Le Brigate Rosse contro la soluzione politica. Carcere di Cuneo – Documento dei militanti delle BR-PCC Piero Bassi, Cesare Di Lenardo, Franco Sincich (Depositato agli atti – Tribunale Torino)

Come militanti prigionieri delle Brigate Rosse intendiamo prendere posizione in termini chiari ed espliciti di fronte al traffico di trattative e proposte di soluzioni e disarmi che avviene tra alcuni settori di detenuti politici. Prendere appunto posizione contro la soluzione politica, in ogni variante in cui si presenti, e a favore, in identità e sostegno alla guerriglia, all’organizzazione BR in cui militiamo.

Il progetto di soluzione politica offre uno spettro relativamente articolato di posizioni, su alcuni punti in contrasto tra loro, ma è il comune denominatore che lo qualifica: chi propone oggi riconciliazione, pacificazione, opzione politica legale, riconversione della guerriglia nel gioco democratico, può avere certo diverse gestioni ideologiche da vendere, ma si pone materialmente fuori dalla lotta rivoluzionaria e lavora contro chi continua oggi a lottare per il comunismo con le armi in pugno.

Perciò non riconosciamo agli argomenti dei detenuti che sostengono e propagandano proposte di soluzione politica, alcuna internità ai problemi del movimento rivoluzionario. Non le consideriamo tesi discutibili all’interno del movimento antagonista se non come spunti e termini di riferimento per evidenziarne la natura di imbellettamenti ideologici a scelte opportuniste e di liquidazione, le quali trovano la loro razionalità e logica non nella ricerca di nuove prospettive per la lotta rivoluzionaria, ma più miseramente nelle offerte di uscita di galera a buon mercato e di reinserimento qualificato degli ex-combattenti nell’attuale mercato politico.

È come sempre nelle condizioni materiali concrete dello scontro di classe, nelle difficoltà storiche della lotta rivoluzionaria nelle metropoli, che affondano le loro radici la disgregazione e l’abbandono della lotta di settori di militanti che erano stati a suo tempo protagonisti della lotta armata. L’evoluzione dello scontro di classe in questi anni ottanta, la dura offensiva controrivoluzionaria e antiproletaria della borghesia, le sconfitte della guerriglia negli anni trascorsi, l’estremo arretramento di posizioni dell’autonomia di classe e dell’insieme del proletariato a livello politico, economico e sociale, l’evolversi del conflitto imperialismo/antimperialismo e il nuovo ruolo del nostro paese nell’arena internazionale hanno prodotto nuove difficoltà e nuove condizioni della lotta rivoluzionaria dei comunisti. Che parte dei militanti formatisi in una diversa situazione politica decidano ora, di fronte alla grandezza dei nuovi compiti, di collocarsi in posizioni politicamente e materialmente più comode, dimostra quanto oggi sia ancora grande la forza di attrazione e la capacità di reintegrazione del sistema nelle metropoli.

E tuttavia, che altri compagni intendano continuare la lotta nelle nuove condizioni e darle nuovo impulso, che altri compagni oggi impugnino le armi per rafforzare e sviluppare la guerriglia, dimostra quanto questa lotta abbia la sua origine nelle profonde e inconciliabili contraddizioni di classe che caratterizzano questa società, dimostra come le conquiste politiche, teoriche e pratiche di questi anni di lotta si siano radicate nel proletariato rivoluzionario e la prospettiva comunista sia in grado di guardare in avanti; scrollandosi di dosso fasulle ed edulcorate mitologie sui favolosi anni che furono e costruendo invece concretamente lo sviluppo del processo rivoluzionario per gli anni che abbiamo davanti.

Dai sostenitori della soluzione politica viene espressa la tesi secondo cui la lotta armata sarebbe stata sconfitta come strategia politica e financo come pratica; che questa sconfitta avrebbe i suoi presupposti, ancor prima che nell’attacco militare portato dagli apparati repressivi dello Stato, nella sua impraticabilità politica in una società come quella italiana ormai «modernizzata». Sarebbe così alta la maturità acquisita dalla democrazia che si potrebbe parlare, e non solo parlare ma osare sperare, che la chiusura di un ciclo dello scontro sociale e l’«oltrepassamento» di radicalismi politici ormai «sclerotici» e «metafisici» inducano alla liberazione degli ostaggi del passato scontro sociale.

La riflessione ci pare caratterizzata da un soggettivismo smisurato e fuori luogo che, analizzando la realtà presente delle cose a partire dal proprio bisogno di libertà, opera una lettura stravolta e capovolta degli avvenimenti e dei fattori economici, politici, militari, interni ed internazionali per giungere alla conclusione che oramai la «modernizzazione» avrebbe risolto tutti i problemi di fondo dell’occidente. Non ci sarebbero più guerre, le industrie belliche sarebbero sull’orlo del fallimento, una volta risoltisi sul piano politico i problemi di convivenza tra i due blocchi; la disoccupazione e lo sfruttamento sarebbero vocaboli di un retaggio passato, oltrepassato; insomma il modello di sviluppo capitalistico avrebbe in questa congiuntura e per i prossimi anni eliminato le cause di tensione sociale e aperto un ciclo nuovo e fiorente. Per cui i prigionieri del conflitto politico e sociale di questi anni – e attorno a questo ruota ogni altro discorso -… «tutti a casa»!

  1. Che i cicli di lotta nascano, si sviluppino e alla fine muoiano – allo stesso modo in cui è nato, si è sviluppato e sta morendo il modo di produzione capitalistico – è una banalità talmente ovvia e scontata che non meriterebbe affatto parlarne se essa non servisse, alla pari di altre, a giustificare una conclusione di ben altro peso e di ben altro rilievo. Quella cioè che, essendo venute meno le condizioni politiche e sociali che avevano legittimato la lotta armata, quest’ultima si ridurrebbe oggi a pura… «sclerosi metafisica».
    Su questo punto occorre essere estremamente chiari, a rischio di un’argomentazione pedante e didascalica. Nella società capitalistica la dinamica della lotta di classe segue normalmente un andamento ciclico; un andamento, cioè, in cui le esplosioni sociali si alternano a più o meno lunghi periodi di ristagno e talvolta persino di riflusso. Il ciclo dell’economia capitalistica, infatti, comprende fasi di marasma, di animazione, di attività media, di aperta ripresa, di accelerazione, di prosperità, di boom, di crollo; e poi di nuovo di marasma, ecc., ecc., a ciascuna delle quali corrispondono, dal lato della lotta di classe, altrettante fasi di radicalizzazione e di ristagno del proletariato, dei movimenti di massa.
    D’altro canto, se la lotta di classe non seguisse, per sua propria natura, un andamento ciclico, fatto di improvvise avanzate e di prolungate ritirate, il ruolo dell’avanguardia, del partito, perderebbe completamente sia di senso che di importanza. È proprio il fatto che la lotta di classe non segue una parabola ininterrotta e ascendente – ma invece conosce crolli, pause e interruzioni – che rende necessaria una avanguardia organizzata, distinta e separata dalla classe, che porti la coscienza politica dall’esterno della lotta economica, della sfera dei rapporti tra operai e padroni.
    Ma non basta. L’intera storia del movimento comunista internazionale è costellata anche di sconfitte, quindi di periodi di stagnazione e di riflusso della lotta di classe. Sarebbe sufficiente pensare alla Russia degli anni successivi alla rivoluzione del 1905: i dirigenti bolscevichi arrestati o esiliati, uno sbandamento teorico ed una confusione politica indescrivibili, un’improvvisa rinascita della religione; insomma: una situazione di crisi talmente vasta e profonda da far apparire pressoché inesistente – o tutt’al più caricaturale – quella che si è prodotta nel nostro paese negli ultimi anni. Non per questo però i bolscevichi giunsero alla conclusione che un ciclo si era definitivamente chiuso e dunque andava posto all’ordine del giorno il problema del suo «oltrepassamento»! Non lo fece Lenin e, prima, i rivoluzionari del 1848 o i comunardi parigini del 1871; ma non lo fecero neppure nella Germania della repressione antispartachista la Luxemburg o, in Cina, il Mao di una rivoluzione che dopo le iniziali sconfitte delle Comuni di Canton e Nanchino, segue un percorso sinuoso, complesso ed incerto tra alti e bassi, avanzate e ritirate.
    Che dunque un ciclo si sia chiuso è ovvio, innegabile e non costituisce alcun problema sotto questo punto di vista: ma è quanto meno sospetto datarne la fine al…1987, vale a dire a circa sette anni dalla sua reale conclusione (che possiamo dire avvenuta, pur con tutta la cautela che è d’obbligo nella periodizzazione dei processi politico-sociali, con la sconfitta operaia della lotta alla Fiat nell’80). Non si legittima in tal modo il sospetto che si arrivi a confondere la fine della… propria militanza personale con la fine tout-court di un momento della lotta di classe? Come non ricordare qui il giudizio sprezzante di Marx sul piccolo-borghese che è rivoluzionario solo fino a quando esiste un movimento di massa a carattere rivoluzionario cui egli si possa appoggiare? In realtà costoro anziché porre a se stessi e al movimento rivoluzionario il problema di individuare e correggere gli errori politici commessi che possono aver contribuito a facilitare il ripiegamento di un movimento di massa (sconfitto peraltro, innanzitutto, dall’esistenza di un nuovo rapporto di forza generale sfavorevole, prima ancora che dai suoi limiti naturali) si assolvono da ogni responsabilità, dalle responsabilità che competono alle avanguardie rivoluzionarie e muovono implicitamente alla classe il rimprovero di… non aver tenuto fede alle loro personali aspettative.
    Una variante della tesi dell’esaurimento del ciclo di lotte è quest’altra, alla precedente strettamente collegata: insieme al ciclo di lotte, sarebbero venute meno le condizioni sociali che legittimerebbero l’esistenza della guerriglia nelle metropoli imperialiste.
    Questa tesi cela un’insidia e scaturisce da un errore. Dell’insidia, è presto detto: se un progetto rivoluzionario è legato all’esistenza di determinate contingenti condizioni storiche, allora diventa sufficiente dimostrare che tali contingenti condizioni non si danno più, sono mutate, per arrivare a concludere che non si dà più, che ha perso di validità, di legittimità il progetto che esse hanno a suo tempo espresso. Quanto all’errore, esso consiste nel confondere le condizioni sociali specifiche entro cui la lotta armata ha fatto la sua comparsa in Italia con le condizioni storiche generali che ne hanno legittimato la nascita e che seguitano tuttora a legittimarne l’attività.
    Le BR fanno la loro comparsa in Italia storicamente sull’onda dei movimenti operai e studenteschi che erano sorti anche in Europa alla fine degli anni sessanta, in seguito all’eroica lotta del popolo vietnamita e ai processi di ristrutturazione che allora erano stati avviati nella scuola e nell’industria soprattutto all’interno dell’area capitalistica metropolitana. Le BR si preoccupano di definire il soggetto sociale a cui riferire la propria iniziativa e tale soggetto viene individuato nell’autonomia proletaria. «Noi vediamo nell’autonomia proletaria il contenuto unificante delle lotte degli studenti, degli operai e dei tecnici che hanno permesso il salto qualitativo 1968-69» (da «Lotta sociale e organizzazione nella metropoli», gennaio 1970). Il riconoscimento e la ricerca di un referente sociale esprimono un’esigenza di legittimazione immediata, specifica; l’individuazione di un soggetto rivoluzionario di classe con cui specificatamente aprire una diretta dialettica politica. L’esigenza di relazione politica con un soggetto di classe è cosa ben diversa dall’esigenza di dare legittimità teorica e storica alla lotta armata e alla sua nascita: mentre il primo problema è di carattere più immediato, il secondo investe e riguarda il piano della strategia, chiama cioè in causa le ragioni che giustificano storicamente la pretesa della guerriglia di rappresentare «la forma dominante, egemone della lotta di classe nel mondo» (editoriale di Sinistra Proletaria, 1970).
    Se la lotta armata avesse affidato esclusivamente o principalmente all’esistenza di uno specifico movimento autonomo di classe con carattere antagonista la dimostrazione della propria legittimità storica, essa si sarebbe rivelata non come una strategia, bensì semplicemente come una forma di lotta, come la forma di lotta più appropriata per esprimere la potenzialità e la radicalità di quel movimento.
    Al contrario la lotta armata è una strategia innanzitutto in quanto e nella misura in cui non è una scelta tattica, la scelta, cioè, di far ricorso alla violenza organizzata, compiuta dall’avanguardia rivoluzionaria in una specifica e limitata fase della lotta di classe o in un particolare momento dello scontro sociale.
    In definitiva ciò che legittima agli inizi degli anni settanta storicamente la lotta armata sono due ordini sostanziali di motivi, alcuni dei quali ricavati dall’analisi della controrivoluzione, delle caratteristiche che essa aveva assunto negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale; altri invece dal bilancio storico delle esperienze rivoluzionarie nei paesi imperialisti del centro. La riflessione verteva fin da allora sul problema ancora irrisolto della rivoluzione in Occidente. Ciò non per motivi nazionalistici o eurocentrici, ma perché, per il grado materiale di sviluppo qui raggiunto dalle forze produttive, un successo rivoluzionario nel centro diventa un obiettivo di importanza decisiva per gli interessi generali del proletariato internazionale, per le possibilità che apre di sbloccare la situazione anche rispetto allo sviluppo ulteriore delle lotte rivoluzionarie alla periferia del sistema e nell’insieme del mondo capitalistico.
    Il primo passo nella direzione dell’assolvimento di questo compito storico viene compiuto dalle BR prendendo atto del fallimento delle strategie a cui il proletariato metropolitano aveva fatto ricorso in passato e che erano ispirate al «mito della presa del potere per via insurrezionale» (Sinistra Proletaria), all’«ipotesi classica dell’insurrezione centrata prevalentemente sulle masse urbane, per lunghissimi anni preparata da un infaticabile lavoro di propaganda e agitazione e poi rapidamente decisa da un punto di vista militare» (Nuova Resistenza, aprile 1971). La guerriglia si propone come unica corretta via rivoluzionaria nell’epoca storica dell’agonia del modo di produzione capitalistico.
    Per poter parlare di «perdita di legittimità della guerriglia» o di «esaurimento del ciclo e delle condizioni storiche» che ne hanno motivato e giustificato la nascita, occorrerebbe quantomeno dimostrare che: 1) il modo di produzione capitalistico è entrato anziché in una fase storica di declino mortale, in una fase di ringiovanimento, di rigenerazione (e per farlo si dovrebbe comunque evitare di confondere ciclo economico congiunturale con ciclo storico: nella sua età senile, il capitale può, anzi deve, superare in parte la propria crisi ciclica; ma un miglioramento del genere è del tutto effimero e temporaneo, e determina dialetticamente il carattere ancora più irrimediabilmente catastrofico delle crisi successive); 2) il problema della rivoluzione nelle metropoli imperialiste non è più un problema urgente storicamente, nel quadro degli interessi del proletariato internazionale, e all’ordine del giorno; 3) le sconfitte della guerriglia erano del tutto inevitabili, sono definitive e appaiono senza rimedio.
    Diversamente, le tesi dei sostenitori della soluzione politica si rivelano per quello che sono in realtà: una litania di insulsaggini, di sublimi banalità e di meschini pretesti per giustificare il proprio personale disimpegno dalla militanza rivoluzionaria e per dissimulare le sconfitte della propria impazienza e della propria presunzione.
  1. Un’altra posizione fa discendere il proprio disimpegno dalla lotta rivoluzionaria sulla base di una presunta soluzione della crisi capitalistica e dell’aprirsi di una fase di rosee prospettive per l’imperialismo. Il processo di crisi-ristrutturazione che ha investito l’intero occidente capitalistico tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta a partire dai paesi più forti per arrivare anche al nostro, ha provocato radicali modificazioni sul piano della composizione tecnica del capitale a livello generale, producendo inevitabilmente conseguenze importanti sui rapporti tra le classi all’interno di ogni singolo paese del sistema, sui rapporti tra i diversi paesi dello stesso sistema e su quelli tra Nord e Sud e tra sistema imperialista occidentale e blocco dell’Est.
    Sicuramente, tuttavia, il processo di crisi sopraggiunto dopo il ciclo di espansione post-bellico non è certamente arrivato a conclusione in modo pacifico, grazie ad un salto di composizione organica in grado di riportare l’estrazione di plusvalore a livelli compatibili con una ripresa del ciclo capitalistico e ad un conseguente rilancio del dominio del paese guida (gli USA) tale da ridefinire senza colpo ferire un nuovo ordine economico mondiale in grado di assecondare e sfruttare questa presunta espansione.
    Considerazioni del genere non hanno molto a che fare con il marxismo, ma nell’onda lunga dell’ottimismo craxiano può capitare di sentirle, anche se poi è la realtà stessa a smentirle tranquillamente.
    L’utilizzo di informatica, biotecnologie, nucleare, ecc…, si è riversato, per tutto l’occidente imperialista, a partire dagli USA, sulla produzione di armamenti, con diverse conseguenze positive e negative nell’immediato, ma tutte destinate ad acuire le contraddizioni interne all’imperialismo e il suo stato di crisi.
    La politica di riarmo USA, oltre a dare fiato ai più grossi complessi industriali e finanziari americani, e a creare quindi l’illusione di una ripresa, serve indubbiamente a rendere il proprio apparato militare adeguato ad un confronto con l’Est e al ruolo di gendarme mondiale; ruolo obbligato per poter riaffermare il dominio imperialista su un sistema di paesi dominati che dal dopoguerra alla prima metà degli anni settanta è stato percorso da processi rivoluzionari, di diversa natura e radicalità, ma sempre incompatibili con le esigenze imperialiste. D’altra parte l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie e l’enorme impegno finanziario nella ricerca rilancia il dominio USA anche sui propri alleati occidentali europei e giapponesi. Soprattutto l’Europa rischia in questa fase di non tenere dietro alla corsa tecnologica imposta dall’imperialismo più forte. Basta tenere conto della massa di capitali che i paesi europei dovrebbero investire nella ricerca a medio e lungo termine e al fatto che l’Europa è composta da diversi paesi non aggregabili in un’unità economico-finanziaria. Questo spiega il fallimento sostanziale dei tentativi che ogni tanto emergono, da parte europea, di competere con le scelte imposte dall’imperialismo dominante (vedi Eureka), ma soprattutto il proliferare di accordi tra imprese americane ed europee che ci sembra superfluo definire per lo meno «sbilanciati» a favore dei colossi USA e che le multinazionali europee accettano e ricercano per partecipare anche in posizione subalterna alle innovazioni tecnologiche.
    In realtà questa «ripresa» americana, basata sull’elefantiasi del settore degli armamenti, crea un enorme deficit interno, sempre meno controllabile, ed un taglio netto alla politica del welfare state, creando pesanti contraddizioni sociali nel cuore stesso dell’imperialismo. A livello internazionale approfondisce la divaricazione tra Nord e Sud del mondo in quanto sempre più si allontana dalla portata dei paesi dipendenti il miraggio di uno sviluppo capitalistico che li metta in grado di rideterminare al meglio la loro collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Rende poi disponibili masse sempre minori di capitali per prestiti e finanziamenti, e a condizioni sempre più onerose, non solo sul piano economico e sociale, ma anche su quello politico. Questa maggiore divaricazione non fa che restringere l’area di mercato possibile per i prodotti «sofisticati» delle industrie del centro, creando quindi un’accelerazione della tendenza alla guerra intesa come scontro Est-Ovest.
    È infatti solo l’area dei paesi dell’Est a poter assorbire prodotti ad alta tecnologia, mentre il Sud, nella migliore delle ipotesi può solo produrre parti di essi, senza avere peraltro la possibilità né di produrli per intero né tantomeno di acquistarli.
    Qualsiasi tentativo di allargare l’area di mercato con mezzi pacifici, attraverso iniziative politiche ed economiche è inevitabilmente destinato al fallimento, perché in contrasto con l’essenza stessa, assolutamente anarchica, del capitalismo. Qualsiasi tentativo di concentrazione sovranazionale che leda gli interessi dei singoli soggetti imperialisti viene così a cadere. Il famoso piano Marshall, il cui nome oggi rispunta spesso nelle buone intenzioni dei circoli capitalistici che contano, fu reso possibile unicamente dalla conclusione vittoriosa di una guerra mondiale, e ci vuole ben altro che qualche «chip» per farlo resuscitare.
    Tantomeno possono contare i buoni propositi dei circoli imperialisti di tendenza socialdemocratica che già, negli anni settanta, attraverso il celebre Rapporto Brandt sollevarono il problema dell’allargamento pacifico del mercato mondiale attraverso il sostegno dei paesi più forti a quelli che con molta buona volontà e poco senso della realtà venivano definiti paesi in via di sviluppo.
    È evidente quindi che sul piano internazionale le modificazioni intervenute a seguito del processo di crisi-ristrutturazione in corso a livello mondiale non inducono affatto a immaginare un futuro scenario di pace con qualche piccola stortura facilmente raddrizzabile, ma anzi si delinea un quadro ben più critico nelle relazioni tra Est e Ovest e tra l’occidente imperialista e tutti quei paesi che difendono una propria autonomia fuori dal dominio imperialista. Le prove del resto non mancano: basta guardare le scelte militari della politica USA da Grenada in poi, passando per il Libano, la Libia, il Golfo Persico…
    Non basta che le scelte politiche dell’URSS (motivate evidentemente da specifiche ragioni economiche e sociali proprie della particolare formazione economico-sociale di questo paese) vadano verso la «distensione» perché questa trionfi. Essa non può trionfare perché mancano le condizioni oggettive perché questo avvenga.
    Per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi dieci anni hanno visto una notevole trasformazione nel tessuto produttivo, esaltando la produzione di beni di esportazione rispetto a quelli destinati al consumo interno, creando così le premesse per un maggiore impegno imperialista dell’Italia soprattutto verso l’Africa, il Medio Oriente e l’America Latina. Questo ruolo imperialista è naturalmente più articolato (e quindi si accompagna a scelte politiche e militari) per quanto riguarda l’area più vicina geograficamente, e cioè il Mediterraneo; ed è un ruolo che porterà inevitabilmente l’Italia ad assumere oneri sempre più pesanti a fianco dell’imperialismo USA contro i processi rivoluzionari e i paesi che conducono una politica antimperialista nell’area. Questo accresciuto ruolo imperialista dell’Italia rende ancora più urgente la costruzione del Fronte combattente antimperialista nell’area europeo-occidentale e mediorientale, ma sarebbe sbagliato vedere in questo dato attuale la ragione storica dell’antimperialismo intesa come pratica politica di destabilizzazione del sistema imperialista nel suo complesso e di quest’area in particolare. La nostra collocazione antimperialista non è mai stata una scelta congiunturale: in realtà, per lo meno dalla conclusione della seconda guerra mondiale, quelli che erano i diversi paesi imperialisti in continua lotta tra loro per l’accaparramento dei mercati, delle materie prime, del mercato del lavoro internazionale, si sono integrati in un sistema articolato intorno agli USA, regolato al suo interno da un complesso rapporto di interdipendenza ma anche di dipendenza nei confronti del paese più forte. Questo non annulla le contraddizioni interimperialistiche ma le confina su un piano esclusivamente economico, rendendo storicamente impossibile una guerra all’interno dell’occidente imperialista.
    Da questo quadro trae legittimità storica la guerriglia come unica strategia rivoluzionaria possibile e viene anche a modificarsi l’obiettivo possibile di ogni percorso rivoluzionario: non si tratta più di staccare l’anello debole della catena operando sulle contraddizioni interimperialiste, ma diventa prioritaria la destabilizzazione del sistema imperialista, per quanto ci riguarda principalmente nell’area europeo-occidentale e mediorientale, per rendere possibile la riuscita del processo rivoluzionario in uno o più punti di esso, puntando sull’alleanza tra le forze rivoluzionarie che perseguono questo medesimo obiettivo. In questo senso la nostra organizzazione ha lanciato la parola d’ordine della costruzione del Fronte combattente antimperialista; una proposta concreta ed irrinunciabile che trova un terreno immediato di praticabilità nell’iniziativa combattente portata avanti dalle diverse organizzazioni combattenti comuniste europee. L’obiettivo di queste iniziative è stato ed è la NATO in quanto vertice e sintesi più alta dell’attività politico-militare della controrivoluzione. L’iniziativa politico-militare della guerriglia, in quanto strategia, non può che rivolgersi contro il livello più alto, quello strategicamente determinante, dell’iniziativa controrivoluzionaria dell’imperialismo, e la NATO, in quanto centro di concertazione e pratica dell’attività controrivoluzionaria dei paesi imperialisti occidentali sotto la guida degli USA, rappresenta proprio il punto nodale della dialettica rivoluzione/controrivoluzione.
    D’altra parte riteniamo l’area in cui siamo collocati (un’area geopolitica che comprende l’Europa occidentale, il Mediterraneo e il Medio Oriente) di fondamentale importanza per l’evolversi delle contraddizioni oggi operanti a livello mondiale e per l’esprimersi della tendenza alla guerra. L’Europa è al tempo stesso un centro imperialista in cui si concentrano le contraddizioni interne proprie del modo di produzione capitalistico aggravate da una posizione di relativa subordinazione rispetto all’imperialismo dominante; ed anche una zona di contatto tra Nord e Sud del mondo, in un’area di fondamentale importanza strategica per gli interessi generali dell’imperialismo. Entrambi questi gruppi di contraddizioni si riallineano all’interno della contraddizione su cui oggi si fonda la tendenza alla guerra, quella contraddizione Est/Ovest che in Europa raggiunge il suo punto critico lungo la linea di demarcazione tra i due blocchi sancita dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
    Ciò rende evidente l’importanza di una rottura rivoluzionaria in questa area, nel centro imperialista, nel cuore stesso di un sistema che nel sostenere la tendenza alla guerra rende ancora più pesante e insopportabile il dominio sul proletariato della metropoli e sui paesi dipendenti e minaccia la sopravvivenza delle esperienze rivoluzionarie già avvenute.
    Questa stessa posizione fiduciosa nelle fiorenti prospettive di ripresa del ciclo capitalistico ritiene inevitabilmente conclusa la strategia della lotta armata per il comunismo in Italia con il tramonto della figura dell’operaio-massa, a seguito delle trasformazioni del processo produttivo.
    Già abbiamo detto di come le BR non si siano mai considerate, né siano mai state un prolungamento armato di una particolare figura di classe, nemmeno dunque, negli anni settanta, dell’operaio-massa, che pure è stato senz’altro la figura centrale delle lotte del proletariato metropolitano legate alla specifica composizione di classe e al preciso e determinato processo produttivo concreto che ne era la base. Vi è stato uno stretto rapporto, nella formazione e nello sviluppo delle BR, tra queste e le lotte dell’operaio-massa, e con le sue avanguardie; proprio perché allora come oggi le BR, a partire dalla propria identità, dal proprio programma, dal proprio progetto strategico, sempre si sono dialettizzate, nel modo dettato di volta in volta dallo svolgersi del processo storico, con le espressioni dell’autonomia di classe. L’autonomia di classe si manifesta sempre in termini concreti e dunque obbligatoriamente derivati dalla fase economica e dalla struttura del processo produttivo. Non vi sono figure proletarie sante ed eterne da glorificare come portatrici biologiche di radicalismo o addirittura di comunismo, salvo poi, una volta che il processo produttivo molto materialisticamente le trasforma, scoprirsi orfani, deludersi e dichiarare il nuovo assetto delle cose eterno e immutabile. Mai per le BR il rapporto dialettico col proletariato è stato un problema di monumenti da innalzare a figure salvatrici; al contrario è sempre stato un problema di relazione e direzione politica con un’autonomia operaia e proletaria la quale, non provenendo dal mondo delle idee ma dai materiali rapporti sociali, con questi si è trasformata ed evoluta continuamente in tutto l’ultimo ventennio.
    Se da un lato nelle BR non si è mai partiti per la tangente ad assegnare palme di nuovo soggetto rivoluzionario alle diverse figure proletarie marginali che momentaneamente occupavano più o meno rumorosamente la piazza, dall’altro il nostro ostinato, cocciuto, intransigente «attaccamento» alla centralità operaia non è una questione di nostalgia sentimentale, ma è sempre, ieri e oggi, partito dall’analisi marxista del concreto trasformarsi dei processi lavorativi nel cuore della produzione.
    È chiaro che la nuova organizzazione del lavoro, sviluppatasi con l’introduzione di informatica e microelettronica, radicalmente innovativa rispetto all’organizzazione del lavoro tayloristica classica, modifica con il lavoro anche il lavoratore, la composizione tecnica e politica della classe operaia e il tipo di lotte che esprime.
    Nient’affatto in contrasto con ciò la nostra organizzazione continua a considerare teoricamente e politicamente discriminante la questione della centralità operaia. «Solo gli interessi della classe operaia possono rappresentare gli interessi di tutto il proletariato metropolitano. Il termine proletariato metropolitano indica tutte le figure sociali sfruttate ed emarginate dal capitale, ma tra tutti questi gruppi sociali, la classe operaia in quanto l’unica a produrre plusvalore è la sola indispensabile per la sopravvivenza e la riproduzione del modo di produzione capitalistico. Anche rispetto alle modificazioni operate dallo sviluppo capitalistico si può affermare la “centralità del proletariato metropolitano a dominanza operaia”. Dove la centralità operaia si deve intendere “dentro e contro i rapporti di produzione, fuori e contro lo Stato”». Non si tratta unicamente di un discorso sull’ineliminabilità della contraddizione Capitale/Lavoro, ma della valutazione politica che vi sono tutte le condizioni materiali e politiche per l’evoluzione di questa contraddizione come contraddizione Classe/Stato. La guerriglia appunto anticipa e costruisce questo conflitto aprendogli prospettiva strategica. Il nuovo assetto del processo produttivo, con le trasformazioni che ha indotto nei rapporti sociali, non è piovuto dal cielo, ma è maturato e si è prodotto storicamente in questi anni di crisi e ristrutturazione dentro una lotta politica radicale che ha informato i tempi e modi attraverso i quali si è determinata la nuova organizzazione del lavoro: vi è un intreccio stretto di relazione e influenza reciproca tra la sconfitta politica della classe e la ristrutturazione tecnologica della produzione. Le lotte operaie nella crisi e nel processo di ristrutturazione, anche le più recenti, non sono soltanto forme di rigidità inevitabilmente destinate a scomparire, ma hanno in sé il vecchio e il nuovo, la tradizione e residui di forme di lotta legate all’assetto produttivo trasformato e contemporaneamente il modo storico concreto con cui la scienza operaia e proletaria della lotta anticapitalistica si travasa da una figura in via di estinzione a una figura in via di formazione.
    I due aspetti segnano la direzione di sviluppo del processo, che si svolge in un lungo arco di tempo nel quale la composizione reale della classe operaia non è, nell’analisi concreta, appiattibile né completamente alla vecchia né completamente alla nuova condizione.
    Dentro questa realtà dinamica e contraddittoria vive oggi l’autonomia di classe, tutt’altro che superata o annientata né dalla dura sconfitta politica di questi anni né dalla nuova organizzazione del lavoro, nella quale invece vive e si riproduce.
    La relazione dialettica, il rapporto politico – qui non si tratta di una questione di organizzazione o direzione diretta, ma appunto di un riferimento politico-strategico – che le BR anche in questi duri e difficili anni hanno tenacemente mantenuto con le istanze più mature dell’autonomia di classe derivano dalla valutazione della necessità e possibilità nel nostro paese non solo della tenuta e resistenza dell’attività della guerriglia, ma della possibilità di sviluppo, nel quadro di una destabilizzazione antimperialista della nostra regione geopolitica, del processo rivoluzionario per il potere.
    Questa è la prospettiva per i rivoluzionari, una prospettiva che ha basi ben solide sulle quali fondarsi.
    Chi parla oggi, a partire da un’analisi distorta, ipersoggettivista e di comodo, dell’odierna realtà operaia e proletaria, di pacificazione avvenuta, finge di ignorare che il grado di normalizzazione realizzato nel nostro paese ha i blindati dei carabinieri agli angoli delle strade. Rilanciare dal carcere come ex-rivoluzionari quest’idea di pacificazione significa lasciarsi strumentalizzare e mettersi contro la guerriglia e anche contro ogni situazione proletaria che cerchi di lottare e organizzarsi per rompere la normalizzazione e superare lo stato presente delle cose.
  1. Un’altra tendenza sostiene, con argomentazioni parzialmente contrastanti, la fine della strategia della guerriglia: sulla base dell’esaurimento non di un particolare strato di classe, bensì del ciclo di lotte operaie conclusosi nell’80 con quella che definiscono «svolta reazionaria». Ciò richiederebbe una revisione strategica che porti alla «riconversione della guerriglia» in un’attività esclusivamente politica, ossia disarmata, che vada incontro alle esigenze immediate delle masse per come si danno oggi e che contribuisca alla «rifondazione della sinistra». Fin dagli inizi abbiamo definito la lotta armata una strategia, contrapponendoci così con chi la concepiva esclusivamente come forma di lotta, vale a dire come uno strumento utilizzabile solo in certi momenti (ad esempio in una fase pre-insurrezionale) o in situazioni particolari (ad esempio come strumento di autodifesa o nel caso di un golpe fascista). Nasceva così una strategia rivoluzionaria basata sulla ricomposizione tra politico e militare e che rappresentava una rottura netta con i limiti storici che aveva espresso la strategia terzinternazionalista della rivoluzione nel centro imperialista.
    Fare proprio l’impianto guerrigliero non poteva però voler dire accettare un rapporto tra strategia e tattica in cui quest’ultima fosse l’articolazione diffusa della prima, mediata via via con il modificarsi progressivo dei rapporti di potere. In altre parole non poteva prevedere «basi rosse», «programmi immediati», ecc. In questo senso si può dire che la tattica della guerriglia nella metropoli si ha nei termini di articolazione dell’attività guerrigliera in dialettica con le iniziative della controrivoluzione. Questo perché la guerriglia risolve il problema del potere e oltretutto non di una forma qualsiasi di esso, bensì del potere politico – vale a dire lo Stato – affrontandolo in quanto tale, cioè laddove esso si esprime realmente e non nelle sue diverse articolazioni periferiche.
    Ben altra cosa, quindi, dall’essere portavoce armato dei diversi movimenti di massa, qualunque sia l’obiettivo economico o anche politico che essi si pongono. E si sa che in tempi di arretramento politico come quello iniziato nell’ottanta con la sconfitta alla Fiat i contenuti espressi dalla classe non possono che essere arretrati, di difesa di almeno una parte delle conquiste del ciclo di lotte precedente.
    La guerriglia, dunque, affronta il problema del rapporto con il proletariato a partire dalla strategia, in termini di adesione del proletariato all’obiettivo, al programma strategico; vale a dire che essa individua come referente il «proletariato rivoluzionario». Un problema che si è sempre riproposto consiste proprio nell’individuazione dei fattori e delle circostanze che rendono possibile la trasformazione in senso rivoluzionario del proletariato. Come ha scritto Marx «il proletariato o è rivoluzionario o non è». A partire dalla sua materiale collocazione nei rapporti di produzione, il soggetto rivoluzionario si determina innanzitutto in base all’atteggiamento nei confronti della rivoluzione.
    Questa concezione non rappresenta una scoperta di oggi; al contrario essa era ben presente nelle BR fin dalla loro origine e costituisce l’esito necessario a cui conduce la comprensione che un’organizzazione combattente comunista non può – né peraltro deve – avere una linea di massa, nel senso che a caratterizzare il suo programma è l’attacco al cuore dello Stato inteso come il progetto dominante che nella congiuntura oppone la borghesia al proletariato.

È concentrando la propria attività politico-militare sulle contraddizioni principali, infatti, che la guerriglia fa uscire, per così dire, allo scoperto il proprio referente «naturale»; dà forza a quanti si trovano in accordo politico con la guerriglia sulla necessità di considerare principali e fondamentali le contraddizioni che essa mette all’ordine del giorno sul piano internazionale e nazionale (oggi la tendenza alla guerra, l’attacco al cuore dello Stato, la costruzione del Fronte combattente antimperialista).

Nei confronti delle lotte economiche e delle rivendicazioni delle masse, l’atteggiamento della guerriglia non può essere quello di ricercare per esso le soluzioni particolari possibili (questo la classe già lo fa di per sé, mediante forme ed organizzazioni proprie), bensì quello di propagandare la necessità di combattere per la soluzione generale, per l’abbattimento dello Stato borghese e del dominio capitalista. In questo le BR agiscono da Partito, aprono il confronto con altri rivoluzionari combattenti per la costruzione del Partito comunista combattente.

Tutte le mediazioni che si esprimono invece all’interno della contrattazione del valore della forza-lavoro non usciranno mai dal riformismo finché non sarà affrontato e risolto il problema della rottura violenta della macchina burocratico-repressiva dello Stato borghese. Le BR muovendosi sul piano strategico della lotta armata lottano realmente anche per i bisogni contingenti delle masse nel momento e nella misura in cui lottano per rimuovere alla radice le condizioni di oppressione e sfruttamento. Altri terreni sono di competenza dei riformisti o di chi si illude di poter ridurre la complessità della rivoluzione nella metropoli ad una logica evoluzionista di lotte settoriali («pace e disarmo», «nucleare» e… «degrado ambientale»).

All’«andata alle masse» corrisponde il «ritorno nella sinistra» che costoro dovrebbero ora contribuire a rifondare in modo da fronteggiare uniti, in un unico «blocco storico», la cosiddetta svolta reazionaria.

Anche in questo caso si confonde la normale dinamica ciclica del capitale e quella parallela del movimento di classe con un qualcosa capace di determinare stravolgimenti radicali nella strategia dei rivoluzionari. Oppure, ma la sostanza non cambia, si ritiene che compito dell’avanguardia rivoluzionaria non sia quello di rappresentare e portare avanti, in qualsiasi situazione, gli interessi strategici del proletariato, ma quello di spostare progressivamente i rapporti di forza tra le classi attraverso il gioco politico sul terreno imposto dalla borghesia.

Già la penosa esperienza dei «gruppi» e partitini emmelle della sinistra extraparlamentare negli anni settanta, dopo quella del PCI, ci pareva avesse abbondantemente dimostrato l’incompatibilità di una simile strada con gli interessi della rivoluzione. Alcuni di questi gruppuscoli sono riusciti a sopravvivere fino ad oggi dopo aver trascorso nell’indifferenza generale e nel nullismo politico i diciassette anni che ci separano dalla nascita della guerriglia. Oggi con questi gruppi si propone la rifondazione della sinistra illudendosi di utilizzare e svendere l’esperienza rivoluzionaria fin qui accumulata dalle BR e da altre organizzazioni comuniste combattenti, riportandola all’interno di quella pseudo-sinistra dalla quale ci siamo staccati all’inizio degli anni settanta. Trascurano evidentemente, o forse non hanno mai capito, la natura della rottura storica che portò alla nascita di una strategia rivoluzionaria destinata a rappresentare un punto di non ritorno per chi voglia portare avanti concretamente gli interessi della rivoluzione nel mondo.

Ciò che il processo storico della lotta armata in Italia ha dimostrato concretamente tracciando nella lotta una netta linea di demarcazione tra rivoluzione e nemico, tra rivoluzionari e opportunisti, è la subordinazione della cosiddetta sinistra allo Stato imperialista.

Nei paesi del centro imperialista – compreso sicuramente il nostro – una posizione rivoluzionaria deve essere necessariamente internazionalista, antimperialista, schierata risolutamente con gli interessi del proletariato internazionale e dei popoli oppressi e sfruttati dal modo di produzione capitalistico alla periferia del sistema; solo a partire da questa condizione i comunisti possono costruire un rapporto dialettico col proletariato rivoluzionario del centro – un processo rivoluzionario.

 

Il compito dei comunisti, della guerriglia, di costruire a partire dal proprio programma questo collegamento strategico tra proletariato internazionale, popoli del Terzo Mondo e proletariato metropolitano è insostituibile, ineludibile, vitale.

Proprio su questo si rivela pienamente la natura reale della cosiddetta sinistra europea – che si polarizza intorno all’Internazionale socialista cui è ormai da tempo pienamente approdato il PCI -, sinistra che è materialmente interessata alla compartecipazione agli utili, alla spartizione dei profitti derivanti dallo sfruttamento imperialista sul proletariato internazionale, sui popoli della periferia. In quanto integrata nel sistema imperialista è interessata direttamente alla distruzione del proletariato come soggetto rivoluzionario e alla sua riduzione a «merce organizzata» di cui si propone come partito; e ancor più è evidentemente interessata alla distruzione delle lotte rivoluzionarie antimperialiste dei popoli della periferia.

Un discorso che non parta da questa chiarezza porterebbe fuori dalla prospettiva rivoluzionaria e finirebbe per rimanere a questa «sinistra» politicamente subordinato.

Per le BR il problema è sempre stato e rimane oggi la costruzione dell’alternativa strategica alla sinistra imperialista: la lotta armata per il comunismo, lo sviluppo della guerra di classe – unico ambito nel quale può realizzarsi l’indipendenza politica del proletariato metropolitano e il programma comunista.

Le BR non si nascondono le difficoltà nel portare avanti questa lotta nelle nuove condizioni. Consideriamo di grande importanza per lo scontro di classe la capacità di resistenza, di riproduzione, di radicamento dimostrata in questi anni di arretramento complessivo delle posizioni politiche del proletariato. L’aver tenuto aperto il combattimento sulle questioni centrali dello scontro di classe, l’aver ricostruito e radicato la struttura politica e organizzativa della guerriglia, è ciò che rivendichiamo come un successo politico decisivo.

La guerriglia è infatti elemento necessario, indispensabile, senza il quale perde di prospettiva antistatuale e rivoluzionaria ogni lotta radicale che si sviluppi nelle contraddizioni della materia sociale. In questo senso essa è vitale per l’insieme del movimento antagonista, per ogni espressione di autonomia proletaria che le contraddizioni del modo di produzione capitalista vanno producendo. Ciò anche indipendentemente dal grado di relazione che si vada determinando, nelle diverse congiunture storico-politiche, tra guerriglia e specifiche situazioni di lotta, e dal grado di comprensione che di questa funzione si possa dare in un determinato momento nella classe.

Diciassette anni di prassi rivoluzionaria in dialettica con le istanze più mature dell’autonomia di classe segnano una traccia profonda nella nostra società e costituiscono oggi una forza materiale del proletariato nella lotta per il potere. Si è formata in questi anni un’organizzazione che concentra un’esperienza di lotta politica clandestina e di combattimento ricchissima e preziosa.

L’azione di autofinanziamento realizzata a Roma in febbraio si inquadra proprio nella prospettiva di ripresa dell’offensiva guerrigliera e di rilancio del suo progetto politico.

Oggi, in collegamento con la lotta antimperialista del proletariato internazionale, sull’asse strategico dell’attacco al cuore dello Stato la nostra organizzazione lavora e combatte per la ripresa dell’offensiva rivoluzionaria contro lo Stato e la guerra imperialista mirando a rompere, nell’attacco alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono borghesia e proletariato, gli equilibri politici della borghesia imperialista e a renderne ingovernabili le contraddizioni; per la modificazione dei rapporti di forza, per assestarli in favore del campo proletario, affinché possano pesare nello scontro con lo Stato e dare propulsione alla guerra di classe di lunga durata per il potere.

In ciò la soggettività rivoluzionaria, l’intransigenza sugli obiettivi politici della lotta, la chiarezza sul ruolo della guerriglia nel centro imperialista sono un fattore che si dimostrerà decisivo.

Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente ci assumiamo la responsabilità storica e politica di tutta l’attività dell’organizzazione.

Rivendichiamo il suo programma, il suo progetto strategico, la sua linea politica e la prassi combattente. In essa ci riconosciamo.

Vogliamo ricordare Giacomo Cattaneo «Lupo», nostro vecchio compagno, morto quest’anno agli arresti nell’ospedale di Pavia, e il compagno Antonio Gustini «Andrea», caduto nel dicembre ’84 a Roma in un’azione della nostra organizzazione.

Con loro rendiamo onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo.

Attaccare il cuore dello Stato nelle sue politiche dominanti!

Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo Stato!

Guerra alla NATO! Guerra all’imperialismo!

Promuovere e consolidare il Fronte combattente antimperialista!

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente

Piero Bassi, Cesare Di Lenardo, Franco Sincich

 

Cuneo, settembre 1987

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