Sarà che nella testa avete un maledetto muro

Il documento che segue, scritto in carcere e firmato da alcuni imputati al processo che si è svolto nel 1983 a Torino contro Prima linea, esprime le conclusioni del dibattito interno nell’ultima Conferenza di Organizzazione, che si è tenuta alle Vallette dal momento che i militanti erano ormai quasi tutti detenuti. Può quindi essere considerato l’ultimo documento di organizzazione.

C’è di tutto nell’orizzonte presente meno che il rischio della monotonia e della stabilità. Tra tanti episodi significativi ci sono anche timidi, occhieggianti momenti d’incontro e di reincontro, forse si comincia a non riconoscersi solo tra simili o forse è questa similarità ad essersi dilatata. Di certo la sinistra, senza aggettivazioni e specificazioni, sta riflettendo tanto su questi ultimi quindici anni di storia e di lotta quanto sui propri fondamenti, sulle proprie istituzioni ideologiche e politiche. Si tratta di rendere consapevole questo movimento, di motivare il faticoso riattraversamento critico delle esperienze compiute. Si tratta di chiarire la comunanza dei presupposti anche semplicemente passando materiali dalla non coscienza alla coscienza: per tutti diventa importante comprendere che le mille motivazioni delle frazioni forse sono un onere minore delle mille simiglianze d’ordine metodologico, politico, storico, ecc. Non ipotizziamo dei punti di arrivo, delle sintesi, per tutta la sinistra; piuttosto pensiamo ai punti di partenza, alle tesi fondanti, alla rifondazione delle differenze, se questo sarà l’esito. Non pensiamo neppure di porci al centro di questo percorso, piuttosto vogliamo rendere esplicita la nostra volontà di prendervi parte, portando tutta la consapevolezza della sconfitta della nostra particolare esperienza organizzata, ma anche la chiarezza di idee a proposito di quanto questa esperienza fosse debitrice alla tradizione ed alla prassi viva della sinistra intera. C’è un problema di strumenti, di linguaggio, di categorie, tutti usurati dalla scomparsa o dal ridimensionamento dei riferimenti e dei nessi sociali e politici che li avevano originati ed ordinati gerarchicamente: bene, l’abitudine e la consuetudine ci costringono a correre il rischio che è presente nel trattare, con una lingua morta e con una sintassi impazzita, una attuale configurazione sociale e politica che è attraversata da rapidi e sostanziali momenti di trasformazione. Noi, del resto, già anni fa abbiamo deciso di affrontare il mare aperto anche se le carte erano quelle di un mondo passato; già sconvolte le correnti ed i fondali da formidabili eruzioni. La finalità di questo testo è però molto più parziale, vi sono implicati solo alcuni temi che a noi preme affrontare immediatamente, una sorta di gradino solido dal quale sarà possibile accedere ad un ambiente più vasto. Dissociazione politica e irriducibilismo continuista non sono per noi speculari, non intendiamo restaurare alcuna sorta di teoria degli ‘opposti estremismi’, anzi nessuna estremizzazione è presente in queste due posizioni; più conseguentemente esse muovono dalle tesi di una sconfitta epocale del movimento di rivoluzione e di trasformazione positiva della società. Nel primo caso questa sconfitta è consumata e si tratta di salvarsi le brache e il loro contenuto, nel secondo essa è immanente e solo nello spirito – opzione ideologica – e nella penitenza – prosecuzione della lotta armata anche se socialmente isolata e demotivata – è la salvezza; dei principi, ovviamente.

Noi invece vogliamo partire dalla constatazione della sconfitta delle forme assestate, politiche e politico-militari, delle ipotesi organizzate e delle pratiche e degli obbiettivi concretati in una fase delle espressioni soggettive del movimento per il comunismo, legate in un modo diretto ad una esperienza sociale determinata e ad una particolare lettura dell’esperienza storica. Per noi questi anni trascorsi non vanno né rigettati col disprezzo e l’orrore di facciata dei dissociati, anche se abbiamo davanti tutti i nostri errori e peggio, né incensati e giustificati con la logica di tradizione staliniana di riscrittura accomodata della storia. Per noi all’opposto è centrale il nodo della memoria, strumento prioritario di ogni opzione critica, possibilità di comunicazione di sapere e di esperienza tra soggetti diversi; tra noi ora, e le soggettività politiche della sinistra da noi diverse ed anche opposte, tra noi e altri, nuovi, soggetti. All’opposto di un’operazione critica il dissociazionismo politico spiega le sue ragioni nella discontinuità, nella disconnessione, nella negazione di responsabilità, queste sempre addebitate ai ‘fraintendimenti’ o delegate ad altri: il suo obbiettivo, il risultato appetibile al potere, è la non-fruibilità sociale della intelligenza accumulata in questi anni, la sua rimozione. Se il messaggio immediato dei ‘pentiti’ è quell”homo homini lupus’, per i dissociati vale poi che nell’idiozia, beata di sé, della loro area omogenea, si valida il privato delle ragioni particolari, il privilegio delle relazioni del singolo con le istituzioni: essi si vogliono differenziare dagli altri e tra sé. Per noi opposta è la questione delle omogeneità, strumenti di riflessione critica, di pratica solidale che non punta a rinnovare questo o quel particolare fatto associativo ma a rendere partecipato e volontario il percorso trasformativo. Vogliamo però aggiungere che la ‘grande stagione’ della dissociazione ci pare finita, che il suo tentativo di costituirsi in Movimento è abortito, che ha avuto vita larvale solo per l’incapacità di affrontare i bisogni nuovi e le prospettive da parte della frazione politica della popolazione detenuta. Se la dissociazione opera all’ablazione di memoria (e non solo di quella militare-operativa!) l’irriducibilismo ne tenta il travisamento. Si danno due varianti, entrambe perniciose; il continuismo e l’immobilismo, variamente frammischiati. Continuista è quel Sisifo che ora spinge se stesso in guisa di pietra (abbozzo di monumento equestre) su per la china. Immobilista è quello che aspetta che la Storia gli dia ragione, almeno per il momento, per poter ricominciare ad affliggere gli altri con argomenti, ormai archiviati, che gli diano fiato per altri anni. Se i `mediocrates of pedestrium’ (di Saffiana memoria) della dissociazione costituiscono area omogenea sottraendosi a, gli irriducibili lo fanno continuamente sottraendo da sé, attraverso la chiusura settaria, la scomunica del ‘libero pensiero’, l’adorazione del passato reinventato, la prosecuzione di una pratica invalidata dalla carenza di proteine sociali. Tragica l’endemizzazione ormai raggiunta dai frantumi di lotta armata, grottesca la stupidità dell’individuazione del nuovo `cuore’ del progetto imperialista. L’irriducibilismo è ablazione del presente (ovvero di sé dal presente), è la versione dell’autismo dal campo psicologico a quello politico. Noi quindi riteniamo oggi delegittimata socialmente la pratica di lotta armata per il comunismo in Italia; ma questo è il punto di arrivo di un giudizio articolato che in parte si origina da una valutazione degli effetti perversi della sua praticazione residuale ma che comprende il riesame critico proprio di quel patrimonio teorico, ideologico e politico comune a tutta la sinistra, patrimonio da noi variamente tradotto in procedura di sistematizzazione della lotta armata e che ha originato l’espropriazione dei contenuti e dei saperi dei movimenti antagonisti, origine prima della crisi conclusiva delle O.C.C. Non si tratta di un giudizio storico ma pertinentemente politico, immediato, efficace; riteniamo si debbano esaminare criticamente i limiti fattuali che hanno pesato negativamente su presupposti ed esperimenti concreti negli anni ’70, hanno portato l’Italia ad essere quel laboratorio rivoluzionario in cui si sono sviluppati, per qualità e quantità, i livelli più significativi di guerriglia, non nazionalista o regionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. La posta in gioco è la ripresa adeguata di un processo rivoluzionario finalmente sgravato da ogni tesi totalizzante che depauperi l’enorme ricchezza e complessità delle pratiche antagoniste.

Non intendiamo porre alcuna ipoteca sugli esiti di questo dibattito, ma vogliamo che il tavolo di questa discussione sia sgombro di cadaveri eccellenti. Del resto più che l’illustrazione di ipotesi generali o metodologiche vale il fatto di aprire il discorso sui temi di attualità. Oltre alla L.A. per il C. è andato in saturazione un altro pilastro portante della tradizionale ipotesi del Movimento rivoluzionario, tra l’altro un’ipotesi vissuta molto più largamente, se non più intensamente: la grande lotta economica. Ad un’altra occasione (e del resto ciò è stato già fatto) spetta illustrare il travaglio profondo che ha portato a consunzione lo Stato Sociale (o Assistenziale) e la pratica di mediazione conflittuale nel campo economico. La ristrutturazione si è prodotta come rapido colpo di mano, evento catastrofico che colpisce localmente o settorialmente abrogando le consuete condizioni di vita, gli assestamenti e soprattutto ciò che prima appariva garantito. La crisi prima latente ed ora esplosiva del contrattualismo colpisce al cuore il potere sindacale sia nei confronti delle controparti padronale e governativa, sia rispetto al controllo della ‘forza di lavoro’. Anche in questo campo l’instabilità, prima procedurale, prodotta da frazioni minori di operai, che contestano politicamente ed operativamente la pratica delle centrali sindacali, ora diviene fatto intrinseco alla pratica di lotta economica, lotta formalmente economica, in cui grandi esplosioni sono tutte affidate al riverbero di fatti politici anziché al crescere sotterraneo di contraddizioni oggettive. Così, detto per inciso, ogni valutazione sul futuro, basata su una simile metodologia oggettivamente è destinata alla bancarotta. Così, il problema della pace e della guerra, problema ecologico, problema della ridondanza merceologica della produzione (merceologica! La fame c’è e rimane), problema della produzione di merci che non sono valori d’uso altro che ai fini del potere (armi, calcolatori…) tutti questi problemi hanno un impatto drammatico sulla vita degli uomini prima per la loro carica politica e solo dopo come determinazioni economico-strutturali. Non si tratta più di ragionare sul grado di politicità delle lotte economiche ma, al massimo, sul grado di contaminazione economica di lotte politiche settoriali. Così è anche all’interno del potere statale o del sistema dei poteri di oppressione, legalizzati o non, là dove le corporations non si costituiscono più per interessi settoriali aggregati (i ‘baroni dell’acciaio’ ecc.) ma per confluenze soggettive di interessi particolari non contrastanti o comunque mediabili nella scalata al potere denaro (P2). Da qui migliaia di morti nella guerra per l’eroina a Napoli, in Sicilia; da qui decine di cadaveri eccellenti, da Pecorelli a Calvi, ultimo il Procuratore Generale di Torino Bruno Caccia. Da qui ancora, la completa devalorizzazione della morte, dopo la devalorizzazione della vita, che questa organizzazione sociale e politica ha prodotto. Da qui, ancora e ancora, il nostro rifiuto a frammischiare la nostra lotta di liberazione con questa guerra tra bande. Tutti i riferimenti e le categorie della sinistra cominciano ad essere obsoleti, a partire dal suo orizzonte culturale. In primo luogo il riferimento alla giustizia economica, come presidio della giustizia politica, mostra la corda quando non vi è più alcun criterio di economicità a governare l’economia stessa. Anche il rovesciamento dell’assioma che viene operato da una parte della Magistratura, dalla parte meno compromessa col potere politico, sia essa di sinistra o di cultura liberale, ovvero: fondare sulla certezza del diritto, della giustizia legale, un generale movimento di equità nella ripartizione sociale della ricchezza, anche questo rovesciamento viene ridicolizzato dalle corporations interne e dalle cointeressenze politico-economiche. In realtà si tratta proprio di rovesciare tutto il sistema di pensiero e operativo basato sulla giustizia come valore affermativo, si tratta di capire il desiderio profondo di libertà, delle libertà personali e collettive che percorre il corpo della società, di capire come già oggi questo riferimento sia alla base di quanto di vivo è per le strade e per le piazze di questo e di altri paesi.

Via via che si chiariscono i contenuti attorno a cui vogliamo lavorare ci si ripresenta il problema dei luoghi e delle occasioni per cui questo dibattito possa decollare. Crediamo che oggi questi luoghi e queste occasioni siano i grandi processi in corso e quelli prossimi. Essi vanno usati come spazi collettivi di riflessioni e di esplicitazione di proposte e salti innovativi, come ‘congressi straordinari’ dei comunisti imprigionati. Ma questi spazi vanno dilatati fino a configurarsi come ‘convegni permanenti’ aperti all’intervento di tutte le forze politiche e sociali, in primo luogo a quelle che fanno variamente riferimento all’autonomia di classe, ma senza preconcette preclusioni nei confronti di quanti, con tutta la loro specificità, identità ed originalità, con le loro competenze anche disciplinari e professionali, sono interessati all’utilizzo di questi ‘convegni’ come occasione di:

1) Riflessione attorno a quindici anni di storia di lotta di classe in questo paese. 2) Lotta all’emergenza.

 

1) Noi siamo fermamente intenzionati a fare del riattraversamento critico del nostro passato un elemento di socializzazione utile alla rifondazione di un progetto di radicale trasformazione sociale di questo paese. Strappare la nostra storia dalle mani dei partiti e dei vari uffici istruzione, operare contro la devalorizzazione dei processi per lotta armata che si vorrebbero ridotti a mera ratifica amministrativa di anni di galera, ciò non è nostro privato affare perché per questa via passa una gigantesca azione di rimozione dei bisogni, delle aspettative, delle speranze di una intera generazione. Si vuole sancire l’inutilità della ribellione e forzare i tempi e le forme di una pacificazione coatta che cancelli per sempre il sogno della modificazione dello stato di cose presenti. Tutti hanno giocato pesante su di noi, caricandoci addosso la responsabilità della precipitazione degli scenari, delle condizioni e delle regole dello scontro. Eppure se la Lotta Armata negli ultimi anni non è stato strumento utile alle lotte di massa, ancora più grave è la responsabilità di chi ha rimosso l’orizzonte del conflitto di classe per sostituirlo con la disarmante pratica del patteggio istituzionale, qualificandosi come gendarmeria nei confronti di qualsiasi lotta e comportamento non compatibile con i precari equilibri perseguiti dal compromesso storico. Allora, ridefinire le regole del gioco vuol dire oggi riattivare il grande volano della lotta sociale, nelle determinazioni attualizzate dai movimenti emergenti.

La nostra storia e la nostra volontà di rivisitazione critica ci consentono di ritenerci partecipi importanti al lavoro di rifondazione delle ipotesi di trasformazione a sinistra; meglio, sosteniamo che nessuno possa lavorare in questo senso pensando di riaprire dinamiche trasformative, fondate su cicli di lotta offensiva, non diciamo contro di noi ma neppure senza di noi, non solo per il significato generale e paradigmatico che possiede il problema della nostra carcerazione, ma anche per l’impossibilità di disattivare quanto di memoria, esperienza e storia noi rappresentiamo! Attorno al problema della liberazione dei prigionieri politici si va delineando una significativa area di dibattito e di iniziativa politica. Intanto va valutato positivamente questo segnale politico. Ci importa però rilevare l’impossibilità di affrontare la questione in termini di `moratoria’. In nessun caso la liberazione dei prigionieri può essere una opzione per la pacificazione, intendendo la ‘soluzione politica’ come una sorta di atto finale che retribuisce coloro ‘che ci hanno provato’ ma hanno perso. Il problema va posto in tutte le sue articolazioni possibili di lotta e praticazione, come passaggio fondamentale per la ripresa dell’iniziativa antagonista e non può essere disgiunto dalla necessità di rideterminare nuovi rapporti di forza attraverso l’applicazione della pratica trasformativa ed una complessa serie di Fronti di Lotta.

2) L’emergenza non è una semplice escrescenza repressiva; non è la reazione dello Stato alla lotta armata e, più in generale, ai movimenti antagonisti degli anni 70. Essa si configura come strategia complessa che vorrebbe dare vita ad un sistema sociale fortemente corporato ed informatizzato: una versione aggiornata dell’incubo Orwelliano. Siamo, per ironia della sorte, proprio alla vigilia del 1984! Ma questo scenario non è che uno dei futuri possibili, la realtà è più complessa e contraddittoria. Non solo per la quota di resistenza operaia e proletaria che incontra questo disegno, ma anche perché non abbiamo di fronte un cervello del capitale in grado di programmare ogni singola mossa, di sovradeterminare e captare con eleganza o con forza e ferocia le dinamiche dei movimenti e della materia sociale. Siamo in una delicata fase in cui la capacità delle istituzioni di esercitare comando e controllo sociale è soggetta a processi di inflazioni. L’emergenza come totalizzante ‘solidarietà nazionale’ è ormai un lontano ricordo e le istituzioni sono incapaci di mediare alcunché attorno ad un ipotetico ‘interesse generale’. Eppure, di fronte alla insopportabilità ed alle pericolosità del vivere, nuovi movimenti e nuove forme di aggregazione (contro la guerra, contro il nucleare, per una diversa qualità della vita, ecc.) si connotano come movimenti trasformativi capaci di impattare gli elementi costitutivi dell’emergenza ed anche veicolare e sedimentare propri elementi ricompositivi e costitutivi; capaci di ridefinire nuovi valori positivi di autonomia, di sovranità, nuove forme cooperanti e di relazioni sociali. Diciamo con chiarezza che il nostro riferimento va assai più a questi movimenti piuttosto che a fenomeni di marginalità che, per quanto portatori di pratiche di violenza, interiorizzano e rappresentano la medesima crisi di integrazione e produzione di senso che viene proposta dall’alto dal Capitale.

Il nostro orizzonte di senso trasformativo va al di là della lotta all’emergenza. La ricchezza di bisogni, di relazioni, di tensioni alla trasformazione delle determinazioni concrete della vita degli individui, di ridisegno dei loro rapporti con l’ambiente e con la natura, è troppo forte per pensare di realizzarla con il ripristino delle condizioni di esistenza precedenti. Eppure l’emergenza è un ostacolo formidabile per la possibilità di ripresa ampia dei movimenti di lotta; essa combina ogni spazio societario, chiude ogni spazio di iniziativa, lavora a quell’assenza di lotta ‘che sembra pace e invece è soltanto deserto di vita e di idee’. Definire oggi battaglie e schieramenti di un Fronte Sociale e Politico articolato, in grado di sconfiggere quella che è l’ipotesi epocale di governo, significa intervenire subito sulle componenti immediate dell’emergenza. Non possiamo attendere la battaglia definitiva, dobbiamo dare ora spessore e forza ai movimenti politici di lotta (contro la protervia del padronato che vorrebbe cancellare la classe operaia come soggetto forte e protagonista della lotta di questo paese contro le scelte di guerra e gli insediamenti militari strategici; contro la legislazione e la carcerazione speciale, ecc.) per ricostruire la capacità di incidere, di far pesare nuovi rapporti di forza anche nei luoghi più opachi del potere, più chiusi all’iniziativa di massa.

Su questo terreno rifiutiamo ogni settarismo; su questi obbiettivi va ricercata la massima ampiezza di schieramenti sociali e politici, di tutte le forze che come noi considerano la fine dell’emergenza come preliminare alla ripresa di qualsiasi progetto di trasformazione di questo paese. Il senso ed il successo della mobilitazione rispetto al carcere di Voghera concorre doppiamente a chiarire i significati di queste cose che andiamo affermando: per un verso prosegue in modo naturale le caratteristiche di mobilitazione proprie dei movimenti contro l’installazione dei missili a Comiso, contro le centrali nucleari, contro la guerra, prosegue le mille forme di mobilitazione per nuovi spazi di vita per affermarsi come possibilità generale, non semplicemente economica; d’altro lato si sviluppa immediatamente contro la pratica d’emergenza. La stessa reazione da parte del Ministero degli Interni di un Governo al tramonto, di un pentapartito dominato da una futura instabilità strutturale, non più solo politica, mette in linea Comiso e Voghera.

Vive oggi una sostanziale ambivalenza dei movimenti che, se da una parte si aggregano su contenuti, desideri, opzioni sul futuro su cui fondano la propria indipendenza, dall’altra compiono incursioni, attraversamenti, intrecci con l’assetto istituzionale della società, portando anche al suo interno critica radicale, interagendo con esso per reimporre modificazioni o ‘estorcere vittorie’. È il caso concreto dei movimenti nord-europei, esperti in ‘mediazione conflittuale’ con lo Stato e ricchi di momenti di rottura di alcuni assetti societari: in cui la battaglia si dà non certo sul ‘quantum’ di distanza si riesce a mantenere dalla trama istituzionale, ma sulla capacità di occupare spazi di autodeterminazione sulle scelte fondamentali, sul futuro, sulla libertà, sulla qualità della vita, sottraendo progressivamente allo Stato terreni e luoghi di vita sociale collettiva, ma anche condizionando i processi decisionali in sede amministrativa-istituzionale; è il caso di alcune esperienze alternative di vita e di produzione, ma anche delle grandi opzioni popolari in tema di libertà sociali e di destini umani (aborto, divorzio, centrali nucleari, ecc.), che hanno sotteso alcune grandi vertenze sociali e prassi referendarie, di cui oggi si tratta di riscoprire l’efficacia e l’importanza. Per noi il problema è come partecipare dentro il carcere ma soprattutto dal carcere a questa nuova crescita di spazi di autodeterminazione di lotta, di autogestione non solo del proprio, privato ‘piccolo campo’, ma dei riferimenti generalmente umani, sociali, di libertà: pensiamo ad un movimento che rapidamente prescinda, rispetto alle questioni della carcerazione, tanto dalla ormai logorata esperienza delle organizzazioni combattenti comuniste quanto dalla logica specialistica dei ‘detenuti politici’. Si tratta di avviare un discorso generale sulla socializzazione della carcerazione e sulle condizioni generali di libertà che strappi questi temi dalle mani dell’area della dissociazione, che ne fa strumento di privati fatti, per ristabilire dinamiche conflittuali, vissute largamente da ampi strati sodali, mirate ad uno scontro con l’istituzione carcere che ponga in tempo reale ed in termini realistici il problema di una soluzione di libertà. Per questo obbiettivo indichiamo una lista di temi che non vogliono essere un programma rivendicativo ma una sorta di work-in-progress da consegnare direttamente nelle mani di chi, dentro e fuori dal carcere voglia intervenire:

– Abolizione della carcerazione speciale e di tutte le articolazioni di differenziazione (braccetti, carceri punitive, ecc.).

– Abrogazione immediata dell’art. 90 dal testo di legge di riforma carceraria del 1975.

– Abrogazione di tutte le aggravanti messe in atto dalla legge Cossiga, della legge Reale e di tutte le leggi di emergenza.

– Ritorno alla legge Valpreda rispetto alla carcerazione preventiva e sviluppo di nuove forme di garanzia.

– Depenalizzazione dei reati associativi (associazione sovversiva, a delinquere, banda armata).

– Soppressione delle pene relative ai reati cosiddetti strumentali ed ai reati c.d. di mezzo.

– Abolizione dell’ergastolo ed immediatamente delle barbarie degli anni di isolamento normalmente comminati con esso.

Su questi temi chiediamo ogni forma di contributo, dall’intervento interlocutorio alla sottoscrizione pubblica di questo testo, consapevoli che comunque non è che l’inizio.

 

TORINO
Carcere Le Vallette, 1983.

 

Lascia una risposta