Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Seconda posizione del settembre 1984

(pubblicato in novembre)

1. Le nostre divergenze
L’inizio degli anni ’80, e l’anno 1982 in particolare, ha prodotto una secca soluzione di continuità nel processo di crescita, sostanzialmente ininterrotto, conosciuto dalla nostra organizzazione nel corso dei suoi primi dieci anni di attività; da questa terribile prova, essa ne è uscita fortemente ridimensionata nel numero dei militanti, nei mezzi politici e organizzativi a disposizione, nell’influenza e nel prestigio tra le masse. Da più parti si è rilevato che la campagna di repressione scatenata dallo Stato contro il movimento rivoluzionario ha, per così dire, solamente sviluppato e fatto evidenziare in tutte le loro implicazioni i sintomi di una profonda crisi politica che preesisteva ai giorni delle torture, dei tradimenti e degli arresti di massa; e questa visione del problema esce confermata anche solamente da uno sguardo superficiale gettato su quel che succede tra i prigionieri politici nelle carceri e nelle aule giudiziarie del nostro paese: fatta eccezione dei traditori veri e propri, la stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto parte nel movimento rivoluzionario degli ultimi anni rinnega le proprie scelte ed auspica l’inizio di una trattativa con lo Stato al fine di ottenere la libertà in un prossimo futuro. Non è proprio possibile, infatti, chiudere gli occhi di fronte a questa monumentale ed insieme tragicamente ridicola Canossa di ex-combattenti che, prosternandosi compresi di fronte ai peggiori valori della società borghese, offrono alle masse proletarie del nostro paese uno spettacolo indecente, il cui scotto dovremo pagare a lungo. Tanto lordume non si accumula in uno o due anni, e la pulizia delle nostre stalle non sarà né breve né facile e dovrà necessariamente partire da lontano, perché di crisi politica si tratta e, effettivamente, di crisi politica profonda e complicata.
All’indomani della liberazione del generale americano Dozier, la nostra organizzazione ha ben ritenuto di dover condurre un bilancio approfondito su tutto l’arco della nostra esperienza ed ha così lanciato nel movimento rivoluzionario la proposta della “ritirata strategica”, vale a dire della necessità di un periodo di generale riadeguamento dell’avanguardia rivoluzionaria a seguito dei rovesci registrati. La storia, poi, si è incaricata di confermare una volta di più la validità del principio leninista secondo il quale la serietà di un partito politico si può misurare dal modo in cui affronta i suoi errori: i nostri critici “da sinistra” di allora, specialmente il tristo “partito guerriglia del proletario metropolitano” che predicava e praticava scellerate azioni militari per mezza Italia e ci accusava di tradire la lotta di classe, sono scomparsi come forze organizzate e, nelle prigioni, riscoprono tardivamente l’individualismo, la bellezza della vita comune e, perla delle perle, addirittura la religione. In una situazione in cui il primo compito materiale era quello di fronteggiare la stretta mortale della repressione di Stato si è dunque avviata una riflessione critica che si è avvalsa del contributo di ogni militante e di ogni struttura dell’organizzazione medesima, in attività e prigioniera. Il carattere di questa riflessione considerata nella sua generalità, è stato proprio quello di essersi sviluppata per gradi successivi, portando alla luce via via più chiaramente le ragioni profonde che spiegano degli errori e dei meriti della nostra esperienza. Come spesso succede, qualcuno lungo la strada ha visto confermate le proprie idee, altri le hanno mutate, altri ancora ci hanno abbandonato intimoriti dalle difficoltà del compito che era davanti. È certo che non è mutato l’obiettivo di questa riflessione: rilanciare l’attività rivoluzionaria nel nostro paese su basi teoriche politiche ed organizzative più solide e mature del passato. Questo periodo di generale riflessione critica, che perdura dai primi mesi dell’82 e che comunque non ha impedito alle Br di tornare a combattere ai più alti livelli politici e militari della loro storia, è giunto oggi ad un punto decisivo: due posizioni si scontrano intorno ai principali problemi teorici e politici all’ordine del giorno nella nostra discussione interna; ci si divide su questioni di strategia e su questioni di tattica, sul giudizio rispetto al passato, così come sul modo di concepire la nostra attività rispetto al futuro. Ma perché, si potrà domandare, una organizzazione decimata dagli arresti e rimasta praticamente da sola a combattere con le armi lo Stato borghese, si vuole ulteriormente indebolire con delle divisioni interne? E qual è il contenuto di queste divergenze?
Va riconosciuto, con estrema franchezza che il contenuto delle nostre divergenze consiste nel fatto che esistono oggi nelle Brigate Rosse due concezioni completamente differenti del processo rivoluzionario e dei compiti d’avanguardia nel nostro paese: una concezione si appoggia sull’idea che ritiene possibile, partendo dall’attività del partito rivoluzionario, condurre una “guerra di classe di lunga durata” in un paese imperialista come l’Italia – ed è una tesi che tutto sommato, è stata propria della nostra organizzazione fin dal suo atto di nascita e che può indicarsi anche sotto il nome di “strategia della lotta armata”; l’altra, a partire dalla valutazione concreta degli effetti che l’applicazione di questa tesi ha prodotto nella realtà italiana (effetti positivi e negativi, beninteso), e tenuti presenti alcuni fondamentali, insegnamenti del marxismo e del leninismo, considera che, nel nostro paese, la forma che assume la guerra rivoluzionaria è tendenzialmente quella di un’insurrezione, e che il compito del partito è quello di guidare le masse a questo appuntamento storico mediante la sua attività rivoluzionaria, la sua politica rivoluzionaria, centrata in modo essenziale ma non esclusivo sulla LA. Il problema potrebbe essere formulato anche così: in un paese imperialista sono ancora validi, considerati nella loro essenza, gli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre oppure le cose sono evolute a tal punto che riferirsi a quei fondamentali accadimenti risulta sforzo vano e, in ultima istanza, controproducente? Si tratta, insomma di approfondire la concezione che Lenin aveva della rivoluzione o, al contrario di superarla?
A questo punto, lo scontro politico che oggi investe la nostra organizzazione acquista senso e significato inserendosi nel più vasto problema della crisi teorica e pratica che il marxismo leninismo ha dovuto affrontare nel secondo dopoguerra, al seguito della degenerazione revisionistica dei vecchi partiti comunisti, e delle risposte che i rivoluzionari hanno cercato di dare a questa crisi, nei contesti storicamente determinati in cui si trovano ad agire ed a riflettere. Da questa angolatura si capisce l’importanza delle nostre divergenze e si capisce perché la battaglia politica deve essere condotta a fondo nonostante le difficili condizioni attuali: i nostri problemi sono dentro la storia del movimento comunista internazionale; nello scontro politico oggi esistente all’interno delle Br si riflettono, colorandosi delle specificità proprie alla nostra storia d’organizzazione, questioni storiche irrisolte il cui peso è e sarà determinante nell’influenzare il destino della rivoluzione proletaria nel mondo e nei paesi imperialisti in specie.
La tesi dichiarata del presente lavoro è che bisogna approfondire il leninismo e non superarlo. A nostro avviso, la celebre definizione, offerta da Stalin nei suoi “Principi del leninismo”, secondo la quale il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria, conserva intatta la sua validità a 60 anni di distanza dal momento in cui viene formulata. Quindi, l’idea della “guerra di lunga durata” – che rappresenta un riferimento fondamentale per la rivoluzione di nuova democrazia e per le lotte di liberazione nazionale nei paesi oppressi dall’imperialismo – deve essere rifiutata nei paesi imperialisti in quanto foriera di soggettivismo e avventurismo piccolo borghese. Intanto va riconosciuta alle esperienze di avanguardia che hanno fondato la propria azione su questi presupposti, la funzione storica di avere recuperato la problematica concreta e la dimensione militante della rivoluzione nei paesi del centro imperialista, in quanto ne vanno criticate le insufficienze, i limiti, le approssimazioni sul piano della scienza della rivoluzione.
Se è vero, infatti, come ognuno si affanna a sostenere a parole, che attualmente il compito principale è quello di trarre tutti gli insegnamenti possibili dalla nostra esperienza passata per poterla valorizzare appieno nel futuro, è ancora più vero che simile operazione non si può condurre, per così dire, “a basso profilo”, giustapponendo tra di loro singoli giudizi su pezzetti di storia d’organizzazione con l’illusione di salvare capra e cavoli. È una valutazione generale che va data dell’attività rivoluzionaria delle Br nel nostro paese e questa valutazione, che sola può rendere conto del significato storico della nostra esperienza, è cosa da condurre sulla base del marxismo e in uno spirito alieno da gretti interessi di campanile, proiettati, insomma, sul metro della storia. In questo senso, condurre a buon fine simile operazione teorico pratica equivale a rilanciare con rigore e con forza il m-l nel nostro paese, superando così, una volta per tutte, lo stato di minorità teorica e subalternità politica nel quale da troppi anni sembra essere consegnata la sinistra rivoluzionaria italiana.
Sulla questione del rilancio del m-l vanno fatte, preliminarmente, almeno due precisazioni. Innanzitutto, va precisato che questo rilancio non può avvenire nel modo acritico e dogmatico spesso proprio di certune sette che, con la stessa facilità con cui stampano qualche centinaio di copie di orribili giornaletti, si proclamano avanguardie del proletariato internazionale attirandosi addosso il ridicolo della borghesia e anche delle masse combattive. Invero, qualsiasi riflessione rivoluzionaria non può che partire dalla valutazione dell’esperienza rivoluzionaria che le masse ed i soggetti coscienti compiono in determinati periodi storici, ed ogni fase e momento storico è, lo si voglia o meno, superiore all’antecedente nel senso che ne rappresenta uno svolgimento e quindi, in ogni caso, un approfondimento reale. Nella “Guerra civile in Francia” Marx ci dà un esempio di questa metodologia scientifica allorché riferendosi alla Comune (esperienza i cui presupposti non aveva condiviso in pieno) la definisce “la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica dal lavoro”, cioè niente di meno che il primo esempio di dittatura del proletariato. Lenin, d’altro canto, ha sempre insistito sulla necessità di imparare dalla realtà per come essa è effettivamente, di riconoscere nella realtà ciò che, talvolta apparentemente inessenziale, è suscettibile di generalizzazione in quanto forma superiore e tendenzialmente più sviluppata dell’agire storico-sociale dell’uomo. Chi recita un principio a memoria e non si preoccupa di coglierne le implicazioni concrete, le forme reali ed anche contraddittorie di manifestazioni nella storia, non ha capito niente del materialismo dialettico in generale e della sua applicazione alla storia in specie. Per ciò che concerne noi, allora, nessuna attività rivoluzionaria che si dica m-l è concepibile nel nostro paese fuori dalle Br, perché solo la nostra organizzazione è in grado di tracciare un bilancio scientifico e militante (cioè capace di tradursi in pratica rivoluzionaria) dei meriti e dei limiti dell’esperienza rivoluzionaria compiuta nel corso degli anni ’70, individuando con precisione quali siano gli elementi positivi acquisiti e/o acquisibili nel patrimonio storico del movimento comunista internazionale, definendo con chiarezza i termini di una strategia e di una tattica veramente rivoluzionaria, valorizzando compiutamente l’insegnamento principale che scaturisce da tutta l’esperienza d’avanguardia degli anni ’70 e, in primo luogo da quella della nostra organizzazione: che la questione della lotta armata è parte decisiva della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista anche in una situazione non rivoluzionaria.
Secondariamente va chiarito cosa intendiamo per approfondimento della concezione della rivoluzione leninista e perché contrapponiamo tale indirizzo teorico pratico a quello del superamento della medesima. L’applicazione della teoria maoista della “guerra popolare prolungata” alla realtà sociale e storica dei paesi imperialisti conduce, a nostro parere, inevitabilmente, ad una distorsione profonda del leninismo fin nel suo nocciolo essenziale. È facile dimostrare, infatti, e la nostra storia lo ha grandemente dimostrato, che per quanto si cerchi di essere degli onesti m-l, per quanto si vogliano evitare le schematizzazioni, volendo applicare questa teoria nei paesi capitalistici avanzati si perviene, per forza di cose, ad una visione non leninista del rapporto coscienza-spontaneità e del suo correlato pratico lotta politica-lotta economica, si arriva a sottovalutare il ruolo educatore e politico del partito rivoluzionario trasformandolo, da soggetto cosciente della lotta per il potere, in mero organizzatore di una disponibilità rivoluzionaria di massa data per scontata, si stravolge, infine, completamente, situandosi all’opposto estremo, l’idea marxista e leninista “dell’eccezionalità” dell’incontro tra condizioni oggettive e condizioni soggettive della rivoluzione socialista proletaria, sposando una sorta di aggiornata filosofia della prassi, ultima raffinata eredità del marxismo “critico”. Vi sono, certamente, delle ragioni precise alla base del fatto che i marxisti leninisti conseguenti, all’inizio degli anni ’70, furono indotti a credere che una “lunga marcia nelle metropoli” costituisse l’alternativa rivoluzionaria giusta al tradimento revisionista e all’impasse dei gruppi (allora) extraparlamentari. E, in più, noi dobbiamo materialisticamente riconoscere che la questione della lotta armata si è conquistata il dovuto risalto, un risalto politico cioè, a partire da quelle scelte e attraverso tutta la nostra storia, dal ’70 a Dozier, sulla base di una teoria e di una pratica, approssimate quanto si vuole, ma storicamente all’avanguardia e pertanto giuste e positive. Nondimeno, oggi, un chiarimento si impone su questi come su altri problemi. Pare a noi inutile dichiararsi leninisti se non si accetta almeno il nocciolo del pensiero del grande rivoluzionario russo, e si rende, in verità, cattivo servigio al leninismo continuando a mescolarne i chiari principi con le più svariate e lontane concezioni. Come è possibile infatti appellarsi ai principi leninisti del partito come “reparto d’avanguardia” e “coscienza esterna del proletariato” e scrivere quasi accanto che “il problema non è di trasmissione di coscienza dai comunisti alla moltitudini”? (prima posizione della comunicazione). E che rapporto ha con il pensiero di Lenin, che individuava scientificamente le caratteristiche principali della fase rivoluzionaria, la seguente frase: “la lotta armata apre la fase rivoluzionaria a partire dall’attività politico-militare d’avanguardia che attacca la Stato e si rapporta alla classe secondo una strategia tesa ad organizzare le avanguardie rivoluzionarie, rappresentare e dare sbocco alle istanze di potere delle lotte proletarie e conquistare l’antagonismo al programma rivoluzionario”? (ibidem). Ed è possibile parlare di “atti di guerra” se il partito si muove in una situazione contrassegnata dalla dimensione politica in quanto dimensione prevalente dello scontro sociale fra le classi? In poche parole, chi crede davvero di poter superare Lenin, infischiandosene di quegli insegnamenti della rivoluzione d’ottobre che mantengono la loro validità tutt’oggi, deve almeno avere il coraggio di dirlo apertamente, ammettendo che la “guerra di lunga durata” o idee simili si accompagnano a tutt’altri discorsi e comportano un’altra visione del processo rivoluzionario, diversa e contrapposta a quella che, di questo, Lenin ne aveva. Noi, al contrario, pensiamo che la sostanza di quella concezione sia tutt’ora valida e che il problema sia quello di approfondirne i contenuti alla luce dell’esperienza pratica compiuta dal movimento comunista internazionale e tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti nella società.
In questo senso, lo scontro politico esistente oggi nell’Organizzazione si palesa anche come scontro di riferimenti teorici e, al limite, come scontro tra diverse metodologie. In questo scontro noi siamo per la demarcazione tra le due posizioni, non certo perché abbiamo il “gusto” della scissione o proviamo piacere a non trovare punti di unione a nessun livello, ma proprio perché la demarcazione consentirà di svelare un’altra delle caratteristiche seminascoste di questa battaglia politica: il fatto, cioè, che una posizione veramente marxista leninista potrà farsi strada nelle Br solo a patto di riuscire a smascherare come tale quell’eclettismo teorico, capace di dire una cosa e il contrario di essa allo stesso momento, che tanta fortuna ha riscosso nelle Br durante il corso della loro attività passata e che tanto più pesantemente ne ipoteca oggi il futuro.
In sostanza, alla domanda”quale futuro per le Br?” si potrà rispondere soltanto dopo aver chiarito in cosa consista il significato storico della nostra esperienza, dopo aver, cioè, evidenziato il nostro elemento di internità e di contributo alla storia e al patrimonio del movimento comunista internazionale, ed è evidente che il modo con cui si affronta quest’ultimo problema risulta assolutamente decisivo ed influenza, dall’inizio alla fine, qualsiasi discorso si voglia fare su più di 10 anni di lotta armata nel nostro paese. Infatti, in Italia, il problema della risposta d’avanguardia al tradimento revisionista dei PC provenienti dal Komintern, problema generale di tutta la sinistra rivoluzionaria europea, si è manifestato in maniera oltremodo evidente e sviluppata. La rottura con il revisionismo – e con il revisionismo più forte di tutto l’occidente – ha assunto caratteri di radicalità rivoluzionaria e di radicamento sociale sconosciute ad altre realtà nazionali: l’Italia ha fatto l’esperienza di un’acuta lotta di classe, che ha modificato profondamente alcuni tratti della nostra società e che ha accumulato nelle mani del proletariato rivoluzionario un patrimonio enorme di esperienze sulle quali è doveroso riflettere e dalle quali è possibile ricavare molti utili insegnamenti. Certamente, molti fattori di ordine oggettivo – cioè indipendenti dalla volontà dei singoli individui o gruppi, ed anche da quella delle classi stesse – hanno concorso al determinarsi di questa situazione: alcuni vanno rintracciati a livello profondo nella nostra storia nazionale, altri sono da riferirsi alle caratteristiche economiche e politiche assunte specificatamente dalla società italiana nel secondo dopoguerra. Ma pur tenendo conto di ciò non sembra e non può essere causale il fatto che l’elemento soggettivo trainante questa grossa “ondata” rivoluzionaria, le Br, siano sorte proprio nel tentativo di applicare i principi del marxismo alla realtà attuale, ricollegandosi così con l’eredità del comunismo rivoluzionario internazionale, non può cioè, essere considerata accidentale la relazione che di fatto si è stabilita tra il tentativo di riferirsi costantemente al marxismo leninismo sotto il profilo teorico, politico ed organizzativo e la quantità e la qualità del cammino percorso dalle Br dal momento della loro fondazione fino ad oggi, ivi compreso il fatto che esse sono attualmente la sola organizzazione ad avere superato la prova durissima della repressione dell’inizio degli anni ’80. Per questi motivi, al di là di ogni analisi sul rapporto tra le lotte di massa del 68-70 e nascita della lotta armata, è importante considerare i legami interni alla storia del movimento comunista internazionale; perché per un partito marxista è l’attività cosciente e quindi l’attività cosciente considerata nella sua evoluzione storica, che rappresenta il termine di riferimento fondamentale e la base per ogni avanzamento generale.
E qui siamo ad un punto estremamente delicato perché, nella misura in cui qualcuno si dà la pena di tentare un inquadramento della nostra esperienza in una dimensione storica appena più ampia di quella che si è sviluppata dal ’68 in poi, subito si alza il coro che grida al tradimento, alla svendita dei principi d’organizzazione, all’abbandono della lotta armata. Ora, noi rifiutiamo apertamente la posizione di chi ritiene di potere isolare la nostra storia da quella più generale del movimento comunista internazionale in nome di una sua presunta “originalità”. Senza meno, le originalità ed anche le “rotture” esistono, ma bisogna dire chiaramente che l’atteggiamento presuntuoso di chi non stabilisce relazioni storiche precise con il passato, o le stabilisce soltanto sulla base del fatto che si è operata una rottura irrevocabile con ciò che è solo opportunismo e degenerazione, che si è fatta una “scelta” da prendere in blocco o abbandonare impauriti, questo atteggiamento ci condanna vita natural durante al particolarismo e al primitivismo, “splendido” se si vuole, ma pur sempre incapace di elevarsi al livello politico oggi necessario per un partito rivoluzionario. In più, i “senza passato”, costretti a qualche riferimento di ordine storico, risultano incapaci di qualsiasi distinzione: ogni rivoluzione è buona per confermare le loro idee e, tra la rivoluzione socialista proletaria e quella di nuova democrazia, tra la forma che assume la rivoluzione nei paesi imperialisti e quella che assume nei paesi dipendenti, coloniali o neocoloniali, ogni precisazione è inutile perché rischia di inscatolare la nostra rivoluzione, ecco che arriva l’orribile parola…in un “modello”!! Noi, ovviamente, non siamo di questo avviso e le precisazioni quando necessarie ed utili non ci spaventano affatto: che problema c’è, ad esempio, che l’Italia è un paese imperialista e che la sua rivoluzione assume una forma necessariamente diversa da quelle che si svolgono nei paesi dipendenti riguardo la forma che tendenzialmente assume la guerra rivoluzionaria? E tacere questo fatto non vuol dire forse andare contro, lo si voglia o meno, alla teoria leninista dell’imperialismo che distingue con una certa precisione le nazioni imperialiste da quelle oppresse? E chi si inalbera contro i “Modelli”, non ha forse in testa un modello assolutamente definito, la “guerra di lunga durata”, l’accumulo progressivo di forza militare sulla base di un’attività necessariamente “tentacolare”(uno più uno, azione più azione), che non tiene conto e non può tenere conto dell’importanza dell’elemento oggettivo nella dinamica generale di qualunque processo rivoluzionario?
In verità, l’ingenuità teorica e pratica che ha caratterizzato per molti anni la nostra attività e che ha anche assolto una notevole funzione storica (conquistare un ruolo essenziale alla lotta armata nell’insieme dei metodi e degli strumenti di lotta in mano al partito marxista, sin dall’inizio del processo rivoluzionario), rischia oggi di trasformarsi in infantilismo, qualora prevalga ancora una volta una concezione eclettica dei compiti d’avanguardia e delle caratteristiche generali che assume il processo rivoluzionario nel nostro paese. Il bambino insomma rischia di rimanere nudo. La valorizzazione della nostra esperienza, al contrario e a nostro parere, coincide come già detto con il rilancio rigoroso del marxismo leninismo contro ogni sorta di opportunismo, ma anche contro quel genere di infantilismo che ormai è solo un ostacolo da superare sulla strada che porta alla costituzione del partito rivoluzionario nel nostro paese.

2. Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse
Come è noto, in Marx ed Engels, il tema della rivoluzione sociale si traduce, sul piano politico, nel problema dell’autonomia politica del proletariato ed in quella del rapporto tra classe rivoluzionaria e potere borghese, organizzato nello Stato. La rivoluzione sociale è strettamente legata alla sua condizione preliminare, la rivoluzione politica, ed uno dei momenti cruciali di questa complessa questione diviene, per forza di cose, quello della presa del potere.
I fondatori del socialismo scientifico si preoccuparono molte volte di chiarire il loro pensiero a questo proposito: Marx per primo parlò della violenza come “levatrice” della storia, individuandone la necessità sul piano dell’evoluzione e della trasformazione della società, ed insegnò che le tattiche da adottare per pervenire alla presa del potere devono innanzitutto tener conto delle caratteristiche politiche e militari dello Stato che si vuole abbattere; Engels, che considerava l’insurrezione un’arte, ancora nel 1895 (nell’anno della sua morte cioè) si dedicava all’analisi dell’evoluzione delle tecniche militari borghesi, mettendo in luce come, di pari passo, aumentavano le difficoltà di realizzazione di un’azione militare rivoluzionaria. Essi posero sempre l’accento sul problema della violenza e criticarono immancabilmente quei dirigenti socialisti che, abbacinati dai successi elettorali, si rifiutavano di considerare il lato violento della rivoluzione ed i compiti militari del partito proletario. D’altra parte, non trattarono l’argomento in modo organico e definitivo, lasciando aperta l’ipotesi, in via del tutto teorica ed esclusivamente riferita a quelle nazioni in cui lo Stato era particolarmente smilitarizzato, giovane e di debole presenza nella società, di un passaggio pacifico al socialismo.
In Lenin questa particolare tematica viene trattata in modo così diffuso e sistematico, così puntuale in tutte le sue implicazioni che, dal complesso delle sue opere, è possibile ricavare una vera e propria “concezione” del problema della presa del potere, una concezione che, ricercando costantemente e rigorosamente il riferimento all’opera di Marx ed Engels, si sviluppa e si rafforza nella lotta contro l’opportunismo imperante nella seconda Internazionale e ha come banco di prova la realtà ormai formata dell’imperialismo, cioè del capitalismo pervenuto al suo stadio monopolistico. Rammentiamone i passaggi fondamentali con l’aiuto di qualche citazione.
Per Lenin, nessuna rivoluzione socialista è possibile senza l’impiego di una certa violenza da parte del proletariato nei confronti dello Stato e della classe borghese: “La sostituzione dello Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta” (Stato e Rivoluzione). Anche l’ipotesi assolutamente giustificata di un passaggio pacifico al socialismo in certuni paesi, lasciata aperta da Marx ed Engels, risulta inattuale nell’epoca dell’imperialismo. “Il capitalismo premonopolistico – che raggiunse il suo apogeo appunto negli anni ’70 – si distingueva nei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo particolarmente tipico in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grandi. L’imperialismo, invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel XX secolo, si distingue nei suoi tratti economici essenziali, per il suo minimo amore per la pace e per la libertà e per il massimo ed universale sviluppo del militarismo. “Non notare” questo nell’esaminare fino a che punto sia verosimile un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento, vuol dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia” (La Rivoluzione violenta e il rinnegato Kaustki). Dunque, il confronto violento tra proletariato e borghesia è un fatto necessario che scaturisce dall’esistenza oggettiva del militarismo capitalista e, in particolare, dallo sviluppo pronunciato che quest’ultimo conosce sotto la realtà dell’imperialismo. Impostato il problema in questo modo e chiarito che l’azione rivoluzionaria violenta, per essere risolutiva, per riuscire cioè a strappare il potere politico dalle mani della borghesia, non può assomigliare ad un complotto, ma deve coinvolgere larghe masse proletarie depositarie della simpatia di milioni di persone, si pongono immediatamente, sempre per Lenin, due compiti fondamentali per il partito che voglia condurre vittoriosamente le masse alla rivoluzione violenta: innanzitutto il partito deve educare le masse all’idea della rivoluzione violenta attraverso tutta la propria attività, deve innalzare la combattività tenendo conto ed appoggiandosi sull’esperienza pratica compiuta dalle masse medesime, deve elevare il loro grado di coscienza fino alla comprensione dell’inconciliabilità di interessi che esiste tra loro e la borghesia nella società contemporanea. In poche parole, il partito deve porre di fronte alle masse il problema dello Stato, della sua natura di classe e della necessità del suo abbattimento violento, in quanto elemento fondante e precipuo della politica rivoluzionaria. Secondariamente, il partito deve individuare la forma che il processo rivoluzionario prende nella nazione determinata, considerando con particolare attenzione il problema del passaggio dalla fase politica alla fase militare dello scontro sociale, il problema del passaggio dalla situazione non rivoluzionaria alla situazione rivoluzionaria. Esso deve, perciò, analizzare la forma che la guerra rivoluzionaria prende e deve attendere ai compiti militari che questa forma particolare gli impone, senza la benché minima concessione all’opportunismo. Nell’essenziale, non ci sono altri compiti che scaturiscono per il partito dal principio della necessità della rivoluzione violenta, poiché, per Lenin, sia l’azione partigiana contro il poliziotto zarista che la grande dimostrazione popolare che si conclude con un bagno di sangue operano come fattori concreti di educazione delle masse, ne innalzano la combattività e gli svelano la natura delle istituzioni che governano la società. A patto, ovviamente, (e qui Lenin è sempre molto categorico) che sia il partito a dirigere simile “educazione”. Ogni altra interpretazione, ogni svalutazione del ruolo educatore del partito anche sulla questione della violenza, non è solo una concessione allo spontaneismo, ma conduce, nella misura in cui si praticano azioni partigiane, a quella logica “dell’argomento stimolante” che Lenin stesso metteva in ridicolo nel “ Che fare?”. Lo stesso argomento secondo il quale la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi”, a ben guardare, può essere compreso in questo schema concettuale. Ci spieghiamo meglio: per i comunisti per coloro che hanno come finalità immediata la presa del potere del proletariato, ogni miglioramento delle condizioni di vita del proletariato non è importante di per se stesso, ma solo in quanto, raggiunto sulla base della lotta di classe esso implica un aumento della coscienza rivoluzionaria della classe oppressa e un aumento dell’influenza concreta del partito rivoluzionario nelle masse medesime. È evidente, allora, che il fine dei comunisti non è tanto quello di “spostare i rapporti di forza”, ma piuttosto il fatto che mutino le relazioni generali tra le classi è un indice fondamentale dell’aumento della disponibilità rivoluzionaria del proletariato alle tesi del partito. Se è vero che la lotta armata sposta i rapporti di forza tra le classi, essa lo fa in un senso comunista, solo perché contribuisce ad innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria del proletariato. Considerato in altro modo, il problema ha solo due vie d’uscita, entrambe non marxiste: 1) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto migliora le condizioni di vita delle masse: interpretazione “riformista”; 2) la lotta armata sposta i rapporti di forza in quanto accresce il potere delle masse: interpretazione che, in un paese come l’Italia, dove l’unico vero potere in mano alle masse prima della conquista del potere politico è la loro coscienza e la loro organizzazione rivoluzionaria, sottende necessariamente l’idea di un “potere crescente”, di un “ contropotere”, di un “sistema di potere”, che non trovano riscontro alcuno se non nel paradiso accogliente dell’ideologismo dal quale, a fatica, stiamo cercando di uscire. Per questi motivi è accettabile l’idea che la lotta armata “sposta i rapporti di forza generali tra le classi” solo nel senso preciso che ogni politica rivoluzionaria giusta, in quanto si inserisce con puntualità nella vita politica di una determinata nazione rappresentando l’interesse generale del proletariato di fronte allo Stato, fa aumentare la coscienza della classe oppressa e, concretamente, determina delle modificazioni nei rapporti tra sfruttati e sfruttatori sia nel campo economico, che in quello politico, ideologico, ecc..
Individuare la forma che la guerra rivoluzionaria assume in un dato paese; prepararne le condizioni soggettive, senza alcuna concessione all’opportunismo, sapere quando e come scatenarla e, finalmente, scatenarla effettivamente quando le condizioni generali si presentano, sono da sempre i compiti più difficili e il vero banco di prova per un partito che si dica rivoluzionario. L’argomentazione leninista, a questo punto, fuori e contro ogni filosofia della prassi, ci offre un criterio scientifico, una metodologia che applicata alla situazione concreta di un determinato paese in un determinato periodo storico, è la chiave di volta del problema e ci consente di decidere della forma (e con ciò tutto il resto) della guerra rivoluzionaria. Essa si articola su due livelli: il primo è quello della valutazione della situazione rivoluzionaria, il secondo è quello della valutazione della forza politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Procediamo con ordine.
La questione della situazione rivoluzionaria è di enorme importanza ai fini della definizione della forma che assume la guerra rivoluzionaria. Infatti, se per guerra rivoluzionaria noi intendiamo la situazione in cui larghe masse appartenenti a classi contrapposte si confrontano per mezzo delle armi, la situazione, cioè in cui l’elemento dominante della lotta di classe è quello militare (e non, come spesso si è creduto anche nella nostra Organizzazione, la situazione in cui l’avanguardia delle masse combatte con le armi mentre milioni di persone lottano ancora ad un livello meno elevato), allora è abbastanza elementare riconoscere che solo in una situazione rivoluzionaria si può sviluppare una guerra rivoluzionaria, e risulterà necessario poter stabilire precisamente quando una determinata situazione può dirsi rivoluzionaria. Ecco cosa scriveva Lenin: “Per un marxista è cosa certa che nessuna rivoluzione è possibile in mancanza di una situazione rivoluzionaria. Non è poi detto che ogni situazione rivoluzionaria scaturisca in una rivoluzione. Quali sono in generale i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare nell’indicare tre seguenti elementi:
1) Impossibilità da parte delle classi dominanti di conservare integro il proprio dominio; una crisi dei circoli dirigenti, crisi politica della classe al potere, produce una falla nella quale entrano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Affinché abbia luogo una rivoluzione non basta, in genere, che non si accetti di scendere più in basso; bisogna altresì che non si possa più vivere come nel passato.
2) Il peggioramento abnorme delle privazioni e delle sofferenze delle classi oppresse.
3) L’incremento sensibile, in funzione di quanto precede, dell’attività delle masse, le quali, in tempo di pace, si lasciano tranquillamente derubare ma nei momenti di crisi sono incitate da tutta la situazione, e anche dai dirigenti, a prendere l’iniziativa di un’azione storica.
In mancanza di queste modificazioni oggettive, indipendenti dalla volontà dei gruppi isolati e dei partiti, nonché da quella delle classi, la rivoluzione è, in linea generale, impossibile. L’insieme di queste modificazioni oggettive costituisce esattamente la situazione rivoluzionaria… non è detto che da ogni situazione rivoluzionaria scaturisca la rivoluzione; perché la rivoluzione si compie solo quando, ai fattori enumerati si aggiunge l’elemento soggettivo, ossia l’attitudine nella classe rivoluzionaria all’azione rivoluzionaria, l’attitudine di masse abbastanza forti da spezzare e scuotere il vecchio regime che, all’apice della crisi non cade se non lo si fa cadere” (Il fallimento della Seconda Internazionale). Il problema allora, se si è d’accordo con Lenin, è quello di considerare con che frequenza queste situazioni si producono e per quanto tempo esse possono prolungarsi in un dato paese, considerate le sue caratteristiche socio strutturali (composizione di classe, collocazione nella realtà generale dell’imperialismo, ecc..), perché da queste cose dipende il carattere della guerra rivoluzionaria: se la situazione rivoluzionaria è presente costantemente, o relativamente costantemente, allora, la guerra rivoluzionaria potrà essere prolungata, potrà appoggiarsi sul sostegno costante e fattivo delle masse e conquistare dei territori da erigere a “zone liberate”, sui quali basarsi per continuare la guerra fino alla liberazione completa dell’intero territorio nazionale. Se la situazione rivoluzionaria si presenta raramente e tocca il suo punto culminante per breve tempo, allora la guerra rivoluzionaria non potrà che concentrarsi in momenti precisi ed assumere tendenzialmente l’aspetto dell’insurrezione. Sebbene ogni schematizzazione sia da evitare sotto questo (…), ci pare innegabile la sostanza scientifica e intimamente materialistica di questo ragionamento; così come ci sembra che tutta l’esperienza della rivoluzione proletaria del movimento progressista mondiale confermi questo fatto. Dire che esistono delle forme tendenziali di guerra rivoluzionaria, che esse possono, tutto sommato, ridursi a quella della guerra popolare prolungata e a quella dell’insurrezione armata, che è possibile e doveroso considerare, nel proprio paese, il tipo di guerra rivoluzionaria che si deve affrontare e trarre tutte le implicazioni sul piano della attività pratica del partito, non significa fare dello schematismo, ma esattamente applicare il marxismo con responsabilità (con la responsabilità di chi deve chiamare alle armi le masse e perciò deve farlo secondo un criterio preciso) alla situazione nazionale in cui si svolge il proprio lavoro. Lenin, ad esempio, trattando il problema della situazione rivoluzionaria in riferimento ai paesi capitalistici della sua epoca, scriveva: “Nella storia, questo aspetto della lotta si iscrive molto raramente all’ordine del giorno; al contrario, la sua importanza e le sue conseguenze perdurano per dozzine di anni” (Il fallimento della Seconda Internazionale). E non a caso, in Russia era partigiano dell’Insurrezione armata. Altrettanto importante della valutazione della situazione rivoluzionaria risulta la valutazione della “forza” politica e militare dello Stato che si vuole abbattere. Non servirebbe a nulla infatti, aver stabilito con precisione con quale frequenza una situazione rivoluzionaria si produce e per quanto tempo si prolunga se poi non si conosce cosa si ha di fronte, se non ci si è preparati e non si sono preparate le masse alla realtà della guerra civile, se non ci si pone il problema di affrontare la crisi politica della borghesia. “Il vecchio regime…,anche all’apice della crisi, non cade se non lo si fa cadere”; ma non solo l’attività rivoluzionaria del partito marxista contribuisce all’approfondimento della crisi della classe dominante, nella misura in cui svolge una politica rivoluzionaria giusta e diviene la variabile rivoluzionaria della vita politica e sociale di un dato paese; molto di più, il Partito marxista deve far ciò tramite un metodo adatto allo stato contro cui vuole dirigere le masse. Nessuna politica rivoluzionaria può diventare elemento fondamentale della vita politica di un paese, contribuire all’approfondirsi della crisi della borghesia, fare cadere il potere della classe dominante, se i suoi metodi e le sue forme di lotta e di attività non sono adeguate alla natura dello Stato borghese che si ha davanti. Lenin, a questo proposito, è molto chiaro e stabilisce un nesso preciso – già messo in luce da Marx e da Engels – tra le caratteristiche dello stato e quella della lotta di classe, tra le forme assunte dal dominio politico della borghesia e le forme che deve assumere, al suo livello più elevato, la lotta rivoluzionaria del proletariato. “L’imperialismo (…) mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani. La storia universale pone oggi, senza alcun dubbio e su scala incomparabilmente più ampia che nel 1852, il compito della “concentrazione di tutte le forze” della rivoluzione proletaria per la distruzione della macchina statale” (Stato e Rivoluzione). Questo rapporto tra consolidamento dello Stato borghese e necessità, da parte del proletariato, di concentrare maggiori energie per distruggerlo si ricava anche dal secondo passaggio, dove Lenin chiarisce le implicazioni militari che l’evoluzione dello Stato comporta sul terreno della lotta di classe: “La tattica militare dipende dal livello della tecnica militare: questa verità è stata ribadita da Engels, da cui i marxisti l’hanno ricevuta già completamente elaborata. La tecnica militare è oggi diversa da quella della metà del secolo XIX. Sarebbe stupido marciare in massa contro l’artiglieria e difendere le barricate con le rivoltelle.” (Gli insegnamenti dell’insurrezione di Mosca). Come si vede, viene stabilito su questo punto una sorta di rapporto proporzionale: al consolidamento progressivo dello stato, alla sua accresciuta capacità di repressione e di integrazione sociale, deve corrispondere una strategia adeguata da parte del proletariato, capace di concentrare tutte le forze necessarie all’abbattimento dello Stato medesimo. Detto in altre parole, se lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo ha sviluppato definitivamente il suo apparato burocratico e militare in funzione antiproletaria, allora il compito del partito sarà quello di porre, con maggiore forza e coerenza il problema dello Stato e della sua natura di classe di fronte alle masse e alla società tutta intera; il compito sarà quello di preparare le masse alla realtà di una guerra civile sanguinosa e tremenda mettendo in crisi, al più alto livello possibile, gli equilibri politici su cui, di volta in volta, si regge la forza dello stato medesimo. Da questo punto di vista, che, ripetiamo, è il punto di vista di Lenin, rintracciabile in ogni sua opera o scritto politico, la questione dello Stato è la questione della politica rivoluzionaria e della rivoluzione violenta, e la questione dell’evoluzione dello Stato è la questione, se ci è consentita una terminologia non proprio perfetta, dell’evoluzione della strategia e della tattica della rivoluzione violenta, la questione della capacità del partito del proletariato di essere costantemente “all’altezza” di quella forza repressiva particolare che è lo Stato in generale e lo Stato borghese nell’epoca dell’imperialismo in specie.
Questi, a nostro parere, sono i tratti fondamentali della concezione della presa del potere propria di Lenin, ma, prima di proseguire nel nostro discorso, bisogna fare almeno tre precisazioni: in primo luogo bisogna chiarire che questi insegnamenti hanno valore universale, cioè non riferibile soltanto alla situazione russa del ’17 o a quella europea tra le due guerre. Infatti, questi insegnamenti applicati da Mao alla realtà cinese del suo tempo hanno comportato esattamente la teoria e la pratica della guerra popolare prolungata. In secondo luogo essi sono validi qualora si abbia fermo il rapporto preciso che Lenin stabilisce tra la coscienza socialista e la spontaneità proletaria. In terzo luogo essi possono portare a fare veramente la rivoluzione solo se si ha chiaro che in Lenin la soggettività cosciente è una parte dell’oggettività quindi essa contribuisce concretamente alla modificazione dello scenario sociale e non si attesta opportunisticamente “sull’apprezzamento” delle condizioni oggettive considerate come “impermeabili” all’attività soggettiva del partito rivoluzionario.
Tenuto conto di ciò si deve ammettere che tali insegnamenti applicati alla realtà italiana del nostro tempo quindi ad una realtà ovviamente evoluta rispetto a quella della Russia del ’17 conducono a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione: un’insurrezione aggiornata che dovrà confrontarsi con uno Stato politicamente e militarmente agguerrito in modo diverso e superiore a quello zarista del ’17 ma pur sempre un’insurrezione. E se la polemica fra i sostenitori dell’insurrezione e quelli della guerra di lunga durata può infastidire qualcuno bisogna chiarire che dietro le parole si cela tutto un modo di concepire l’attività politica di quel Partito Comunista Combattente che si deve fondare; si celano, insomma due modi antagonisti di interpretare il rapporto teoria-prassi nel marxismo.
Ci si accusa di dogmatismo, di non considerare i mutamenti sopravvenuti nella società moderna. Ma è vero o non è vero che nel secondo dopoguerra non si sono conosciute nei paesi imperialisti situazioni veramente rivoluzionarie? È vero o non è vero che la dimensione politica della lotta di classe (la dimensione cioè caratterizzata dal fatto che i rapporti generali tra le classi si mediano, si equilibrano, si trasformano nell’ambito della sfera politica oggettivamente esistente in quanto risultato della lotta di classe) prevale per tutto un lungo periodo di tempo e trapassa nella dimensione militare (la dimensione della guerra civile) in tempi relativamente brevi?
Che ci piaccia o meno la teoria della guerra di lunga durata della strategia della lotta armata ecc… non è un’applicazione del marxismo leninismo alla realtà italiana ma esattamente l’opposto: è la giustapposizione ideologica di una pratica data per scontata, è il trionfo dell’eclettismo su ogni sforzo di impostare seriamente il problema della rivoluzione proletaria nel nostro paese.
È senz’altro vero che per sconfiggere questo Stato avremo bisogno di una “concentrazione di forze” estremamente rilevante così come è vero che nel processo politico che permette di concentrare simili forze la lotta armata gioca un ruolo decisivo fondamentale sin nella situazione non rivoluzionaria. Ma la soluzione di questi fondamentali problemi non si trova fuori dall’impostazione teorica sopra enunciata, bensì dentro il leninismo che permette sulla base degli elementi di teoria generale validi universalmente di valorizzare in modo compiuto l’esperienza pratica del movimento rivoluzionario internazionale.
Il significato storico dell’esperienza delle Brigate Rosse, allora, è quello di aver dimostrato che la questione della lotta armata fa parte della questione della politica rivoluzionaria di un partito marxista leninista moderno; che la lotta armata è il metodo di lotta fondamentale e decisivo del partito del proletariato poiché, anche nella situazione non rivoluzionaria, è un formidabile strumento di innalzamento della coscienza e dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse sfruttate.
In questo senso, e solo in questo senso, si può dire che la nostra esperienza è una critica militante alle insufficienze dell’insurrezionalismo kominternista: il Komintern concepiva l’insurrezione come il coronamento militare di una lunga fase di attività politica legale basata sull’attività parlamentare; di fatto nel momento in cui il baricentro dell’attività politica si spostava in parlamento, la questione dell’insurrezione veniva persa di vista. In altre parole, il limite che separa la fase politica dello scontro sociale da quella militare, quella che divide la situazione rivoluzionaria da quella non rivoluzionaria, questo limite veniva concepito come separazione mentre, per la dialettica, un limite esiste solo in quanto mette in collegamento le due realtà, le fa trapassare una nell’altra e, in particolari condizioni storiche, le media in unità di opposti.
La lotta armata, in Italia, ha avuto questa funzione storica: mettere in risalto la possibilità di una teoria e di una pratica rivoluzionaria adeguata ai tempi in cui viviamo. Alla fine degli anni ’60, allorché grandi lotte operaie e studentesche caratterizzavano in modo prevalente la situazione politica nel nostro paese e in altri paesi europei, gli elementi rivoluzionari avanzati si trovavano di fronte a due fondamentali ordini di problemi, strettamente connessi tra di loro: in primo luogo essi dovevano condurre una spietata battaglia contro il revisionismo dei PC “ufficiali”, ormai trasformati in veri e propri partiti socialdemocratici, in secondo luogo nella definizione della loro strategia rivoluzionaria, dovevano tener conto del fatto che la visione insurrezionalistica propria del Komintern si era dimostrata sostanzialmente incapace di condurre le masse alla presa del potere nei paesi ove essa aveva trovato applicazione concreta. Queste due fondamentali questioni venivano affrontate, allora, sotto l’influenza e lo stimolo di quanto accadeva nel mondo e, in special modo, guardando alla Cina della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria e alle varie forme di guerra rivoluzionaria allora in atto nei paesi oppressi dall’imperialismo; e, nei settori più conseguenti del movimento rivoluzionario di quel periodo storico, si affermò progressivamente la posizione secondo la quale la risposta giusta a quei problemi la si poteva dare iniziando la guerriglia urbana per conquistare ad essa gradualmente l’intero proletariato.
Il cammino concreto della rivoluzione proletaria riprende, nel nostro paese, proprio a partire da questa scelta coraggiosa, da questa scelta soggettiva d’avanguardia: iniziare la lotta armata costituendo così “i primi punti di aggregazione per la fondazione del partito armato del proletariato”, iniziare la lotta armata con l’obiettivo del partito rivoluzionario moderno. Ma il contributo pagato al revisionismo sotto il piano della solidità teorica di quelle scelte è stato elevato: nel tentativo di distinguersi dalle attività burocratiche e conciliatrici del partito comunista revisionista, depositario ufficiale “dell’ortodossia”, molti degli argomenti teorici propri della nostra organizzazione si sviluppavano fuori dal marxismo leninismo, il richiamo stesso al socialismo scientifico era equivoco, discontinuo, possibilista; il corrompimento teorico è stata la conclusione inevitabile di queste contrattazioni.
Si tratta ovviamente di problemi che sono comuni a tutte le esperienze d’avanguardia sviluppatesi nei paesi europei nel corso degli anni ’70. Da un punto di vista generale bisogna tenere presente che la dissoluzione della Terza Internazionale, la restaurazione del capitalismo in Urss, la diffamazione di Stalin operata da Krusciov al XX Congresso, l’imponente degenerazione revisionistica conosciuta dai “vecchi” PC sono alla base sia del disorientamento teorico e pratico creatosi negli anni ’60 nel movimento comunista internazionale sia delle approssimazioni delle leggerezze che hanno caratterizzato la sincera attività rivoluzionaria nei paesi imperialisti durante il corso degli anni ’70. Il marxismo leninismo veniva sovente accomunato agli esiti della rivoluzione in Urss e alle politiche degenerate dei partiti comunisti revisionisti, era spesso fatto oggetto di critiche che formulate con una leggerezza alle volte imperdonabile tendevano a metterne in discussione i caratteri di visione unitaria del mondo, di concezione scientifica e di classe del reale. I limiti delle guerriglie urbane comuniste europee, l’eclettismo che ha regnato sovrano un po’ dappertutto si comprendono in questo quadro generale che non annulla alcuna specificità nazionale o di organizzazione ma rende ragione di quelle dinamiche generali che influenzano in modo decisivo ogni fenomeno particolare. Se si vuole questi limiti rappresentano il costo storicamente necessario pagato dalla rivoluzione al revisionismo affinché si levasse una nuova coscienza dei compiti comunisti d’avanguardia nei paesi imperialisti.
Oggi nessun avanzamento è pensabile fuori da una riflessione generale sulla nostra esperienza. La sostanza di questa riflessione non può che portare al punto seguente: il significato storico della nostra esperienza è quello di aver messo in luce il risalto politico che la lotta armata assume, in quanto metodo di lotta fondamentale del partito rivoluzionario sin dalla situazione non rivoluzionaria. Il limite fondamentale della nostra esperienza consiste nell’eclettismo teorico che ha guidato l’attività. L’eclettismo sul piano dei principi ha consentito la sovrapposizione di schemi rivoluzionari propri dei paesi dipendenti nella situazione sociale di un paese imperialista; esso ha permesso improbabili commistioni tra marxismo leninismo e operaismo piccolo-borghese; esso ha determinato la sottovalutazione dell’attività educatrice e politica del partito marxista rivoluzionario ed ha messo la lotta armata al servizio della lotta economica e spontanea del proletariato; l’eclettismo teorico infine ha consentito che molti individui instabili e oscillanti entrassero nelle file della nostra Organizzazione pronti a rinnegare le proprie scelte alla prima soffiata di vento contrario.
La battaglia contro l’eclettismo teorico che ha implicazioni su tutto l’arco dell’attività rivoluzionaria, è la condizione fondamentale per poter dar luogo alla fondazione del Partito Comunista Combattente.

3. La situazione attuale nel movimento comunista internazionale ed alcune indicazioni generali per i marxisti leninisti conseguenti
Il potenziamento rivoluzionario esistente oggi nel mondo è significativamente testimoniato dallo sviluppo impetuoso della lotta di classe in ogni angolo del nostro pianeta. In molti paesi perdurano e si intensificano forti guerre popolari prolungate che impegnano apertamente l’imperialismo in una lotta senza quartiere e senza riserve; in molti altri le classi popolari subiscono il giogo di dittature fasciste e militari, la cui ferocia terroristica non impedisce l’esplosione di notevoli episodi di resistenza di massa e di lotta armata rivoluzionaria. La questione nazionale, sia come questione riferita al problema dell’ottenimento di una reale indipendenza dal neo-colonialismo, sia come questione di vera e propria lotta di liberazione nazionale, permane di bruciante attualità in svariate regioni del globo. Nei paesi del centro imperialista, grandi lotte operaie e proletarie caratterizzano il quadro attuale scontrandosi principalmente contro le politiche economiche e contro i preparativi di guerra delle classi al potere. Sebbene l’imperialismo usi tutti i suoi mezzi per nascondere agli occhi delle masse proletarie e popolari questa fondamentale verità, è cosa reale e indiscutibile che non esistono al mondo, oggi, zone socialmente pacificate e che la borghesia è vieppiù costretta a contrastare l’opposizione cosciente delle masse che opprime e che sfrutta. In più, la crisi economica attuale, che è una crisi generale del modo di produzione capitalista, produce una notevole accelerazione nello sviluppo delle contraddizioni in ogni parte del mondo e spinge le potenze imperialiste ad intensificare il riarmo ed i preparativi di guerra; si avvicinano sempre più chiaramente tempi in cui gli eventi sociali saranno messi in moto impetuosamente, determinando così grandi occasioni per la rivoluzione in ogni paese.
Di fronte a questa situazione, che è tanto difficile e complicata quanto densa di possibili svolgimenti positivi, il movimento rivoluzionario e progressista mondiale marcia disunito e privo anche soltanto di una certa conduzione; in particolare, il ruolo dei veri comunisti, dei marxisti leninisti conseguenti, risulta talvolta debole e secondario, laddove addirittura non ve n’è traccia e la direzione della lotta di classe e popolare è per lo più in mano a partiti revisionisti, nazionalisti, se non reazionari. Come è noto, il campo del marxismo leninismo è diviso, frammentato e separato al suo interno da mille polemiche e diatribe, qualcuna delle quali francamente sterili e infantili, e grande confusione deriva dal fatto che vi rivendicano un’internità organizzazioni e partiti apertamente revisionisti, così come piccole sette tanto sconosciute e ininfluenti nelle masse, quanto presuntuose nei confronti del mondo e di chi, pur tra molte difficoltà ed anche errori, si “sporca le mani” nell’impetuosa arena della lotta di classe.
A nostro parere, sullo stato di degrado e di debolezza in cui si trova il movimento comunista considerato nel suo complesso, hanno influito ed influiscono tutt’ora tre fattori di grande rilievo storico: l’assenza sulla scena mondiale attuale dei paesi socialisti, la degenerazione revisionistica dei partiti comunisti provenienti dal Komintern, l’assenza, che si prolunga ormai da tempo, di un’organizzazione comunista internazionale capace di dirigere e coordinare l’attività rivoluzionaria su scala mondiale. Questa situazione impone pertanto che si intensifichi e si rilanci effettivamente una coerente battaglia contro ogni sorta di revisionismo e di opportunismo, avanzando risolutamente verso l’obiettivo di una maggiore unità teorica, politica, organizzativa dei marxisti militanti di ogni paese.
Il blocco della transizione in Urss e la sua trasformazione da paese socialista a paese capitalista, pongono tutt’ora grandi problemi di comprensione teorica e parecchie difficoltà sul piano pratico ad ogni rivoluzionario conseguente. Non soltanto, infatti, si tratta di individuare la ragioni profonde della sconfitta subita nel ’56 dal proletariato in Urss, ma anche di tenere presente che l’Urss è una componente attiva ed importante nello scenario internazionale, ove costituisce il maggior avversario dell’imperialismo più potente ed aggressivo del mondo, quello Usa, e dove, a causa di complicate ragioni di ordine storico ed anche contingente, spesso appoggia ed aiuta materialmente grandi movimenti nazionali e popolari che si battono contro la dominazione del brigante occidentale, ossia contro la fonte oggi principale di reazione nel mondo. Questa situazione ingenera molte volte un certo disorientamento, ed anche sincere organizzazioni rivoluzionarie assumono atteggiamenti oscillanti talvolta, possibilisti, comunque non chiari mentre molti fanfaroni, sulla cui buona fede rivoluzionaria è lecito avanzare qualche riserva, si lanciano nella condanna degli imperialismi in generale, e di quello sovietico in particolare, equiparando così la realtà della dominazione imperialista. Una potenza imperialista di tipo particolare che porta in sé tutt’ora alcuni tratti dell’epoca socialista e che tende a giustificare le proprie azioni con una fraseologia marxista, ma pur sempre una potenza imperialista. Non tener conto di questo fatto, non valutare tutte le implicazioni che derivano da questo giudizio, significa porre una pesante ipoteca negativa sul destino della rivoluzione mondiale e, in particolare, significa sminuire i compiti e l’atteggiamento specifico dei comunisti di fronte ai preparativi di guerra oggi in atto nel mondo. Questo giudizio d’altro canto non ci impedisce di considerare la situazione mondiale concreta, di operare una valutazione sul grado di aggressività degli imperialismi e sulle particolarità delle loro politiche, e di riconoscere che la rivoluzione, se vuole avanzare in un mondo diviso in “blocchi” può e deve sfruttare le contraddizioni prodotte dal funzionamento del modo di produzione capitalista stesso. Come Lenin ha insegnato in teoria e in pratica, sono i principi che vanno tenuti fermi e rinsaldati, mentre la loro applicazione non può che essere viva, dinamica, concreta: nel medesimo momento, perciò, in cui riteniamo che vada condotta una battaglia ferma di principio a livello internazionale contro il revisionismo sovietico e la sua politica di potenza, diciamo anche molto chiaramente che è un opportunista di fatto colui che, per sbraitare contro tutti gli imperialismi, non assolve ad uno dei primi doveri di un vero comunista: quello di sfruttare tutte le contraddizioni che scaturiscono dalla dinamica generale dell’imperialismo per affrettare, far avanzare, e portare a compimento la rivoluzione mondiale.
La restaurazione del potere borghese dello Stato dei soviet è inestricabilmente legata ad un altro rilevante fattore storico che condiziona pesantemente la vita e l’attività del movimento comunista internazionale: la generale degenerazione revisionistica dei grandi PC formatisi sulla base della spinta potente della Rivoluzione d’Ottobre. Il danno prodotto da questa degenerazione è stato enorme sotto molteplici aspetti: la rivoluzione, come riferimento e finalità fondamentale dell’attività comunista, è stata completamente affossata; si è rinnegata la necessità dell’abbattimento violento dello Stato borghese e della dittatura del proletariato; la politica comunista si è via via identificata con il parlamentarismo e con il pacifismo; si è consumata una storica e nefasta scissione tra marxismo teorico, ridotto ad un’icona inoffensiva buona per essere studiata da individui borghesi quali sono i professori universitari, ed attività pratica dei partiti operai improntata al più bieco e reazionario pragmatismo. Il credo kroutcheeviano della “coesistenza pacifica” e delle “vie nazionali e pacifiche” al socialismo ha solo ratificato ufficialmente, dopo il ’56, il fattivo e sistematico collaborazionismo di classe praticato dai PC occidentali sin nell’immediato dopoguerra e l’inerzia fellona dei PC esistenti nei paesi coloniali di fronte ai compiti nazionali e democratici della loro rivoluzione. La gravità di questo processo si può apprezzare solo tenendo presente che a rinnegare il marxismo erano proprio quei partiti che si erano costituiti per assolvere fino in fondo i compiti rivoluzionari e che avevano svolto la loro attività durante il corso di molti e difficili anni, conquistandosi in diversi paesi un notevole seguito ed una notevole influenza tra le masse. Sebbene risulti di estrema importanza ricercare le origini del revisionismo dei PC sin dentro la storia del Komintern e in particolare, partendo da alcune interpretazioni opportuniste date della tattica dei “fronti popolari”, definita nel ’35 al settimo Congresso dell’Internazionale Comunista; così come risulta indispensabile considerare le basi sociali (aristocrazia operaia nei paesi imperialisti, piccola e media borghesia intellettuale nei paesi coloniali, prosperità relativa del capitalismo nel secondo dopoguerra,ecc…), è necessario sottolineare che il banco di prova per ogni bilancio storico, per quanto raffinato e puntiglioso possa essere, rimane la capacità pratica di scalzare le posizioni tutt’ora mantenute dei partiti revisionisti dentro le masse operaie e popolari, rompendo la situazione di subalternità attuale che conduce, al massimo alla riscoperta della lotta economica come terreno ideale per il rivoluzionarismo di maniera e conquistando coraggiosamente (come obiettivo tendenziale, naturalmente) la direzione politica dei grandi movimenti di massa in ogni paese.
La battaglia rivoluzionaria contro il revisionismo sovietico e contro le “vie nazionali e pacifiche al socialismo” dei vari Tito, Togliatti e Thores, ha inizio in modo aperto e coerente con Mao Tse Tung nei primi anni ’60. Nel corso dello svolgimento di questa battaglia, Mao ha fornito una prima valida interpretazione degli accadimenti in Unione Sovietica e soprattutto è pervenuto alla definizione della teoria della continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato ed ad un’analisi approfondita e scientifica del ruolo della contraddizione nell’epoca che divide il capitalismo dal comunismo. Questa visione dei problemi del socialismo oltre a rappresentare un insostituibile criterio di giudizio nella valutazione dell’esperienza sovietica è stata tradotta e verificata in pratica da Mao Tse Tung e dagli elementi rivoluzionari in seno al PC Cinese nel corso della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, che ha rappresentato un movimento rivoluzionario senza precedenti nella storia, in grado di rinforzare la dittatura del proletariato contro i tentativi di restaurazione capitalistica e di estendere e proseguire la rivoluzione socialista in tutti i campi della società. Oggigiorno, in seguito al colpo di stato reazionario effettuato nel ’76 in Cina, all’indomani della morte di Mao, non solo i revisionisti cinesi, ma anche alcuni partiti e singole “personalità” hanno iniziato, prima prudentemente ed in seguito con estrema virulenza, ad attaccare su tutta la linea il pensiero e l’opera di Mao, definendoli “estremistici” e non marxisti. All’ubriacatura “maoista” si è sostituito, in tutta fretta, un corri corri a prenderne le distanze ed a riscoprire l’Urss in quanto elemento “anticapitalistico”. Alcune di queste caratteristiche, apparentemente puntuali, si basano in realtà sulla presunta equivalenza tra il pensiero di questo grande dirigente rivoluzionario e le volgarizzazioni e i riduzionismi che ne sono stati fatti, specialmente in occidente, a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Quello che a nostro parere deve essere sommamente chiaro è che il contributo fornito da Mao sulla questione della rivoluzione e della guerra popolare prolungata nei paesi oppressi dall’imperialismo, quello fornito con gli scritti sulla dialettica materialistica e quello, già citato, sulla questione della continuazione della lotta di classe nel socialismo, rimangono approfondimenti fondamentali del marxismo leninismo e come tali oggetto di difesa e di sviluppo critico da parte del movimento comunista internazionale. Infatti, sulla base di quali posizioni è possibile avanzare scientificamente nella critica del revisionismo sovietico e delle sue varianti titoiste, togliattiane, ecc., se non su quella che scaturisce dall’opera di Mao e dalla sua verifica pratica nella rivoluzione culturale? Su quali basi è possibile difendere la memoria e l’operato del compagno Stalin, se non tenendo conto della battaglia durissima che Mao condusse contro i rinnegati della cricca kroutcheeviana, e contro la diffamazione da loro operata ai danni del grande dirigente bolscevico? E ancora, su quali basi è possibile, nei paesi oppressi dall’imperialismo, criticare in maniera militante l’inerzia dei PC revisionisti ed il velleitarismo del “fochismo” cubano se non appoggiandosi sugli insegnamenti della rivoluzione cinese, resi in forma scientifica da Mao? Per questi motivi, non si può combattere il revisionismo moderno senza considerare l’apporto decisivo del pensiero e dell’opera di Mao a questo proposito, e la difesa dell’eredità lasciataci da questo grande dirigente del proletariato, al di là di ogni “maoismo”chiacchierone e di maniera, costituisce una questione centrale per i veri marxisti leninisti.
Il movimento comunista è internazionalista per sua stessa natura. Marx e Engels concludevano il “Manifesto” con la celebre parola d’ordine “proletari di tutti i paesi unitevi” e Lenin, nel momento in cui si palesò con drammatica evidenza il fallimento della Seconda Internazionale, dedicò la massima energia alla costituzione dell’organizzazione internazionale dei veri comunisti, ricollegandosi idealmente all’attività svolta da Marx e Engels nella Associazione Internazionale dei Lavoratori. L’idea leninista di un “partito unico della rivoluzione mondiale” e la vasta e sistematica attività svolta dall’Internazionale Comunista tra il ’19 e il ’43 hanno influenzato in modo decisivo l’evoluzione della storia mondiale ed hanno contribuito a serrare nei ranghi dei partiti comunisti e sotto la teoria del socialismo scientifico gli operai avanzati e i sinceri progressisti di tutto il mondo. Solo tenendo presente l’importanza reale di cui si riveste un centro unico della rivoluzione mondiale, capace di operare in qualità di centro propulsore, di orientamento e di innalzamento del livello teorico politico e organizzativo dei partiti che vi aderiscono; solo tenendo conto di ciò è possibile apprezzare in tutta la sua vastità il ruolo storico svolto dal Komintern ed anche il peso negativo che deriva, per quanto concerne la situazione attuale, dall’assenza di un simile punto di riferimento.
Infatti lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e della società borghese, che sono alla base della formazione del proletariato in quanto classe mondiale, si sono storicamente intrecciati alla nazione come entità geografico politica elementare in cui si organizzano, nella società e nello Stato, le forze produttive, la divisione del lavoro ed il sistema di relazioni sociali interne.
Di conseguenza, anche la lotta di classe del proletariato conosce uno sviluppo diverso e specifico nelle varie nazioni, sia in riferimento al fatto che a gradi differenti di penetrazione del capitalismo in una data nazione corrisponde un peso sociale differente del proletariato nel novero generale delle classi, sia in riferimento al fatto che, come classe, esso si trova di fronte innanzitutto la questione della conquista del potere politico su scala nazionale. Ma, considerato ciò, si deve riconoscere che le barriere fra Stati accrescono le divisioni dentro il campo degli sfruttati, favorendo di fatto lo sciovinismo e con esso l’identificazione con i destini della propria borghesia e l’allentamento dei legami di solidarietà con i propri simili nel resto del mondo. Per questi motivi, i marxisti, che partono dal presupposto del proletariato come classe universale, si sono sempre adoperati, nella loro attività propagandistica, a mettere in rilievo gli interessi sovranazionali e, materialmente, hanno sempre tentato di raggrupparsi al di là e al di sopra delle frontiere, dando vita ad organizzazioni internazionali che traducevano sul piano della coscienza e dell’attività conseguente, l’oggettiva unità di interessi del proletariato su scala mondiale.
Attualmente, nel mondo l’idea internazionalista conosce una certa svalutazione ed il problema dell’unità, anche organizzativa, tra comunisti di ogni paese viene affrontata generalmente con malcelato disinteresse e, in qualche caso, addirittura come un falso problema. Naturalmente nessuno si sogna di negare l’importanza dell’internazionalismo e di una solidarietà fattiva con la lotta del proletariato internazionale e dei popoli oppressi dall’imperialismo, ma si preferisce rimanere nel generico, diluire la questione il più possibile: quel che si contesta, o meglio, quello di cui non si vuole parlare è che la questione dell’internazionalismo, per un marxista leninista non può essere lasciata al suo andamento spontaneo ma, al contrario, deve essere affrontata in modo consapevole ed organizzato, poiché il processo stesso della rivoluzione proletaria mondiale non può essere portato a compimento senza che l’attività cosciente dei comunisti sia calibrata a quel livello.
La sottovalutazione dell’elemento cosciente nelle questioni riguardanti l’internazionalismo, che è purtroppo una posizione estremamente diffusa negli ambienti rivoluzionari di tutto il mondo, ha però delle ragioni storiche precise che vanno individuate senza timore, se si vuole rilanciare la discussione militante su questi temi. Senza meno, bisogna partire dalla constatazione, anche banale, che fra noi e l’anno in cui il Komintern decise la propria autodissoluzione (’43), sono passati più di quarant’anni, durante i quali si sono determinati la restaurazione del capitalismo in Urss, la conseguente rottura del campo socialista con l’inizio della battaglia antirevisionistica di Mao, la completa degenerazione revisionistica dei PC e il colpo di stato reazionario in Cina, che ha, momentaneamente, affossato la rivoluzione in quel paese ed eliminato dalla scena mondiale la contraddizione paesi socialisti paesi capitalistici. Tutti questi avvenimenti hanno provocato ovviamente interminabili polemiche e profonde divisioni fra i comunisti, e qualcuno ha anche creduto, in perfetta malafede diciamo noi, che l’attività principale di un rivoluzionario dovesse essere quella di distruggere e rifondare ridicoli partitini ad ogni piè sospinto, più o meno nel medesimo modo di un bambino viziato che rompe i suoi giocattoli per poi reclamarne di nuovi. Si è creata così una situazione per la quale chi voleva veramente fare la rivoluzione era portato a disinteressarsi sostanzialmente di tali questioni ed a valutarle in modo pragmatico ed approssimativo; senza considerare poi che, se il primo dovere di un vero internazionalista è fare la rivoluzione nel proprio paese, le organizzazioni comuniste che hanno svolto un’attività reale nei propri paesi hanno reso un contributo internazionalista infinitamente superiore a quello che proviene dalle chiacchiere svolte in qualche stanza da sedicenti marxisti leninisti. Del resto, la direzione del PC cinese ed in primo luogo Mao, pur sostenendo il peso di una fondamentale e giusta battaglia antirevisionistica non si sono mai impegnati a fondo nel compito di ricostruire una vera e propria organizzazione internazionale comunista, avvalorando in questo modo l’idea che il Komintern peccava di eccessiva centralizzazione e di conseguenza, che il problema dell’unità politica e organizzativa dei comunisti su scala internazionale non fosse allora un compito urgente e inderogabile per i veri marxisti. Va poi considerato che tutta l’esperienza della Internazionale Comunista si era sviluppata in stretta relazione con la storia socialista dell’Urss, e che lo Stato dei soviet era realmente la base d’appoggio della rivoluzione mondiale, costituendo l’esistenza di un paese socialista un potentissimo fattore propulsivo per la lotta di classe proletaria in ogni parte del mondo: la restaurazione del capitalismo prima in Russia e poi in Cina ha eliminato queste basi di appoggio che sebbene non indispensabili in linea di principio, storicamente avevano svolto un ruolo fondamentale nel favorire l’innalzamento dell’unità politica organizzata dei comunisti a livello internazionale. Tutto ciò, considerato nelle sue implicazioni storiche e unito a moltissimi altri fattori che, comunque appaiono di secondaria importanza, ha determinato nel corso degli anni una situazione estremamente complicata e difficile sulla quale molti si sono adagiati e nella quale la dispersione di energie è la caratteristica dominante.
Attualmente, proporsi e proporre d’invertire questa tendenza negativa, stabilendo con precisione l’unico, vero, obiettivo politico valido in linea di principio: l’unità politica ed organizzativa dei comunisti su scala internazionale, l’Internazionale Comunista, non vuol dire, come molti pensano anche con una certa legittimità, fare del velleitarismo gruppettaro, o riscoprire l’emmellismo tardivamente; porre alto l’obiettivo irrinunciabile della fondazione della nuova Internazionale Comunista, vuol dire concretamente e allo stato attuale, adoperarsi affinché il confronto tra marxisti leninisti conseguenti si sviluppi in modo non episodico, lavorare per stabilire livelli di unità superiore tra organizzazioni e PC di ogni paese, rendere pubblico e ufficiale, nel limite del possibile e nel rispetto delle varie esigenze, ogni risultante di simile lavoro.
Si deve chiarire che, a nostro parere, da questo processo sono posti fuori in modo categorico e irrevocabile tutti quei gruppetti “marxisti leninisti” che fanno del loro dogmatismo l’alibi migliore per la loro inattività. Così come va combattuta un’intensa battaglia politica contro tutte quelle forze che (sul genere di Action Directe, Raf, e simili), pur lottando con le armi contro le proprie borghesie non riconoscono la guida del marxismo leninismo per la propria azione. Come ultima precisazione, c’è da dire che lo sviluppo del confronto fra comunisti non impedisce e non può impedire legami di solidarietà e di sostegno militante con tutti i movimenti che lottano contro l’imperialismo in modo coerente e nemmeno annulla il problema di alleanze tattiche, qualora se ne ravvisi la necessità, con nazioni e paesi che svolgono un ruolo progressista sulla scena mondiale.
Il lavoro che porterà alla fondazione di una nuova Internazionale Comunista sarà perciò lavoro di anni, ma bisogna dire chiaramente che l’Internazionale Comunista non sorgerà spontaneamente e che l’argomento “realista”, che apparentemente è un argomento di grande legittimità, è in realtà una lampante concessione allo spontaneismo, gravida di conseguenze negative sui destini della rivoluzione proletaria mondiale.
Tra l’altro, alla base di una gran parte delle approssimazioni teoriche che hanno caratterizzato la nostra storia d’Organizzazione, vi è proprio l’assenza di un punto di riferimento simile a quanto sopra. La lotta armata per il comunismo nel nostro paese, così come in altri paesi imperialisti e persino in alcuni paesi dipendenti, non trova e non cerca schemi teorici precostituiti, e nemmeno un ambito di confronto internazionale nel quale porre al vaglio della critica sovranazionale i propri presupposti di fondo. Questo fatto, che, come abbiamo già avuto modo di chiarire altrove, non è imputabile a nessun gruppo in particolare, ma rappresenta la condizione storica concreta nella quale è rinata l’attività rivoluzionaria in determinati paesi, ha senz’altro influito determinando, per così dire, una “provincializzazione” esasperata delle organizzazioni che praticavano determinate strategie. Oggi il problema, naturalmente, non è quello di fare “più azioni internazionalistiche”, il che significherebbe dire che la Raf aveva ragione fin dal ’70, ma esattamente quello di considerare le implicazioni internazionali di ogni rivoluzione, di valutare la comune sostanza di fondo di certi processi sociali, di perdere insomma, un po’ di boria da presunti “originali” della rivoluzione mondiale.
L’impegno costante in campo internazionale, sia sul terreno della battaglia antirevisionista che su quella del confronto fra organizzazioni comuniste, con l’obiettivo di principio dell’Internazionale Comunista, contribuirà in modo decisivo all’innalzamento del livello politico generale della nostra Organizzazione e dovrà rimanere una delle costanti fondamentali della nostra attività.

4. Conclusioni e tesi
Proponiamo qui di seguito una serie di tesi, necessariamente essenziali nella loro formulazione, sulla base delle quali riteniamo possibile imprimere una netta svolta all’attività generale dell’Organizzazione. Non si ha qui la pretesa di porre le basi teoriche del Partito Comunista Combattente, compito di cui comunque sono state investite le Br, ma piuttosto si tenta di delineare un indirizzo politico, il più possibile preciso e coerente, che metta l’Organizzazione in condizione di formulare al più presto una vera e propria linea politica su cui basare la propria attività.
La fine della “ritirata strategica”, identificata giustamente da molti compagni con il momento in cui le Br avranno una linea politica capace di far muovere l’Organizzazione con “una sola volontà”, non è certo una chimera; ma qui bisogna rimarcare che l’entità dell’autocritica dipende dalle proporzioni della sconfitta e, in un certo senso, la tortuosità del processo riflessivo sviluppatosi all’interno delle Br, in attività e prigioniere, all’indomani di quel gennaio ’82 è una testimonianza in più delle molte “anime” che continuano a convivere nella nostra formazione politica, che, attaccata da ogni parte, rimane anzitutto depositaria di un enorme patrimonio storico politico che influenza, in tutta la sua contraddittorietà, la situazione presente nel bene e nel male.
A nostro avviso, e lo abbiamo ripetuto più volte, si tratta di sconfiggere l’eclettismo, si tratta di far uscire dalla tana quel tipico modo di ragionare, estremamente sfuggente, che permette di dire una cosa e il contrario di essa nel medesimo momento e senza alcuna vergogna. Ma ciò non basta, bisogna trovare le radici di questa impostazione teorico-pratica e bisogna trovarle sul serio, perché solo così l’Organizzazione potrà veramente fare quel passo in avanti che le consentirà di potersi proporre come nucleo fondante del partito rivoluzionario nel nostro paese. Come abbiamo cercato di mettere in luce in precedenza, ci pare che questo eclettismo trovi la sua ragione di fondo nel tentativo, portato avanti anche con un certo “eroismo”, di far quadrare il marxismo leninismo con la concezione gradualistica e progressiva della lotta armata per il comunismo, tentativo che caratterizza tutta la storia delle Br e che ha trovato il suo momento culminante in “L’ape e il comunista”.
Da questo punto di vista, regolare i conti con il passato significa anche assumere definitiva consapevolezza di quella contraddizione teoria-prassi, ideologismo-prassi, che sempre svolge un ruolo nell’attività dei partiti, i quali, se ci è consentita una terminologia colorata, “fanno pratica sul serio”. La pratica infatti non permette sempre e soltanto una verifica immediata delle proprie convinzioni teoriche; spesso il concreto e immediato (sebbene, a rigore, l’immediato propriamente detto non esista da nessuna parte) avvalora posizioni sbagliate, addirittura le rafforza nella lotta alle posizioni giuste (se esistono). In ogni caso arriva il momento in cui la realtà oggettiva, e le leggi che ne regolano l’esistenza (in questo caso tipicamente sociale), fanno valere i loro diritti. Allora si misura la sincerità di un materialista: se farà di tutto per far quadrare la sua interpretazione delle cose con la realtà che gli grida contro da tutte le parti, non è un materialista e, probabilmente lo diverrà a grande fatica; se si adopera, a partire da un atteggiamento scientifico, ad esaminare i dati di fatto per estrapolarne gli insegnamenti validi in generale, allora è sul terreno del materialismo dialettico.
La nostra organizzazione si trova più o meno in un simile, cruciale, momento. Il modo con cui ne uscirà sarà determinante per il suo futuro.
1. Nell’epoca dell’imperialismo, la forma che storicamente assume il processo generale della rivoluzione proletaria mondiale è quella di una rivoluzione ininterrotta e per tappe. Come Lenin ha infatti dimostrato, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico determina nel mondo una divisione di sostanza tra un piccolo numero di paesi imperialisti, ove il capitalismo è particolarmente avanzato, ed un grande numero di nazioni oppresse che l’imperialismo saccheggia, obbligandole all’arretratezza e alla dipendenza economica e sociale. Dal punto di vista della rivoluzione, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico, oltre ad essere alla base della possibilità di far trionfare la rivoluzione inizialmente in uno o più paesi per volta determina in modo preciso ed oggettivo la natura della tappa della rivoluzione per ciascuna nazione e l’insieme delle classi o frazioni di classi interessate al raggiungimento della tappa medesima. Al giorno d’oggi, dunque, la rivoluzione proletaria mondiale è composta, per l’essenziale, da due grandi correnti che rappresentano, allo stesso tempo, due grandi tappe storico-sociali: la rivoluzione socialista proletaria, il cui soggetto storico è il proletariato nei paesi imperialisti, e la rivoluzione di nuova democrazia – o di liberazione nazionale -, il cui soggetto storico sono le classi popolari oppresse dall’imperialismo nei paesi oppressi e coloniali. Tre fondamentali contraddizioni influiscono oggi in modo decisivo sulla situazione mondiale e, di conseguenza, sul processo generale di sviluppo della rivoluzione socialista proletaria e di quella di nuova democrazia: la contraddizione tra proletariato e borghesia, che si esprime in forma storicamente compiuta nei paesi imperialisti e, in forma meno sviluppata e conforme al grado di penetrazione economica del capitalismo, nel resto del mondo; la contraddizione tra imperialismo e popoli e nazioni oppresse; la contraddizione tra potenze imperialiste.
2. L’Italia è un paese imperialista e le principali classi in cui si divide la nostra società sono la borghesia e il proletariato; la dittatura della classe borghese su quella proletaria prende la forma di democrazia parlamentare, basata sul suffragio universale. La natura della tappa della nostra rivoluzione è quindi quella della rivoluzione socialista proletaria ed il suo soggetto storico è il solo proletariato. Intanto esso, e il suo partito rivoluzionario, non possono contrarre alleanze con altre classi o frazioni di classe, in quanto sono tenuti a sfruttare ogni occasione per stabilire una reale egemonia della classe proletaria su frazioni di classe o gruppi sociali oscillanti ed instabili. La conquista del potere e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie rappresentano le condizioni storicamente necessarie per instaurare la dittatura rivoluzionaria del proletariato su tutte le altre classi sociali e per organizzare la società socialista.
3. La conquista del potere politico e l’abbattimento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie non possono darsi che tramite una rivoluzione violenta; questo principio è confermato da tutto lo sviluppo del militarismo capitalista e, in particolare, dal consolidamento progressivo dello Stato borghese nelle sue determinazioni fondamentali: esercito (inteso come esercito interno ed esterno) e burocrazia. La lotta di classe tende necessariamente a trasformarsi in guerra civile. Il partito rivoluzionario deve tener conto di questo fatto e trarne tutte le implicazioni pratiche sul piano della sua attività. Posto che la rivoluzione non può che essere violenta ne consegue che la situazione rivoluzionaria tende a determinare la guerra civile; la guerra civile può caratterizzarsi come guerra rivoluzionaria se esistono e sono accettate dalle masse oppresse delle idee, o tesi, rivoluzionarie. Per guerra rivoluzionaria intendiamo la situazione sociale in cui l’elemento militare dello scontro di classe è predominante sugli altri; naturalmente, anche nella situazione di guerra rivoluzionaria gli eventi sono determinati dalla situazione esistente tra proletariato e borghesia: la nostra società è divisa in classi, ogni fenomeno perciò ha un preciso carattere di classe. Rifiutiamo categoricamente ogni altra interpretazione del concetto di guerra rivoluzionaria: la guerra rivoluzionaria, per essere tale deve appoggiarsi sulle masse, deve coinvolgere sul terreno dello scontro militare le masse. Quando ciò non è possibile, non si può parlare di guerra rivoluzionaria; parlarne significa: a) non considerare che le modificazioni qualitative dello scontro sociale si definiscono in base alla attività generale delle masse; b) sposare, per forza di cose, una concezione soggettivistica del reale e del suo movimento. Il marxismo impone di prendere posizione sulla questione della guerra rivoluzionaria e chi non prende posizione a questo proposito si schiera di fatto con i possibilismi propri del soggettivismo.
4. In un paese imperialista le condizioni materiali della rivoluzione, le condizioni materiali per lo scatenamento della guerra rivoluzionaria, non si presentano tutti i giorni. Il grado relativo di benessere economico e sociale di cui partecipano anche le masse (e che è possibile sulla base dell’alto sviluppo delle forze produttive del lavoro e dello sfruttamento a cui sono sottoposte le nazioni oppresse dall’imperialismo) e l’elevato livello di libertà politiche e individuali concesso dalla democrazia parlamentare, consentono alla borghesia di occultare agli occhi delle masse il contenuto classista della società e di assorbire con una certa facilità le spinte tendenti alla trasformazione sociale; in questo contesto, il revisionismo, – che ha come base sociale proprio quegli strati operai corrotti dalle briciole che l’imperialismo può elargirgli – svolge un ruolo fondamentale rappresentando esattamente la politica borghese del movimento operaio. In linea di massima, in un paese imperialista è possibile definire rivoluzionaria una determinata situazione politico-sociale qualora coesistano le seguenti condizioni soggettive e oggettive: a) una gravissima crisi di dominio politico della borghesia, sia nel senso di indebolimento della sua compagine e di una delegittimazione del suo potere agli occhi delle masse, sia nel senso di un indebolimento dei suoi legami internazionali; b) un notevole e sostanziale peggioramento delle condizioni di vita delle masse, tale da provocare una generale aspettativa e disponibilità verso grossi mutamenti sociali; c) una considerevole, cosciente e organizzata mobilitazione di masse proletarie; d) la presenza di un deciso partito rivoluzionario, capace di influenzare e orientare in modo corretto e preciso le masse medesime. Le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria in un paese imperialista si presentano, come si capisce, in situazioni del tutto eccezionali, e lo studio concreto della storia ci insegna che esse si presentano in genere nel periodo che precede, che interessa o che segue una guerra diretta tra potenze imperialiste, e con particolare forza nei paesi che subiscono in modo accentuato le conseguenze della guerra stessa (paesi sconfitti, paesi occupati, paesi impreparati socialmente al conflitto bellico). Questa posizione, che è l’unica posizione veramente scientifica e materialistica sulla questione della situazione rivoluzionaria, conduce a stabilire che la forma che assume la guerra rivoluzionaria nel nostro paese è tendenzialmente quella di un’insurrezione armata di massa contro il potere centralizzato dello Stato borghese.
5. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario, fondato sulla teoria del socialismo scientifico, è la conquista del potere politico e l’abbattimento violento dello Stato borghese da parte delle masse proletarie. L’obiettivo immediato del partito marxista rivoluzionario è perciò, in termini concreti, l’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese. Le masse proletarie, attraverso il loro movimento spontaneo, non sono in grado di elevarsi alla coscienza dell’irriducibile antagonismo che esiste tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo: questa coscienza può essere portata loro solo dall’esterno e solo il partito marxista rivoluzionario può assolvere tale compito. Va chiarito che non esiste alcun potere reale delle masse all’interno della società capitalistica e che l’unico, vero, potere in mano al proletariato è la sua coscienza rivoluzionaria. Il compito principale del Partito Comunista quindi, è e rimane quello di aumentare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse; tale fondamentale compito deve essere assolto attraverso lo svolgimento di una coerente lotta politica comunista, cioè attraverso un’attività che si ponga come obiettivo centrale quello di rappresentare il proletariato non nei suoi rapporti con un determinato gruppo di imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea e, principalmente, nei suoi rapporti con lo Stato borghese. Questa attività, che permette al partito di elevarsi al di sopra della lotta economica del proletariato e di contrapporsi alla politica borghese del movimento operaio (la lotta politica tradeunionista), consiste perciò, per così dire, in una “preparazione quotidiana dell’insurrezione”. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese è un enorme fatto sociale da organizzare giorno per giorno, a cui educare costantemente le masse, le cui condizioni militari vanno coscientemente organizzate e preparate. L’insurrezione armata delle masse proletarie contro lo Stato borghese non è, finalmente, una perfetta azione militare che corona un lungo periodo di agitazione politica legale; ma, al contrario, il momento tattico decisivo in cui l’azione politica militare del partito rivoluzionario si incontra con la disponibilità cosciente delle masse alla rivoluzione.
6. L’esperienza pratica degli ultimi 15 anni nel nostro paese ci insegna che il metodo decisivo della lotta politica comunista del partito del proletariato è la lotta armata. Essa consente di interpretare in modo eccezionalmente chiaro gli interessi generali del proletariato nei confronti dello Stato; essa permette di considerare in modo dialettico, non metafisico, il limite che esiste tra il periodo in cui il compito fondamentale del partito è quello di guidare politicamente le masse e il periodo in cui si pone il problema di guidarle anche militarmente contro lo Stato. Facendo uso delle armi, il partito comunista non può che essere partito combattente, quindi clandestino. Ogni suo militante, in quanto quadro del Partito Comunista Combattente, deve essere disposto al combattimento e verificato, nei limiti delle esigenze del partito, su questo terreno. Il Partito Comunista Combattente deve trarre tutte le conseguenze dal suo essere partito combattente e clandestino, nello svolgimento della sua attività complessiva, sia nei confronti dello Stato e della società borghese, sia nei confronti delle masse proletarie. La lotta armata è il metodo di lotta decisivo e fondamentale della politica rivoluzionaria del partito marxista: mentre in una situazione di guerra civile tra le classi il combattimento risponde in modo diretto alla fondamentale legge della guerra: distruzione delle forze nemiche e conservazione delle proprie, nel lungo periodo che precede la situazione rivoluzionaria il combattimento è un formidabile strumento politico capace di ingenerare coscienza ed organizzazione rivoluzionaria nelle masse, nella misura in cui è riferito espressamente alle grandi questioni politiche al centro della vita del paese, rappresentando coerentemente gli interessi generali del proletariato. L’iniziativa combattente non è (nella situazione non rivoluzionaria) un “atto di guerra”, ma un fondamentale atto politico che, esprimendosi mediante l’uso delle armi, ha ovviamente conseguenze particolari di cui il partito deve tener conto con estrema responsabilità, ma anche appoggiandosi sulla più ferma decisione. Pur considerando il termine “strategia” sotto il significato di “visione generale che il partito ha del processo rivoluzionario e di come pervenire alla conquista del potere politico”, la lotta armata non è una strategia: essa è il metodo di lotta decisivo della politica rivoluzionaria del partito marxista anche nella situazione non rivoluzionaria.
7. Il partito comunista, per poter giungere alla rivoluzione, deve conquistare un’influenza predominante nelle masse proletarie, condizione per poterle guidare effettivamente alla conquista del potere politico e all’abbattimento dello Stato borghese. La questione della conquista della direzione politica dei movimenti di massa è, da questo punto di vista, decisivo. Si deve chiarire che, nei paesi imperialisti la conquista della direzione politica dei movimenti di massa da parte del partito rivoluzionario è ostacolata dalla grande influenza che il revisionismo e l’ideologia borghese esercitano sulla classe proletaria, corrompendo una parte numerosa di essa alla lotta pacifica, al conciliatorismo e al tradeunionismo. Il partito rivoluzionario, pur tenendo conto di questi fatti, non può e non deve cadere nel “codismo”, nell’economicismo, recedendo così dal suo ruolo essenziale: quello di essere portatore della proposta della rivoluzione, del mutamento generale di tutto l’ordinamento sociale esistente. D’altro canto, il partito, per poter sviluppare la sua attività rivoluzionaria, per poter aumentare e innalzare la coscienza e l’organizzazione rivoluzionaria delle masse, deve possedere un’adeguata linea di massa. La linea di massa del Partito Comunista Combattente non può essere, come si è detto, la lotta armata. La linea di massa del Partito Comunista Combattente deve essere fondata essenzialmente sul programma politico (minimo) che il partito lancia alle masse e che è sostenuto in primo luogo tramite il combattimento. Il programma politico del Partito Comunista Combattente deve essere composto da parole d’ordine valide per tutto il proletariato e la sua funzione principale è quella di essere una leva per lo sviluppo dell’agitazione, della propaganda e dell’organizzazione rivoluzionaria.
Nei paesi imperialisti, il Partito Comunista Combattente è più che mai il reparto d’avanguardia del proletariato. Ogni sottovalutazione del ruolo cosciente del partito, ogni concessione allo spontaneismo risulta estremamente nociva alla causa del proletariato rivoluzionario e rischia di trasformare la sua avanguardia in una sorta di “braccio armato” del movimento di massa o, al contrario, presupponendo una coscienza di massa più elevata del reale, in una formazione politica avventuristica.
8. Per poter impostare la sua politica in modo maturo, per poter svolgere fino in fondo il suo compito di “educatore rivoluzionario” delle masse, il Partito Comunista Combattente deve dotarsi di un giornale politico, da diffondersi clandestinamente e su scala nazionale. Il giornale politico del Partito Comunista Combattente è uno strumento fondamentale della sua attività complessiva. Esso è anche uno strumento intimamente “antigradualista” e “antitentacolare”, perché è di per sé (naturalmente con il presupposto della lotta armata) una voce rivoluzionaria precisa ed autorevole, capace di orientare praticamente le masse e di prendere parola sulle principali questioni politiche e sociali del paese: esso, quindi, supplisce alle difficoltà che una organizzazione clandestina incontra nella propaganda e stabilisce un rapporto preciso e generale tra partito e masse.
9. Il Partito Comunista Combattente propone di volta in volta un programma politico (minimo) alle masse, composto di parole d’ordine, che sono desunte dallo scontro reale che vive in un determinato momento nel paese, si esprime, nell’attività generale delle masse, in forma pubblica ed aperta. Là dove è possibile, risulta doveroso dotarsi di “cinghie di trasmissione”, dirette da nostri militanti legali, capaci di diffondere e sostenere le parole d’ordine di massa lanciate dal partito e, non certo di creare un “sindacalismo di sinistra”, un “nuovo movimento operaio” o cretinerie simili.

Fonte: PROGETTO MEMORIA, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Un pensiero su “Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Seconda posizione del settembre 1984”

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