Un esempio di collaborazione poliziesca. Dichiarazione di Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Francesco Tolino al processo di estradizione della “Audiencia National” spagnola

Siamo tre militanti comunisti italiani, arrestati a Parigi il 15/6/87 a causa di un mandato di cattura internazionale, emesso dal giudice italiano Rosario Priore, per appartenenza alle BR e/o alla UdCC. Nonostante cinque mesi di detenzione in Francia, Priore non ha mai formulato una richiesta ufficiale di estradizione, in flagrante contraddizione con il mandato di cattura da lui stesso emesso. La stranezza di questa procedura, solo apparente, è dovuta a precisi accordi presi nel segreto delle cancellerie dei ministeri degli interni dei due paesi, al fine di evitare il rischio che le nostre estradizioni potessero essere rifiutate se sottoposte ad un procedimento legale, date le contraddizioni esistenti nella legislazione francese in materia dei cosiddetti “delitti politici”.

La soluzione per aggirare quello che poteva rivelarsi uno scoglio, venne trovata, deportandoci (tramite un procedimento amministrativo, l’espulsione con procedura d’urgenza assoluta, che esclude qualsiasi intervento della magistratura e lascia ogni decisione nelle mani dell’esecutivo) qui in Spagna, dove al contrario le estradizioni non incontrano il minimo ostacolo legale.

In Spagna, infatti, i “reati politici” sono esaminati da una magistratura e un tribunale speciale: la Audiencia Nacional, docile strumento repressivo nelle mani del governo e del suo apparato “antiterrorista”, la Secreteria para la Seguridad del Estado.

Ed è a questo punto che Priore si è rifatto vivo, rivolgendosi immediatamente a questo tribunale, ricordandosi questa volta di formulare le richieste ufficiali di estradizione, sapendo perfettamente che sarebbero state accolte, trattandosi ormai di una semplice formalità burocratica. È sufficiente esaminare la mancanza dei più elementari diritti legali borghesi che hanno caratterizzato i processi contro i compagni Francesco Tolino e Gianfranca Lupi, per rendersi conto che assistiamo alla semplice formalizzazione di una decisione politica già prestabilita; all’applicazione di consegne impartite a questo tribunale dal segretario di stato per la sicurezza: Rafael Vera, in conformità con gli accordi stipulati con i suoi colleghi europei.

Prendiamo la parola, in occasione di questa ennesima farsa processuale che vi accingete a celebrare oggi, 18/7/1988, contro la compagna Alessandra Di Pace, per denunciare il ruolo di autentico braccio operativo-giuridico dell’Europa delle polizie, che questo tribunale ha assunto. Questo processo, come i due precedenti, serve solo per ratificare decisioni politiche, già prese nei ministeri degli interni francese, spa-gnolo, italiano. È per questo motivo che, nel processo precedente e in quello di oggi, Alessandra Di Pace rifiuta la difesa del suo avvocato, in quanto perfettamente inutile in questo contesto. Non riconosciamo nessuna legittimità a questo tribunale.

La novità di questa collaborazione “antiterrorista”, che ha visto impegnati gli apparati statali di mezza Europa, è la sua natura squisitamente politica. Osservando le forme ed il contenuto di questa procedura, si può ridurre l’intera questione alla sfacciata chiarezza con cui gli esecutivi dello Spazio Giuridico Europeo perseguono il loro indirizzo anticomunista, nel completo disprezzo delle minime garanzie giuridiche.

Del resto la democrazia mai è andata d’accordo con il capitalismo, e questo disaccordo strutturale tende, nell’epoca attuale, a far scomparire anche la parvenza di democrazia formale nei paesi a capitalismo avanzato, sostituendola con la formazione di esecutivi forti ed autoritari, trasferendo in ristretti e chiusi gruppi di funzionari politici tutte le principali funzioni decisionali, instaurando di fatto un monopolio oligarchico che conduce autoritariamente gli affari dello stato. Una tendenza autoritaria visibilmente chiara qui in Spagna, dove la cricca di Felipe Gonzalez ha di fatto occupato lo stato, riducendo i deputati ad un ruolo insignificante e il sistema giuridico a semplice appendice del potere esecutivo (con la riforma del 1985 il “Consejo General del poder judicial” è nominato direttamente dalla camera parlamentare, cioè dai gonzalisti, che ne detengono il controllo). Del resto la pretesa separazione dei poteri dello stato – esecutivo, legislativo, giudiziario – è sempre stata formale, o meglio, sempre si è trattato di divisioni di funzioni centrate verso un unico obiettivo: controllare e reprimere il proletariato e le sue avanguardie politiche. La coesistenza di diversi centri del potere statale, autonomi e rigidamente isolati, è una vuota astrazione, certamente utile per rafforzare a livello ideologico il dominio della classe al potere, ma in sé è una pura illusione del liberalismo borghese che non ha mai avuto un riscontro reale. Il regime parlamentare non è, come credono i democratici borghesi, il prodotto di una teoria a priori ma uno strumento nella lotta che ha opposto la borghesia rivoluzionaria all’assolutismo feudale e come tale il risultato di una lunga evoluzione storica. Corrispondeva in un primo tempo alla necessità della borghesia di svilupparsi in Europa, all’interno di un sistema feudale; attraverso il parlamento quest’ultima deteneva il potere legislativo, esercitando così un contropotere, un contropeso reale all’aristocrazia feudale.

La separazione dei poteri era allora una realtà effettiva, concepita dalla borghesia come limitazione del potere dell’aristocrazia. In questo modo, come diceva Montesquieu, «il potere limita il potere». Lo sviluppo del regime parlamentare corrisponde dunque all’ascesa della borghesia e al declino dell’aristocrazia sotto l’influenza determinante dello sviluppo delle forze produttive. Attraverso il parlamento, la borghesia limitava la libertà d’azione del governo aristocratico; il potere giuridico “fungeva da arbitro” e in qualche modo controllava, limitandolo, sia il governo che il parlamento. Questa separazione dei poteri, che per i liberali costituisce l’essenza stessa della libertà, esprimeva in realtà gli interessi della borghesia, la sua necessità di produrre e comunicare liberamente, una libertà che riposava sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e che pertanto escludeva i lavoratori salariati, ai quali era proibito scioperare e organizzarsi in sindacato, ecc.

Tutte queste categorie – parlamento, democrazia, ecc. – si comprendono solo se si esaminano dal punto di vista della lotta di classe, solo così smettono di essere vuote astrazioni ed assumono una dimensione reale storica. Allo sviluppo delle varie fasi del capitalismo ha corrisposto uno sviluppo degli istituti rappresentativi delle sue forme politiche, avendo un ruolo ed un’importanza, naturalmente considerato e valutato all’interno di un quadro storico, politico e sociale preciso.

Finché il capitalismo si basava sulla piccola impresa e il proletariato non era ancora sufficientemente sviluppato, il parlamento ha esercitato una reale funzione di potere, riflettendo al suo interno lo scontro tra le diverse frazioni della borghesia, che si fronteggiavano sul mercato. Con le grandi imprese, i colossali monopoli che si ripartiscono il mercato mondiale, il parlamento ed in generale il modello democratico liberale, servono solo come paravento ideologico, come giustificazione verbale; nella pratica hanno smesso di funzionare. Nella fase dell’imperialismo, quando la lotta di classe si è intensificata particolarmente, la borghesia non può affidarsi ad istituti rappresentativi per garantire il suo dominio. Tende pertanto a rivolgersi verso l’esecutivo. Democrazia liberale e capitalismo monopolista si oppongono punto per punto. Il sistema parlamentare continua però a restare, come osserva Lenin, il migliore involucro politico che può rivestire il capitalismo in quanto mistifica alle masse e legittima in una certa misura la dittatura di classe della borghesia.

La tendenza in atto da diversi anni, nei principali paesi europei, che mira a ridefinire le funzioni tra gli istituti statali, spostando maggiormente il centro di gravità della vita politica, giuridica e sociale verso l’esecutivo, per una maggiore espansione e centralizzazione dell’apparato burocratico statale, per un maggior rafforzamento dei suoi mezzi repressivi, va vista come una necessità del “sistema parlamentare” nella sua lotta contro la rivoluzione proletaria. Va vista come la risposta funzionale dello stato capitalista alla lotta di classe che accompagna il suo sviluppo. Nel nostro paese, questa tendenza all’autoritarismo e alla centralizzazione statale ha conosciuto negli ultimi anni un rafforzamento straordinario, uno sviluppo molto grande, al punto che la borghesia si appresta a varare una riforma istituzionale.

Una riforma reazionaria, voluta e diretta da un ristretto club di capitalisti che si apprestano a ridefinire gli assetti costituzionali del paese. In questa ottica è nato l’ultimo governo in Italia, per assicurare l’apertura politica di un processo costituente che conduca i grandi signori della finanza, le grandi famiglie capitaliste ben conosciute qui in Spagna – gli Agnelli, De Benedetti, Gardini, ecc. – alla conquista dell’egemonia politica dello stato. Con la riforma istituzionale la grande borghesia mantiene l’iniziativa politica che dai 24.000 licenziamenti FIAT agli inizi degli anni ’80, dall’attacco alle conquiste generali della classe operaia, all’impri-gionamento di più di 4.000 oppositori politici, alle torture contro i rivoluzionari, all’invio della flotta nel Golfo Persico, ecc., investe ora gli assetti costituzionali al fine di centralizzare e irrobustire ulteriormente l’organo centrale e principale del suo dominio di classe: l’apparato statale.

Questa riforma, con il suo obiettivo scopertamente reazionario, diventa realizzabile per la borghesia italiana per due ragioni fondamentali: per il riflusso del ciclo di lotte che, nella classe operaia e nella sua avanguardia politico-militare, trovarono coagulo e prospettive politiche lungo tutto il corso degli anni ’70; e, altra faccia della medaglia, per la crisi totale che attraversa il PCI che, impossibilitato materialmente a mantenere il compromesso tra lavoro e capitale, poiché la crisi economica ha ridotto verticalmente il margine delle disponibilità economiche per un miglioramento delle condizioni di vita delle masse, si vede costretto a scelte obbligate, appiattendosi sempre più sugli “interessi nazionali”. Su un tema centrale come quello della riforma istituzionale, le scelte politiche di Occhetto e De Mita coincidono, si è aperto un “dialogo” che condurrà l’ex partito comunista ad assumersi sempre più in prima persona scelte chiaramente antiproletarie.

La riforma istituzionale, insomma, è lo specchio fedele che riflette e approfondisce un rapporto di forza profondamente mutato a vantaggio della grande borghesia, postasi come asse centrale della vita nazionale. Tutto ciò ha spinto una parte di ex rivoluzionari all’accettazione del “nuovo ordine” capitalista, svendendo la loro identità politica e dignità personale. I loro poveri argomenti, a giustificazione del loro tradimento, sono stati ampiamente propagandati anche qui in Spagna, dai mezzi di informazione del regime. “El Pais”, “D16”, ecc., hanno ampiamente amplificato le voci di questi individui che parlano di sconfitta definitiva della lotta armata, di chiusura delle possibilità della rivoluzione proletaria in Italia, ecc.

Evidentemente, in Italia, una lunga fase politica si è chiusa e il varo della riforma istituzionale rivela proprio questo cambiamento. Dopo il ciclo di lotte degli anni ’70, per la borghesia e il suo governo è diventato impossibile continuare a governare come prima ed essa è costretta a ricercare nuovi equilibri istituzionali perché la dinamica della lotta di classe ha rotto, rendendoli inadeguati, quelli precedenti, costruiti sul compromesso del dopoguerra tra lavoro e capitale, tra classe operaia diretta dal PCI e democrazia borghese. Non è forse vero che lo stato è il risultato della lotta tra le classi e che le forme del dominio della borghesia sono in relazione con le intensità e le forme della lotta proletaria? E allora, se la borghesia si pone con tutta decisione e precipitazione la questione istituzionale non è forse perché la lotta di classe ha aperto una profonda crisi politica? Tutte le principali forze politiche dell’arco costituzionale convergono nel dichiarare che il problema della riforma istituzionale è ormai indifferibile, ma perché? Quale forza materiale spinge De Mita, Occhetto, Craxi, a fare discorsi complementari sulla necessità della riforma dello stato? E che rapporti ha questa riforma con il ciclo di lotte degli anni ’70?

La fotografia della congiuntura con i suoi nuovi rapporti di forza offre solo risposte parziali e limitate; se l’analisi concreta della situazione concreta è obbligatoria per i marxisti, in nessun caso si limita a fotografare il presente, fissandone i contorni politici, i rapporti di forza, in un quadro metafisico immutabile. Essa ricerca invece le linee di tendenza, individua il movimento che, nonostante l’apparente quiete, si cela nelle contraddizioni capitaliste. Da questo punto di vista che esclude ogni interpretazione immediata e sociologica della realtà e della lotta politica rivoluzionaria, la nuova fase capitalista apertasi in Italia, e la riforma istituzionale in particolare, va vista anche in relazione all’andamento del movimento operaio e comunista, all’emergere sulla scena nazionale di una forza rivoluzionaria che, tramite la lotta armata, ha imposto praticamente il divorzio tra classe operaia e democrazia borghese, prolungando la rottura già operata alla fine degli anni ’60 dai settori di classe più avanzati.

Finché l’ipotesi revisionista di una via pacifica al socialismo ha potuto indirizzare le aspirazioni proletarie e fintanto che le spinte rivoluzionarie non sono andate al di là di un parziale lavoro tra le masse, lasciando la questione del potere politico nell’ambito teorico-ideologico, la “democrazia bloccata” ha funzionato in Italia, garantendo per quarant’anni una relativa stabilità al sistema. Dopo il ciclo di lotte degli anni ’70 e con la nascita delle Brigate Rosse, divenute con il sequestro di Aldo Moro forza politica di primo piano, che tendeva a diventare partito politico-militare, in grado di assumersi l’organizzazione e la direzione del movimento proletario, trasportando sul terreno dello scontro politico generale tra le classi le spinte e il malessere sociale che scaturivano dalla società italiana; con la nascita di questa nuova forza storica, niente è più come prima; né per il riformismo revisionista né per la borghesia ed i suoi partiti politici.

La politica rivoluzionaria si è affermata per mezzo della lotta armata, rompendo consuetudini radicate, “impasse” storiche, pratiche fallimentari, e ridando una identità autonoma al proletariato. Un elemento politico nuovo che non può essere marginalizzato o inserito, come variante, all’interno delle istituzioni statali. Non è un caso che, mentre nel ’78 le tematiche istituzionali erano principalmente protese verso il compromesso storico, verso l’integrazione cioè della classe operaia nello stato borghese, oggi si rivolgono direttamente all’esecutivo, all’accrescimento della buro-crazia e della centralizzazione dello stato, quale misura principale contro la classe operaia. Perché, per dirla con Marx: «la repubblica parlamentare, nella sua lotta contro la rivoluzione proletaria, si vede obbligata a rafforzare insieme ai mezzi repressivi, i mezzi e la centralizzazione del potere del governo».

La riforma istituzionale, insomma, riflette il cambiamento qualitativo intervenuto a livello politico generale tra le classi nella società italiana, il suo ruolo e le sue finalità in relazione alle tappe della lotta di classe, quale nuova regola dello scontro che la classe dominante detta a se stessa, nella sua lotta contro il proletariato.

La lotta della classe operaia contro la borghesia e il suo stato è entrata infatti in una nuova fase, qualunque siano i risultati immediati di questa lotta, si è conquistata un nuovo punto di partenza storico.

Questa ridefinizione in senso reazionario degli istituti statali non è però prerogativa del governo italiano, ma una vasta tendenza che comprende gli stati capitalisti europei. Il restringimento degli spazi democratici e dei luoghi decisionali è un riflesso necessario della struttura capitalista. E’ l’imperialismo stesso che genera in qualche misura una sorta di monopolio in politica.

Il processo di verticalizzazione decisionale, che ha escluso, lungo tutto il corso di questa procedura, qualsiasi intervento autonomo della magistratura, la sbrigatività sommaria che ha caratterizzato l’intero procedimento non è il frutto di una procedura che occasionalmente ha rivestito un carattere di eccezionalità ma il risultato “necessario” e prevedibile che riflette, nella sfera giuridica, i contrasti inconciliabili tra le classi, che mostra, con straordinaria chiarezza, l’insofferenza crescente degli esecutivi dello Spazio Giuridico Europeo verso le forme garantiste, il carattere autoritario degli esecutivi che sempre meno sopportano la loro stessa legalità. In sostanza è la spinta accentratrice del capitale finanziario, la marca del danaro, che “colora” le forme politiche, sociali, istituzionali dello Spazio Giuridico Europeo, esasperando le condizioni per cui per l’alta burocrazia statale, civile e militare, il decisionismo antiproletario, l’autoritarismo, il militarismo, ecc., rappresentano l’unica via di successo e di sicura carriera politica, militare, diplomatica, ecc.

Noi, militanti comunisti, sequestrati dello Spazio Giuridico Europeo, cogliamo l’occasione per denunciare la realtà reazionaria della società a capitalismo avanzato, per ribadire il nostro impegno politico e militante, la nostra solidarietà attiva alla classe operaia e al movimento sociale che si batte contro l’attuale indirizzo reazionario e contro l’oppressione e lo sfruttamento in Spagna, in Italia, ecc.

Riaffermiamo il nostro posto all’interno del movimento comunista, nelle esperienze e nel patrimonio di lotta espresso in questi anni, nello sviluppo della politica rivoluzionaria: l’attività cosciente e determinata che organizza e dirige il proletariato nel cammino verso la sua liberazione, verso il socialismo.

 

Alessandra Di Pace, Gianfranca Lupi, Francesco Tolino

 

Madrid, 18 luglio 1988

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