Contro la deportazione e per il definito e incondizionato rimpatrio in Sardegna. Documento di Giacominu Baragliu, Vincenzo Piras, Costantinu Pirisi

  1. Con questa dichiarazione collettiva di lotta noi, P.P.S.D, nati e cresciuti in Sardegna e poi deportati nel continente italiano, intendiamo denunciare alle forze progressiste e anticolonialiste sarde la questione infamante e razzista della deportazione che dura da secoli e, con la lotta popolare, intendiamo mettervi la parola fine!

 

  1. Da quando siamo stati arrestati e imprigionati nelle galere speciali dello Stato coloniale italiano sono passati più di dieci anni. Tolti alcuni periodi durante le istruttorie, che alcuni di noi hanno passato nelle prigioni sarde, tutti noi, subito dopo l’arresto, siamo stati deportati nelle prigioni di massima sicurezza (carceri speciali) del continente e non abbiamo più fatto ritorno in Sardegna, se non per i brevi periodi dei processi (e per il tempo strettamente necessario). Da un po’ di tempo a questa parte stanno dando, molto raramente e in modi molto ambigui, un mese di “avvicinamento per colloqui con la famiglia”. Ciò significa, in sostanza, poter fare 4 colloqui di un’ora ciascuno, per un totale di 4 ore di colloquio all’anno!
    Quelli di noi che sono stati arrestati nel continente, perché lavoravano da queste parti, non sono più stati avvicinati alla famiglia.
    Tutto ciò, se per chiarezza fosse necessario, si può verificare nei registri della matricola del carcere dove sono custoditi i nostri “conti”…

 

  1. Questa pratica barbara e razzista della deportazione dei P.P.S., vecchio residuo coloniale dei signori feudali dell’Occidente, che commerciavano con gli schiavi africani ma non disdegnavano nemmeno gli altri, tra cui i Sardi, perdura nel tempo e non vuole morire.
    Ogni ricambio dei padroni colonialisti, venuti dal mare durante i secoli per depredare la Sardegna, ha mantenuto intatti questi “costumi” mercantili, politici e militari, con tutta la loro rozzezza criminale. E in questo senso si può dire che hanno affinato le tecniche più moderne per una deterrenza aggiornata ai tempi, e hanno adottato ed applicato le più sofisticate tecniche scientifiche sulla comunicazione e disinformazione sociale per legittimare questa pratica razzista.
    In questo contesto, la deportazione è diventata una “scienza” che cerca di mascherare la sua barbarie, ma il contenuto politico resta sempre lo stesso. Forse è venuto meno l’aspetto economico, in quanto si è sostituita la parola schiavo con quella più “civile” di salariato, operaio, baby-sitter, ecc. ecc… Ma l’aspetto politico-militare è rimasto intatto, anzi, si è adeguato ai tempi come abbiamo già detto. E, in questo senso, anche la deportazione intesa come deportazione di forza-lavoro non è scomparsa. Essa si è “civilizzata”, infatti oggi si chiama “emigrazione”. Tutte queste forze proletarie, oggi, non si muovono più coi piedi incatenati nelle stive delle galere da un Oceano all’altro, ma si “trasferiscono” ammassate nei carri-bestiame incolonnati nelle autostrade-mattatoio e nei traghetti di Stato. Ma sempre come poveri “disgraziati”!
    Da questo punto di vista il proletariato è trattato forse peggio di ieri, in quanto ieri per trasferirli dalle loro terre africane li dovevano prima catturare e legare come animali e solo una minima parte di loro resisteva, in quelle condizioni, al viaggio verso la patria della barbarie, l’Amerika! Oggi invece, i proletari sono “lasciati liberi di scegliere” in quale posto andare per “soddisfare” la loro fame. Ma, in pratica, il posto è già destinato… il vicolo è cieco e le scelte sono dettate dai padroni, come ieri. Mentre per noi P.P.S. la deportazione continua come cento anni fa, con le catene.

 

  1. Per legittimare la nostra deportazione dalla Sardegna al continente italiano – e da questo nelle isole-prigione delle quali la stessa Sardegna fa parte – i “nostri” ricorrono agli stravecchi stregoni dei cosiddetti “servizi segreti e di sicurezza” i quali, tramite i loro canali informativi, raccolgono infamie e da queste stabiliscono il grado di pericolosità sociale del prigioniero e ne ordinano l’allontanamento dal proprio ambiente.
    Nella pratica quindi, la “pericolosità sociale” del P.P.S. – o anche del proletario continentale – viene stabilita sulla base di veline dei carabinieri che, come già detto, raccolgono le confidenze degli spioni del territorio, le analizzano in senso politico e ne deducono che il soggetto è da allontanare dall’isola.
    La copertura “legale” di questi atti, mascherati come “amministrativi”, ci pensano gli sbirri a darla con le loro “minute”, il resto lo fanno i cosiddetti “educatori”, “assistenti sociali”, psicologi, ecc. che, coordinati dal direttore, “studiano” a modo loro il prigioniero, e alla fine giungono alle stesse conclusioni. Questi, nella sostanza, stabiliscono il grado di coscienza del proletario prigioniero e – per loro coscienza equivale a pericolosità – in base a questa ne sottoscrivono la deportazione. Naturalmente chi dispone è il direttore della prigione che comunica le sue conclusioni al Ministero di Grazia e Giustizia dove siedono in permanenza gli “esperti” che ne dispongono il trasferimento oltre il Tirreno verso una destinazione speciale.
    Sulle decisioni che vengono prese all’interno della prigione influisce in modo non secondario il comportamento sociale del prigioniero, ossia il suo grado di antagonismo contro l’istituzione in generale e in particolare contro il trattamento violento e le umiliazioni gratuite, personali o collettive, che ci vengono imposte dall’organizzazione sbirresca per misurare la nostra pazienza. In questo senso è naturale che chi ha maggiore coscienza, e non vuole perdere la propria identità, si ribella e risponde nella stessa misura della provocazione. E questo viene usato per legittimare, in termini amministrativi, la deportazione. Al contrario, chi accetta o comunque si adegua alle violenze, ai soprusi dei carcerieri, viene tenuto vicino a casa.
    Non vogliamo dire che sia un premio, ma fatto sta che la cosa, in termini egoistici, “paga”.
    Per questo motivo, la deportazione funziona come deterrente. È un continuo mezzo di pressione, un ricatto che il prigioniero vive sulla sua propria pelle giorno per giorno, e anche su quella della propria famiglia. Se rinuncia ad essere se stesso, o comunque sopporta a denti stretti le angherie quotidiane, ha la probabilità di restare vicino a casa. Se poi, come succede spesso, si lascia andare alla collaborazione, gli si prospettano riconoscimenti premiali… Mentre per chi non riconosce le mediazioni col nemico che ti chiude tutte le sere la cella, e conserva la propria identità di uomo e di classe, di ribelle antagonista alla violenza dei carnefici e allo Stato, c’è aperta la via della deportazione a migliaia di chilometri di distanza dai propri affetti.
    E così il “calvario” della deportazione ha inizio. Parte come provvedimento “amministrativo” ma nella realtà è un atto politico. Non trova alcuna credibilità la tesi che il trasferimento nel continente è imposto da esigenze di sicurezza. Queste sono invenzioni di comodo! Le prigioni-lager esistenti in Sardegna sono il massimo della “massima sicurezza”. Ne hanno da vendere!
    Il “Buon Cammino” di Cagliari, “Badu e Carros” di Nuoro, il “S.Sebastiano” di Sassari e “Fornelli” all’Asinara sono il non plus ultra della massima sicurezza! Infatti in queste prigioni si fa prima a morire che a evadere. Non è un caso che quelle celle siano lastricate di sangue proletario e di croci di morti negli isolamenti senza senso se non quello della cultura patriarcale e fascista degli “educatori” alla Villasanta. Mentre di strade aperte per evadere se ne sono viste assai poche, fino ad oggi. Ciò conferma che quelle strutture sono speciali quanto queste del continente e semmai è vero il contrario, e cioè che in Sardegna – come in tutte le colonie – le carceri speciali sono state sperimentate e poi sono state esportate nel continente come modello di repressione da seguire.

 

  1. La deportazione dei P.P.S. nelle galere italiane è sicuramente l’inizio di un lungo “calvario” perché si sa quando comincia ma non si sa quando avrà fine.
    Ma il “calvario” più grande, e vicino al martirio, lo subiscono i familiari. Per loro infatti ha inizio un “pellegrinaggio”, carichi di borse da un’estremità all’altra dell’Italia e, spesso e volentieri, verso le “isole-prigione” annesse, che non è facile da descrivere.
    Al viaggio si aggiungono tutte le angherie, le vili umiliazioni alle quali vengono sottoposti dal personale carcerario. Perquisizioni personali con spogliarelli provocatori, e salassi a base di metaldetector. Tutto ciò non trova alcuna giustificazione logica se non quella della cattiveria e dell’infamia razzista e antisarda che pullula nella mente e nel cuore dei governatori e dei carcerieri-sbirri. Tra questi ultimi non è difficile trovare la cosiddetta “guardia sarda”… frustrati che scaricano le loro frustrazioni sui familiari nostri, che naturalmente li guardano con compassione e disprezzo totale.
    A questo vile e indegno trattamento, si aggiunge per i familiari la prospettiva di maggiori sacrifici. In particolare per le persone più anziane, come i genitori e gli zii, per i quali, ai disagi dell’anzianità e della mancanza di forza fisica per sostenere simili viaggi, si aggiunge quello della impossibilità economica. In questo senso, per loro, la prospettiva reale è di non rivedere più i propri figli. Il rapporto, sempre più spesso, si riduce alla sola corrispondenza epistolare e alla telefonata quindicinale di cinque minuti. Telefonata registrata e ascoltata dal personale addetto. Ma non basta, il più delle volte si è costretti, pena l’interruzione della comunicazione, a parlare con i nostri genitori in lingua italiana. Se non è violenza e razzismo questo, di costringere persone che non sanno parlare la lingua dei coloni a parlarla, vuol dire che non esistono né violenza né razzismo. Questo è il massimo dell’umiliazione e della beffa. E non ci sono motivi di alcun genere che possano giustificare una simile azione. Questo è fanatismo, l’eccesso della provocazione.
    Fare regolarmente i colloqui, cioè uno alla settimana come stabilisce il “regolamento penitenziario”, non è facile manco per i congiunti più giovani, per le stesse ragioni economiche di cui sopra e perché la gente vive di lavoro e non di rendita. Partire dalla Sardegna per l’Italia e poi da qui proseguire per le “isole-prigione” di Pianosa, Favignana, della Gorgona, dell’Elba dove c’è Porto Azzurro, ecc., diventa materialmente impossibile non solo una volta la settimana, ma neanche una volta al mese. Al massimo il colloquio si fa una volta all’anno per la maggior parte dei proletari.
    In questo modo, per chi ha lunghe pene da scontare, si perdono i rapporti affettivi e la stessa sorte subiscono i rapporti sociali nel territorio e con i propri amici e concittadini.
    Ed è questo il fine strategico e politico della deportazione del P.P.S.

 

  1. Questa pratica, come sappiamo, va avanti da molti secoli. I camposanti dell’isola-prigione di Pianosa, dell’isola d’Elba (Porto Azzurro), della Favignana, di S. Stefano, di Procida, ecc. ecc., sono pieni di tombe “senza nome” e “senza un fiore”. In queste sono stati frettolosamente sepolti molti nostri martiri, morti agli ergastoli e “dimenticati” da tutti perché creano imbarazzo alla società cosiddetta “civile”.
    Questi morti però chiedono a noi di non essere dimenticati per evitare che simili atti di barbarie si ripetano, seppure in forme diverse.
    Infatti oggi chi muore in prigione viene restituito ai familiari (bontà loro…). Anzi, si sono fatti persino “generosi” al Ministero di Grazia e Giustizia nel senso che se la famiglia non ha disponibilità economiche per affrontare le spese di viaggio, gli pagano persino il carro funebre… Bella consolazione… Ma non è questo il punto della “svolta”.
    Il punto della non-“svolta” è che la piaga della deportazione non ha cambiato pelle. Il suo fine resta politico e su questo il potere coloniale e neocoloniale non transige.

 

  1. La deportazione dei P.P.S. ha, come fine, di staccare traumaticamente il proletario dal suo ambiente familiare e sociale. Nella pratica debbono staccare il “cordone ombelicale” che lo lega al suo territorio e isolarlo definitivamente in un ambiente altro e a lui sconosciuto sotto tutti i punti di vista. Qui è costretto, se vuole socializzare, ad apprendere usi, costumi, lingua di un’altra cultura con un’altra storia; il che non è facile, come si può immaginare, anche per una assimilazione solo provvisoria. Ma per sopravvivere è costretto ad adattarsi, senza per questo perdere la propria identità. Le sue radici sono troppo profonde per “seccarsi”, anche perché nel profondo del suo intimo coltiva la speranza del ritorno e questo gli dà la forza di resistere e di reagire con forza. Ma è anche normale che, quando la deportazione si protrae per decine di anni, questa crei dei danni alla salute e alla psiche delle persone, in quanto col tempo si sconvolgono gli assetti familiari e sociali e in questo modo vengono a mancare le basi sulle quali si fondavano le proprie certezze.
    Ma nonostante tutto ciò – e l’abbiamo visto con i nostri occhi in quanto abbiamo avuto la fortuna di conoscere più di un ergastolano sardo che aveva passato oltre vent’anni e anche trenta nelle galere-lager italiane – in loro era rimasto immutato l’orgoglio di essere sardi e quindi avevano conservato intatta la propria identità. Ciò vuol dire che il ceppo, nonostante le angherie dei razzisti, non si secca con la deportazione, anzi!
    E con questa certezza continuiamo la nostra strada insieme con chi è sulla stessa “barca” per raggiungere all’orizzonte la liberazione.
  1. Per quanto detto, e non solo per questo, come collettivo di P.P.S.D. abbiamo preso l’iniziativa di cominciare questa lotta contro la deportazione politica di noi sardi, perché di questo si tratta. Tutto il resto, tutte le veline costruite dagli stregoni coloniali delle emergenze sulle “pericolosità” soggettive, sono fandonie. Tutti i “servizi e servizietti più o meno segreti” non sono altro che delle “teste d’uovo” al servizio del potere politico, che li usa per i propri sporchi giochi di potere e poi, una volta usati e “bruciati”, li butta via come pedalini (calze) vecchi.
    La “questione sarda”, come amano definirla, è molto più complessa di quanto pensano i salottari romani. Chi crede, come fa lo Stato colonialista italiano, di risolvere la contraddizione principale della liberazione nazionale deportando le forze della resistenza e i ribelli sardi, ha fatto male i suoi conti.
    Non saranno né le carceri speciali, né i suoi mercenari armati, a fermare il processo di liberazione del Popolo Sardo e della Sardegna!
  1. Pertanto, con questa dichiarazione di lotta, vogliamo pure allargare il dibattito politico in generale, a partire dalla lotta alla deportazione. In questo senso, chiediamo alle forze sociali e progressiste, alle Organizzazioni politiche anticolonialiste, alle forze antagoniste e ribelli della resistenza sarda, di fare propri i nostri contenuti contro la deportazione e la colonizzazione e di scendere in lotta con i tempi, i modi e le forme che ciascuno ritiene praticabili sulla base della propria coscienza politica e della propria esperienza di lotta.
    Noi, dall’interno, porteremo avanti la nostra lotta in senso collettivo sul contenuto. Quanto alle forme, data la nostra disposizione in piccolissimi nuclei poiché siamo dispersi nelle più disparate prigioni speciali italiane, bisognerà scegliere quelle praticabili, senza fare delle forzature se non siamo in grado di reggerle, date le condizioni particolari di prigionia. Torniamo a ripetere che la battaglia è politica per cui contenuto e forma della lotta non debbono essere assolutamente staccati.
    Il nemico, su questo punto, cercherà di separare le due cose e su questo dovremo essere inflessibili.
    La questione è semplice: noi vogliamo essere rimpatriati in Sardegna e con questo mettere fine alla pratica della deportazione secolare dei sardi!
    Altra cosa importante da tenere in conto è quella della comunicazione della lotta. Nel senso che bisogna mettere in piedi lotte che comunichino il proprio contenuto all’esterno nel movimento sardo e rivoluzionario.
    Naturalmente non trascuriamo il fatto che il nemico interverrà con provvedimenti di censura e altre simili provocazioni, vista la messa in discussione di un così vasto problema. Ma tutto ciò non ci fermerà!

Contro la deportazione dei proletari prigionieri sardi!

Contro la colonizzazione e neocolonizzazione della Sardegna!

Costruire organizzazione!

Per la costruzione del fronte combattente unito di liberazione coloniale e neocoloniale della Sardegna!

Collettivo rivoluzionario e antimperialista “Ospitone”. Giacominu Baragliu, Vincenzo Piras, Costantinu Pirisi

Luglio 1989

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