Un destino perfido

Quando il 25 aprile del ’45 i partigiani, i gappisti, i sappisti festeggiarono la «vittoria dell’insurrezione», la «liberazione», non sapevano ancora quale perfido destino li stava attendendo. Ciononostante, quasi per istinto, i comunisti rivoluzionari non consegnarono le armi. Le tennero a portata di mano ben sapendo che quelle erano il fondamento del loro potere e rimasero pazientemente in attesa di un grido di rivoluzione che il Partito Comunista si guardò bene dal dare.

Nel ’48 con l’attentato a Togliatti, esplose la rabbia per non essere andati fino in fondo tre anni prima. L’odio proletario contro i padroni e contro lo stato rimbalzò di città in città, di piazza in piazza. Ancora una volta i partigiani impugnarono le armi e rimasero in attesa di «istruzioni», di indicazioni rivoluzionarie. E ancora una volta il loro partito raccomandò la calma, li invitò a ritornare alle loro case, a ritornare nelle fabbriche dei padroni.

Da quel momento le idee di liberazione che avevano armato il braccio e il cuore delle masse proletarie italiane si infransero, sempre più duramente, contro la muraglia legalista, elettoralista e riformista che il Partito andava innalzando fra l’autonomia e il potere. Il disarmo fu totale. Disarmo politico. Disarmo militare. Questo era ciò che volevano i borghesi che si trovavano al governo dello stato. Seguirono anni tremendi: il post fascismo e la ricostruzione. Mentre Valletta ritornava con l’aiuto delle «forze alleate» alla direzione della Fiat, liquidava i Consigli di Gestione, licenziava centinaia di avanguardie operaie e ne metteva nei «reparti confino» altre centinaia, la polizia scelbiana picchiava nelle piazze e assassinava i contadini nel meridione.
Con salari di fame e sottoposti al terrorismo più brutale i proletari italiani trangugiarono il fiele della «ricostruzione» dell’Italia dei padroni del vapore.
Le forze reazionarie intanto andavano ricostruendo la loro dittatura all’ombra dei grandi padroni e con la protezione dello stato. Fu così che Tambroni nel luglio ‘60 e De Lorenzo quattro anni dopo, provarono a dare uno sbocco a quelle spinte autoritarie-fasciste che mai erano state del tutto distrutte. Il gioco allora non riuscì, era troppo grezzo, ancora prematuro.
Ci vollero le possenti lotte operaie e studentesche del ‘68-‘69-‘70, per portare a galla tutto il lerciume reazionario che si era accumulato, tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, al fondo delle nostre istituzioni. Furono queste lotte infatti, che riproponendo al proletariato italiano nuovi e profondi contenuti di liberazione, costrinsero i padroni a stringersi in una nuova unità, intorno ad un progetto di reazione, di riorganizzazione anti-proletaria, repressiva e neofascista del potere. Con la strage del 12 dicembre questo lugubre disegno prese forma, acquistò peso e sul cadavere di 16 lavoratori iniziò la costruzione del nuovo stato: lo stato della violenza antioperaia, della repressione e della crisi.
Ma le bombe di piazza Fontana sortirono un esito imprevisto: invece di affossare il movimento rimbombarono come campane a morto per l’intero regime degli ultimi 25 anni; invece di sbarrare la strada alla avanzata proletaria misero a nudo la crisi di regime che lacerava il nostro paese.
Crisi di regime, crisi strutturale, risultato tanto delle contraddizioni interne al blocco imperialista quanto dell’incapacità dimostrata dalle classi dirigenti a promuovere una politica economico-sociale di interesse popolare; tanto del rifiuto opposto dalle avanguardie rivoluzionarie alle linee difensive e legaliste proposte dalle organizzazioni riformiste, quanto del livello raggiunto dall’autonomia operaia nelle grandi fabbriche e sui grandi temi della lotta per il potere.
E sono proprio i venti della crisi che ridanno fiato alle trombe (ed ai tromboni) del fascismo. Infatti, è proprio in una situazione di diseguale sviluppo economico, nell’aggravarsi degli squilibri tra nord e sud, nel tracollo della piccola e media industria, nella disoccupazione crescente, nell’opposizione livida e violenta degli agrari, degli industriali, degli speculatori allo spettro delle riforme di struttura, nella crescita incontrollata dei prezzi, nell’aumento delle tasse, nella ribellione di settori proletari sempre più vasti alla politica criminale dei padroni, che trova alimento la ripresa neofascista nel nostro paese.
Ma il neofascismo, questo figlio e becchino del centrismo e del centrosinistra è un male diffuso che non risparmia alcuna istituzione. Non è solo la «repubblica di Sbarre», o il IX Congresso del Msi, la campagna de «Lo Specchio» contro Mancini o le bombe di Catanzaro, il siluro tattico contro Borghese o le manifestazioni della maggioranza silenziosa, il neosquadrismo o il neocorporativismo. Non sono solo i 150 attentati terroristici o le 250 aggressioni avvenute a Milano in questi ultimi due anni.
Neofascismo è anche, e soprattutto, l’uso antioperaio della crisi: la «normalizzazione» della cassa integrazione per migliaia di lavoratori, il licenziamento di massa a scopo intimidatorio nei confronti dell’intera classe operaia, la non applicazione delle conquiste contrattuali, l’uso massivo dello spionaggio politico nelle grandi aziende a scopo di controllo…
Neofascismo è anche e soprattutto la volontà terroristica di considerevoli porzioni della magistratura, e vogliamo dire di quei magistrati che «ammazzano con calma» tenendo rinchiusi in qualche galera, nonostante la palese innocenza i Pietro Valpreda, o che si trastullano coi processi politici contro i compagni dei gruppi rivoluzionari e le avanguardie di lotta del movimento.
Neofascismo sono i Guida, i Vittoria, i Calabresi, i Mucilli, i Panessa delle varie Questure della nostra penisola.
Neofascismo sono gli Amati, i Caizzi, gli Occorsio, i Colli, i Calamari e i porci di questa fatta nei vari tribunali della penisola.
Ma neofascismo sono anche i Piccoli o i Misasi, gli Agnelli o i Pirelli con la lurida catena dei loro servi, dei loro cani da guardia, dentro e fuori i cancelli delle fabbriche e delle scuole.
Oggi una lotta è in corso tra le forze politiche che siedono in parlamento per chi debba rappresentare la sintesi suprema di questa immensa miseria: la carica di Presidente della Repubblica.
Ai candidati sono richieste tre fondamentali qualità:
– la ferma volontà di distruggere l’autonomia operaia;
– l’intransigente decisione a decimare le avanguardie politiche della sinistra rivoluzionaria;
– l’ostinata vocazione ad impedire la nascita di una nuova sinistra armata.
Al futuro manovratore della macchina statale i suoi grandi elettori chiedono: ordine, produttività, repressione.
Discutere sulla rosa dei candidati è dunque un fatto secondario.
Non un fatto inutile, ma secondario. Moro, Fanfani o la riconferma del Presidente della strage non sono che varianti tattiche dello stesso gioco.
Il «fanfascismo» altro non può essere che l’interpretazione, forse più estrosa, di un copione comunque obbligato.
Di fronte a questa scadenza la nostra reale preoccupazione è dunque quella di intravedere, tra le ombre e tra i giochi coperti, i fili dell’offensiva tattica della borghesia contro il movimento di lotta e le sue avanguardie. Perché, spezzare questa offensiva tattica, noi siamo convinti è il compito principale delle forze rivoluzionarie in questo momento.
Ma ciò presuppone chiarezza su almeno due questioni centrali.

La prima è che non sono più i tempi dello «sviluppo», tempi in cui la generalizzazione dei contenuti dell’autonomia proletaria nel movimento era di per sé una forza produttiva rivoluzionaria.
La seconda è che in questa fase di «crisi» il destino della lotta proletaria è consegnato all’organizzazione e alla capacità di attacco in primo luogo delle avanguardie rivoluzionarie.
Questo per noi vuoi dire che per spezzare questa offensiva tattica della borghesia è necessario innanzitutto accelerare quel processo già in atto, di trasformazione delle avanguardie politiche che il movimento ha formato in questi ultimi anni, in avanguardie politiche armate. Il problema che abbiamo dinnanzi è dunque in primo luogo una questione di strategia. La sinistra rivoluzionaria deve dichiarare, messa alle strette dal torchio del potere, da che parte combatte. I margini per l’opportunismo pratico sono sempre più ristretti ed i sabotatori della rivoluzione sempre più scoperti.
Dobbiamo averlo chiaro: extraparlamentare oggi non vuoi dire più nulla. La discriminante è sempre più nitida e passa tra chi intende costruire una sinistra armata e chi intende prolungare l’infanzia impotente dei gruppi; tra chi vuoi conservare la matrice sessantottesca e chi si batte per una rifondazione dell’avanguardia di classe come avanguardia politica e armata; tra chi intende separare il «politico» dal «militare» e chi intende elaborare una strategia unica politico-militare e quindi costruire un’unica organizzazione proletaria politica e armata. Le «Brigate rosse» lanciano in questi giorni una campagna di lotta contro il neofascismo; lasciano ad altri il terreno delle grandi campagne di opinione per praticare quello dell’azione diretta. Le «Brigate rosse» intendono proseguire nel «processo popolare contro tutti i fascisti» e realizzare altri momenti di giustizia proletaria; intendono dare ulteriori contenuti alla parola d’ordine: niente resterà impunito.
Le «Brigate rosse» vogliono riversare sulle carogne del neofascismo e dello stato che lo produce tutto l’odio proletario, concentrato e organizzato, che anni di impotenza hanno accumulato. Ma soprattutto le Br puntano, facendo questa scelta d’attacco, a rafforzare i primi nuclei di potere proletario armato che si sono organizzati nei più importanti rioni popolari e nelle più grandi fabbriche metropolitane. Compagni,

LA RIVOLUZIONE COMUNISTA È IL RISULTATO DI UNA LUNGA LOTTA ARMATA CONTRO IL POTERE ARMATO DEI PADRONI!
Questo è l’insegnamento fondamentale che ci viene dalla Comune di Parigi, dalla rivoluzione bolscevica, dalla rivoluzione cubana e da quella cinese, dal Che e dal Vietnam, dalle forze che oggi combattono nei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e dai gruppi rivoluzionari combattenti delle grandi metropoli imperialiste. Questo è il contenuto fondamentale di liberazione che è stato definitivamente abbandonato dalle organizzazioni storiche del movimento operaio italiano.
Le «Brigate rosse» alzano questa bandiera contro il neofascismo, contro lo stato che lo produce, per la liberazione, per il comunismo!

POTERE AL POPOLO!

Brigate Rosse
Novembre 1971

Fonte: Vincenzo Tessandori, BR. Imputazione: banda armata. Cronache e documenti delle Brigate Rosse, Garzanti, Milano 1977 e succ. ed.

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