interventisti da un lato e sostenitori dello strangolamento economico dall’altro, che hanno occupato la scena in questi mesi, sono due facce della medesima medaglia: la coscienza imperialista mobilitata.

Le ideologie della “superiorità civile” dei metodi non-violenti contro guerra e violenza, con il loro filantropismo caritatevole, poggiano sulla stessa sporca guerra che “disapprovano”, sulla base dei sovraprofitti derivati dal dominio imperialista sui popoli del mondo. L’“orrore per la guerra” non sviluppa nient’altro che buoni sentimenti antirivoluzionari se non è subito insieme orrore per la pace, per la “normalità” del sistema imperialista, del capitalismo contemporaneo – del quale la guerra è un aspetto. Sulla base di questa compartecipazione agli utili derivanti dal dominio sulla periferia poggia, sin dalla nascita dell’imperialismo, l’ideologia pacifista della piccola borghesia metropolitana, l’opportunismo, il revisionismo storico e l’integrazione del movimento operaio istituzionalizzato nella collaborazione con l’imperialismo.

Contro l’imperialismo nelle metropoli dell’Europa occidentale c’è soltanto la posizione rivoluzionaria della guerriglia, e dell’autonomia operaia e proletaria, l’autonomia di classe che in dialettica con la guerriglia si è sviluppata in due decenni di scontro rivoluzione/controrivoluzione, e che è tale, “autonoma”, in quanto antiistituzionale, antistatale, antinazionale e antimperialista. Il nemico interno dello Stato.

Questa è la situazione reale, e solo da qui, dalle dure e difficili condizioni imposte dall’approfondimento dello scontro è possibile sviluppare la lotta rivoluzionaria.

Solo sul terreno rivoluzionario, il terreno della guerra di classe, è possibile spezzare ogni compromissione del proletariato metropolitano con gli interessi imperialisti, sviluppare la sua autonomia e indipendenza strategica, il suo carattere rivoluzionario, dunque il processo unitario tra proletariato del centro e classi sfruttate alla periferia del sistema – condizione per la vittoria qui.

Il processo rivoluzionario condotto in Italia dalle Brigate Rosse è sin dall’inizio caratterizzato come processo rivoluzionario internazionalista e antimperialista.

La guerriglia nelle metropoli nasce infatti, tra la fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, nel quadro dell’assetto storico-politico e economico-sociale del mondo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale, dentro il mutamento a livello generale dei rapporti di forza tra proletariato internazionale e imperialismo determinato dallo sviluppo delle lotte di liberazione alla periferia del sistema e dalla nuova ripresa della lotta di classe nel centro: si sviluppano così lotte proletarie e operaie autonome dalla logica capitalistica e si forma una nuova soggettività rivoluzionaria che afferma la strategia della lotta armata per il comunismo come la sola politica rivoluzionaria adeguata a queste condizioni storiche.

Affermandosi nella tradizione storica e come parte del movimento comunista internazionale, la guerriglia pone la questione della rivoluzione proletaria nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato internazionale, poiché, per il grado materiale di sviluppo qui raggiunto dalle forze produttive, una vittoria rivoluzionaria nel centro è un obiettivo di portata decisiva per gli interessi generali del proletariato mondiale, per le possibilità che apre di sbloccare la situazione anche rispetto all’ulteriore sviluppo dei processi rivoluzionari alla periferia del sistema e nell’insieme del mondo capitalistico.

«La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale» (Risoluzione della Direzione Strategica 1978). Si costituisce dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli Stati del centro imperialista come parte della rivoluzione proletaria mondiale, subordinata e funzionale ad essa. Con ciò rivela l’inadeguatezza storica delle impostazioni “terzinternazionaliste”, e il carattere reale delle loro degenerazioni nelle “vie nazionali al socialismo” dei Pc revisionisti, particolarmente della contemporanea “via italiana” del Pci.

Le Brigate Rosse conducono il processo della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale e l’instaurazione della dittatura proletaria in questa impostazione strategica. Internazionalismo e antimperialismo caratterizzano perciò i contenuti della dialettica tra guerriglia e autonomia di classe lungo tutto il processo rivoluzionario, per ragioni oggettive e soggettive, consapevolmente sin dall’inizio.

Questo carattere si è affermato nella prassi e nella prassi si è verificato e progressivamente precisato.

Con l’operazione contro la Nato del dicembre ’81, incentrata sulla cattura-processo del generale Usa Dozier, comandante Nato per il Sud-Europa, il principio strategico del carattere internazionalista e antimperialista del processo rivoluzionario veniva riaffermato con forza nell’attacco pratico contro i progetti centrali dell’imperialismo; muovendosi come sviluppo dell’offensiva dei compagni tedeschi della RAF contro la base militare Usa di Ramstein e contro il generale Usa Kroesen, in dialettica anche con l’azione contro l’addetto militare Usa a Parigi Ray compiuta dalle Farl libanesi e con altre iniziative di quella fase “contro gli uomini, i centri e le basi della macchina militare americana”, sviluppando il “programma di unità con i comunisti e di alleanza con i popoli oppressi dall’imperialismo”. Soprattutto la posizione antimperialista trovava un primo momento di concretizzazione nella proposta della «costruzione del Fronte Combattente Antimperialista in tutta l’area europea e mediterranea» (Direzione strategica 1981), parola d’ ordine fondamentale che ha caratterizzato in tutti gli anni Ottanta la prassi della nostra organizzazione.

Con l’azione contro l’amerikano Hunt, direttore della forza multinazionale in Sinai, costituita dall’imperialismo per garantire gli infami accordi di Camp David tra l’Egitto del “traditore Sadat” e l’entità sionista, che hanno costituito per una lunga fase il centro del progetto imperialista di normalizzazione della regione mediorientale sulla pelle del popolo palestinese, le Brigate Rosse attaccano un obiettivo e una struttura garante e agente di un equilibrio funzionale agli interessi strategici Usa e Nato in Medio Oriente, che vedeva, tra l’altro, uno dei primi momenti di intervento direttamente militare dello Stato imperialista italiano nella regione. L’attacco si collocava, nel febbraio ’84, nel quadro della grande battaglia delle forze rivoluzionarie antimperialiste libanesi e palestinesi contro la presenza della forza multinazionale a Beirut, mentre dalla corazzata Usa “New Jersey” partivano i cannoneggiamenti sui quartieri popolari musulmani di Beirut ovest, e alla vigilia della sconfitta di quel progetto imperialista con il rovinoso ritiro dei contingenti francese e americano sotto i colpi della resistenza libanese.

Immediatamente prima dell’aggressione imperialista contro la Jamahirija libica, partita dalle basi Usa e Nato in Italia, si colloca, nel febbraio 1986, l’azione contro Conti, stretto collaboratore dell’allora Ministro della difesa filo-sionista Spadolini, e trafficante di armi con “Israele”; azione nella quale si precisa la definizione della nostra area geopolitica come “Europa-bacino del Mediterraneo-Medio Oriente”, caratterizzata dal concentrarsi dei piani di contraddizione tipici del modo di produzione capitalistico, di quello tra i due blocchi, e di quello tra i paesi dell’Occidente industrializzato e i paesi dipendenti; si individua il carattere cruciale nell’area della questione palestinese; e si afferma la tendenza oggettiva alla “convergenza tra gli interessi del proletariato europeo con quelli dei popoli progressisti dell’area”. La parola d’ordine dell’“unità internazionale dei comunisti”, che ha sempre caratterizzato le Brigate Rosse, posta anche negli attacchi dell’81 contro Dozier e dell’84 contro Hunt, è precisata in opposizione al “purismo dogmatico” emme-elle astratto dalle dinamiche sociali reali e collocata invece nel quadro di un’imprescindibile prassi antimperialista che distingue livelli di unità e livelli di alleanza.

La prassi unitaria di Action Directe e Rote Armee Fraktion, con le azioni contro il complesso militare-industriale, contro Zimmermann, contro Audran, 1’azione comune contro la base militare Usa a Francoforte sulla base del testo AD-RAF del gennaio ’85 ha segnato, nel corso degli anni Ottanta, un’importante tappa politica alla quale le Brigate Rosse si sono rapportate nel processo che ha portato all’accordo politico, che consideriamo un ulteriore passo avanti di questo processo, e che si sintetizza nel testo comune RAF-BR e si è sostanziato nell’ attacco del commando Khaled Aker della RAF contro il Segretario di Stato al Ministero delle finanze tedesco Tietmeyer, nel settembre ’88.

Il lungo processo pratico di assunzione soggettiva della convergenza di interessi nella lotta contro l’imperialismo e del fronte che oggettivamente esiste tra i diversi – economicamente e storicamente determinati – processi rivoluzionari nella nostra area geopolitica, e dunque della costruzione e consolidamento del Fronte combattente antimperialista non è un processo lineare, ma ha i suoi passaggi di qualità, poiché si è svolto e si svolge nel confronto continuo con la controrivoluzione e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie, nel fuoco concreto della storia.

Il risvolto proletario e rivoluzionario ai processi di degenerazione e di guerra dell’imperialismo è rappresentato, nel mondo contemporaneo, da un lato dai movimenti di liberazione dei paesi dipendenti della periferia, dall’ altro dalla guerra di classe nel centro imperialista.

La polarizzazione sviluppo/sottosviluppo, centro/periferia non descrive diversi gradi di una lineare evoluzione di un impossibile “progresso” capitalistico, ma il modo storico reale di funzionamento della forma di produzione del capitale. Il processo di accumulazione capitalistico comporta concentrazione e centralizzazione sempre più accentuate e sviluppo organicamente diseguale. Il capitale è costretto dalle sue stesse leggi di funzionamento a bloccare – nel cosiddetto “sottosviluppo” – lo sviluppo economico-sociale della maggior parte dei paesi dipendenti: i paesi della periferia non possono che progressivamente peggiorare la propria condizione economico-sociale nella progressiva polarizzazione centro/periferia. Ciò non attiene minimamente alla forma politica di indipendenza nazionale, ma alle leggi del mercato e della produzione capitalistici.

Le lotte sociali rivoluzionarie che nascono alla periferia del sistema, nei paesi dipendenti, hanno il loro fondamento nell’imperialismo, nel modo di produzione capitalistico contemporaneo, e non hanno assolutamente nessuna possibilità materiale di trovare soluzione in ambito capitalistico: perciò hanno carattere strutturalmente antisistema e rivoluzionario. A differenza che nel centro, queste lotte, per la struttura economico-sociale dell’imperialismo alla periferia, hanno protagoniste più classi sociali oltre il proletariato – piccola borghesia, contadini… – che si battono, più o meno conseguentemente a seconda dello specifico peso delle diverse classi e di altri fattori storici, contro il sistema imperialista per fondate ragioni materiali, ineliminabili. Il tipo di direzione che queste lotte possono storicamente esprimere costituisce differenze soggettive di rilievo, ma in tutti i casi la storia trova una strada e, nella misura in cui combattono a fondo l’imperialismo, hanno carattere pienamente rivoluzionario e sono oggettivamente inserite, nel processo storico contemporaneo, in una prospettiva strategicamente convergente con le lotte rivoluzionarie direttamente classiste che riescono a svilupparsi nel centro imperialista.

Si tratta di un processo storico unitario che si svolge su piani differenti. Perciò la contraddizione tra proletariato e borghesia, pur essendo la contraddizione fondamentale a livello internazionale nell’epoca del capitale, non si esprime universalmente in forma semplificata: non è affatto l’unica contraddizione del mondo contemporaneo.

E proprio per questo nella comprensione reale dell’imperialismo, compito imprescindibile, condizione stessa della presenza di una posizione effettivamente rivoluzionaria nelle metropoli è il collegamento strategico con il piano delle lotte rivoluzionarie alla periferia.

In ciò, tutt’altro dunque che una politica estera, una questione tattica contingente o una faccenda “umanitaria”, in ciò consiste fondamentalmente l’antimperialismo come processo mondiale, il carattere antimperialista dei processi rivoluzionari nelle metropoli.

In quella che abbiamo definito la nostra area geopolitica: Europa-Mediterraneo-Medio Oriente, si riassumono e si concentrano, intrecciandosi in una complessa unità organica, l’insieme delle linee di demarcazione che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Polarizzata principalmente e sostanzialmente su due regioni, gli Stati dell’Europa occidentale e il mondo arabo, strutturalmente omogenee al loro interno e reciprocamente complementari, costituisce un’area organicamente unitaria. Variegata ed estremamente articolata, è il risultato di un lungo processo storico che ha formato una fittissima rete di interconnessioni a livello geografico, economico, militare, politico che legano la struttura del sistema imperialista qui, e contemporaneamente la struttura delle lotte di classe e delle lotte rivoluzionarie e antimperialiste che vi si sviluppano.

Le linee di demarcazione Classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest vi convergono e si intrecciano facendone un’unica area geopolitica, che abbiamo definito area di massima crisi oggi nel mondo; e tutto il corso degli avvenimenti di questi ultimi anni lo dimostra nei fatti.

È perciò imprescindibile per ogni processo rivoluzionario, e per ogni forza rivoluzionaria, confrontarsi con l’insieme dei conflitti tra imperialismo e rivoluzione a questo livello e con una prassi combattente effettivamente adeguata alla profondità raggiunta dallo scontro. È nell’insieme di quest’area che è possibile e necessario sviluppare soggettivamente, nell’attacco ai progetti centrali dell’imperialismo, l’unità che già esiste oggettivamente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando una saldatura di portata storica per il processo rivoluzionario internazionale.

 

Il consolidamento e lo sviluppo del Fronte combattente antimperialista nell’area realizza l’organismo politico-militare in grado, con la sua prassi offensiva, di incidere nei passaggi politici che l’imperialismo sta praticando di normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area, e di approfondire la sua crisi politica, destabilizzandolo e indebolendolo al punto che la vittoria in uno o più paesi dell’area si realizzi.

Affrontare l’imperialismo in piena coscienza, dentro una chiara strategia rivoluzionaria concretizza, nel combattimento e nella continuità dell’attacco, lo spostamento dei rapporti di forza a favore della rivoluzione su scala mondiale.

Deve essere chiaro, proprio per le caratteristiche dell’imperialismo negli Stati metropolitani del centro, che l’attacco all’imperialismo non esaurisce il complesso dei compiti che la guerriglia porta avanti relativamente all’obiettivo della conquista del potere politico e alle caratteristiche storiche e sociali dei diversi paesi in cui opera.

Così come a livello internazionale il conflitto antimperialista non si esaurisce nella sola contraddizione proletariato internazionale/borghesia imperialista, allo stesso modo è un errore semplificare i processi di coesione e integrazione degli Stati imperialisti del centro, particolarmente in Europa occidentale, in una loro dissoluzione in un unico super-Stato unitario. Al contrario, proprio la struttura dell’imperialismo nelle metropoli, e il lungo e complesso processo storico di formazione degli Stati nazionali che si intreccia con la nascita e lo sviluppo del capitalismo fino a svilupparli in potenze imperialiste, esaltano, anche all’interno degli organismi sovranazionali, la funzione dei diversi Stati imperialisti, la loro irriducibilità in ambito capitalistico. In questo quadro, la semplificazione dello scontro al solo piano internazionale, non aderendo alla struttura reale dell’imperialismo, depotenzia l’attività rivoluzionaria e la sua efficacia reale.

L’attacco allo Stato, ai singoli Stati imperialisti, è assolutamente fondamentale e centrale nei diversi processi rivoluzionari nel centro imperialista, in ogni fase, dall’inizio alla fine.

L’attacco allo Stato, al cuore dello Stato, ha carattere strategico poiché lo Stato è la sede reale, effettiva, del potere politico della borghesia imperialista, e l’obiettivo della conquista del potere politico generale e dell’instaurazione della dittatura proletaria è l’obiettivo storico del processo rivoluzionario nelle metropoli.

Nella nostra esperienza storica, chi ha cercato di sottrarsi al rapporto di attacco allo Stato, nella legge dello sviluppo del processo rivoluzionario a partire dall’attacco centrale – allo Stato e all’imperialismo -, è venuto meno ai compiti dell’avanguardia ed è stato divorato dallo sviluppo dello scontro. Invece, nonostante le difficoltà che l’approfondimento dello scontro comporta, e anzi proprio attraverso il continuo sviluppo del livello dello scontro, la costruzione del processo rivoluzionario a partire dall’attacco allo Stato è condizione per la costruzione del partito comunista combattente, condizione per la costituzione del proletariato in classe rivoluzionaria, per la sua indipendenza politica e strategica – ciò che costruisce la vittoria.

La nostra organizzazione – le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente -, confrontandosi con la durezza dello scontro, determinata dallo sviluppo del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, lavora oggi, nel quadro della ritirata strategica e nella fase di ricostruzione, per sviluppare, a partire dagli assi strategici dell’attacco al cuore dello Stato e dell’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, la dialettica con l’autonomia di classe per realizzare i livelli di ricostruzione politico-militare necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata per il potere e la dittatura proletaria.

È su questi termini di programma che si dà oggi l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico e l’attività politico-militare della nostra organizzazione. Ci riconosciamo nella prassi combattente antimperialista sviluppata in tutta l’area contro l’aggressione all’Iraq, contro i paesi della forza multinazionale imperialista.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

A questo livello soltanto, non certo a un tribunale dello Stato, rispondiamo della nostra condotta.

Onore a Najah Abdallah, caduta il 10 marzo a Ramallah, in Palestina, combattendo l’occupazione sionista, e a tutti i rivoluzionari caduti combattendo contro l’imperialismo.
Onore a Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura e Piero Panciarelli, militanti delle Brigate Rosse, caduti a Genova il 28 marzo ’80, combattendo per il comunismo.

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica ’Europa/Mediterraneo/Medioriente’.
– Combattere insieme.

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 22 marzo 1991

 

Un pensiero su “Tribunale di Cuneo. Documento dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi”

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