Appunti per una discussione interna ed esterna

[Di questo documento esistono due stesure, alquanto differenti tra di loro, una pubblicata da “Controinformazione” n. 13-14 del 1979 (che qui riproduciamo), e una pubblicata da “Anarchismo” n. 25, gennaio-febbraio 1979. Le differenze tra le due stesure – certe volte notevoli – vengono da noi indicate tra parentesi o in nota].

Crisi e piano del capitale [1]
La crisi che ha investito il nostro paese è parte di una crisi generale che ha investito tutte le economie occidentali. Essa assumerebbe la forma di una crisi generale di sovraproduzione se il capitale non fosse estremamente concentrato e quindi in grado di controllare la produzione e il mercato. Se questo controllo impedisce le forme classiche della sovraproduzione, un surplus di merci che non trovando mercato perdono valore, non può impedire tuttavia che questo processo di devalorizzazione si trasferisca dalle merci al capitale investito nella loro produzione, il quale risulta sottoutilizzato rispetto alle sue capacità. I costi maggiori di questo sottoutilizzo si scaricano, grazie a quel controllo, sui prezzi, aggravando il normale processo inflazionistico.
Il capitale investito e sottoutilizzato subisce quindi un processo di devalorizzazione che provoca a sua volta una scarsa incentivazione all’investimento, col risultato che il capitale sotto forma di denaro si devalorizza a sua volta, perché la sua capacità di trasformarsi in materie prime, mezzi di produzione e salari per produrre profitto subisce a sua volta una sottoutilizzazione; parzialmente inoperante il capitale investito, parzialmente inoperante il capitale circolante, il saggio d’interesse del capitale denaro diminuisce a proporzione di questa inoperosità. La crisi si trasferisce dal sistema di produzione al sistema creditizio. Il capitale-denaro, più mobile, svalutandosi, reagisce a questa devalorizzazione dando vita a una serie di manovre speculative sul mercato valutario col risultato di non poter mutare il quadro d’insieme ma di indurre anche la crisi monetaria. La devalorizzazione complessiva ha una sua rappresentazione sintetica nella crisi del dollaro che costituisce il capitale denaro di riferimento.
A livello sociale questa devalorizzazione comporta una diminuzione della popolazione attiva rispetto all’insieme della popolazione: se gli operai, per una serie di rigidità istituzionali, non vengono licenziati, non vengono neanche assunti e infatti i dati concordano nel rilevare che la disoccupazione è un fenomeno che riguarda per metà i giovani.
Le riduzioni più o meno drastiche di produzione cui è stato costretto il capitale derivano da vari fattori, di cui alcuni tradizionali come la concorrenza della fascia esterna ai paesi occidentali; è noto, ad esempio, che in una serie di settori di base, dai prodotti siderurgici a quelli alimentari, la concorrenza di questa fascia esterna si è fatta sentire imponendo drastiche riduzioni. Altri fattori sono meno tradizionali e inerenti allo stesso modello di sviluppo capitalistico centrato sulla produzione di “beni” di consumo durevoli; ora, l’espansione del mercato interno ha raggiunto ormai i suoi limiti e il grande ciclo tirato dall’automobile, dal frigorifero, ecc. appare prossimo alla fine, non solo ma questo modello sta esponendo pericolosamente il capitale a un condizionamento sempre più stretto da parte della “domanda operaia”, cioè della massa dei salari, che costituisce il mercato di quei “beni”. Un condizionamento che rischia di fare del salario una “variabile indipendente” dall’andamento del ciclo, nel senso che la dinamica al rialzo salariale per sostenere il mercato interno non può essere interrotta a piacimento e continua ad avanzare per proprio conto indipendentemente dalle condizioni della produzione. Le acrobazie cui è costretto Lama per arrestare questa dinamica sono note.
Il piano del capitale per uscire da questo vicolo cieco, la cosiddetta ristrutturazione, appare orientato da una parte a svincolarsi sempre più, nelle economie occidentali, dal costo del lavoro operaio e dalla “domanda operaia” e questo obiettivo lo può realizzare se il sistema non si regge più sulla produzione di “beni” di consumo di massa ma sulla produzione di mezzi di produzione e servizi, operando cioè nei paesi occidentali un salto tecnologico a più alta composizione di capitale, facendo cioè tirare il nuovo ciclo dall’industria nucleare, bellica, elettronica, telefonica, ecc. Dall’altra parte dislocando là dove esistono ancora enormi possibilità di espansione del mercato i nuovi investimenti nelle produzioni tradizionali, sulla fascia esterna, dove il costo del lavoro è bassissimo. In questo piano hanno la loro parte anche le preoccupazioni politiche derivanti dalla concentrazione di grandi masse operaie di cui diviene sempre più difficile il controllo.
Il piano del capitale è ardito e anche i più ottimisti non se ne nascondono le difficoltà. Innanzitutto gli investimenti in settori nuovi ad alta composizione di capitale avvengono su scala talmente ampia da non essere alla portata di tutti, in altre parole il capitale denaro in cerca di investimento è abbondante rispetto alle possibilità d’investimento nei settori tradizionali ma non lo è altrettanto rispetto alle possibilità d’investimento nei nuovi settori. Non solo, questo nuovo investimento ha in sé tutti i rischi dell’innovazione, e richiede notevole esperienza scientifica e tecnica ma soprattutto un mercato sicuro data l’ampiezza degli investimenti. La Liquichimica non fa testo ma dà un’idea dei rischi che si corrono, tanto più che il mercato dei nuovi “beni” si presenta alquanto incerto. L’industria bellica, anche quella italiana (Agusta fra le altre) ha armato di un esercito poderoso un tirannello odioso come lo Scià, c’è da dubitare che questo armamento continui e un mercato “sicuro” come quello iraniano si sta rivelando una palude che inghiottirà molte illusioni. Lo stesso dicasi dell’industria nucleare: certo, una volta insediate sarà impossibile smantellare le centrali nucleari, ma ciò che si sta verificando un po’ dappertutto, ultimamente anche in Austria, è la difficoltà di insediarle. In Italia, se non vi insistessero i somari burocratizzati del nuovo capitale, i picisti, le centrali forse le costruirebbero i somari dell’Ansaldo ma non per il mercato interno.
La massa ingente di capitali richiesti, le più sofisticate tecnologie, le nuove fonti energetiche come l’uranio danno oggettivamente agli USA la guida di questo processo di ristrutturazione e alle grandi banche americane, cui sono confluiti e confluiscono i capitali accumulati da gran parte dei paesi produttori di petrolio, una posizione decisiva. Una guida che tuttavia pare incontrare resistenze nelle economie nazionali più forti, come la Germania Federale e il Giappone che, grazie a una classe operaia integrata, riescono a esportare una massa incredibile di prodotti e a realizzare un formidabile attivo nella bilancia dei pagamenti. Gli USA stanno chiedendo a questi paesi di modificare il modello di sviluppo. L’area della CEE si trova legata da una parte all’egemonia americana ma è anche fortemente influenzata dalla stabilità e dalla forza dell’economia tedesca, “il prossimo periodo deciderà se da questo tipo di braccio di ferro si uscirà col rafforzamento dell’egemonia USA o con una più acuta fase di contrasti”. La situazione è in pieno movimento, come mostrano gli ultimi accordi sul serpente monetario e l’accelerazione dei processi di costruzione dello Stato europeo, fenomeni imprevisti e sottovalutati che fanno pensare a un rafforzamento dell’influenza tedesca e a un sistema non del tutto omogeneo delle multinazionali.
L’altra parte del piano del capitale, la dislocazione cioè delle produzioni tradizionali, appare la più compromessa nelle analisi di parte leninista. I limiti che il capitale occidentale troverebbe nell’area del “socialimperialismo” e nei paesi decolonizzati lo spingerebbero a trovare una via d’uscita nella guerra. La situazione appare in realtà capovolta dopo gli ultimi sviluppi in Cina: il suo prossimo ingresso nell’area occidentale allarga smisuratamente i confini d’intervento del capitale occidentale sino al punto di capovolgere i rapporti fra le due aree imperialistiche, ponendo in gravi difficoltà, effettivamente suscettibili di condurre alla catastrofe nucleare, l’Unione Sovietica, la cui aggressività si va accentuando un po’ dappertutto, ultimo fatto clamoroso, il sostegno al Vietnam nell’invasione della Cambogia, ovviamente presentata, anche dai picisti nostrani, come liberazione della Cambogia!
Se a questo rinnovato accerchiamento dell’URSS aggiungiamo l’assenza di qualsiasi opposizione interna in quel regime, i pericoli del ricorso alla guerra nucleare appaiono provenire più dal “socialimperialismo” che dall’area occidentale, tanto più che gli appelli al “movimento operaio” contro l’accerchiamento non avrebbero oggi l’eco che ebbero gli appelli leniniani di 50 anni fa.
La caduta di tanti modelli d’intelligibilità e previsione ci deve rendere cauti quando ci avventuriamo sul terreno dei conflitti imperialistici. Fondare la propria azione su questo terreno paludoso può divenire letale per il movimento rivoluzionario.
Quello che si può prevedere con qualche probabilità è che la ristrutturazione aggraverà o lascerà inalterato quello che è il fenomeno più esplosivo indotto dalla crisi: la disoccupazione di massa, la quale, in Europa e negli USA, ha continuato a crescere, con la conseguenza che la classe operaia, un tempo comprendente la maggioranza della popolazione, tende ora a ridursi considerevolmente mentre cresce il numero di coloro che anziché produrre si limitano semplicemente a consumare o, nell’impossibilità di farlo, a espropriare in qualunque modo i possessori di capitale e di reddito, e sono quindi favorevoli a un’espropriazione generalizzata. È evidente che il fenomeno non è tutto positivo per il movimento rivoluzionario perché dall’altra parte un settore consistente di classe operaia accresce le sue tendenze corporative, si chiude nella difesa del suo “privilegio”.

“Nuovo fascismo” in Italia e in Europa
La situazione italiana, sostanzialmente omogenea a quella di altri paesi occidentali, presenta alcune caratteristiche che la rendono particolarmente esplosiva. Innanzitutto il capitalismo industriale italiano, sempre fortemente sottomesso al capitale finanziario con la progressiva statizzazione delle banche, si è trovato nella felice situazione di poter disporre di enormi capitali da investire senza esporsi praticamente a nessun rischio né controllo di chicchessia, dati i solidi legami con la classe politica che ha invaso lo Stato. Il tipo di imprenditore che si è venuto affermando in questa situazione si caratterizza soprattutto per la disinvoltura con cui opera manovre speculative, promuove operazioni produttive fallimentari, sicuro di poter poi contare su compiacenti salvataggi da parte dei suoi amici di Stato, con l’inevitabile avallo dell’opposizione interessata a “salvare” l’occupazione. Le centinaia di migliaia di miliardi bruciati da questi imprenditori non si contano più al pari delle imprese da “salvare”, dalla Montedison alla Liquichimica. La disinvoltura con cui questi personaggi pubblici e privati dissipano il denaro pubblico nella più assoluta impunità dice tutto delle forze politiche “costituzionali”, quelle che si riempiono la bocca dello stato di diritto. Lo Stato, da equilibratore della situazione interna, ne è divenuto l’elemento di maggiore squilibrio, senza considerare gli effetti non strettamente economici ma che hanno anche una rilevanza economica, come la corruzione generalizzata che si è spinta sino a coinvolgere strati proletari e costituisce il puntello politico-clientelare, la base di massa del regime democristiano. Certo, la situazione ha raggiunto i limiti di rottura e il mancato tracollo, paventato dai pennivendoli del regime, viene sbandierato da costoro come una prova della solidità del regime. Se, nonostante tutto e tutti, non si è arrivati al tracollo, lo si deve in parte alle strutture internazionali che sorreggono il capitalismo italiano, in parte alla riattualizzazione di forme di sfruttamento del secolo passato, lavoro nero vero e proprio, specialmente al Sud, che ha permesso a una parte del capitale di sopravvivere e crescere sulla disoccupazione di massa, in parte alla permanenza di strutture produttive medio-piccole in cui si trova probabilmente il meglio della produzione capitalistica italiana.
L’operazione morotea di associazione dei picisti alla maggioranza oltre che dai nuovi rapporti di forza parlamentare era verosimilmente dettata dalla necessità di controbilanciare in qualche modo le forze interne democristiane più strettamente clientelari imponendo un arresto al processo di dissipazione, coinvolgere una parte consistente di classe operaia egemonizzata dal PCI nell’operazione di ripristino dei criteri imprenditoriali nelle grandi imprese statali, imponendo al personale democristiano che le detiene un minimo di controllo, infine dare forza all’esecutivo per adeguare le scelte politiche alle presenti necessità della ristrutturazione, al suo dinamismo, di fronte al quale il mondo politico ci fa la figura del pachiderma. I picisti che ideologizzavano prima la centralità del parlamento, appena associati al potere hanno fatto subito il possibile per svuotarlo dando il loro apporto decisivo a che la vita politica si svolgesse tutta a livello di governo, di commissioni, di decreti legge, di corpi separati alla diretta dipendenza dell’esecutivo. Cosa passa, ci si chiedeva, fra lo sclerotico dibattito parlamentare sulle centrali nucleari e la velocità con cui il ministero dell’industria, per conto delle aziende nucleari italiane, ha condotto in porto l’accordo con l’ente di Stato canadese; cosa passa fra l’accordo Fiat-Algeria per la costruzione di un grosso stabilimento automobilistico in un mercato eccezionale come quello nordafricano e la decisione dello Stato in merito al finanziamento dell’operazione? I rapporti fra gli organi statali e le multinazionali pubbliche e private si fanno sempre più diretti e passano semplicemente le decisioni alla ratifica notarile del parlamento.
Questo processo di esecutivizzazione è stato già studiato nel processo che ha portato all’avvento del fascismo. Scrive Poulantzas: “Mentre la forma democratico parlamentare dello Stato sembrava a tutta prima ancora intatta, i rapporti fra la classe dirigente e le altre classi da una parte e l’apparato statale dall’altra, con gli inizi del processo di fascistizzazione, non intercorrono più attraverso i partiti politici, ma acquistano un carattere sempre più diretto…”, il che ha come conseguenza l’irrigidimento del ruolo dei veri e propri organi statali: della polizia, dell’amministrazione, della giustizia e dell’esecutivo. Questi organi statali diventano sempre più indipendenti. In tal modo l’ordinamento legale costituzionale viene capovolto. Il potere si sposta dal parlamento, cui ancora si indirizzano i partiti, agli organi statali stessi.
I processi di trasformazione dello Stato italiano non possono essere visti isolatamente dal contesto internazionale, sia per la forte dipendenza commerciale e finanziaria del capitalismo italiano, sia per i rapporti sempre più stretti che i suoi organi statali intrattengono con gli altri organi europei, sia per l’effettiva integrazione militare a livello Nato, sia infine nella prospettiva concreta dello Stato europeo.
I compagni della RAF prevedevano che la fase determinante della fascistizzazione in Europa non avrebbe avuto probabilmente luogo che quando questa fosse stata una tendenza politica precisa negli USA: “Negli USA si possono già osservare ogni giorno gli inizi di questo sviluppo… Quanto a noi ci resta poco tempo!”. Nella prospettiva della costituzione dello Stato europeo, per l’influenza egemonica che vi giocherà la Germania Federale, le trasformazioni avvenute nello Stato tedesco si rivelano decisive e con ogni probabilità il nuovo Stato europeo si costituirà come prodotto della germanizzazione e con una costituzione che sarà la sintesi delle costituzioni “speciali” che si sono andate accumulando sui corpi delle costituzioni originarie.
Di qui l’importanza di seguire le trasformazioni dello Stato tedesco dopo il ’8. Croissant definisce il prodotto di queste trasformazioni “nuovo fascismo”, un regime in cui il ricorso alla forza, il superamento dei limiti prima considerati legali, l’abbandono delle basi dello Stato di diritto vengono diretti e preparati centralmente: “caratteristico è il fatto che l’apparato di repressione statale non ricorre più soltanto a semplici violazioni del diritto… o che aumenti l’uso della violenza… ma che l’inquadramento di ogni singolo cittadino venga scientificamente progettato, preparato e realizzato con forza… Mezzo di questa strategia è la guerra psicologica con l’impiego di mass-media”.
L’insurrezione del maggio francese ha guidato, in negativo, tutto questo processo di trasformazione degli Stati che sono stati indubbiamente colti di sorpresa. Quanti ora ripropongono l’insurrezione come il prodotto di un lungo periodo di rivoluzione culturale dimenticano semplicemente che le leggi eccezionali e l’inizio della guerra psicologica furono varati all’indomani del ’68 e contro quella rivoluzione culturale, antiistituzionale, non contro le formazioni guerrigliere. “Il periodo di transizione è ancora ben lontano dell’essere concluso: ormai potrebbe essere stroncato solo dal massiccio e brutale impiego di tutti i mezzi di repressione”. Chi scriveva queste parole, R. Dutschke, e si illudeva che non si sarebbe arrivati a tanto, ne fu anche la prima vittima “illustre”. Se in Germania la guerra psicologica giunge a legalizzare e coprire la tortura e l’assassinio, in Italia il progetto controinsurrezionale inizia da parte degli apparati statali con la strage di piazza Fontana, il tentativo di farne ricadere la responsabilità sul “dissenso” e ottenere così forzatamente l’identificazione della popolazione con lo Stato attraverso il terrore e il disorientamento. Gli apparati statali, a forte composizione fascista, non potevano che ricorrere ai loro modelli tradizionali, il colpo di Stato militare, il vecchio fascismo e sortirono l’effetto opposto, quello di favorire lo sviluppo della controviolenza su tutto il territorio nazionale. Il nuovo fascismo, nell’accezione di Croissant, si è sostituito al vecchio e sta funzionando con una certa virulenza col “bipartitismo perfetto” DC-PCI e col livellamento-esecutivizzazione di tutta la stampa, radio, televisione, apparati vari produttivi d’opinione: “Gli apparati repressivi dello Stato cercano, tramite il livellamento dei mass-media di far credere al consenso della popolazione, al loro radicamento in essa e all’espressione del loro potere”. Ciò che non sono riusciti a fare con la violenza fascista, gli apparati statali cercano ora di radicarsi in mezzo al popolo poggiando sulla mobilitazione dell’apparato picista, sulle cui spalle ricade oggi lo scatenamento della guerra psicologica.
Il processo di trasformazione dello Stato nella direzione del nuovo fascismo non solo ha trovato infatti consenziente il PCI ma è da questi spinto sino alle sue estreme conseguenze; tutti gli istituti della tanto sbandierata “partecipazione”, dai consigli di quartiere a quelli di fabbrica, sono stati facilmente (essendo fittizi) stravolti ai nuovi fini del controllo sociale, politico, repressivo. Dai sindacati ai consigli d’istituto, tutto è divenuto cinghia di trasmissione degli ordini degli apparati centrali. I capicaseggiato, di cui paventa l’istituzione Croissant, sono fra gli obiettivi del comitatone per l’ordine repubblicano promosso dai picisti a Bologna, in attesa del poliziotto di quartiere le sue funzioni sono svolte dalle sezioni territoriali del PCI. Si indaga, si scheda… Gli stessi rinnovatori democristiani, gli hiltoniani, espressione diretta delle multinazionali private, sono stati sorpresi e spiazzati da quest’invasione dello Stato e dei suoi ruoli da parte dell’apparato piccista, con imbarazzo hanno respinto le profferte di formare milizie volontarie di vigilanza nelle fabbriche, nei quartieri… Di fronte allo svolgimento [stravolgimento: “Anarchismo”] operato dal PCI, gli hiltoniani hanno riscoperto il valore del liberalismo! Scrive Mazzotta: “A mio avviso il PCI tende a diventare un nuovo regime” con un triplice ruolo: “Un ruolo di forza d’ordine nei confronti di una situazione esplosiva… Un ruolo di repressione rispetto alle tensioni sociali… Infine un ruolo di guardiano, per un ritorno a concezioni protezioniste e di chiusura nei confronti del libero rapporto col resto del mondo”. Dopo trent’anni di regime democristiano gli hiltoniani riscoprono, di fronte all’invasione delle orde piciste, i valori della dialettica parlamentare! Mazzola, esperto DC di problemi dello Stato, teme che un’alleanza politica col PCI “condurrebbe sostanzialmente a un regime teso a chiudere anziché allargare gli spazi di libertà e a criminalizzare inesorabilmente il dissenso: un regime che poi sarebbe egemonizzato dal PCI e si trasformerebbe in una sorta di democrazia consacrata”. L’obiettivo degli hiltoniani è trasparente: ritornare alla dialettica democratica, ricacciando il PCI all’opposizione, dopo aver superato la crisi complessiva del paese. Obiettivo del PCI è esattamente l’opposto: instaurare il nuovo regime del compromesso storico utilizzando la crisi complessiva del paese come il “nemico oggettivo” contro il quale far valere come indispensabile l’alleanza politica.
Le trasformazioni in atto a livello statuale giocano obiettivamente a favore della strategia picista di un forte apparato statale, efficiente, programmatore in cui inserire un personale compatto, rispettoso dei vertici, provvisto di un’ideologia statalista.
Oltre il vantaggio di un partito dominato saldamente dal vertice tramite l’apparato, il PCI ha il vantaggio, decisivo in una fase di ristrutturazione, di egemonizzare una parte consistente di classe operaia, quell’aristocrazia operaia che è il perno della ristrutturazione; non solo, ma l’egemonia sta lambendo ormai anche la fascia dei quadri intermedi dell’apparato delle imprese statali nel nome dei quali il PCI chiede rispetto dei criteri di professionalità e imprenditorialità contro la borghesia di Stato medio-alta, di origini professionali incerte, raccogliticcia ma sicuramente ladra. È su questo blocco di forze a livello delle grandi imprese statali che il PCI punta per rilanciare il capitalismo italiano nel contesto internazionale e costituire quindi il puntello essenziale del nuovo regime. È ovvio che la carta dell’imprenditorialità, del ritorno al profitto è giudicata decisiva anche per limitare la forte dipendenza dal capitale americano e tedesco, con le sue inevitabili (nell’immediato) contropartite politiche di tipo straussiano (cui è particolarmente sensibile la destra DC) e col fine di rilanciare, con l’economia italiana, anche la propria presenza politica in Europa, il ruolo di mediazione con i paesi “socialisti”, un ruolo che non è visto negativamente dalla socialdemocrazia tedesca. L’accusa hiltoniana di protezionismo è probabilmente fuori luogo, lo sta a dimostrare l’adesione “critica” (che è pur sempre adesione) al serpente monetario. Vero è che al PCI, che gioca la sua carta decisiva nel rilancio capitalistico dell’Italia, stanno più a cuore le contropartite economiche dell’adesione allo Sme rispetto a quelle politiche, cui pare invece più sensibile la DC che, dopo aver saccheggiato quanto era possibile, spera più modestamente in un ancoraggio politico-repressivo al nuovo Stato europeo e in un aumento, se possibile, della dipendenza dalle più forti economie occidentali.

Il Partito-Stato e l’opposizione operaia
Sia i processi di ristrutturazione statale (rafforzamento dell’esecutivo, indipendenza degli organi statali dal parlamento, instaurazione della guerra psicologica) sia i processi di ristrutturazione economica vedono nel PCI una forza promozionale non secondaria a quella democristiana, specie nelle fabbriche dove il ruolo della burocrazia picista nel favorire la collaborazione e il controllo anche poliziesco è fondamentale. I compagni delle BR che teorizzano la centralità DC in questo processo rischiano di rimanere spiazzati dal ruolo dei “berlingueriani” che risalta nei loro stessi diari di fabbrica. Sarebbe errato in questa fase di esecutivizzazione valutare la forza di un partito coi criteri elettorali, quali che siano e saranno i rapporti di forza parlamentari il ruolo del PCI è centrale, pena il crollo verticale dello Stato e dell’economia.
La stessa gestione fortemente ideologizzata del potere, resa necessaria dalla crisi, va nella stessa direzione. È chiaro infatti che solo un’ideologia di “sinistra” può svolgere questo ruolo fra le masse operaie: “austerità”, “sacrifici” in nome dell’interesse nazionale sono falsi valori che solo la “sinistra” può imporre, “se prima l’operaio viveva una vita di stenti per acquistare l’automobile, il frigorifero, dopo continua a vivere una vita di stenti per acquistare il suo ruolo all’interno di una struttura (il partito) che dice di fare sacrifici per la ‘costruzione progressiva del socialismo’”. Se esiste un progetto su cui l’imperialismo può poggiare in questa fase la mobilitazione “fascista” delle masse, questo è il progetto berlingueriano dell’austerità, dei sacrifici, del senso dello Stato, della classe che si fa Stato, ecc. Il “Partito-Stato” con la sua miriade di burocrati sindacali e di partito, i suoi consiglieri di fabbrica, di quartiere, comunali, regionali è già una realtà operante e la lotta al “Partito-Stato” è già in atto un po’ dappertutto.
Il nuovo Stato che si va installando in mezzo alle masse proletarie è il nemico interno del movimento rivoluzionario che va spazzato via prima che si consolidi e svolga con pienezza tutta la sua funzione controrivoluzionaria e ciò è particolarmente urgente in fabbrica dove esso costituisce l’ultima trincea di protezione ideologica del capitale. Se è vero, infatti, che il capitale ha perso, metro dopo metro, le teste di ponte che aveva collocato nella famiglia, nella scuola, ecc. le ha ancora, e salde, nel cuore stesso della sua genesi. In questi anni si è rimesso in discussione tutto, il dominio è stato stanato anche dalle pieghe più recondite della coscienza, ma la radice di tutte queste alienazioni, la produzione di merci, ne è rimasta praticamente fuori. Vi sono esempi clamorosi e pericolosi, come quel convegno di tutti i consigli di fabbrica delle industrie degli armamenti che fu indetto nel ’76 per discutere la proposta di un “controllo parlamentare sulla produzione bellica” e andò deserto perché i consigli di fabbrica, su ammissione di un sindacalista della CGIL, temevano che il controllo ventilato potesse portare a qualche diminuzione della produzione, allora ed ora in grande ascesa. L’interesse dell’operaio va quasi esclusivamente alle condizioni di lavoro perché queste si ripercuotono su di lui in modo diretto mentre le conseguenze di ciò che produce si ripartiscono sull’insieme della società, come impoverimento generale delle risorse, inquinamento e beninteso profitto, cioè, possibilità di estensione del ciclo infernale. Ma le condizioni di lavoro sono il pascolo in cui sguazzano i porci, riformisti, sociologi, psichiatri. È il terreno della mediazione per eccellenza, del compromesso, della rivendicazione, del migliorismo, si migliora ma sempre all’interno delle condizioni date, queste non vengono mai poste in discussione. Ciò che temono padroni e riformisti non è il massimalismo rivendicativo della “nuova sinistra” ma l’opposizione senza mediazioni, assoluta, la non collaborazione: noi non accettiamo le condizioni date, né guardiani alle porte, né mura di cinta, né cartellini da timbrare, né cronometristi ad osservare e via dicendo, non vogliamo le condizioni del lavoro coatto né i suoi risultati, oggetti inutili e socialmente dannosi.
La grande scoperta fatta da Nanterre nel ’68 è che la contestazione frutta quando la si faccia direttamente e immediatamente nei luoghi in cui si esercita il potere borghese. Il rivoluzionariamento della scuola, della famiglia, della medicina, delle prigioni, del rapporto fra i sessi non viene rinviato all’indomani della rivoluzione economica e politica. Il modello secondo cui la rivoluzione deve prima sovvertire la proprietà, dopo di che tutto verrà di conseguenza, è morto e sepolto allo stesso modo del modello “democratico” dell’azione politica come azione indiretta, differita che alberga ormai solo nel PCI e nei suoi gruppuscoli. Si tratta di tutta una serie di movimenti che impongono e diffondono una nuova sensibilità che Duverger chiama più sovversiva che rivoluzionaria “nella misura in cui la rivoluzione implica il progetto coerente di una nuova società”. Sovversiva perché va alla radice delle cose e riconosce le diverse alienazioni istituzionali come forme specifiche di quella stessa struttura dell’alienazione che è lo sfruttamento. “Se il capitalismo può sopravvivere a una, due di queste contestazioni, non può che crepare col loro moltiplicarsi perché questo moltiplicarsi converge nella sua dinamica verso e contro le radici del capitalismo. Credere che sopravviverà vuol dire che il legame fra il profitto e le istituzioni non sia necessario e rigoroso”.
Noi crediamo che sopravviverà se la contestazione non varcherà le soglie della fabbrica, qui la nuova sensibilità sovversiva si diffonde ma lentamente proprio perché i giovani, in cui essa è particolarmente viva, o rifiutano il lavoro di fabbrica o se lo abbracciano divengono presto virtuosi dell’assenteismo. E anche l’assenteismo va valutato per quello che indica negativamente, l’assenza cioè di una comunità di lotta in cui riconoscersi e che renda interessante la fabbrica come luogo di contestazione.
Negli anni ’60 le interruzioni improvvise, gli scioperi selvaggi avevano creato una certa ingovernabilità; il sindacato sull’orlo della bancarotta dopo anni di cedimenti è riuscito a cavalcare facilmente l’ebollizione sessantottesca e a riproporre il modello sindacale, con la sua burocrazia, verticismo e deleghe, come il modello. Se tutto ciò ha fatto cadere molti miti operaistici ciò non significa che la fabbrica sia un corpo unico col suo Stato-Partito e cinghie di trasmissioni varie. Le contraddizioni immesse nel mondo sindacale dal nuovo e disinvolto sindacalismo alla sovietica di Lama sono sotto gli occhi di tutti ma l’immediata comparsa del massimalismo sindacale (cui aderiscono anche i sostenitori della resurrezione dell’USI) mostra ancora una volta come sia difficile abbandonare il terreno rivendicativo e alla fine il modello sindacale.
Se di un’opposizione operaia si può parlare, questa si è rivelata nel sabotaggio. Il fenomeno è stato soprattutto in sviluppo alla Fiat come sabotaggio agli impianti ma è presente al nord come al sud negli attentati a multinazionali italiane e straniere che hanno provocato danni talvolta colossali agli impianti, al prodotto finito, ai calcolatori elettronici. I detrattori della lotta armata sottovalutano il fenomeno perché non sarebbe opera dei produttori ma dei gruppi armati, come se questi dovessero essere necessariamente esterni alla fabbrica! È invece il fenomeno “terroristico” più importante di questi ultimi anni anche se il più “sottovalutato”. Perché? Noi pensiamo che tale sottovalutazione da parte del potere sia voluta e nasconda la sua estrema apprensione e il timore che esso si diffonda. Non si può spiegare diversamente, a livello di mass-media, il diverso trattamento che il potere usa nei casi di attentati interni ed esterni alla produzione, nel primo caso minimizza il fatto sino a smorzarlo nella lungaggine delle indagini, nel secondo dà fiato alle trombe per la caccia al terrorista. Ma vi sono anche ragioni riconducibili all’ideologia dei compagni che ne limitano la portata e il significato. È il caso dei sabotaggi al prodotto finito avvenuti in concomitanza con la minaccia della cassa integrazione: l’azienda ha difficoltà a smaltire la produzione accumulata e minaccia gli operai di metterli in cassa integrazione, il prodotto accumulato viene dato alle fiamme e la minaccia rientra. Quella concomitanza dà al messaggio che giunge da quest’azione un carattere puramente difensivo: per garantire la continuità dell’occupazione si può ricorrere a qualsiasi mezzo, anche alla distruzione di capitale, allo stesso modo che il capitalista, quando vede messo in forse il suo profitto, ricorre alla distruzione delle merci pur di non diminuirne il prezzo. L’azione anziché arricchirsi del significato che oggettivamente ha, viene a impoverirsi nel concetto che la continuità del rapporto di scambio lavoro-capitale va mantenuta a qualsiasi costo, col ricorso dall’una o dall’altra parte alla distruzione se viene messo in forse il profitto o il salario. D’altra parte l’anonimato che circonda spesso le azioni di sabotaggio alla Fiat parrebbe dettato da un’errata soggezione alla coscienza “media” degli operai, si teme l’isolamento politico perché “ci possono essere perdite secche di salario, gli operai s’incazzano”, ecc. In tal modo però le ragioni dell’ideologia concorrono con quelle del potere a fare scadere il sabotaggio a “metodo di lotta” in difesa degli interessi immediati della classe operaia. Marx aveva già avvertito contro la tragicommedia degli interessi immediati. In che razza di contraddizioni ci si possa ritrovare nella difesa degli interessi immediati è ben illustrato dal caso dell’Alfa.
A livello di senso comune capitalizzato le auto Alfa sono apprezzate per una serie di caratteristiche che dovrebbero piuttosto indurci a respingerle. Innanzitutto l’uso di materiali costosi richiesti dalle forti sollecitazioni cui vengono sottoposte dalla velocità e dalla ripresa del mezzo: un alto consumo di energia. Tali caratteristiche incidono negativamente sul sociale, a meno di non considerare positivo il flagello autostradale cui quella velocità contribuisce; l’alto consumo sottrae a sua volta energia ad altri usi e inquina irreversibilmente l’ambiente. Se queste considerazioni non bastassero a motivare il rifiuto di questa merce, guardiamo a chi è destinata, essenzialmente alla classe media che rimarca spesso il proprio status dal suo possesso, per non parlare dei clienti più affezionati, poliziotti e carabinieri che usano quelle caratteristiche per ammazzare i proletari. Non solo, l’Alfa chiude i bilanci in rosso e giungiamo all’assurdo che lo Stato sottrae risorse da altri settori per colmare le perdite.
Gli operai dell’Alfa sono rimasti i soli a puntellare una produzione che distoglie enormi risorse in mezzi, materiali e uomini da un uso sociale e inchioda una parte non esigua del proletariato alla disoccupazione e alla fame. Altro che omogeneità d’interessi immediati fra una parte e l’altra del proletariato! Questi interessi, beninteso, si possono ricomporre ma negando alla radice la produzione di merci. Una gran parte degli operai si è al contrario chiusa nella difesa dei propri interessi corporativi, chiede addirittura maggiori investimenti nel settore e si è messa a disposizione per lavorare anche il sabato. In risposta al blocco d’ordine che si è creato in fabbrica e ai più smaccati tentativi collaborazionistici, la guerriglia autonoma ha dato forza alla minoranza non collaborazionista con diversi attentati alle filiali e al prodotto finito che hanno praticamente vanificato gli aumenti produttivi realizzati nei sabati lavorativi. In questo caso il sabotaggio esemplifica abbastanza bene come esso possa divenire la forma specifica della resistenza delle minoranze non collaborazioniste e, svincolandosi dalla difesa degli interessi immediati, acquistare il significato di opposizione radicale alla produzione di merci.
La sua ripresa discende direttamente dalle condizioni della produzione capitalistica nella sua fase “matura”, che paiono riprodurre le stesse condizioni di emarginazione che caratterizzarono l’apparire della macchina nella sua fase di ascesa.
Giacché il lavoro vivo è sempre più marginale rispetto al capitale fisso, è relativamente facile per il padrone comprare la collaborazione di pochi che mettono in movimento una massa enorme di lavoro morto. Gli operai rivoluzionari non possono oggettivamente essere maggioritari, la democrazia non ha senso per la sproporzione di forze: il capitale ha dalla sua i milioni di lavoratori il cui lavoro si è oggettivato nelle macchine o è stato rimpiazzato da esse, dall’altra parte poche migliaia di lavoratori a metterle in movimento, una sproporzione che permette in ogni momento al capitale di corromperne una parte più o meno cospicua. In questa situazione gli operai rivoluzionari si trovano sommersi in un mare di “crumiri”, non viceversa, ma proprio la concentrazione e l’intensità del capitale esalta il ruolo di queste minoranze, perché possono riscattare la loro emarginazione “colpendo al cuore” non solo i vigilanti del nuovo o vecchio ceto politico ma soprattutto il lavoro morto. Se questo moloch non viene inceppato, il passato, il lavoro accumulato, estorto a intere generazioni di sfruttati, ci seppellirà.
Sull’organizzazione clandestina [2]
Costituire teste di ponte in fabbrica per colpire il cuore del capitale e del nascente “Stato-Partito” è il compito primario che sta di fronte alle organizzazioni combattenti in questa fase, se esse vogliono operare finalmente quella saldatura fra la lotta allo sfruttamento e la lotta antiistituzionale. La guerriglia in fabbrica non potrà essere innestata che dalle organizzazioni clandestine. Le obiezioni che da più parti dell’autonomia operaia vengono a questa impostazione si librano su un livello ancora astratto; si dice: noi non vogliamo diventare guerriglieri di professione, separati dal movimento, noi vogliamo far crescere l’autorganizzazione delle lotte, favorire forme di lotta più violenta e al livello reale, quello di base, e ciò è possibile solo vivendo la vita di tutti gli altri e con loro arrivare alla lotta armata, in modo che l’elevamento dello scontro non sia un fatto fittizio, spettacolare ma un fatto di massa, reale. È un’obiezione seria che dice molto del nostro stesso obiettivo, quello cioè di andare a organizzare tante cellule rivoluzionarie, “un contropotere di piccoli nuclei che lavorano autonomamente nelle diverse situazioni, combattono, intervengono, difendono, sono parte del lavoro politico di massa”, ma trascura il fatto che i compagni inseriti nelle strutture portanti del capitale si muovono in un’acqua ancora molto sporca, esposti alla repressione non solo delle gerarchie di fabbrica, della sua polizia interna ed esterna, ma anche della intera rete spionistica del sindacato e del partito: impegnati nel lavoro di fabbrica hanno scarse possibilità di procurarsi mezzi e strutture e in assenza di una struttura organizzativa adeguata sono condotti a forme di autolimitazione. La crescita, diffusione, sviluppo di nuclei di contropotere non può che essere promossa dall’organizzazione clandestina. In questa si saldano teoricamente e praticamente i nuclei che vanno a svilupparsi in fabbrica e quelli attivi nel territorio, contro i servizi essenziali del capitale, le banche, le immobiliari, i mass-media, le caserme, le carceri.
Se questa è parte fondamentale dell’attività dell’organizzazione clandestina, solo a questa possono riferirsi compiti altrettanto importanti come la liberazione dei compagni imprigionati, l’attacco, il meno fittizio possibile, alle strutture e al personale politico, tecnico, militare impegnato nei ministeri chiave della ristrutturazione economica, della guerra psicologica e della repressione. Il sabotaggio del cervello centrale della motorizzazione esemplifica questo settore di attività. Queste strutture centrali sono le più delicate e quindi le più protette, richiedono quindi azioni “militari” vere e proprie, necessarie tutte le volte che si affronta un nemico armato e attento, sostenute da una rete ricca di informazioni, mezzi, ecc. È chiaro che le strutture centrali non potranno essere attaccate seriamente che quando la guerra sociale avrà irrobustito enormemente la guerriglia, ma questa non deve vietarsi l’apertura di contraddizioni, il logoramento continuo di questi apparati anche con azioni dirette al centro. L’operazione Moro è stata variamente criticata ma tutti gli effetti che le sono stati attribuiti dai critici non si sono puntualmente verificati. Si è detto che avrebbe costituito la fine della guerriglia e invece questa si è ulteriormente generalizzata, si è detto che non avrebbe destabilizzato un bel nulla, mentre in realtà il quadro politico si è fatto alquanto più traballante e l’operazione ha avuto l’indubbio merito di rivelare in tutta la sua pericolosità il blocco di potere che si stava formando, i lineamenti del cosiddetto partito della morte. Noi non condividiamo gli orpelli ideologici dell’operazione, la “prigione del popolo”, il “processo”, la “sentenza”, “l’esecuzione”, un’imitazione inutile e macabra dello Stato e della sua violenza, ma questi sono orpelli, non la sostanza che sta nella capacità-maturità del movimento rivoluzionario nel suo insieme (e le Brigate Rosse si riconoscono parte di questo movimento) di assestare un colpo al centro. Chi non ricorda, del resto, le critiche che gli stessi ambienti rivolgevano alle BR prima dell’operazione Moro? E non era solo voce dei critici, era voce popolare: colpiscono in basso, quelli che contano poco, i veri assassini se ne stanno tranquilli a Roma. Certo, il colpo al centro ha risvegliato il sonno dei politici romani, chiusi nel bunker di Montecitorio a blaterare di giustizia e libertà coi carri armati alla porta; forse, si chiedono alcuni, se li avessimo lasciati dormire ancora un po’… È un’obiezione seria ma non viene dai critici-critici, il prezzo è stato pagato dal movimento clandestino per la guerra psicologica che si è scatenata, i sospetti, la caccia al brigatista, le vocazioni poliziesche risvegliate ma a ben vedere era un prezzo che doveva comunque essere pagato a breve termine perché è indubbio che la presenza di Moro, la bambagia accumulata attorno all’associazione dei picisti avrebbe portato al regime del compromesso storico senza le lacerazioni che oggi esso si porta dietro e avrebbero dato il via alla grande operazione controinsurrezionale.
Il guerrigliero della vita quotidiana
I critici della vita quotidiana rimproverano alla lotta armata di aver riproposto, estremizzandola, la politica; di negare la socialità del movimento per snaturarlo e assicurarsene la rappresentazione politica, di riproporre insomma il vecchio modello bolscevico di rivoluzione politica che affida al rivoluzionamento dell’economia, della società, della vita quotidiana a una fase di dittatura proletaria, in realtà di dittatura del partito, questa volta di partito combattente, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti, la vita quotidiana del giovane di Roma non ha certo nulla da invidiare a quella del giovane moscovita [degli anni ’30: “Anarchismo”], anzi… È chiaro che le forze più strettamente leniniste, le BR, hanno spiccata questa tendenza al “congelamento” del movimento nella dimensione separata del politico. In genere l’allargarsi della lotta armata e dei suoi obiettivi sul sociale non viene approvato dai compagni delle BR e questo atteggiamento viene motivato con ragioni tattiche, la dispersione di forze su contraddizioni secondarie anziché il loro concentramento nell’attacco allo Stato, ma il capitale non è solo economia, politica, repressione, è anche ideologia, mistificazione, menzogna, droga, spettacolo, ogni aspetto del suo dominio deve essere colpito. Per questo però occorre che le forze della sovversione totale scendano in campo e la guerra sociale acquisti in profondità e ampiezza, solo così il movimento rivoluzionario potrà creare un domani una situazione di non ritorno, irreversibile, rendendo inutilizzabili tutti i vecchi strumenti del dominio, le sue strutture, i suoi apparati, tagliando in profondità il vecchio corpo del dominio. Se la ferita sarà superficiale, il vecchio corpo ricomincerà a funzionare. Se si elimina il ceto politico ma si lasciano intatte le vecchie strutture del dominio chi può garantire che un altro ceto politico non avrà la tentazione di appropriarsene? Se non si aboliranno le banche, il denaro e tutto il resto chi garantirà la scomparsa dell’economia del profitto? Certo occorre armare anche gli spiriti, “spurgarsi dei valori e delle ideologie introiettate, vincere le rimozioni, affermare il desiderio, rifiutare le alienazioni che ci fanno cose, vibrare di passioni”, ma il soggetto meglio armato spiritualmente finisce sempre con l’avere la peggio contro il mondo di cose e di funzionari di cose che ci sovrasta, con i suoi ritmi, i suoi ruoli, i suoi ghetti e sarà rigettato nella quotidianità di sempre. La comunità ritrovata un momento, un giorno, un mese nella lotta viene presto dispersa e il soggetto si ritrova solo, coi problemi di sempre e in più il senso angoscioso di ciò che si è perduto; l’ideologia dello sballo e l’alienazione da molotov nascono sullo stesso terreno. Chi, dopo il maggio, aspettava la seconda ondata, è stato smentito: il qui e subito non si dà mai due volte.
“Insurrezione” ripropone ancora una volta il fluire ininterrotto della critica della vita quotidiana alla pratica della sua sovversione. In mezzo non c’è alcun salto rilevabile, nessun prima, nessun dopo. I germi del recupero che vengono visti operanti nell’azione delle formazioni armate, non vengono altrettanto individuati nell’ideologia dello sballo, nel ridursi della critica radicale a esercitazione culturale. Sappiamo che produzione di merci e produzione di ideologia procedono assieme. È possibile una distruzione pratica, immediata delle merci, perché esse sono un dato oggettivo, lavoro oggettivato appunto. L’ideologia al contrario è parte della base materiale umana, vera e propria infiltrazione nella soggettività, suo narcotico. Di fronte ad essa sembra funzionare solo il vecchio adagio maoista, “dell’avanzare ondata dopo ondata”, nel senso che occorre un continuo adeguamento della critica alla molteplicità e al riprodursi di situazioni in forme relativamente nuove. Non si può allora non intravedere che lo specifico tentativo di parte capitalista è quello di separare i due termini del problema: da una parte una critica delle armi sempre più proiettata nell’universo del politico e indifferente alla condizione umana, dall’altra le armi della critica diluite nell’esercitazione culturale che non soltanto di per sé è astratta, ma molto di più ha il difetto di essere il monopolio dei nuovi professionisti della cultura, i cinici senza passione. Non è forse vero allora che al guerrigliero della vita quotidiana manca per l’appunto il mitra? Il qui e il subito, la forzatura che a partire da oggi è operante.

Autonomia fittizia e autonomia reale
Ciò che più va criticato nell’area dell’autonomia è l’incapacità di cogliere la propria quotidianità come sostanzialmente organica al modo di vivere capitalistico, di cui riproduce la normalità dei ritmi e dei cicli e situazioni di ghetto. È proprio questa normalità che rappresenta l’insidia più grave per le capacità di resistenza e di rivolta degli individui, ciò che più tarpa l’effettiva secessione, l’autonomia raggiunta come sovversione operante in ogni istante della vita quotidiana. Ciò che appare movimento è un circolo che si richiude continuamente su se stesso, è stagnazione, depotenziamento delle capacità di emozione e di rivolta. Non saremo noi a scoprire la noia, le frustrazioni, il senso d’impotenza, il gelo della stupidità e del fittizio. Un’assemblea, una riunione sono spesso un’offesa all’intelligenza, ma si resta per la falsa opinione che sotto ci sia un fondo da riscoprire, che ci sia qualcosa da salvare, che comunque vi si giochino delle partite politiche. È falso. Tutto è già deciso dall’inerzia quotidiana, dalle stanche incombenze della militanza, dall’ideologia dell’accumulo, dall’impegno di lotta come garanzia dello sbocco rivoluzionario. La falsa antinomia fra lavoro e tempo libero si riproduce con la divisione fra tempo della militanza e vita alternativa, ma la miseria di questa alternativa si misura tutta nei sabati sera in piazza, lo scontento, la ricreazione del privato per le coppie, famiglie e tribù. L’ambizione dell’autonomia di essere un’alternativa al progetto delle forze combattenti è legittima ma dubbia: questo sarà forse in alcuni dei suoi gruppi e membri, per noi essa è soprattutto un modo d’essere, una palude di contraddizioni. Più che una linea politica, è una fenomenologia che si tratta di combattere, questa logica della talpa marxista che si vuole immaginare al lavoro poiché intorno non si vede nulla o almeno nulla di ciò che si vorrebbe vedere svilupparsi. Una logica e un metodo, quello dell’assemblaggio delle disponibilità personali più eterogenee ma tutte in genere attestate al di qua di una decisa scelta di lotta totale e di un definitivo rifiuto dell’ideologia e della politica intesa come ambito della mediazione incessante e fine a se stessa: agendo sulla psicologia dei compagni, sui loro sensi di colpa, sul bisogno di rendersi utili, sul sentirsi militanti impegnati per sfuggire al vuoto delle pratiche liberatorie separate (hippismo, filosofie individualistiche da osteria, ubbie “desideranti”), sul potersi considerare i fiancheggiatori dei “terroristi” senza correrne i rischi e sentendosi un po’ dentro la storia con l’alibi del discorso più avanzato.
Solo (e ci scusi la critica critica di questo primato) l’autonomia reale fatta progetto armato contro tutti gli aspetti della vita sociale, la costituzione di una rete di resistenza e attacco ai centri vitali del sistema dello sfruttamento e della morte, il viversi con pienezza nella coscienza di essere già parzialmente fuori della tenaglia del capitale può consentire l’inizio di questo cammino della liberazione. Ma anche qui, al livello del soggetto operante, come a livello sociale, occorre tagliare i ponti con la normalità quotidiana, creare una situazione di non ritorno, clandestinizzarsi. E qui bisogna anche smantellare le immagini di comodo che sono state create intorno alle organizzazioni clandestine, si pensa che il lavoro della guerriglia possa essere condotto solo in modo da sottoporsi a una pressione, a una strumentalizzazione di se stessi e degli altri. Ma le motivazioni che spingono molti compagni alla lotta armata sono le motivazioni della loro stessa liberazione. Come sottolineavano i compagni tedeschi delle Cellule Rivoluzionarie: “Noi crediamo che la guerra totale contro il sistema di dominio di uomini su uomini racchiuda in se stessa contemporaneamente e in egual misura la lotta contro il sistema capitalistico che è in noi stessi. La guerriglia urbana, armata nel modo migliore e militarmente meglio organizzata, è destinata a naufragare se non ha intrapreso questa lotta totale…”. Il gruppo guerrigliero che intraprende questa lotta totale assume tutti i caratteri di una comune armata, di una società sotterranea che combatte quotidianamente le divisioni gerarchiche, i manovali e i capi, non solo per ragioni teoriche ma essenzialmente pratiche: una formazione guerrigliera resiste se si adegua alla sua stessa definizione, un’idea cui crescono sempre nuove teste, al principio che ogni suo membro sia “in grado di potersi dirigere e di volerlo – che ognuno arrivi a poter agire da solo, che ognuno cioè sia il gruppo – possibilità e volontà che è a sua volta un processo collettivo, non un processo individuale – il guerrigliero è il gruppo, il che vuol dire che ogni singolo impara nel processo collettivo che è la prassi e in generale si impara così, nello scontro, poiché questo ci costringe a imparare e a cambiare noi stessi per giungere a questo: il guerrigliero è il gruppo”.
Se “la rivoluzione è abbandono dello spettacolo che passivizza, che rende oggetti, è moltiplicazione di soggetti critici capaci di riconoscere sempre più a se stessi (e sempre meno alle avanguardie dello spettacolo) la capacità di agire in modo creativo”. “Nulla si attaglia meglio della guerriglia che vive solo se esiste quella moltiplicazione dei soggetti critici (e le galere sono piene di questi soggetti) e vive nonostante coloro che la consumano solo come spettacolo, vittime dei mass-media. Se la violenza è spettacolo “che si consuma nella penombra della sopravvivenza” ogni villaggio, ogni città ha ormai il suo palcoscenico e i suoi attori; la violenza è uno spettacolo alla portata di tutti, purché provvisti di buona volontà.

Il movimento del ’77 e la guerriglia [3]
Le difficoltà in cui si trova il movimento dopo la grande ondata del ’77 sono in alcune analisi imputate alla guerriglia che avrebbe espropriato la violenza di massa, aumentando i consumatori dello spettacolo della violenza, snaturato il movimento dandogli un contenuto solo politico. Innanzitutto lo stesso movimento del ’77 non nasce dal nulla, ha una sua storia alle spalle su cui hanno influito, è difficile negarlo, anche le azioni della guerriglia. Se ci si fosse limitati all’ironia, a Roma Lama avrebbe tenuto il suo comizio all’Università e quello che è stato un fatto storico, la cacciata di Lama dall’Università, sarebbe stato più modestamente un comizio disturbato, magari con intelligenza, ma pur sempre un comizio, quindi una vittoria di Lama e dei suoi accoliti. È difficile scindere il movimento del ’77 da tutto ciò che si è detto e fatto in questi anni, specie dai gruppi armati e dalla guerriglia autonoma.
Da allora il movimento ha perso progressivamente la piazza; l’apparato repressivo, nato e sviluppato contro le manifestazioni di piazza, è sceso in campo con tutta la sua forza. Era prevedibile. Il tentativo da parte dell’autonomia di riconquistare la piazza sul piano militare si è rivelato subito impraticabile. Dopo aver eroso la piazza, il potere ha chiuso sedi, giornali, radio, ha cominciato la caccia sistematica all’autonomo. Era anche questo prevedibile. La critica critica di Milano (ci riferiamo agli autori di “Insurrezione”) esalta il movimento del ’77, com’è giusto, ma contraddittoriamente, se ne nasconde le conseguenze. Si vuole la cacciata di Lama, l’assedio di Bologna, ma non si vogliono le conseguenze repressive. Queste, se ci sono, vanno imputate alla guerriglia. È una bella inversione! Come l’altra, che la guerriglia toglie spazio legale al movimento, accelera la sua criminalizzazione.
Abbiamo già detto che le leggi eccezionali sono state varate dopo il ’68, contro il movimento, e in un periodo in cui le merci erano ancora un solido veicolo di consenso. Oggi il potere ha bisogno di ideologizzarsi, di far arrivare alla gente messaggi concordanti e convergenti verso il consenso. Il dominio del fittizio non può che essere totalitario, come in una sinfonia, basta una nota stonata per rompere l’incanto, come in un bel comizio di Tronti sulla classe operaia che si fa Stato, basta un poderoso pernacchio. Si può allora azzardare l’ipotesi contraria: il movimento sarebbe stato già sbaragliato, nelle sue sedi, nei suoi giornali, nelle sue radio, se la guerriglia non facesse da parafulmine, attirandosi addosso tutto l’apparato repressivo. Obiettivo del potere in questa fase è isolare la guerriglia, sradicarla dal movimento e quindi snaturarla dei suoi contenuti e delle sue radici sociali e culturali e per far questo non può criminalizzare il movimento perché questo oggi troverebbe ad accoglierlo una società sotterranea in sviluppo. Il movimento ha lo spazio della guerriglia, se questa crolla, lo inghiottirà. Immaginate gli uomini del generale Dalla Chiesa liberi dai loro compiti “istituzionali”. La critica critica che tende ad isolare la guerriglia dal movimento è perfettamente funzionale al piano di repressione il quale usa la violenza contro la guerriglia e usa la critica (da Asor Rosa ai cinici senza passione) per isolarla. La critica critica, che sa tutto, non sa che isolando la guerriglia prepara anche le condizioni della propria precipitazione nella clandestinità, a meno che il capitale, nella sua grande ingenuità, come non sa riconoscere oggi i suoi amici e tortura, ammazza, perseguita i terroristi, domani non sappia riconoscere come sua unica nemica la critica critica e garantisca ad essa cattedre e palcoscenici.
La critica critica di Milano non è l’unico neo nel panorama dell’autentico, esiste anche la critica critica [dopo queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “di alcuni settori del movimento anarchico: ci riferiamo ad alcuni articoli apparsi di recente su “Anarchismo”, in cui …”] di Catania la quale, a differenza della prima, ha deciso di occupare “editorialmente” l’area di propaganda armata: ci riferiamo all’articolo apparso sul n. 21 di “Anarchismo” che dopo aver constatato il generalizzarsi del comportamento illegale e il carattere prerivoluzionario della fase attuale, vuole alfine dire una parola chiara su quelli che devono essere i compiti rivoluzionari degli anarchici. Date le premesse ci si sarebbe aspettati una risposta del tipo: gli anarchici devono cominciare a ribellarsi. Niente di tutto ciò: gli anarchici devono spingere gli sfruttati a ribellarsi. Nell’interpretazione malevola ciò può voler dire: è la vecchia solfa, i leninisti, gli stalinisti, gli operaisti si ribellano, perché gli anarchici devono limitarsi a spingere gli altri? chi spingerà gli anarchici? Non si troveranno fuori dalla storia ancora una volta? Nell’interpretazione benevola: spingere gli sfruttati a ribellarsi nell’unico modo in cui è possibile, ribellandosi, non con fiumi di inchiostro. Diamo per buona questa interpretazione e andiamo avanti. A meno di un ritorno a vecchie forme di individualismo (rispettabili se praticate, ma discutibili) ribellarsi significa organizzarsi se non ci si vuole esporre al massacro e se si vuole dare un minimo di continuità e di luce all’azione. La critica critica [a posto di queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “Nel n. 21 si…”] salta quest’inezia con un volo nel nulla: scrive: “gli anarchici devono capire che la sola alternativa alle BR non è un’organizzazione anarchica (AR o chicchessia) ma la lotta generalizzata armata, spinta sino al livello insurrezionale, fatto questo ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche”. Che significa? niente, o qualcosa di peggio, merda o giù di lì. Da una parte si consumano fiumi d’inchiostro, di morotea “cauta attenzione” alle organizzazioni “staliniste” per metterne in luce le potenzialità controrivoluzionarie, poi si scopre che il problema non è quello di organizzare le forze non leniniste ma di “generalizzare” la lotta. Visto che gli anarchici non hanno ancora preso posizione, organizzare le forze non leniniste non fa parte appunto di quella generalizzazione? Al di fuori di ciò, che senso ha dire che la generalizzazione è un’alternativa? Da quel che si sa gran parte di questa “generalizzazione” è stata veicolata e promossa dalle organizzazioni leniniste che ne detengono, a ragione, l’egemonia, o “Anarchismo” [a posto di questa parola la versione della rivista “Anarchismo” riporta: “questi compagni anarchici pensano…”] pensa che tutta questa gente che si ribella sia puro frutto del nulla o della lettura della rivista? o pensa, come i critici critici di Milano, che il fuoco insurrezionale brucerà tutte le forze che hanno appiccato il fuoco per lasciare libera espressione alla critica critica? Gli anarchici che hanno riflettuto seriamente sulla rivoluzione russa avevano molto meno ottimismo. Berneri, riflettendo sull’azione popolare insurrezionale, vi vedeva più “effetti” anarchici che “intenti” anarchici: “non credo, egli scriveva, che la funzione degli anarchici nella rivoluzione debba limitarsi a ‘sopprimere’ gli ostacoli alla manifestazione della volontà delle masse: vedo gravi pericoli e non poche difficoltà negli egoismi municipalistici e corporativi. Si aggiunga che l’iniziativa popolare non sempre conserva il suo slancio oltre il periodo insurrezionale, sì che v’è da temere non poco il ‘lasciar fare’ sul terreno politico amministrativo. Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: cosa facciamo? Bisogna dare una risposta. Non per far da capi ma perché la folla non se li crei”. I critici critici [a posto di queste parole la versione di “Anarchismo” riporta: “I redattori di ‘Anarchismo’”] dovrebbero sapere che non si tratta più di gridare Viva la lotta armata, viva la gioia armata: la propaganda la lotta armata se la fa da sé, non gli occorrono racket culturali, né si tratta semplicemente di battersi in un modo qualsiasi, in un gruppo qualsiasi com’è accaduto purtroppo per tanti militanti anarchici del passato. Organizzarsi è qualcosa di più di un semplice prendere le armi, darsi una struttura più o meno clandestina e cominciare a lottare. Significa anche dare una risposta alle questioni decisive della rivoluzione.
Makhno non ha mai imputato il fallimento del movimento anarchico in Russia alla repressione bolscevica. Sentiamolo: “L’anarchismo non aveva alcuna opinione chiara e concreta sui principali problemi della rivoluzione sociale… Sull’occupazione delle fabbriche esso non aveva alcuna concezione chiara e precisa, riguardante la nuova produzione e la sua struttura. Per quanto riguarda il principio comunista ‘da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni’ gli anarchici non cercarono mai di applicarlo nella realtà. Essi ignoravano quali forme deve assumere l’attività rivoluzionaria dei lavoratori e quale relazione deve intercorrere fra le masse e il loro centro ideologico. Scuotere il giogo delle autorità è giusto ma bisogna anche sapere con quali mezzi consolidare e difendere le conquiste della rivoluzione. Proprio queste carenze allontanano gli anarchici dall’attività delle masse e li votano all’impotenza sociale e storica”.

Verso una rivoluzione senza modello
Sui muri di Bologna è apparsa una scritta: URSS, Cina, Cuba, Vietnam, con quattro croci sopra. I modelli hanno fatto il loro tempo e crollano uno dopo l’altro e non sono solo i modelli politici, ma anche i modelli di pensare e prevedere gli eventi politici. Dopo tante acrobazie ideologiche per ricondurre gli eventi imprevisti entro i propri modelli di intelligibilità (e le tante cadute) tutti sono diventati più prudenti. Nella misura in cui il pensiero modellistico altro non è che la forma ideologica del potere non c’è che da rallegrarsi della sua liquidazione, perché questa significa possibilità che nasca una nuova forma di pensiero. La morte dei modelli e del pensare per modelli libera il pensiero. I modelli sono a un tempo strumenti e forme dell’esercizio del potere, come dicono i gauchisti francesi i modelli sono “piccoli capi” che abbiamo nel cervello. “Ogni qual volta un essere umano, un nuovo gruppo contesti il potere e cerchi di immaginare una vita diversa, ogni volta i modelli vedono ridursi la propria base sociale: essi resistono solo perché non hanno perduto la loro base economica, che è la concentrazione e la pseudorazionalità delle forze produttive. La liquidazione dei modelli passa attraverso l’aggravarsi e l’accelerarsi di questo conflitto, cioè della concentrazione fra ciò che gli individui sono costretti a fare e ciò che essi potrebbero fare senza esservi costretti”. “Controinformazione”, com’era “prevedibile” ci ha gratificati come un fenomeno singolare, utopistico nel panorama del realismo e dell’apoditticità. Esisterebbero due tipi di pensiero e due tipi d’individuo, da una parte i professionisti della politica che pensano e agiscono secondo modelli e concetti, dall’altra quelli che si sforzano di pensare senza modelli, utopisti e dolci poeti. Apparterremmo alla seconda categoria ma saremmo un fenomeno singolare, relegato ai margini della polis, come proponeva Platone. “Controinformazione” ragiona ancora secondo modelli e per di più idealistici perché presuppone che possano esistere modi di pensare indipendentemente dalle condizioni storiche e sociali del loro insorgere. Bisognerebbe saper dire perché e dove, nella società si formino il pensiero realistico e quello utopistico. I realisti, come si sa, nel Maggio fecero una ben magra figura, si limitarono a dar voce alla rivendicazione dei mille franchi al mese; il Maggio fu degli utopisti, di quelli che dicevano: ciò che importa è di essere realisti, di chiedere l’impossibile. Non di accettare la frattura fra il “reale” e il sogno senza modello, ma di spazzar via il primo in nome dei diritti del secondo. Il cambiamento per cui si oppone al reale non un altro reale o un altro modello, ma un’utopia sta compiendosi sotto i nostri occhi. Ciò che impedisce di vederlo sono le nostre abitudini intellettuali. Per vederlo, del resto, bisogna contribuire concretamente a farlo.
Modello è qualcosa che esiste: dalla cui contemplazione nasce la forma di un pensiero o di un’azione, ma oggi non esistono modelli. Quello che cerchiamo non è un modello ma un progetto, una realtà anticipata, qualcosa che non esiste; si dice che il pensiero utopico è inefficiente, ma gli argomenti in termini di efficienza sono nella loro essenza argomenti venuti fuori col capitalismo e che debbono scomparire con esso. È una sorta di sbirro nel cervello. Del resto, ogni argomento di questo tipo viene fuori dopo una rimozione: farei o direi questo o quello, ma sarebbe inutile, irrealistico, inoperante, allora sto zitto. Il progetto rivoluzionario è proprio questa rimozione iniziale, è ciò che il capitale fa tacere. E come sempre in simili situazioni, quando ciò che è stato rimosso viene esplicitato, ci si accorge che invece di essere un’enormità o uno scandalo o una cosa inconcepibile è al contrario del tutto ovvia, semplice, accessibile, realizzabile.
È accaduto già nella storia che la “decadenza” e il marciume erano tali che nuovi rapporti di oppressione sono apparsi come liberatori solo perché proponevano altro. Ma il capitalismo ha fatto penetrare l’oppressione in tutti gli spazi dell’esistenza e ciò ha permesso per la prima volta nella storia di mettere in discussione il fatto globale e universale del dominio, il che non significa certo che nuovi rapporti di oppressione non possano apparire liberatori ma che la battaglia fra rivoluzione e controrivoluzione ha una posta del tutto nuova nella storia, la scomparsa dell’oppressione stessa. Gli utopisti chiedono l’impossibile?

Socialismo e comunismo [4]
Il comunismo è avvento del regno della gratuità, scomparsa del denaro, del valore di scambio, fine della peste mercantile che ha pervaso ogni piega dell’esistenza umana. Abolizione dell’economia con tutte le sue categorie: salario, prezzo, profitto. “Stasi dell’economia” direbbero gli operatori economici del fittizio o “gestione alternativa dell’economia” ma economia non vi è più, le leggi dell’avere non sono più riconosciute, i crediti e i debiti non possono essere più riscossi o saldati.
Le obiezioni non si contano, peggio non si pongono neppure! “Senza il denaro come si farebbe?”. Tutto l’universo economico ci appare naturale come l’aria e l’acqua. Se il capitale si materializza in profluvio di merci, assegni e banconote, selva di antenne tv, elicotteri antiguerriglia, megalopoli, esso è anche rappresentazione: acquistando tutta la fisicità degli uomini, diventando sangue e pensieri, esso permane e si riproduce perché è tale nella testa di ciascuno, perché impone una rappresentazione di sé a se stessi mediata dalle forme inorganiche in cui si manifesta. Che questa colonizzazione non sia totale, che anzi al contenimento segua spesso un’inversione di tendenza, un dissolvimento del suo potere di soggiogare le coscienze è solo il segno della resistenza opposto dalla soggettività umana in rivolta. A riprova di ciò sta tutta una serie di atti e comportamenti che il movimento rivoluzionario ha cominciato a praticare in modo diffuso, saccheggi, autoriduzioni, occupazioni di case, sciopero degli affitti, tutti volti a deprezzare la funzione del denaro, a creare una “cosa veramente diversa” non a partire da un rifiuto puro e semplice del mondo attuale, ma utilizzando, trasformando quello che questo mondo produce, spreca.
Proprio perché il dominio dell’economico è il dominio del fittizio e il capitale rappresentazione, occorre mostrare tutta l’inutilità del denaro ai “civilizzati” ammaliati dalla filosofia che “così è sempre stato e così sempre sarà”. Il fascino del denaro consiste nelle opportunità che offrirebbe, ben poche invero per la grande maggioranza dei proletarizzati ma la sola opportunità reale concessa è una sopravvivenza miserabile, anche se lo spettacolo mercantile incoraggia allo scambio del proprio servaggio con gli oggetti più inutili e assurdi. Dunque il comunismo, che è soddisfazione illimitata dei desideri e dei bisogni umani, realizzazione piena della libertà di vivere secondo il proprio piacere e le proprie inclinazioni, abolirà questi meccanismi di costrizione.
L’indicazione comunista non può dunque separarsi dall’immediata visualizzazione della possibile riorganizzazione comunitaria, dalle conseguenze che implicherà in tutti i campi della vita sociale, dello scadenzarsi del progetto comunista lungo il processo della guerra rivoluzionaria. Non sono pochi coloro, sia fra quanti praticano o teorizzano la lotta armata, sia nell’universo dell’autonomia che pongono il comunismo come fine del proprio programma e delle proprie scelte di vita e di lotta. Ma troppo spesso si tratta di indicazioni parziali, che non chiariscono a fondo la profondità del superamento necessario e le linee distintive del nuovo mondo che è già possibile definire attraverso i moti del cuore, l’intelligenza delle verità elementari che il dominio ha velato in permanenza impedendoci perfino di pensare che fosse possibile cambiare lo stato di cose al di là dei limiti riconosciuti. L’esperienza quotidiana dei rapporti, gli scritti e i documenti dell’area rivoluzionaria ci lasciano il dubbio che non si vada oltre l’indicazione del contropotere, della giusta ma non meglio specificata realizzazione dei bisogni, di alcuni elementi di programma ancora tutti calati nella dimensione dell’economia come realtà separata o in problematiche di gestione alternativa della realtà mercantile. E il dubbio si fa atroce quando sentiamo adombrare una prospettiva di comunismo mediata dalla peggiore tradizione del marxismo volgare: modo “socialista” di produrre, uguaglianza salariale, assistenza generalizzata, nazionalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio, gestione statale dell’economia, la dittatura politica di un partito o, nelle variabili soviettistiche, autogestione operaia delle imprese e un organo esecutivo con mandato imperativo e revocabile dei singoli consigli. Parliamoci chiaro, questo è socialismo, variabile non irrealizzabile dello sviluppo capitalistico nella sua fase anteriore, forma di organizzazione produttiva e sociale parzialmente realizzata nell’assetto attuale dell’area capitalistica occidentale e supporto ideologico di quella orientale. Quand’anche e se credessimo che una simile società del lavoro, della produzione di “valori d’uso”, della spersonalizzazione e dell’irreggimentazione per la costruzione di un “migliore domani” potesse realizzarsi nella sua interezza, non potremmo che schierarci “contro il socialismo”. Tanto più importante diventa dunque un dibattito collettivo sul contenuto del comunismo, compiere uno sforzo di visualizzazione della nuova comunità umana, del paesaggio che si trasformerà in modo così radicale da poterlo immaginare a fatica, definire le grandi linee che lo contraddistingueranno, gli elementi che tendono a prefigurarlo.
Il movimento rivoluzionario non può limitarsi a estendere e perfezionare l’esercizio delle armi e della critica all’esistente, attestarsi sul “negativo”, ma interrogarsi su se stesso, sul mondo che è possibile creare a partire dai bisogni, dai desideri, dai sogni, dal perseguimento violento e liberatorio di tutto ciò che la società nega ma anche a partire dalle possibilità che la società fa intravedere che un pensiero tutto preso dalle leggi dell’esistente si rifiuta di vedere. Ciò che più colpisce infatti è oggi l’apparente contraddizione fra maturità del comunismo sul piano materiale e la povertà dell’idea stessa. Contraddizione che per essere apparente non è meno aspra né di facile risoluzione, in quanto tale apparenza sembra affondare le proprie radici nella logica dello sviluppo capitalistico, nella perversione delle forze produttive, che hanno prodotto una vera e propria colonizzazione del pensiero, una mutilazione della capacità di intendere e volere altro dalla volontà e dagli interessi del potere e dei suoi funzionari. Il marxismo stravolto nella veste del determinismo non riesce più a rappresentare una rottura reale e un’alternativa teorica a questa logica del capitale: l’idea sembra aderire totalmente alla realtà, la concezione della comunità futura che nasce dai bisogni e dai desideri non più che dalle possibilità della loro realizzazione si riduce spesso all’enunciazione di uno slogan.
Certo l’idea della società comunista futura implica una tale distruzione di forze pervertite, un rovesciamento così totale da infondere sgomento e incredulità, più che paura e sfiducia in quanti se la prospettano superficialmente. Eppure lo stesso capitalismo ci ha abituato a una distruzione continua, disumana, profonda: le sue guerre hanno distrutto intere città, immense forze produttive, ma esso le ha ricostruite in quantità maggiore e le ha piegate sempre più al suo dominio. Segno che il livello ormai raggiunto del sapere sociale generalizzato è tale da consentire l’opera immane della eliminazione degli orrori dell’industrializzazione e commercializzazione capitalistica, la totale ricostruzione delle città e restaurazione della natura. Forse che il bisogno del profitto è più forte dei nuovi bisogni vitali della liberazione?

Guerriglia e/o insurrezione
La lotta armata in cui ci riconosciamo non presenta fin dai suoi inizi i caratteri che da un certo versante teorico le vengono attribuiti. Essa è invece guerra sociale, apertura e sviluppo di uno scontro tra le forze di un movimento comunista che si è manifestato in Italia a partire dal ’68/’69 e il nuovo dominio che il capitale sta preparando, uno scontro necessariamente condotto nelle forme della guerriglia; questa, radicandosi nel “movimento”, troverà forze e motivi che non la snaturino nella dimensione separata del politico e non la trasformino in una mera contrapposizione di apparati per la conquista del potere. Del resto i margini di questa possibilità si restringono sempre più; se qualcuno ha pensato di coinvolgere, attraverso la destabilizzazione del sistema politico, sezioni del movimento operaio e del PCI, avviando un processo di guerra civile con ovvie e davvero indesiderabili alleanze anche internazionali, si è dovuto ricredere per due ordini di motivi, primo perché il PCI è sostanzialmente “berlingueriano”, secondo perché le alleanze internazionali non si hanno più, la Cina è davvero vicina! L’ideologia, come si sa, è più lenta della pratica ma le “revisioni” prima o poi non tarderanno.
È opportuno allora chiedersi chi determina i tempi del precipitare della crisi. Solo allorché la guerra sociale avrà dispiegato tutte le sue potenzialità e saranno cadute sotto il maglio della critica tutte le ideologie della transizione al socialismo, solo allora acquisterà finalmente senso compiuto la frase “portare l’attacco al cuore dello Stato”.
Quale potrà essere lo sbocco vincente non lo possiamo prefigurare. Una insurrezione classica? Questo teorizzano alcuni e la cosa non può certo spaventare dei comunisti libertari. Certo, sarà una “insorgenza” che, proprio perché ha cominciato a manifestarsi, bisogna favorire con una continuità di iniziativa che la lotta legale o semilegale non consente più, occorre renderla viva, progetto di scuotimento incessante della normalità quotidiana [la versione di “Anarchismo” aggiunge: a proposito delle insidie del capitale!] nelle condizioni adatte la partecipazione [precipitazione: “Anarchismo”] a ciò che è inaccettabile è la contrapposizione fra guerriglia e insurrezione, l’idea ad esempio che la prima possa pregiudicare la seconda. Pensiamo anche che proprio nell’ipotesi pure improbabile di una improvvisa partecipazione insurrezionale o di una “grande fermata” tipo Maggio francese l’assenza di gruppi agenti preparati militarmente e teoricamente sia o possa essere esiziale all’avvenimento conducendo alla sconfitta o all’autoestinzione. Detroit, Parigi, Danzica, Bologna! scandiscono gli autori di “Insurrezione”. Lasciamo da parte l’analisi che evidenzierebbe la diversità delle situazioni o la loro importanza, vorremmo piuttosto non sentire più questa logica cantilenante: “e gli anni passano, i bimbi crescono, le mamme imbiancano…” per contro è storicamente dimostrabile che l’azione di gruppi armati e/o clandestini ha favorito sia lo sbocco rivoluzionario sia la vittoria nella stretta finale.
Colpire il cuore del dominio: banche e Stato [5]
Le forze della sovversione totale dovranno allora colpire fino in fondo il cuore dello Stato, prima che esso possa risorgere sotto altre vesti. “Più la nostra azione sarà risoluta e rapida, meno sangue scorrerà”. Tanto prima dunque, con più determinazione e assenza di scrupoli democratici si sradicheranno gli elementi vitali dell’organizzazione sociale, tanto meno o per nulla si porrà il problema di un’autorità che regoli, che diriga, che riorganizzi arbitrariamente. L’azione risoluta dei rivoluzionari, la loro iniziativa anche unilaterale è la sola che possa consentire l’autorganizzazione di più larghi strati di proletarizzati e poi della popolazione nel suo insieme. “Il raggruppamento di una parte della gente inizialmente ostile all’autogestione generalizzata è la prima pietra di paragone che permetterà di giudicare la riuscita delle prime misure adottate e delle loro validità per noi… Nondimeno bisogna fare i conti con le condizioni della gerarchia che le abitudini di schiavitù, il disprezzo di se stessi, l’ancoraggio alle inibizioni e il gusto del sacrificio spingono alla propria distruzione e alla distruzione di tutti i progressi della libertà concreta. Ecco perché è utile neutralizzare sin dall’inizio dell’azione rivoluzionaria i nemici dell’interno e i nemici dell’esterno”.
“La rivoluzione della vita quotidiana liquiderà le nozioni di giustizia, di castigo, di supplizio, nozioni subordinate allo scambio e al parcellare. Noi non vogliamo essere dei giustizieri ma dei signori senza schiavi che ritrovino, al di là della schiavitù, una nuova innocenza, una grazia di vivere. Si tratta di distruggere il nemico, non di giudicarlo. Nei villaggi liberati dalla sua colonna, Durruti chiamava a raccolta i contadini, domandava loro di indicare i fascisti e li fucilava immediatamente. La prossima rivoluzione rifarà lo stesso cammino. Serenamente. Noi sappiamo che non ci sarà più nessuno per giudicarci, che i giudici saranno assenti per sempre, perché saranno stati mangiati”.
La rivoluzione, all’inizio, avrà comunque bisogno di molti ostaggi per neutralizzare soprattutto le rappresaglie esterne. Le strutture centrali dello Stato saranno fatte saltare immediatamente decapitando il corpo della repressione-amministrazione e impedendo così non solo una possibile riorganizzazione della controrivoluzione ma anche le tentazioni autoritarie. “In caso di minaccia repressiva distruggere i luoghi e gli ostaggi. Ciò che non può essere espropriato a favore di tutti può essere distrutto; in caso di vittoria ricostruiremo, in caso di sconfitta, accelereremo la rovina della merce”. “Fin dall’inizio del movimento si tratta di impedire ogni ritorno indietro, di bruciare dietro di noi i vascelli del vecchio mondo, aiutando la sparizione delle banche, delle prigioni, dei manicomi, dei tribunali, dei palazzi amministrativi, delle caserme, dei commissariati, delle chiese, dei simboli oppressivi. Come pure gli incartamenti, gli schedari, le cambiali e gli impegni di pagamento, le cartelle delle imposte e ogni altro pezzo di carta di tipo finanziario”.

Un progetto [6]
Ratgeb (Vaneigem) pone a base del suo progetto l’autogestione generalizzata per opera delle assemblee degli operai rivoluzionari che occuperanno le fabbriche nel corso di uno sciopero generale selvaggio destinato ad allargarsi a tutto il territorio capitalizzato e a trasformarsi in insurrezione. Non si tratta di una pura riedizione dei vecchi progetti consiliari in quanto Ratgeb non affida le istanze decisionali alla classe autorganizzata ma agli operai soggettivamente rivoluzionari e non teorizza l’autogestione della produzione mercantile. Egli intende per autogestione generalizzata la riorganizzazione radicale in senso antimercantile e libertario della società. È chiaro a questo punto cosa ci divide da lui: innanzitutto la sua è un’ottica tutta francese che non considera la specificità dello scontro in atto in Italia; secondariamente egli è del tutto estraneo a quelle analisi che pur da angolature diverse hanno ripudiato la fabbrica come polo d’aggregazione dell’insubordinazione sociale e luogo d’organizzazione delle forze della rivolta; in terzo luogo egli rifiuta a tal punto l’idea dell’inglobamento operaio nella logica del capitale e quella della perversione delle forze produttive da attribuire al produttore di fabbrica il ruolo di soggetto storico rivoluzionario e da rifondare conseguentemente il mito dello sciopero generale che proprio l’esperienza del maggio ha rivelato nella sua inadeguatezza. Molto è tuttavia ciò che ci unisce a Ratgeb e a tutti quelli che cercano di vedere per cambiare. La condizione minima è l’accettazione della guerra, la discriminante di fondo la verifica del suo contenuto comunista.
“La fine della merce significa la nascita del dono in tutte le sue forme. Le assemblee di autogestione generalizzata organizzeranno dunque la produzione e la distribuzione dei beni prioritari. Esse registreranno le offerte di creazione e di produzione da un lato, le domande individuali dall’altro. Dai prospetti aggiornati ciascuno potrà prendere conoscenza degli stock disponibili, del numero e della ripartizione delle richieste, della localizzazione e del movimento delle forze produttive… Le fabbriche saranno riconvertite e automatizzate o, nel caso dei settori parassitari, distrutte. Un poco dovunque officine di libera creazione saranno messe a disposizione di tutti i talenti… Le costruzioni inutili (uffici, scuole, caserme, chiese…) saranno, su decisione delle assemblee di autogestione generalizzata, distrutte o preferibilmente trasformate in grandi collettivi, depositi, alloggi di passaggio, labirinti e terreni di gioco… Trasformare i supermercati e i grandi magazzini in centri di distribuzione gratuita…”.
Dunque, abolizione dell’economia, nel progetto di Ratgeb, distruzione delle banche e delle riserve auree. Distruzione immediata del potere che si fonda sul denaro e sull’oro, bisognerà aspettarsi una reazione violentissima della classe media la quale ha riposto tutto questo potere nelle casseforti e nelle cassette di sicurezza delle banche, i proletari al contrario non potranno che guardare con favore a questa misura, in banca essi ci vanno in genere per pagare le cambiali alla classe media. Se la rivoluzione resisterà a questa reazione violentissima, avrà superato la prima barriera. D’altra parte chiediamoci: che alternativa esiste? In alternativa non c’è che il controllo delle banche e di tutto l’apparato economico per “garantire la vittoria finale della rivoluzione”. Ma noi sappiamo che questo definisce la nascita di uno Stato, l’inizio del compromesso, una dinamica che parte dalla presa del palazzo d’Inverno e arriva ai giochi di prestigio della Nep, ai trattati commerciali con gli Stati “capitalisti” e tutto il resto. La rivoluzione porterà in sé una tale svalutazione della moneta che il suo possesso significherà ben poco, diversa è la situazione per le valute pregiate e l’oro di cui si adornano abbondantemente le classi possidenti, si tratterà di rastrellarlo e di distruggerlo o preferibilmente custodirlo da qualche parte in modo tale da poterlo rapidamente distruggere in caso di sconfitta. La sua custodia potrebbe rivelarsi utile per aprirsi qualche breccia nel fronte internazionale della controrivoluzione, il luccichio dell’oro fa miracoli agli occhi dei reazionari.
L’Italia è largamente dipendente dall’economia internazionale in alcuni settori di base fondamentali, quello alimentare soprattutto che nel processo rivoluzionario è decisivo. Per consentire la vittoria dell’insurrezione il controllo delle fonti agricole di approvvigionamento è fondamentale: in tutta la zona centrosettentrionale l’organizzazione politico sociale dei produttori agricoli (dalle aziende agricole ai piccoli proprietari) è funzionale al sistema esistente e interessata al suo mantenimento. L’integrazione produzione-distribuzione delle cooperative agricole, specie quelle emiliane (liberate dalla presa, non solo ideologica, dei picisti) può favorire la rivoluzione se questa non si abbandona ad atti boomerang. Come nota giustamente Ratgeb: “Senza la coscienza dell’autogestione generalizzata, il saccheggio nel migliore dei casi è una forma incoerente di distribuzione. È un atto separato delle condizioni rivoluzionarie in cui la collettività, che crea i beni, li distribuisce direttamente ai suoi membri. Per altro, rischia, causando carestia e mancanza di prodotti utili, di ingenerare confusione negli spiriti e provocare un ritorno ai meccanismi della distribuzione mercantile”.
Ci si dovrà attendere comunque una reazione non molto favorevole dei proprietari medi che dovranno essere sostituiti alla guida delle loro aziende ma non si potrà probabilmente sopravvivere senza un grande movimento migratorio verso la campagna, che coincide del resto col processo, anche questo indispensabile, di riumanizzazione-comunistizzazione del territorio. Questo movimento, esistente già oggi soprattutto fra i giovani e variamente ostacolato, troverà alcune strutture già pronte, utilizzando quanto la classe media ha costruito sulla liquidazione della campagna, in particolare “seconde” case vuote per la quasi totalità dell’anno, oltre alle strutture più antiche, in gran parte abbandonate ma tuttora abitabili. Buona parte della campagna potrà quindi essere rianimata in poco tempo da un movimento che, essendo in gran parte di origine cittadina, si troverà in gravi difficoltà se non avrà già acquisito le nozioni elementari di tecnica agricola e di trasformazione, nozioni che tuttavia, assieme a quelle dell’alimentazione alternativa, si vanno diffondendo. Tutto ciò che, nella sua parzialità viene oggi recuperato e controllato, rivelerà domani le sue possibilità di liberazione, anche a livello alimentare.
Superata questa prima barriera, altre se ne pongono subito. La produzione di massa, concentrata, richiede enormi quantità di energia. Vero è che lo stesso capitalismo tende a deconcentrarsi e costruire unità di media grandezza, vero è che molte produzioni socialmente dannose cesseranno, vero è che lo spreco energetico, specie quello autostradale, cesserà, tuttavia le strutture produttive che bisognerà riconvertire e automatizzare, anche medie e distribuite sul territorio, e quindi nella possibilità di utilizzare tutte le risorse energetiche del territorio avranno comunque bisogno sempre di un’enorme quantità di energia. Il movimento rivoluzionario si oppone, e giustamente, ai progetti nucleari per evitare la definitiva contaminazione della biosfera e la sua militarizzazione completa come compimento del progetto razionalmente e mostruosamente totalitario del capitale. A maggior ragione l’energia nucleare è inconcepibile nel comunismo. L’Italia è diventata la pattumiera d’Europa, vi si trasforma un’enorme quantità di petrolio in prodotti finiti, all’inizio la rivoluzione potrà utilizzare queste enormi riserve, è certo però che sarà facilitata se erediterà strutture che sfruttino altre forme di energia pulita, il vento, il sole, tanto pulite quanto intrinsecamente comuniste e di cui fortunatamente abbondiamo, il che comporterà finalmente una regolazione su tutto il territorio del regime delle acque, devastato dal capitalismo con le note conseguenze di scarsità d’acqua e alluvioni a volontà.
Superata anche questa barriera, se ne pone subito un’altra: la nostra industria è in gran parte industria di trasformazione ma cosa potremo trasformare se ci verranno a mancare le materie prime? Qui bisognerà davvero dare fondo a tutte le nostre risorse, riattivando tutta una serie di attività minerarie che il capitalismo ha abbandonato perché “antieconomiche” cioè improduttive di profitto, specialmente in Sardegna, Toscana, Valle d’Aosta, per non parlare del Sud, spogliato di braccia ma non ancora dei tesori del sottosuolo. Riattivando l’industria estrattiva, eliminando gli sprechi enormi e utilizzando fino all’osso le strutture produttive smantellate sia come materiali sia come mezzi di produzione, avremmo anche qui una buona autonomia che ci consentirebbe di resistere.
“Il lavoro forzato – scrive Ratgeb – produce soltanto merci. Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresenta. Il lavoro forzato produce dunque menzogna, esso produce un mondo di rappresentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine tiene il posto della realtà. In questo sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso due importanti menzogne:
“– primo, che il lavoro è utile e necessario, e che è interesse di tutti di lavorare;
“– secondo, far credere che i lavoratori sono incapaci di emanciparsi dal lavoro e dal salario”.
Il comunismo è finalmente abolizione del lavoro. Ma questo non sarà possibile all’inizio della rivoluzione che parzialmente. Gli ostacoli che il capitalismo ha di fronte nell’automazione di interi processi produttivi non sono di natura tecnica né economica, sono piuttosto di natura sociale: dovrebbe liberare masse di lavoratori e, per non essere travolto dalla loro protesta, dovrebbe assisterli ma in tal modo diffonderebbe una tale disaffezione al lavoro in tutto il tessuto sociale che potrebbe essergli letale; quanti fossero ancora costretti a lavorare nella produzione semiautomatica chiederebbero tutti di essere assistiti, si creerebbe una situazione insostenibile. Il capitalismo pratica l’abolizione del lavoro solo come aumento controllato della disoccupazione. Gli enormi capitali accumulati nella produzione di massa, di fronte a questo blocco, hanno continuato a vagare e a penetrare tutti gli interstizi del sociale e del privato per trarne un profitto. Se la rivoluzione spezza in un punto questa spirale potrà volgere questa massa enorme di mezzi, materiali e uomini oggi investita nel dominio del sociale e del privato alla liberazione sociale del lavoro (che è ben altra cosa dell’automazione della produzione di merci). È una possibilità perfettamente immanente ai processi tecnologici in corso. Certo, all’inizio, solo alcuni processi potranno essere automatizzati, altri dovranno essere riconvertiti e deconcentrati. La deconcentrazione, oltre che permettere l’utilizzo di forme energetiche locali, ecc., oltre che favorire l’automazione, permette una riduzione drastica dell’orario di lavoro e un coinvolgimento collettivo in esso. Pensare ad esempio di ridurre drasticamente l’orario di lavoro in una azienda a grande concentrazione è inimmaginabile; poniamo che si effettuino turni di lavoro di due ore e tutti debbano essere coinvolti nella produzione per impedire che i “piaceri” di tale attività ricadano sempre sulle spalle di una parte. Pensare ad un avvicendamento ogni due ore è assolutamente ridicolo, la dislocazione di masse di persone ogni due ore comporterebbe in fabbrica praticamente una paralisi mentre la città cadrebbe nel caos più totale e i mezzi di trasporto di queste persone diverrebbero in breve una dannazione generale. Tutto ciò che è inconcepibile a livello di grande concentrazione urbana diviene perfettamente possibile a livello di medio-piccole concentrazioni sul territorio. La gente abita nelle vicinanze della produzione e il turno di due ore è perfettamente concepibile. Il coinvolgimento collettivo sarà la molla decisiva all’automazione di queste unità perché sarà la comunità intera a volersi liberare della schiavitù del lavoro, non una sola parte.
La scomparsa dell’economia mercantile porterà con sé l’abolizione di tutte quelle attività fittizie che sono oggi gran parte della “nuova” occupazione, il cosiddetto terziario, e restituirà milioni di individui all’ozio e all’attività sensibile (il cui bisogno rispunta non a caso nella diffusione nel “terziario” degli hobbies più disparati). Sotto questa luce si mostrano bene le contraddizioni di una prospettiva autogestionistica classica, il contrasto, cioè, fra il fittizio insopportabile che permea le mansioni attinenti alla sfera sempre più integrata di produzione e circolazione del capitale e l’idea che questi contabili, questi manovali della cifra, costretti a una ripetitività di gesti insensati, non meno alienante del lavoro a catena o del loro quotidiano riscontro nell’ambito familiare, possano limitarsi ad “occupare” questi luoghi come se vi fosse in essi qualcosa da salvare, da riconvertire, da gestire “autonomamente”. Se il Maggio ebbe il merito di infrangere il mito delle tute blu con l’estensione del movimento delle occupazioni ai lavoratori del “terziario” esso dimostrò pure che l’unificazione del proletariato occupato si era attestata su una linea di comune volontà di partecipazione e di potere dentro l’impresa, insufficiente a mettere in discussione il lavoro e il suo contenuto.
Le moderne metropoli sono l’espressione di un ipersviluppo, il capitale nella sua concentrazione urbana; agglomerato di grattacieli (sedi di centri direzionali, banche, assicurazioni, ecc.) di supermarket, negozi di lusso, ritrovi alla moda, possono ben essere considerati centri del consumo mercantile, non solo in virtù delle trasformazioni intervenute nelle modalità del dominio, ma soprattutto per come queste cittadelle impongono con la loro progressiva estensione il sigillo di una potenza ostentata e irreversibile, di un magnetismo malefico che convoglia in tempi e con funzioni differenti una massa socialmente diversificata ma unita in una presenza forzosa che è consenso passivo (quello attivo purtroppo non manca ma è meno totale e minato di contraddizioni), confluenza inerziale in un “forum” dove i fantasmi della comunità del capitale si sfiorano con sgomento senza potersi conoscere o fingono di incontrarsi in una recita collettiva la cui unica mediazione è la merce. L’imponenza (se vogliamo “l’altezza”) di questi megaedifici non è solo in funzione di una maggiore valorizzazione, di più alti profitti. È un messaggio minaccioso, un costante invito alla resa che l’esperienza quotidiana della permanenza e del passaggio in questi centri di comando del capitale consente di ascoltare in tutta la sua terroristica altisonanza: “Io sono il dio tuo, non avrai altro dio al di fuori di me”.
Ma è la città nel suo insieme che direttamente recita, nella conformazione assunta a partire dall’assunzione borghese della gestione del suo sviluppo, il verbo della sottomissione, della disumanizzazione. Le città sono dunque da distruggere radicalmente, non in quanto possibilità di socializzazione di rapporti umani, ma in quanto totale negazione di tale possibilità. E che il capitale abbia distrutto già da tempo la campagna, sia in termini di dissoluzione delle comunità contadine sia come erosione e contaminazione di un ambito propriamente naturale, è una verità acquisita da tempo.
Il comunismo sarà dunque riumanizzazione del territorio, suo rimodellamento sui bisogni e i desideri della comunità umana realizzata, non semplice integrazione di entità colonizzate irreversibilmente. Non vi sarà più né città né campagna ma una distribuzione diffusa sul territorio la cui scansione in agglomerati urbani o più libere distese sarà determinata dalle libere scelte della comunità e degli individui.
Il comunismo rovescerà come un guanto l’odierna realtà del territorio capitalizzato. Nell’immediato procederà all’espropriazione generalizzata. I manifesti insurrezionali preparati da Babeuf durante la congiura degli uguali erano di una “praticità spaventosa”: “Il Direttorio insurrezionale, considerando che il popolo venne sempre lusingato con vane promesse e che è tempo di provvedere alla sua felicità, decreta quanto segue: Art. 1. Ad insurrezione finita, i cittadini poveri che sono attualmente male alloggiati non rientreranno nelle loro case, ma saranno immediatamente installati in quelle dei pubblici nemici. Art. 2. Si prenderanno nelle case dei ricchi tutti i mobili necessari per arredare convenientemente le dimore dei sansculottes”. La scelta sarà libera ma si dovranno porre i sigilli alle porte degli appartamenti “popolari” non assegnati e si inviterà la popolazione delle case “popolari” a trasferirsi. Istituzioni come lo IACP saranno cancellate come vergogna del passato al pari del concetto stesso di casa popolare. Il centro degli affari sarà raso al suolo immediatamente. Quando la maggior parte degli abitanti avranno abbandonato i casoni dei ghetti, si darà inizio alla loro distruzione. La provvisorietà dello stesso movimento di occupazione-riappropriazione deve essere chiara sin dal primo momento. La logica del “quartiere” e particolarmente del quartiere operaio va combattuta instancabilmente. Essa configura una visione reazionaria e mistificata dello spazio di movimento della lotta rivoluzionaria e sanziona la perpetuazione dell’attuale assetto territoriale.
L’architettura capitalistica compie l’opera dell’urbanistica nel frantumare ulteriormente la comunità sì che si stenta a credere che dietro le migliaia di finestre, di portoni, i chilometri di muraglie vivano qualcosa di più che fantasmi. L’architettura (e questa caratteristica si accentua con l’intensificarsi della guerra di classe) rende visibili le separatezze, la frantumazione della comunità in tante esistenze separate, senza possibilità di incontrarsi che non sia il grande ricatto del contratto sociale, la palestra degli ambienti, delle associazioni, dei ceti, delle classi, dei falansteri di scuola, fabbrica, ufficio.
Il comunismo aprirà queste porte, spalancherà le finestre, abbatterà i muri divisori. La casa come nido dell’autonomia delle passioni, della pluralità dei talenti o delle disposizioni emozionali. La casa grande e luminosa come l’abitazione degli dèi che Marx rivendicava per i proletari e contro il “proletariato”, mai seguito su questa strada di libertà. – “E qual genere di vita stabilirai? – Lo stesso per tutti, farò della città una sola casa, abbattendo tutti i tramezzi in modo da poter andare liberamente l’uno dall’altro”. (Aristofane). A Munster assediata, le porte delle abitazioni erano aperte notte e giorno, per imposizione scrivono gli scrittori di storia e non vi sono prove per affermare il contrario, visto che la storia dei tentativi comunisti è stata quasi sempre scritta dai suoi nemici e che nel caso specifico lo sterminio fu pressoché totale. Dunque è già accaduto che gli assertori dell’abolizione del “mio” e del “tuo”, i soggetti della comunità ritrovata, i proletari che cercavano una nuova vita e non migliori condizioni di lavoro o ritagli di proprietà nell’assetto sociale, facessero di una città una sola casa. In quasi tutti i casi di comunità proletarie o contadine, non ancora piegate dal capitale, la casa di uno era la casa di tutti (e i segni si leggono ancora nel permanere di certe tradizioni). I comunisti riproporranno questa semplice verità libertaria senza schiavi su cui appoggiarsi, senza ideologie religiose o laiche con cui mutilarla.
Il comunismo è riconquista del tempo a una dimensione umana.
Il tempo è ora il tempo del capitale: “il tempo è tutto, l’uomo è nulla, è solo una carcassa del tempo”. (K. Marx). Le “grandi” realizzazioni autostradali e ferroviarie, cioè l’accorciamento dei tempi di percorrenza sono in funzione del ciclo di produzione del valore. Non a caso il mito della velocità e del dinamismo, assieme alla glorificazione del macchinismo, esprime un’esigenza ad una diminuzione del tempo di rotazione del capitale. Il capitale sgonfia e gonfia come una fisarmonica i flussi circolatori nelle sue metropoli secondo i suoi ritmi; il traffico urbano, ad esempio, non è un problema della vita delle città ma una concretizzazione del capitale, che riesce a far apparire quella che è una delle più palesi e mostruose manifestazioni della sua esistenza come una cosa normale, un problema da assessorato municipale.
“Non c’è che il presente che possa essere totale. Un punto di una densità incredibile. Bisogna imparare a rallentare il tempo, a vivere la passione permanente dell’esperienza immediata. Un campione di tennis ha raccontato che nel corso di una gara aspramente combattuta ricevette una palla molto difficile da prendere. All’improvviso egli la vide avvicinarsi al rallentatore, così lentamente che egli ebbe il tempo di giudicare la situazione, di prendere una decisione e di effettuare un colpo da grande maestro. Nello spazio della situazione il tempo si dilata. Nell’autenticità il tempo si accelera. A chi possiederà la poetica del presente capiterà l’avventura del Piccolo Cinese innamorato della Regina dei Mari. Egli partì alla ricerca di lei verso il fondo degli oceani. Quando tornò a terra, un uomo vecchissimo che tagliava le rose gli disse: ‘Mio nonno mi parlò di un ragazzino scomparso in mare che aveva precisamente il vostro stesso nome’”. (Vaneigem, Trattato).
Ognuno soffre quotidianamente le assurde contraddizioni imposte dalla dittatura del cronometro: un intoppo, un ritardo solleva rabbia e proteste, è un tratto di corda che va aggiunto alla punizione della mente e del corpo imposta da questo giudice invisibile. I ritmi del tempo morto (appuntamenti, impegni, scadenze, ecc.) sono tali da esacerbare l’esasperazione. Treni, trasporti urbani ed extraurbani, nulla deve fermare l’ansia di non giungere in tempo. Ma che mi importerebbe del ritardo se tutto il complesso dell’esistenza sociale non mi imponesse di non concedermelo? Se tutto è gratuito, se si può essere pigri, se si può andare lenti, se nulla ci grida “più in fretta”, quegli scorci di vita che sfugge, quelle conoscenze mancate ridivengono una concreta possibilità di rapporti da arricchire. Le sveglie non suonano più, non c’è nulla che crocifigga la libertà di darsi tempi propri. Nel comunismo il tempo sarà tutto a disposizione di questa riconquista del tempo.
“Il sistema mercantile impone le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo senso, il suo linguaggio ogni volta che si lavora per esso, cioè la maggior parte del tempo. Questo insieme di idee, di immagini, di identificazioni, di condotte determinate dalla necessità di accumulazione e di rinnovamento della merce forma lo Spettacolo, in cui ciascuno gioca ciò che non vive realmente e vive falsamente ciò che non è. È per questo che il ruolo è una menzogna vivente e la sopravvivenza un malessere senza fine… I giornali, la radio, la televisione sono i veicoli più grossolani della menzogna. Le immagini che ci dominano sono il trionfo di ciò che non siamo e di ciò che ci scaccia da noi stessi…”. Il comunismo, essendo la realizzazione dei sogni e dei desideri, non saprà che farsene dell’industria dei sogni e dei desideri, così come realizzando il significato finora compiuto dall’espressione artistica renderà priva di significato la riproposizione della stessa, ma chi intenderà realizzare in questo modo le sue fantasie potrà disporre di tutto l’equipaggiamento necessario: “Ciascuno ha il diritto di fare conoscere le proprie critiche, le proprie rivendicazioni, le proprie opinioni, creazioni, desideri, analisi, fantasie, problemi… allo scopo che la più grande varietà possa determinare le migliori possibilità di scontro, di accordi, di armonizzazione. Le tipografie, litografie, telex, radio, televisioni passeranno nelle mani delle assemblee e saranno messe, a questo scopo, a disposizione di ogni individuo… Nessuno si batterà senza riserve se non apprenderà dapprima a vivere senza tempi morti”.
Il comunismo è abolizione di ogni tipo di galera: carceri, manicomi, orfanotrofi, conventi, ospizi, e di ogni istituzione atta a giudicare e a condannare: non devono esistere né tribunali né prigioni “rosse”; rifiuto della concezione stessa di rieducazione, di evidente derivazione pedagogistica legata alla visione della società civile.
Nel corso della guerra civile ci possono essere necessità che possono comportare particolari forme di coazione come il momentaneo concentramento di prigionieri e ostaggi, si provvederà secondo un’alternativa più drastica: eliminazione degli infami della repressione e dei più pericolosi e ignobili rappresentanti della controrivoluzione nel campo politico, economico e istituzionale ed immediato disarmo e dispersione dei quadri medi, dei soldati semplici, inviandoli nei loro luoghi di origine. Che senso avrebbe il mantenimento di un solo carcere sia pure inteso come autodifesa? E quando pure gli si riconoscesse questo senso, non sarebbe meno ignobile dell’antica vergogna. Ogni carcere esistente sarà raso al suolo, sia il suo statuto simbolico, sia la sua memoria di luogo di oppressione, sia quasi sempre la sua forma architettonica volta all’orrore della pena e della reclusione non consentono neppure di pensare a un uso diverso. Lo stesso varrà per questure, tribunali, prefetture e nella maggior parte dei casi per i palazzi amministrativi. Nel comunismo non vi sono asili infantili, né scuole, né università, perché la creazione continua delle proprie condizioni di esistenza accompagna l’apprendimento di una realtà non separata e in continuo mutamento. Il comunismo non si pone il problema dell’educazione dei fanciulli perché la conduzione lungo la strada delle generazioni è un percorso di perversione disumana di cui si perderanno le tracce.
I preti faranno bene ad eclissarsi al più presto: una loro ricomparsa indurrebbe a “deplorevoli” eccessi che nessun storiografo potrà registrare. Alla larga dunque i centri cattolici e le parrocchie, sgomberati o incendiati a seconda dei luoghi o delle situazioni. San Pietro o il Duomo di Milano potrebbero fare un cascatone di prima grandezza. Riguardo agli ospedali il comunismo tende alla salute attraverso la soppressione della medicina. È chiaro che nell’immediato si dovranno potenziare i mezzi per guarire i guasti prodotti dal capitale. Pur nel suo evoluzionismo e nel suo positivismo le indicazioni di Jean Grave hanno ancora la loro validità: “I medici hanno notato che, durante i periodi tumultuosi, le malattie avevano molto minore effetto presso i popoli agitati: e questo è vero perché la lotta, il movimento, l’entusiasmo sviluppano le forze vitali dell’individuo e lo rendono meno vulnerabile ai colpi delle malattie. Il lungo periodo rivoluzionario che l’umanità dovrà attraversare, esaltando nell’individuo tutte le passioni che gli danno vitalità, contribuisce in gran parte a eliminare quei germi morbosi che trascinano l’umanità verso la decadenza. La società futura, col ricondurre l’uomo alle sue condizioni naturali di esistenza, l’emanciperà dai morbi e la ricondurrà sulla via del progresso”.

Utopia e realtà [7]
È difficile negare che il progetto comunista, qui abbozzato in alcune linee essenziali, non viva già oggi nel movimento in atto. Lo abbiamo sfrondato di tante particolarità soprattutto perché gran parte dei problemi che si porranno concretamente non potranno essere risolti che dalla creatività risvegliata: anticiparne oggi le soluzioni, anche solo con l’immaginazione, contraddirebbe in pieno l’assunto che sta al fondo del progetto stesso, un atto di fiducia nella creatività generale, il cui risveglio costituisce il fine e al tempo stesso la condizione della rivoluzione.
Il progetto vive negli uomini che hanno bruciato dietro di sé i vascelli del vecchio mondo, negli assalti alle banche, alle prigioni, ai tribunali, alle caserme, ai commissariati, alle chiese, alla merce, nella cattura e liquidazione degli ostaggi, delle spie, degli infami. La lotta allo Stato, alle sue strutture centrali di repressione, controllo e amministrazione degli uomini avvertirà la rivoluzione dei pericoli immensi della sua sopravvivenza e spingerà domani alla rapida decapitazione di questo apparato mostruoso sia per impedire una possibile riorganizzazione della controrivoluzione sia per impedire ogni tentazione autoritaria. La lotta alla democrazia avvertirà la rivoluzione delle sue immense capacità di “recupero”, l’avvertirà che tanto prima, con più determinazione e assenza di scrupoli democratici si sradicheranno gli elementi vitali dell’organizzazione sociale, tanto meno o per nulla si porrà il problema di un’autorità che regoli, che diriga, che riorganizzi arbitrariamente. L’azione risoluta dei rivoluzionari, la loro iniziativa anche unilaterale è la sola che possa consentire l’autorganizzazione di più larghi strati di proletarizzati e poi della popolazione nel suo insieme. Certo bisogna fare i conti con le condizioni della gerarchia che le abitudini di schiavitù, il disprezzo di se stessi e l’ancoraggio all’inibizione, il gusto del sacrificio spingono alla propria distruzione e alla distruzione di tutti i progressi della libertà concreta. Ecco perché è e sarà utile sin dall’inizio neutralizzare i nemici dell’interno e i nemici dell’esterno. La lotta alla merce libererà infine la rivoluzione dalla transizione, dall’ancoraggio alle leggi della sua riproduzione.
Quanto più radicale è e sarà la negazione, tanto più forte sarà la reazione interna e internazionale, toccheremo con mano l’unità mondiale del modo di produzione capitalistico. Le barriere cui si accennava per essere superate richiedono tempo e la rivoluzione, in qualsiasi punto del pianeta capitale si verifichi, a meno di non moderare la propria radicalità, dovrà affrontare nel migliore dei casi un boicottaggio economico che potrebbe far rimpiangere a molti i bei tempi del dominio della merce. Il capitale ci lascia in eredità il mondo unilateralizzato della divisione del lavoro, la rivoluzione dovrà propagarsi immediatamente all’area indispensabile della sua sopravvivenza e sviluppo, e ciò comporta una linea di sviluppo non ineguale della guerra di classe. La guerriglia deve accelerare i tempi della sua internazionalizzazione se non vuole soccombere alle “leggi” dello sviluppo ineguale.
Il nuovo Stato Europeo accentuerà quella unilateralizzazione e al contempo la repressione delle “provincie” ribelli, occorre che queste rompano l’isolamento propagando la guerriglia in modo che i tempi dello Stato Europeo siano anche i tempi della sua sovversione.

Abolizione dell’economia [8]
Ratgeb (Vaneigem) pone a base del suo progetto l’autogestione generalizzata per opera delle assemblee degli operai rivoluzionari che occuperanno le fabbriche nel corso di uno sciopero generale selvaggio destinato ad allargarsi a tutto il territorio capitalizzato e a trasformarsi in insurrezione. Non si tratta di una pura riedizione dei vecchi progetti consiliari in quanto Ratgeb non affida le istanze decisionali alla classe autorganizzata ma agli operai soggettivamente rivoluzionari e non teorizza l’autogestione della produzione mercantile. Egli intende per autogestione generalizzata la riorganizzazione radicale in senso antimercantile e libertario della società. È chiaro a questo punto cosa ci divide da lui: innanzitutto la sua è un’ottica tutta francese che non considera la specificità dello scontro in atto in Italia caratterizzato da una guerra civile strisciante e da un altissimo livello di repressione statuale che impone una diversa strategia al movimento rivoluzionario: secondariamente egli è del tutto estraneo a quelle analisi che pur da angolature diverse hanno ripudiato la fabbrica come polo d’aggregazione dell’insubordinazione sociale e luogo d’organizzazione delle forze della rivolta; in terzo luogo egli rifiuta a tal punto l’idea dell’inglobamento operaio nella logica del capitale e quella della perversione delle forze produttive da attribuire al produttore di fabbrica il ruolo di soggetto storico rivoluzionario e da rifondare conseguentemente il mito dello sciopero generale che proprio per l’esperienza del Maggio ha rivelato nella sua inadeguatezza. Molto è tuttavia ciò che ci unisce a Ratgeb e a tutti quelli che cercano di vedere per cambiare. La condizione minima è l’accettazione della guerra, la discriminante di fondo la verifica del suo contenuto comunista.
“La fine della merce significa la nascita del dono in tutte le sue forme. Le assemblee di autogestione generalizzata organizzeranno dunque la produzione e la distribuzione dei beni prioritari. Esse registreranno le offerte di creazione e di produzione da un lato, le domande individuali dall’altro. Dai prospetti aggiornati ciascuno potrà prendere conoscenza degli stock disponibili, del numero e della ripartizione delle richieste, della localizzazione e del movimento delle forze produttive… Le fabbriche saranno riconvertite ed automatizzate o, nel caso di settori parassitari, distrutte. Un poco dovunque officine di libera creazione saranno messe a disposizione di tutti i talenti… Le costruzioni inutili (uffici, scuole, caserme, chiese… ) saranno, su decisione delle assemblee di autogestione generalizzata distrutte o preferibilmente trasformate in grandi collettivi, depositi, alloggi di passaggio, labirinti e terreni di gioco… Trasformare i supermercati e i grandi magazzini in centri di distribuzione gratuita, esaminando l’opportunità di moltiplicare per regione i piccoli centri di distribuzione”.
Dunque abolizione dell’economia, nel progetto di Ratgeb, distruzione delle banche e delle riserve auree. Distruzione immediata del potere che si fonda sul denaro e sull’oro, bisognerà aspettarsi una reazione violentissima della classe media la quale ha riposto tutto questo potere nelle casseforti e nelle cassette di sicurezza delle banche, i proletari al contrario non potranno che guardare con favore queste misure, in banca essi ci vanno in genere a pagare le cambiali alla classe media. Se la rivoluzione resisterà a questa reazione violentissima, avrà superata la prima barriera. D’altra parte chiediamoci: che alternativa esiste? In alternativa non c’è che il controllo delle banche e di tutto l’apparato economico per “garantire la vittoria finale della rivoluzione”. Ma noi sappiamo che questo definisce la nascita di uno Stato, l’inizio del compromesso, una dinamica che parte dalla presa del Palazzo d’inverno e arriva ai giochi di prestigio della Nep, ai trattati commerciali con gli Stati “capitalisti” e tutto il resto. D’altronde la rivoluzione porterà con sé una tale svalutazione della moneta che il suo possesso significherà ben poco al pari della sua distruzione, diversa è la situazione per la riserva aurea e di valuta pregiata, queste perché distruggerle? Esse non subiscono la stessa svalutazione e costituiscono un punto di forza di una rivoluzione che non abbia dimensioni, diciamo, europee. Certo dovrà essere custodita in modo da poterla rapidamente distruggere in caso di sconfitta. La nostra economia è molto dipendente dalle altre in alcuni settori di base fondamentali, quello alimentare soprattutto che nel processo rivoluzionario è decisivo. Per consentire la vittoria dell’insurrezione il controllo delle fonti agricole di approvvigionamento è fondamentale: in tutta la zona centro-settentrionale l’organizzazione politico sociale dei produttori agricoli (dalle aziende ai piccoli proprietari) è funzionale al sistema esistente e interessata al suo mantenimento. L’integrazione produzione-distribuzione delle cooperative agricole può favorire la rivoluzione se questa non si abbandona ad atti boomerang, nota giustamente Ratgeb: “Senza la coscienza dell’autogestione generalizzata, il saccheggio nel migliore dei casi è una forma incoerente di distribuzione. È un atto separato dalle condizioni rivoluzionarie in cui la collettività, che crea i beni, li distribuisce direttamente ai suoi membri. Per altro, rischia, causando carestia e mancanza di prodotti utili, di ingenerare confusione negli spiriti e provocare un ritorno ai meccanismi della distribuzione mercantile”.
Ci si dovrà attendere comunque una reazione non molto favorevole dei proprietari medi che dovranno essere sostituiti alla guida delle loro aziende ma non si potrà probabilmente sopravvivere senza un grande movimento migratorio verso la campagna, che coincide del resto col processo, anche questo indispensabile, di riumanizzazione-comunistizzazione del territorio. Questo movimento, esistente già oggi soprattutto fra i giovani e variamente ostacolato, troverà alcune strutture già pronte, utilizzando quanto la classe media ha costruito sulla liquidazione della campagna, ci riferiamo alle “seconde case” vuote per la quasi totalità dell’anno, oltre alle strutture più antiche, in gran parte abbandonate ma tuttora abitabili. Buona parte della campagna potrà quindi essere riabitata in poco tempo e potrà essere rianimata da un movimento che, essendo in gran parte cittadino, si troverà in gravi difficoltà solo se non avrà prima acquisito le nozioni elementari di tecnica agricola e di trasformazione. Nozioni che assieme a quelle dell’alimentazione alternativa si vanno del resto diffondendo.
Nel caso probabile che questo movimento migratorio non si dispieghi con il ritmo necessario, una riserva aurea, ammesso che qualche paese sia disposto a non intralciare la rivoluzione, può essere di grande utilità nella prima fase, soprattutto per garantire che la carestia non uccida la rivoluzione.
Ma superata questa prima barriera, altre se ne pongono subito. La produzione di massa, concentrata, richiede enormi quantità di energia. Vero è che lo stesso capitalismo tende a deconcentrarsi e a costituire unità di media grandezza, vero è che molte produzioni socialmente dannose cesseranno, vero è che lo spreco energetico autostradale cesserà, tuttavia le strutture produttive che bisognerà riconvertire o automatizzare, anche se medie e distribuite nel territorio, e quindi nella possibilità di utilizzare tutte le risorse energetiche del territorio, avranno comunque bisogno sempre di un’enorme quantità di energia. Se la rivoluzione non sarà stroncata dalla carestia, potrà esserlo rapidamente dalla mancanza di energia. Il movimento rivoluzionario si oppone e giustamente ai progetti nucleari per evitare la definitiva contaminazione della biosfera e la sua militarizzazione completa come compimento del progetto razionalmente e mostruosamente totalitario del capitale. A maggior ragione l’energia nucleare è inconcepibile nel comunismo. L’Italia è diventata la pattumiera d’Europa, vi si trasforma un’enorme quantità di petrolio in prodotti finiti, all’inizio la rivoluzione potrà utilizzare queste enormi riserve, se avrà buoni rapporti con alcuni paesi arabi relativamente indipendenti dall’imperialismo americano o sovietico potrà essere anche rifornita per un certo periodo, è certo però che se non erediterà strutture che sfruttino altre forme di energia pulita, dovrà avviarsi immediatamente verso la loro creazione, soprattutto il vento e il sole, tanto pulite quanto intrinsecamente comuniste e di cui fortunatamente abbondiamo, al pari beninteso dell’energia idroelettrica, di cui pure abbondiamo il che comporterà finalmente una regolazione su tutto il territorio del regime delle acque, devastato dal capitalismo con le note conseguenze di scarsità d’acqua accompagnata dal suo contrario, alluvioni a volontà.
Ammesso che anche questa barriera sia superata, se ne pone subito un’altra, la nostra industria è in gran parte industria di trasformazione, ma cosa trasformare se ci verranno a mancare le materie prime? Qui bisognerà dare davvero fondo a tutte le nostre risorse; per i minerali di ferro noi dipendiamo dal terzo mondo, bisognerà intrattenere buoni rapporti con questi paesi se non vogliamo fermare in breve la nostra produzione, a meno di non riattivare tutta una serie di attività minerarie che il capitalismo ha abbandonate non perché improduttive ma solo improduttive di profitto, specialmente in Sardegna, Toscana, Valle D’Aosta, per non parlare di tutto il Sud di cui il capitalismo ha spogliato solo le braccia ma che nasconde tesori nel suo sottosuolo. Riattivando questa parte dell’industria estrattiva ed eliminando gli sprechi enormi e utilizzando fino all’osso le strutture produttive smantellate sia come materiali che come mezzi di produzione, avremo anche qui una buona autonomia che ci consentirebbe di resistere.
“Il lavoro forzato produce soltanto merci. Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresenta. Il lavoro forzato produce dunque menzogne, esso produce un mondo di rappresentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine tiene il posto della realtà. In questo sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso due importanti menzogne:
“– primo, che il lavoro è utile e necessario, e che è interesse di tutti di lavorare;
“– secondo, far credere che i lavoratori sono incapaci di emanciparsi dal lavoro e dal salariato”. (Ratgeb).
Il comunismo è finalmente abolizione del lavoro. Ma questo non sarà possibile all’inizio della rivoluzione che parzialmente. Gli ostacoli che già il capitalismo ha di fronte nell’automazione di interi processi produttivi non sono di natura tecnica né economica, sono piuttosto di natura sociale, dovrebbe liberare masse di lavoratori e, per non essere travolto dalla loro protesta, dovrebbe assisterli ma in tal modo diffonderebbe una tale disaffezione al lavoro in tutto il tessuto sociale che potrebbe essergli letale, oltre al fatto che quanti fossero ancora costretti a lavorare nella produzione semiautomatica chiederebbero tutti di essere assistiti; in breve si creerebbe una situazione insostenibile. Il capitalismo pratica l’abolizione del lavoro solo come aumento controllato della disoccupazione; gli enormi capitali accumulati nella produzione di massa anziché essere investiti nell’abolizione del lavoro vagano alla ricerca degli investimenti più assurdi, penetrano in tutti gli interstizi del sociale e del privato pur di trarne un profitto. Se questo dominio viene spezzato in un punto queste produzioni inutili scompaiono, oltre che liberare il sociale dalla presa della morte, delle forme inorganiche, si può distogliere tutta questa massa enorme di mezzi, materiali e lavoro dal dominio che essi esercitano sul sociale e volgerli alla liberazione sociale dal lavoro. È una possibilità perfettamente immanente nei processi in corso; certo all’inizio solo alcuni processi saranno automatizzati, per altri bisognerà procedere a una riconversione del processo di produzione; la sua deconcentrazione permette una serie di vantaggi, oltre che permettere l’utilizzo di forme energetiche pulite, locali, essa permette una riduzione drastica dell’orario di lavoro e un coinvolgimento collettivo in esso. Pensare, ad esempio, di ridurre drasticamente l’orario di lavoro in un’azienda a grande concentrazione è inimmaginabile, poniamo ad esempio che si effettuino turni di lavoro di due ore e tutti debbano essere coinvolti nella produzione di massa per impedire che i “piaceri” di tale produzione ricadano sempre sulle spalle di una parte, pensare a un avvicendamento ogni due ore è assolutamente ridicolo, la dislocazione di masse di persone ogni due ore comporterebbe in fabbrica praticamente una paralisi mentre la città cadrebbe nel caos più totale e i mezzi di trasporto di queste persone diverrebbero in breve una dannazione generale. Tutto ciò che è inconcepibile a livello di grande concentrazione urbana, diviene perfettamente possibile a livello di medio-piccole concentrazioni di villaggio, paese, piccola città o sezione della grande città. La gente abita nelle vicinanze della fabbrica e un turno di due ore è perfettamente concepibile. Il coinvolgimento collettivo sarà la molla decisiva all’automazione di queste unità perché sarà la comunità tutta a volersi liberare dalla schiavitù del lavoro, non una sola parte.
Le contraddizioni di una prospettiva autogestionistica classica si mostrano bene nel contrasto fra il fittizio insopportabile che permea le mansioni attinenti alla sfera sempre più integrata di circolazione e produzione del capitale e l’idea che in questi contabili, questi manovali della cifra, costretti a una ripetitività di gesti insensati non meno disumanizzante del lavoro a catena in fabbrica o del loro quotidiano riscontro nell’ambito familiare, possano limitarsi ad “occupare” questi luoghi come se vi fosse in essi qualcosa da salvare, da riconvertire, da gestire “autonomamente”. Se il Maggio ebbe il merito di infrangere il mito delle tute blu con l’estensione del movimento delle occupazioni ai lavoratori del “terziario”, esso dimostrò pure che l’unificazione del proletariato occupato si era assestata su una linea di comune ma insufficiente volontà di partecipazione e di potere dentro l’impresa ma non a mettere in discussione il proprio ruolo di salariati, il lavoro, il suo contenuto.
Le moderne metropoli sono l’espressione di un ipersviluppo, il capitale nella sua concentrazione urbana, i centri del consumo e degli affari, agglomerato di grattacieli (sedi di centri direzionali, banche, assicurazioni, ecc.) di supermarket, negozi di lusso, ritrovi alla moda, possono ben essere considerate centri del consumo mercantile, non solo in virtù delle trasformazioni intervenute nelle modalità del dominio, ma soprattutto per come queste cittadelle impongono con la loro progressiva estensione il sigillo di una potenza ostentata e irreversibile, di un magnetismo malefico che convoglia in tempi e con funzioni differenti una massa socialmente diversificata ma unita in una presenza forzosa che è consenso passivo (quello attivo purtroppo non manca ma è meno totale e minato di contraddizioni), confluenza inerziale in un “forum” dove i fantasmi della comunità del capitale si sfiorano con sgomento senza potersi conoscere o fingono di incontrarsi in una recita collettiva la cui unica mediazione è la merce. L’imponenza (se vogliamo “l’altezza”) di questi megaedifici non è solo in funzione di una maggiore valorizzazione, di più alti profitti. È un messaggio minaccioso, un costante invito alla resa che l’esperienza quotidiana della permanenza e del passaggio in questi centri di comando del capitale consente di ascoltare in tutta la sua terroristica altisonanza: “Io sono il signore dio tuo, non avrai altro dio al di fuori di me”. Ma è la città nel suo insieme direttamente che recita, nella conformazione assunta a partire dall’assunzione borghese della gestione del suo sviluppo il verbo della sottomissione e della disumanizzazione. Le città sono dunque da distruggere radicalmente, non in quanto possibilità di socializzazione di rapporti umani, ma in quanto totale negazione di tale possibilità. E che il capitale abbia distrutto già da tempo la campagna, sia in termini di dissoluzione delle comunità contadine sia come erosione e contaminazione di un ambito propriamente naturale, è una verità acquisita da tempo. Il comunismo sarà dunque riumanizzazione del territorio, suo rimodellamento sui bisogni e i desideri della comunità umana realizzata, non semplice integrazione di entità colonizzate irreversibilmente. Non vi sarà più città né campagna ma una distribuzione diffusa sul territorio la cui scansione in agglomerati urbani o più libere distese sarà determinata dalle libere scelte della comunità e degli individui senza alcuna pianificazione, ma secondo un’armonica ricongiunzione fra base e deriva, attraverso l’intelligenza di una ricostruzione delle proprie condizioni d’esistenza basata sulla passione creativa, le risorse tecniche, l’umanizzazione della natura.
Il comunismo rovescerà come un guanto l’odierna realtà del territorio capitalizzato. Nell’immediato si procederà all’espropriazione.
I manifesti insurrezionali preparati da Babeuf durante la congiura degli uguali erano di una “praticità spaventosa”: “Il Direttorio insurrezionale, considerando che il popolo venne sempre lusingato con vane promesse e che è tempo di provvedere alla sua felicità, decreta quanto appresso: Art. 1. Ad insurrezione finita, i cittadini poveri che sono attualmente male alloggiati non rientreranno nelle loro case, ma saranno immediatamente installati in quelle dei pubblici nemici. Art. 2. Si prenderanno nelle case dei ricchi tutti i mobili necessari per arredare convenientemente le dimore dei sansculottes”. L’occupazione immediata degli stabili “migliori” dei senza-casa, da parte dei giovani che intendano abbandonare la forzata coabitazione familiare, da gruppi che ritengano di voler sperimentare forme comunitarie senza i condizionamenti prima imposti dal capitale, da coloro che si trovino costretti in case fatiscenti o comunque oppressive, di quanti per qualsiasi ragione intendano spostarsi dalle precedenti dimore, sarà resa possibile dall’ovvia abolizione di ogni proprietà immobiliare e fondiaria e dallo stroncamento deciso di ogni opposizione al riguardo. La requisizione degli schedari e la controinformazione di zona forniranno le basi per la realizzazione di questo bisogno elementare, che sul piano dell’approvvigionamento dovrà pesare in gran parte sull’espropriazione in grande stile dei ceti possidenti. La scelta sarà libera ma si dovranno porre i sigilli alle porte degli appartamenti “popolari” non assegnati e invitare la popolazione a trasferirsi. Istituzioni come lo IACP saranno cancellate come vergogna del passato al pari del concetto stesso di “casa popolare”. Il centro degli affari sarà raso al suolo immediatamente. Quando la maggior parte degli abitanti avranno abbandonato i casoni dei ghetti si darà inizio alla loro distruzione. La provvisorietà dello stesso movimento di occupazione-riappropriazione deve essere chiara sin dal primo momento. La logica del “quartiere” e in modo particolare del quartiere operaio va combattuta instancabilmente. Essa configura una visione reazionaria e mistificata dello spazio di movimento della lotta rivoluzionaria e sanziona la perpetuazione dell’attuale assetto territoriale, prodotto di uno sviluppo che il comunismo vuole appunto spezzare.
Sembrerebbe impossibile che dietro quelle migliaia di buchi neri e poco illuminati, finestre, portoni e chilometri di muraglie possa vivere qualcosa che non sia un fantasma. Migliaia di esistenze carcerate nei loro sonni angosciosi, nelle loro storie separate, senza possibilità d’incontro che non sia il grande ricatto del contratto sociale, la palestra degli ambienti, delle associazioni, dei ceti, delle classi, dei falansteri di scuola, di fabbrica, di ufficio.
Il comunismo aprirà queste porte, spalancherà le finestre, abbatterà i muri divisori. La casa come nido dell’autonomia delle passioni, della pluralità dei talenti o delle disposizioni emozionali.
La casa grande e luminosa come l’abitazione degli dèi che Marx rivendicava per i proletari e contro il “proletariato” (condizione proletaria e sua autovalorizzazione), mai seguito su questa strada di libertà. Errori di gioventù! – E qual genere di vita stabilirai? – Lo stesso per tutti. Farò della città una sola casa, abbattendo tutti i tramezzi in modo da poter andare liberamente l’uno dall’altro”. – A Münster assediata, le porte delle abitazioni erano aperte notte e giorno, per imposizione scrivono gli storici, e non vi sono prove per affermare il contrario, visto che la storia dei tentativi comunisti è stata quasi sempre scritta dai suoi nemici e che nel caso specifico lo sterminio fu pressoché totale. Dunque è già accaduto che assertori dell’abolizione del “mio” e del “tuo”, i soggetti della comunità ritrovata, i proletari che cercavano una nuova vita e non migliori condizioni di lavoro o ritagli di proprietà nell’assetto sociale facessero di una città una sola casa. In quasi tutti i casi di comunità proletarie e contadine, non ancora piegate dal capitale, la casa di uno era la casa di tutti (e i segni si leggono ancora nel permanere di certe tradizioni). I comunisti riproporranno questa semplice verità libertaria senza schiavi su cui appoggiarsi, senza ideologie religiose o laiche con cui mutilarla.
Il comunismo è riconquista del tempo ad una dimensione umana
Il tempo è ora il tempo del capitale “il tempo è tutto, l’uomo è nulla, l’uomo è solo una carcassa del tempo” (K. M.). Le “grandi” realizzazioni autostradali e ferroviarie, cioè l’accorciamento dei tempi di percorrenza, sono in funzione del ciclo di produzione del valore. Non a caso il mito della velocità e del dinamismo, assieme alla glorificazione del macchinismo, esprime una esigenza ad una diminuzione del tempo di rotazione del capitale. Il capitale gonfia e sgonfia come una fisarmonica i flussi circolatori nelle sue metropoli secondo i suoi ritmi; il traffico urbano ad esempio non è un problema della vita delle città, ma una concretizzazione del capitale, che riesce a far apparire quella che è una delle più palesi e mostruose manifestazioni della sua esistenza come una cosa normale, un problema da assessorato municipale.
“Non c’è che il presente che possa essere totale. Un punto di una densità incredibile. Bisogna imparare a rallentare il tempo, a vivere la passione permanente dell’esperienza immediata. Un campione di tennis ha raccontato che nel corso di una gara aspramente combattuta ricevette una palla molto difficile da prendere. All’improvviso egli la vide avvicinarsi al rallentatore, così lentamente che egli ebbe il tempo di giudicare la situazione, di prendere una decisione e di effettuare un colpo da grande maestro. Nello spazio della situazione il tempo si dilata. Nell’autenticità il tempo si accelera. A chi possiederà la poetica del presente capiterà l’avventura del Piccolo Cinese innamorato della Regina dei Mari. Egli partì alla ricerca di lei verso il fondo degli oceani. Quando tornò a terra, un uomo vecchissimo che tagliava le rose gli disse: ‘Mio nonno mi parlò di un ragazzino scomparso in mare che aveva precisamente il tuo stesso nome’”. (Vaneigem, Trattato). Ognuno soffre quotidianamente le assurde contraddizioni imposte dalla dittatura del cronometro: un intoppo, un ritardo può sollevare rabbia e proteste, è un tratto di corda aggiunto alla punizione della mente e del corpo imposta da questo giudice invisibile. I ritmi del tempo morto (appuntamenti, impegni, scadenze, ecc.) sono tali da esacerbare l’esasperazione, costringono a penare per i più piccoli inconvenienti, rendere tragica la mancanza d’amicizia e d’amore. Treni, trasporti urbani ed extra-urbani, nulla deve fermare l’ansia di non giungere in tempo. Ma che mi importerebbe del ritardo se tutto il complesso dell’esistenza sociale non mi imponesse di non concedermelo? Se tutto è gratuito, se si può essere pigri, se si può andare lenti, se nulla ci grida “più in fretta”, quegli scorci di vita che sfugge, quelle conoscenze mancate ridivengono una concreta possibilità di rapporti da arricchire. Le sveglie non suonano più, non c’è nulla che crocifigga la libertà di darsi tempi propri. Nel comunismo il tempo sarà tutto a disposizione di questa riconquista del tempo. La fasulla contrapposizione del privilegiamento fra mezzi pubblici ed auto private non mette in discussione le direttrici forzate dei tempi e dei luoghi su cui innestare la marcia. Nella trasformata rete viaria del territorio comunista tutto procederà rallentato e quieto, l’impennata veloce definirà una situazione di effettivo bisogno, e per quanti avessero assimilato come bisogno permanente l’andare veloci vi saranno velodromi o ampie distese riservate all’ebbrezza della corsa. Depotenziamento del servizio pubblico con diffusione di piccoli “bus” senza direzioni prestabilite e generalizzazione della pratica di guida, creazione dell’auto elettrica (e tendenziale scomparsa di quelle a benzina) e facoltatività del possesso con un’opera costante di propaganda a favore di prototipi a chiave d’apertura ed avviamento universali in modo che ognuno possa utilizzare ogni mezzo quando e dove gli serva e gliene si presenti l’occasione. Ritorno di mezzi quali biciclette e cavalli.
Il comunismo essendo la realizzazione dei sogni e dei desideri non saprà che farsene dell’industria dei sogni e dei desideri (cinema, televisione, fotoromanzi), così come realizzando il significato finora compiuto dell’espressione artistica renderà priva di significato la riproposizione della stessa, ma chi intenderà realizzare in questo modo, le sue fantasie potrà disporre di tutto l’equipaggiamento necessario.
“Ciascuno ha il diritto di fare conoscere le proprie critiche, le proprie rivendicazioni, le proprie opinioni, creazioni, desideri, analisi, fantasie, problemi… allo scopo che la più grande varietà possa determinare le migliori possibilità di scontro, di accordi, di armonizzazione. Le tipografie, litografie, telex, radio, televisioni passeranno nelle mani delle assemblee e saranno messe a questo scopo, a disposizione di ogni individuo.
“Nessuno si batterà senza riserve se non apprenderà dapprima a vivere senza tempi morti.
“I giornali, la radio, la televisione sono i veicoli più grossolani della menzogna. Non solo essi allontanano ognuno dal vero problema – del ‘come vivere meglio’ che si pone concretamente ogni giorno – ma in più spingono ogni individuo in particolare ad identificarsi con delle immagini artefatte, a mettersi astrattamente al posto di un capo di Stato, di una vedette, di un assassino, di una vittima insomma a reagire come se fosse un’altra persona. Le immagini che ci dominano, sono il trionfo di ciò che non siamo e di ciò che ci scaccia da noi stessi, di ciò che ci trasforma in un oggetto da classificare, etichettare, gerarchizzare secondo il sistema della merce universalizzata.
“Esiste un linguaggio al servizio del potere gerarchizzato. Non solo nell’informazione, la pubblicità, le idee artefatte, le abitudini, i gesti condizionati ma anche in ogni linguaggio che non è posto al servizio dei nostri piaceri.
“Il sistema mercantile impone le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo senso, il suo linguaggio ogni volta che si lavora per esso, cioè la maggior parte del tempo. Questo insieme di idee, di immagini, d’identificazioni, di condotte determinate dalla necessità di accumulazione e di rinnovamento della merce forma lo spettacolo in cui ciascuno gioca ciò che non vive realmente e vive falsamente ciò che non è. È per questo che il ruolo è una menzogna vivente e la sopravvivenza un malessere senza fine”. (Ratgeb).
Nel comunismo non vi sono asili infantili, né scuole, né università, perché la creazione continua delle proprie condizioni di esistenza accompagna l’apprendimento di una realtà non separata e in continuo mutamento. La mistificazione delle scienze finirà nel bidone della spazzatura con tutti i rifiuti ideologici che essa ha prodotto. Il comunismo non si pone il problema dell’educazione dei fanciulli perché la conduzione lungo la strada delle generazioni è un percorso di perversione disumana di cui si perderanno le tracce. Comunque (nell’immediato) è chiaro che i piccoli saranno educati in un clima libertario senza alcuna oppressione familiare o sociale. Essi apparterranno solo a sé e si dovrà favorire questa loro autonomia immediatamente.
Il comunismo è abolizione di ogni tipo di galera: carceri, manicomi, orfanotrofi, conventi, ospizi, ospedali e di ogni istituzione atta a giudicare e a condannare: non devono esistere tribunali o prigioni rosse; rifiuto della concezione stessa di rieducazione di evidente derivazione pedagogistica legata alla visione della società civile. Pericolo che si restauri con la moderna concezione antimanicomiale e anticarceraria dell’affidamento sociale del “minorato” alle strutture territoriali – (CDQ-CDZ) – o dell’invalido curato a spese della collettività fuori dall’ospizio, la vecchia figura medioevale o precapitalista dell’emarginato tollerato e, nel caso dei “pazzi” una sorta di riedizione dello scemo del villaggio. Nel corso della guerra civile ci possono essere necessità che possono comportare particolari forme di coazione come il momentaneo concentramento di prigionieri ed ostaggi, si provvederà secondo un’alternativa più drastica: eliminazione degli infami (in genere ufficiali delle forze di repressione) e dei più pericolosi ed ignobili rappresentanti della controrivoluzione nel campo politico, economico, e istituzionale, ed immediato disarmo, dispersione dei quadri medi, dei soldati semplici, in questo caso con l’invio ai luoghi d’origine o l’immissione progressiva nelle strutture che la rivoluzione comunista verrà a darsi nel corso della lotta. Nel comunismo affermato scompaiono evidentemente tutti quegli elementi, quei meccanismi come il denaro, lo scambio mercantile, la ricerca del successo, la gerarchia dei valori, la disperata affermazione di una identità qualsiasi in un ruolo sufficientemente non sgradevole che determinano sia il cosiddetto “delitto”, sia la sopraffazione quotidiana nella gara del potere, sia la concreta possibilità per le forze controrivoluzionarie di utilizzare le proprie forze contro il movimento rivoluzionario. Se non si può vendere né comprare, se il circolante è scomparso e ha perduto ogni valore, se i beni materiali sono liberamente disponibili per tutti, se non si sa che cosa promettere a chi, quale persona o gruppo di persone potranno agire contro il comunismo, appoggiandosi a chi, con quali prospettive militari (quando la disponibilità delle armi sarà rimessa alla comunità in modo totale, sotto il provvisorio controllo delle frazioni comuniste che si saranno messe effettivamente contro il vecchio mondo)? Che senso avrebbe quindi il mantenimento di un solo carcere, sia pure inteso come autodifesa? E quando pure gli si riconoscesse questo senso non sarebbe meno ignobile dell’antica vergogna. Ogni carcere esistente sarà raso al suolo, sia il suo statuto simbolico, sia la sua memoria come luogo di oppressione, sia quasi sempre la sua struttura architettonica specificamente volta all’orrore della pena e della reclusione non consentono neppure di pensare ad un uso diverso. Lo stesso varrà per questure, tribunali, prefetture e nella maggior parte dei casi per i palazzi comunali ed edifici simili. Quale prostituzione poi potrà esistere con la scomparsa del danaro, la gratuità generalizzata e la liberazione dei rapporti umani e della sessualità?
I preti faranno bene ad eclissarsi al più presto; una loro ricomparsa indurrebbe a “deplorevoli” eccessi che nessun storiografo, nessun recuperatore potrà registrare. Alla larga dunque i centri cattolici e le parrocchie sgomberati o incendiati a seconda dei luoghi o delle situazioni. Il Duomo di Milano o il più modesto ma storicamente infame Duomo di Torino potrebbero fare un cascatone di prima grandezza. Riguardo agli ospedali il comunismo tende alla salute attraverso la soppressione della medicina. È chiaro che nell’immediato si dovranno potenziare i mezzi per guarire i guasti prodotti dal capitale. Non è più tollerabile il sistema di padiglioni e corsie né la divisione in ospedali e cliniche private. Pur nel suo positivismo ed evoluzionismo le indicazioni di Jean Grave hanno ancora la loro validità: “I medici hanno notato che, durante i periodi tumultuosi, le malattie avevano molto minore effetto presso i popoli agitati: e questo è vero perché la lotta, il movimento, l’entusiasmo sviluppano le forze vitali dell’individuo e lo rendono meno vulnerabile ai colpi delle malattie. Il lungo periodo rivoluzionario che l’umanità dovrà attraversare, esaltando nell’individuo tutte le passioni che gli danno vitalità, contribuirà in gran parte a eliminare quei germi morbosi che trascinano l’umanità verso la decadenza. La società futura, col ricondurre l’uomo alle sue condizioni naturali di esistenza, lo emanciperà dai morbi e lo ricondurrà sulla via del progresso”.
[1] Crisi e piano del capitale internazionale: “Anarchismo”
[2] I compiti dell’organizzazione clandestina: “Anarchismo”
[3] Il movimento del ’77 e la guerriglia anarchica: “Anarchismo”
[4] Socialismo o comunismo?: “Anarchismo”
[5] Questo paragrafo non risulta nella versione pubblicata da “Controinformazione”
[6] Questo paragrafo, intitolato da “Controinformazione” Un progetto, nella versione di “Anarchismo” porta il titolo: Abolizione dell’economia ed è profondamente cambiato in molti punti, per cui riteniamo opportuno riportare alla fine il testo completo del paragrafo pubblicato da “Anarchismo”
[7] Questo paragrafo conclusivo manca del tutto nella versione di “Anarchismo”
[8] Versione del paragrafo di cui sopra intitolato: “Il Progetto”, che è stata pubblicata da “Anarchismo” con considerevoli varianti di grande interesse. Per questo motivo la riproponiamo qui di seguito.

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