Scheda storica

La ricostruzione delle forze

Dai primi anni Ottanta le Brigate rosse iniziano a essere smembrate dagli arresti e dalle divisioni interne. L’uso sistematico da parte dello Stato della tortura nei confronti dei fermati, le leggi premiali per pentiti e dissociati, le varie proposte elaborate da gruppi di detenuti per una soluzione politica di un conflitto soggettivamente dichiarato concluso, favoriscono la rottura della solidarietà all’interno delle carceri. Numerosi prigionieri, insieme ad alcuni militanti in libertà, non ritengono però conclusa l’esperienza, e intendono raccogliere il testimone per proseguire la «guerra rivoluzionaria» in continuità con la teoria e la prassi dell’organizzazione. Una generazione successiva a quella delle Brigate rosse «storiche» inizia così un percorso di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario volto a superare la fase di ritirata strategica annunciata dalle Brigate rosse nel 1982. Un percorso basato sulla prassi e non su un atto di fondazione a priori. Ricostruire un’organizzazione comunista combattente che agisca da partito per costruire il Partito, è uno degli slogan dei gruppi che fanno riferimento alla Prima posizione. Un Partito comunista combattente che trasformi lo scontro, nell’unità del politico e del militare, in un processo di guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere attraverso la strategia della lotta armata.

All’inizio degli anni Novanta i militanti che si propongono di proseguire l’esperienza delle Brigate rosse individuano come nodo politico centrale su cui rilanciare l’offensiva rivoluzionaria il patto neocorporativo fra le parti sociali, in cui partiti e sindacati della sinistra storica hanno assunto un ruolo fondamentale nella progressiva eliminazione delle garanzie dei lavoratori. Nell’ottobre 1992, in un periodo in cui la protesta operaia è forte, e la contestazione ai vertici sindacali molto dura, i Nuclei comunisti combattenti (Ncc), nati nell’ambito della Prima posizione, firmano il volantino di rivendicazione di una fallita azione contro la sede della Confindustria di Roma. Attaccare il patto governo-Confindustria-sindacato. Portare l’attacco al cuore dello Stato. Onore a tutti i militanti caduti combattendo. Il 31 luglio è stato firmato il Patto per il lavoro, che abolisce definitivamente la scala mobile e pone le basi per la riforma della contrattazione collettiva, aprendo la strada al più organico Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo del luglio 1993, che ratifica il metodo della concertazione.

Nel gennaio 1994 i Ncc effettuano, sempre a Roma, un’azione contro il Nato Defence College, in occasione del Vertice Nato di Bruxelles che elabora una strategia militare aggressiva e di espansione imperialista verso est, negli spazi lasciati liberi dallo scioglimento del Patto di Varsavia. Qualche mese prima, nel settembre 1993, era stata compiuta un’azione contro il muro di cinta della base dell’Aeronautica militare americana ad Aviano, rivendicata con la sigla Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente, seguita da vari arresti. Negli anni successivi qualche azione minore, firmata dal Nucleo di iniziativa proletaria (Nipr) o dal Nucleo proletario rivoluzionario (Npr), è riconducibile agli stessi militanti dei Ncc, che usano sigle diverse a seconda del livello politico-militare delle operazioni. A piccoli altri gruppi, come i Nuclei armati per il comunismo (Nac), sono invece attribuibili incendi e ordigni artigianali. Per alcuni anni in Veneto e in Friuli una serie di azioni minori sono siglate dai Nuclei territoriali antimperialisti (Nta), risultati poi essere il bluff di un pubblicista mitomane. La rabbia nei confronti del ruolo che i sindacati svolgono nella ristrutturazione del mercato del lavoro si esprime anche con microazioni illegali diffuse. Tra il luglio 2002 e il maggio 2003 vengono denunciati 43 danneggiamenti a sedi sindacali e 12 piccoli attentati dinamitardi o incendiari. La Cisl è il sindacato più colpito.

La Brigate rosse tornano sulla scena politica

Nei primi mesi del 1999 il governo di centrosinistra guidato da Massimo D’Alema è militarmente impegnato nella guerra dei Balcani, un’aggressione della Nato contro la Serbia presentata come «intervento umanitario», mirante in realtà a smembrare la Jugoslavia e assoggettarla agli interessi imperialisti. Il quadro politico interno è invece dominato dalla questione capitale-lavoro, con un progressivo attacco alle conquiste ottenute dai lavoratori nei decenni precedenti con dure lotte, volto a spezzare ogni forma di rigidità operaia aumentando la flessibilità e la precarietà del lavoro, in una politica neocorporativa di concertazione che mira a governare le contraddizioni sociali con la partecipazione attiva dei sindacati storici della classe operaia.

In questa situazione di diffuso malcontento popolare, la mattina del 20 maggio le Brigate rosse irrompono di nuovo sulla scena politica uccidendo a Roma, sulla via Salaria, Massimo D’Antona. Avvocato, docente di diritto del lavoro, è un nome poco conosciuto al grande pubblico ma ha svolto un ruolo di primo piano nella regolamentazione del diritto di sciopero e nella ristrutturazione del mercato del lavoro durante i governi guidati da Lamberto Dini, Romano Prodi e Massimo D’Alema. Si legge nella rivendicazione: Le Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente hanno colpito Massimo D’Antona, consigliere legislativo del Ministro del Lavoro Bassolino e rappresentante dell’Esecutivo al tavolo permanente del Patto per l’occupazione e lo sviluppo. Con questa offensiva le Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente riprendono l’iniziativa combattente, intervenendo nei nodi centrali dello scontro per lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, portando l’attacco al progetto politico neo-corporativo del Patto per l’occupazione e lo sviluppo, quale aspetto centrale nella contraddizione classe/Stato, perno su cui l’equilibrio politico dominante intende procedere nell’attuazione di un processo di complessiva ristrutturazione e riforma economico-sociale, di riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo.

Massimo D’Antona è definito esponente di spicco dell’equilibrio politico dominante e del progetto affermatosi come centrale nel corrispondere agli interessi di governo dell’economia e del conflitto di classe della Borghesia Imperialista, ha costituito cerniera politico-operativa del rapporto tra esecutivo e sindacato confederale, un formulatore ed interprete della funzione politica del «Patto Sociale» e della sede neocorporativa in dialettica con i caratteri storici della democrazia rappresentativa in Italia, e del ruolo antiproletario e controrivoluzionario della corresponsabilizzazione delle parti sociali e innanzitutto del sindacato, nelle decisioni sulle materie di politica economica.

Le Brigate rosse si riferiscono all’Accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione (il Patto di Natale), firmato nel dicembre 1998, l’ultimo grande provvedimento del periodo della concertazione, che riprende i contenuti del Patto del 1993 fra governo, Confindustria e sindacati e rappresenta un attacco, condotto da un governo di centrosinistra, alle condizioni della classe operaia e dei lavoratori. Massimo D’Antona aveva avuto un ruolo essenziale sia nella definizione del Patto sia nel comitato incaricato di attuarlo, adeguando la legislazione italiana alle direttive europee del programma di Maastricht.

Alcuni prigionieri rivendicano l’uccisione, «scomunicata» invece dai detenuti che hanno fatto proprie le varie proposte di soluzione politica. I media parlano di «nuove» Brigate rosse, a sancire una rottura con il passato, mentre gli autori dell’azione, ovvero i militanti dei Ncc, ritengono, per la valenza politica che essa assume nello scontro generale tra le classi, di poter svolgere un ruolo d’avanguardia in continuità oggettiva con la proposta delle BrPcc ed assumersi perciò la responsabilità politica di prenderne la denominazione.

Pur considerando come dimensione politica principale della lotta di classe quella della rivoluzione nel proprio paese, nel documento viene confermata la centralità del Fronte Antimperialista Combattente per la costruzione di alleanze politiche che operino all’indebolimento dell’imperialismo nella nostra area, per lo sviluppo di un processo che costruisca una prospettiva di potere. La diffusa opposizione nei confronti della partecipazione italiana ai bombardamenti nel Kosovo, allora in corso, porta in quel periodo a numerose manifestazioni contro la guerra, ma anche ad alcune iniziative emulative, con la comparsa di stelle a cinque punte sui muri di varie città.

Le indagini a vuoto e l’uccisione di Marco Biagi

Dopo l’omicidio D’Antona gli inquirenti brancolano nel buio. Perquisizioni, pedinamenti, intercettazioni telefoniche e ambientali non danno alcun risultato significativo. Nel maggio 2000, partendo dalla testimonianza di un tredicenne, viene arrestato un giovane che lavora in una cooperativa legata alla Fiom e ha frequentato un centro sociale romano. Lo si accusa di essere il «telefonista» delle Br-pcc. La sua posizione sarà archiviata dopo un anno di detenzione.

All’inizio del 2002 non ci sono certezze investigative. Per il 23 marzo la Cgil ha indetto a Roma una manifestazione in difesa dei diritti pesantemente attaccati dal governo Berlusconi e dalla Confindustria, in particolare dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, strumento di tutela in caso di licenziamento ingiustificato (sarà modificato nel 2012 con la Riforma Fornero). Tre milioni di persone scendono in piazza. Pochi giorni prima del grande appuntamento sindacale, la sera del 19 marzo, le Brigate rosse tornano a colpire a Bologna, uccidendo Marco Biagi, esperto giuslavorista e delle relazioni industriali, rappresentante delle istanze della Confindustria, consulente del Ministro del Lavoro Maroni e collaboratore dei governi degli anni Novanta in tema di lavoro e relazioni industriali, anche a livello internazionale. Nel lungo documento di rivendicazione, Biagi viene definito ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato, e di ridefinizione tanto delle relazioni neocorporative tra Esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, quanto della funzione della negoziazione neocorporativa in rapporto al nuovo modello di democrazia rappresentativa.

Si ricorda in particolare il suo ruolo, nel 1996 con il governo Prodi, nell’elaborazione del Pacchetto Treu, base dell’accordo neocorporativo tra Governo, Confindustria e Sindacato confederale con cui fu fatto il salto di qualità nelle varie forme di precarizzazione del lavoro salariato e la sua responsabilità nel Patto di Milano, anticipazione del modello di mercato del lavoro e sociale che avrebbe voluto oggi generalizzare e con cui si è tentato di ritagliare il prezzo e le condizioni di impiego della forza-lavoro sulla base della ricattabilità di condizioni sociali di dipendenza particolarmente svantaggiate.

Durante il governo Berlusconi Marco Biagi ha un ruolo di primo piano nell’elaborazione del Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia ed è promotore di un progetto di Statuto dei lavori, in sostituzione dello Statuto dei lavoratori, che prefigura un nuovo sistema di relazioni sociali e un mercato del lavoro composto da giovani «flessibili» e precari, non conflittuali, adattabili alle esigenze del capitale.

In sintesi: Con questa azione combattente le Brigate rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana per la quale l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo, il neocorporativismo, l’alternanza tra coalizioni di governo incentrate sugli interessi della borghesia imperialista e il «federalismo» costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista.

Pochi giorni dopo, dalle gabbie di un processo in corso a Roma alcuni brigatisti rivendicano l’azione. Sulla stampa vengono rese note varie comunicazioni che dal 2001 il professor Biagi aveva indirizzato a personalità del mondo politico ed economico chiedendo che gli fosse ripristinata la scorta, per essere stato «l’estensore tecnico del Patto per il lavoro di Milano» e collaboratore di governo e Confindustria, per «una strategia di flessibilità sul lavoro». Nel 2003 le indicazioni di Biagi furono formalizzate nella Delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro, nota come Legge Biagi, varata dal secondo esecutivo Berlusconi. Una legge, duramente criticata anche dalla Cgil, che riduce diritti e tutele, assegna un ruolo fondamentale allo Stato e introduce il concetto di Borsa del lavoro, un mercato dove il costo del lavoro è determinato dall’incontro fra domanda e offerta.

Dopo l’attentato viene creato un Gruppo investigativo Biagi, che inizia un complesso lavoro utilizzando le più moderne tecniche informatiche, sono eseguite perquisizioni negli ambienti ritenuti più vicini alla lotta armata, ma le indagini procedono senza una direzione precisa. Viene però costruito il capro espiatorio di turno da mostrare all’opinione pubblica, come già accaduto per il cosiddetto telefonista delle Br. Nell’agosto 2002 Paolo Persichetti, ex militante dell’Unione dei comunisti combattenti rifugiato a Parigi, dove si era ricostruito una vita e aveva un contratto da assistente universitario, è indagato per l’omicidio di Marco Biagi e consegnato alle autorità italiane al di fuori di ogni procedura di estradizione. Una montatura messa in piedi per abbattere la «dottrina Mitterrand» sui rifugiati politici. Riconosciuta la sua estraneità ai fatti, sconta altri undici anni di carcere in Italia per una precedente condanna.

La sparatoria sul treno e l’uccisione di Mario Galesi

La svolta arriva la mattina di domenica 2 marzo 2003. Nadia Lioce e Mario Galesi, clandestini e ricercati, viaggiano sul treno interregionale Roma-Firenze diretti ad Arezzo. Nei pressi della stazione di Castiglion Fiorentino tre uomini della Polizia ferroviaria effettuano un controllo di routine. Alla richiesta di identificazione, i brigatisti mostrano due false carte di identità. L’agente non sospetta nulla e la sala operativa della polizia comunica che i due nomi sono puliti. Mario Galesi non fa in tempo a rendersene conto. Nel timore di essere riconosciuto, punta una pistola contro uno dei poliziotti e, sostenuto da Nadia Lioce, intima di consegnare le armi. Uno di loro getta la pistola, la brigatista la raccoglie e c’è una colluttazione. Inizia il conflitto a fuoco. Rimangono a terra il sovrintendente Emanuele Petri, che muore sul colpo, e Mario Galesi, che spira la sera stessa in un ospedale di Arezzo durante un intervento chirurgico. Un altro poliziotto resta ferito, mentre Nadia Lioce viene disarmata e immobilizzata. Davanti agli investigatori si dichiara prigioniera politica. Nell’isolamento della cella, in due giorni scrive un documento politico che presenta ai magistrati, in cui sono tracciate «le linee che in questa fase congiunturale caratterizzano la proposta delle Brigate rosse alla Classe».

Gli arresti e i processi

Con la cattura di Nadia Lioce e l’analisi dei materiali informatici rinvenuti il giorno della sparatoria sul treno, le indagini subiscono una svolta. Il 24 ottobre, fra Roma e la Toscana vengono arrestati Federica Saraceni, Laura Proietti, Cinzia Banelli, Paolo Broccatelli, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e una settima persona che sarà poi assolta. Nei giorni successivi finiscono in carcere Simone Boccaccini e Bruno Di Giovannangelo. Emerge una notevole presenza e un importante ruolo politico delle donne nell’organizzazione.

Tramite un minuzioso lavoro investigativo gli inquirenti individuano le schede telefoniche che i brigatisti hanno utilizzato nell’immediatezza di alcune azioni e riescono a risalire a una cantina affittata a Roma da Diana Blefari con la sua vera identità. Da quel momento la donna si rende irreperibile. All’interno vengono ritrovati esplosivo, documenti politici, e molti altri oggetti e materiali usati dall’organizzazione. Diana viene catturata la notte del 22 dicembre a Santa Marinella, sul litorale romano, in un miniappartamento appena affittato a suo nome. Gli arresti proseguono fino al luglio 2005.

Inizia così la fase dei processi, che vede coinvolti 22 imputati e termina con quindici condanne e sette assoluzioni. Nel giugno 2004 Nadia Lioce viene condannata all’ergastolo per la sparatoria sul treno Roma-Firenze. In aula legge un suo documento di ricostruzione dei fatti. Ribadisce che non si è trattato di una azione premeditata ma della necessità di far fronte al pericolo sfruttando il vantaggio della sorpresa e del diritto di sottrarre le forze alla cattura.

Nel luglio 2005 a Roma, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, si conclude il processo di primo grado per l’uccisione di Massimo D’Antona, con la condanna all’ergastolo per Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, confermata in appello, e con altre pene minori. Con cinque ergastoli si chiude invece a Bologna il processo per l’omicidio Biagi: Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari e Simone Boccaccini, la cui condanna verrà ridotta in appello a 21 anni.

Cinzia Banelli, che al momento della cattura è incinta e già prima dell’arresto aveva avuto una militanza discontinua, dopo la nascita del figlio decide di parlare, fornendo agli inquirenti indicazioni particolareggiate. Condannata con rito abbreviato per la partecipazione agli omicidi di D’Antona e Biagi, esce dal carcere nel 2009. Vive insieme alla famiglia in una località segreta, con un sussidio e una nuova identità.

Diana Blefari Melazzi, un suicidio annunciato

La sera del 31 ottobre 2009 Diana Blefari Melazzi, condannata all’ergastolo per concorso nell’omicidio di Marco Biagi, si toglie la vita impiccandosi in una cella nel carcere romano di Rebibbia. Un suicidio prevedibile e previsto. A partire dal 2006 i difensori denunciano il progressivo peggioramento delle sue condizioni psichiche e l’incompatibilità con la detenzione. Il caso è segnalato dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni e in un’interrogazione parlamentare. Il sistema carcerario prosegue la sua opera di annientamento. Nelle perizie psichiatriche Diana viene giudicata in grado di stare in giudizio, subisce vari trasferimenti e per lunghi periodi è tenuta, come altri coimputati, in regime di art. 41 bis, uno strumento di tortura bianca applicato nei confronti dei detenuti considerati più pericolosi, inserito all’interno della riforma penitenziaria del 1975 dalla Legge Gozzini, nel 1986, in sostituzione dell’art. 90. Prevede un trattamento differenziato, una sospensione di garanzie e diritti contenuti nell’ordinamento penitenziario. Isolamento, un solo colloquio mensile con i familiari attraverso vetri e citofoni, limitazione delle ore d’aria, della socialità, della corrispondenza pur se sottoposta a censura, di libri, riviste, oggetti, indumenti, possibilità di assistere ai processi solo in videoconferenza.

Il 1 ottobre 2009, con l’accusa di banda armata viene arrestato un ex compagno di Diana (assolto e liberato dopo quasi 18 mesi), con cui ha mantenuto un profondo legame affettivo. Nel 2009 hanno anche effettuato alcuni colloqui. Pochi giorni prima del suicidio, Diana viene trasferita a Rebibbia sotto sorveglianza speciale. Nonostante il drastico peggioramento delle sue condizioni di salute, si fa più serrata la pressione degli inquirenti per estorcerle informazioni. Il 27 ottobre la Cassazione conferma in via definitiva la condanna all’ergastolo. La sentenza le viene notificata poche ore prima del suicidio.

Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.

 

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