Abbiamo alternative?

Nulla è scontato in quanto si dia soltanto sul piano teorico. La più giusta delle teorie in campo politico deve trovare conferma nella pratica, deve tradursi in elemento concreto e vivo per il soggetto sociale cui si riferisce. Questo postulato, più volte richiamato da P., sta assumendo una urgenza inaggirabile. Perché quello che salta agli occhi sono due fatti:

1) la corrispondenza tra il decorso della crisi capitalistica e la visione teorica M.L. cui ci rifacciamo, la corrispondenza teorica quindi tra gli sviluppi della lotta di classe e lo sbocco politico prospettato dai comunisti;

2) la non corrispondenza tra questi presupposti, tra queste potenzialità, tra queste occasioni storiche ed i passi concreti compiuti dai comunisti. Abbiamo già più volte preso atto di come la stagnazione del movimento comunista nel nostro paese (e più generalmente in Europa) sia da ricondurre ad alcuni grossi avvenimenti che, nell’insieme, hanno determinato un contesto negativo: sconfitta tattica della L.A. comunista agli inizi degli ’80 con un naufragio del tentativo del salto al Partito; arretramento nei rapporti di forza tra le classi con la grande e continuativa offensiva borghese dello stesso decennio; crollo del revisionismo all’Est che, se resta globalmente un fatto positivo, ha consentito e consente un pesante attacco trasversale al Comunismo, comunque un suo momentaneo ridimensionamento come prospettiva concreta per i movimenti di massa (M.M.).

Lo stesso decorso della crisi capitalista, per quanto segua una linea tendenziale ben precisa, favorevole all’acutizzarsi dello scontro di classe, ha visto però nei paesi imperialisti il contrastante agire di fattori negativi per il processo di ricomposizione di classe: margini di manovra nei processi ristrutturativi che hanno consentito un profondo attacco all’omogeneità del corso di classe, manipolazione di elementi di divisione (soprattutto in migrazione dai paesi periferici), emergenza del peso politico delle mezze classi piccolo-borghesi che, anch’esse intaccate dalla crisi e dallo strapotere della B.I., reagiscono a modo loro e riuscendo però ad incanalare dietro sì settori di massa in fuorvianti guerre interborghesi.

D’altronde, se si vuole, quante controtendenze alla ricomposizione di classe sono l’altra faccia della crisi che non è solo attacco alle condizioni economico-sociali del proletariato, ma anche costante pressione preventiva politico-militare e culturale contro il nemico di classe. Insomma nella giusta visione teorica M.L. sul decorso di quella crisi capitalista non c’è solo lo sbocco rivoluzionario, c’è anche la disgregazione sociale, la decomposizione sociale, la barbarie. Tutte queste considerazioni per dire che indubbiamente in Europa hanno agito precise controtendenze al processo politico di ricomposizione rivoluzionario del proletariato e per non sprofondare in eccessi autocritici di fronte alla nostra attuale situazione.

Ma queste condizioni evidenziano, se lette nel loro nesso dialettico che non c’è nulla di scontato e di meccanico nell’affermazione della tendenza o delle controtendenze perché l’una avanza a spese delle altre e viceversa e molto dipende dall’affrontamento, dallo scontro, dal rapporto di forza tra le classi, che continuamente si rinnova. Certo vanno considerati questi fattori oggettivi e quelli soggettivi di dimensione storica (come il crollo e l’ulteriore mutazione del revisionismo) che non sono risolvibili nell’ambito della lotta immediata. Ma c’è tutto l’ambito dello scontro d’attualità, del presente, della fase in corso, in cui non è scontato l’esito se non che per la capacità della forze di classe di riunirsi, concentrarsi e dare battaglia.

Ed è precisamente anche l’accumulo degli esiti di queste numerose battaglie di fase che determina la maturazione di un salto di qualità piuttosto che di un altro nei suddetti grandi fattori di dimensione storica, che determina un contesto piuttosto che un altro: per esempio è così spiegabile, con il diverso sviluppo della lotta di classe e dei suoi percorsi politici, la differenza qualitativa del movimento di classe in paesi peraltro simili come quelli europei.

Per quanto “negativa” possa essere la situazione attuale, essa è ancora ben insufficiente per gli obiettivi e la strategia della B.I., per cui essa continuerà a perseguirli intensificando l’attacco di classe. Come possiamo dare per scontato il suo sviluppo, gli scontri cui darà luogo, gli sviluppi politici che potrà indurre? Come possiamo ritenere ininfluente lo sforzo ricompositivo dei comunisti di oggi per avere un ruolo politico dentro questo scontro in futuro? Come possiamo non “avere fretta” sapendo che solo la presenza dei comunisti può incanalare positivamente un’energia di massa che, viceversa, verrà fuorviata, manipolata ed infine fatta implodere (come tanti fenomeni di autodistruzione ed autolesionismo sociale oggi testimoniano)? Se non avanza un percorso politico rivoluzionario, questi fenomeni negativi avranno sempre più il sopravvento, provocheranno ulteriore degenerazione nel tessuto sociale proletario: insomma più si va avanti così peggio sarà e ancor meno potremo attenderci un’anonima ripresa rivoluzionaria di massa, come i Bordighisti di sempre attendono.

Lo scontro di classe a venire sarà sicuramente molto aspro e su questo non ci sbagliammo anni fa quando denunciavamo le mistificazioni sull’ampiezza e la realtà effettiva delle ripresine economiche di turno. Ognuna di queste (’84, ’88) si è conclusa con un tonfo recessivo più pesante dei precedenti: al di là di questi alti e bassi della curva ciclica, è la crisi c. ormai datante dal ’73 che non si risolve e che continua. Prevedemmo in gran parte anche gli sviluppi sociali e politici di questo andamento: perché in futuro non dovrebbero accentuarsi ancora, visto che la base economica che li riproduce è sempre orientata su quella tendenza? In questo senso la situazione è favorevole. Ma sembra essersi largamente diffusa nel M.R. un’attitudine di stampo bordighista per cui si giustificano i ritardi soggettivi con la preponderanza ed il peso della controrivoluzione.

Questa contraddizione merita due parole perché spesso sconfina anche tra di noi. È un metodo di analisi “storicistico-giustificazionista” nel senso che prima ancora di assumersi le responsabilità politiche del presente (con relativi rischi di errore) si storicizza il presente stesso, considerandolo sempre e comunque immaturo quanto a condizioni rivoluzionarie (e pur concordando sulla definizione della presente epoca come rivoluzionaria), leggendo la lotta di classe che si presenta sempre e soprattutto nei suoi limiti per confermarsi nella convinzione che le espressioni di classe sono arretrate e quindi soggette al peso della controrivoluzione. Dalla banalità dialettica (peso “complementare” di rivoluzione e controrivoluzione) si finisce all’assolutizzazione meccanicistica (dunque ad una forma di idealismo) di un fattore, la controrivoluzione. È un’assurdità: non si dà mai prevalenza totalizzante, sennò addio dialettica! Ciò vuol dire che la presenza della rivoluzione, del campo rivoluzionario, di due possibilità politiche si dà sempre, a maggior ragione in un’epoca storica di crisi generale capitalista (d’altronde in quest’epoca i Bordighisti han fatto prova del loro fallimento sostanziale, visto che sono mancati ad un appuntamento da loro stessi fissato: bisogna ricordare la loro attesa di questa crisi generale che fu anzi da loro datata, con molto anticipo, attorno al ’75 – ed in questo senso confermando le loro capacità teoriche – ed al punto tale di dedicargli il titolo di una casa editrice) La dine dei ’70 vide invece che un loro rinnovato protagonismo politico, la loro crisi disgregativa più grave.)

Il fatto è che l’elemento positivo, tendenzialmente rivoluzionario. non si presenta in forma pura, cristallina, ma convive e si confonde con altri elementi meno avanzati e pure arretrati che vivono e persistono dentro le manifestazioni di classe. Per di più la sua emergenza in seno ai M.M. dipende esattamente dalla interrelazione, dalla dialettica politica con il Partito (o con il suo embrione); di certo è un’altra assurdità assolutistica l’attesa di un Movimento di Massa Rivoluzionario, tra l’altro invocato come una delle condizioni di un’effettiva fase rivoluzionaria, a sua volta indispensabile per la costruzione del Partito (infatti nella visione bordighista la rinascita del “Partito formale” è un fatto che viene dopo, o comunque durante, il presentarsi di tutte le condizioni favorevoli della situazione rivoluzionaria: con il che non si capisce proprio dove sarebbe il suo ruolo d’avanguardia, né l’utilità della lotta politica.)

In più interventi abbiamo cercato di sintetizzare l’esperienza storica del Movimento Comunista Internazionale per giungere ad una corretta impostazione del rapporto tra dinamica delle masse e dei loro movimenti e dinamica dell’avanguardia, del Partito.

Siamo giunti ad affermare l’insostituibilità e l’indispensabilità dell’una e dell’altra: non si più impostare alcuna strategia Rivoluzionaria che non sia basata sulla dialettica rispetto ai Movimenti di Massa ed alla finalità suprema della loro maturazione in senso Rivoluzionario (strategia che quindi consideri sempre attentamente la realtà di classe da cui si parte) né si può attendere dai Movimenti di Massa una coscienza Rivoluzionaria compiuta (e quindi programma, strategia, organizzazione), perché quest’ultima è propria dell’avanguardia, del Partito.

E la situazione attuale è paradossale perché vede una presenza già significativa di Movimenti di Massa (soprattutto a partire dal ’92), mentre quello che è gravemente deficitario è il percorso di ricostituzione dell’avanguardia: finché quest’ultimo non farà concreti passi avanti, i Movimenti di Massa non potranno dare granché in più. Da anni a questa parte compito prioritario non è un presunto lavoro di ricucitura dei Movimenti di Massa (come gran parte degli opportunisti va proclamando), bensì quello di costituzione dell’avanguardia (possibilmente del Partito) che sola può operare una ricucitura ed un elevamento politico dei Movimenti di Massa. I limiti, le esitazioni dei Movimenti di Massa sono dovuti alla mancanza di una prospettiva politica, cioè di un soggetto politico che sappia farsi carico dei nodi irrisolti e delle contraddizioni accumulate del passato per risolverli dentro un percorso d’avanguardia concreto e credibile.

Fermiamoci un attimo ad osservare la dinamica dei Movimenti di Massa. Nell’autunno ’92 abbiamo una violenta precipitazione di crisi, con un’esplosione di massa molto significativa. Per la prima volta da anni, assistiamo ad uno strappo di massa rispetto ai sindacati: per simultaneità, estensione ed intensità fu un fenomeno di prim’ordine, tant’è che diede il via ad alcuni mesi di conflittualità intensa e diffusa. Ma va soprattutto sottolineato che l’attacco ai vertici sindacali fu, in sé, segno di una certa maturazione, di una positiva evoluzione in seno alle masse, segno della valenza politica insita nelle lotte, delle potenzialità insite nella stessa lotta difensiva.

Ma proprio in casi avanzati come questi si vedono i limiti del Movimento di Massa: un livello di scontro del genere necessitava e richiedeva sbocco politico, non poteva trovare soluzione nelle capacità di autorganizzazione di massa (peraltro necessari ed auspicabili). Controprova possono essere l’incapacità dei Cobas (pertanto rete consistente e diffusa) a sfondare il muro del loro minoritarismo ed il fatto eclatante di queste masse enormi in piazza che, cacciati i sindacalisti a suon di bulloni, restavano lì senza che nessun gruppo politico riuscisse a prendere l’iniziativa.

Abbiamo avuto poi altri M.M. importanti: quelli di singole fabbriche e settori, come quelle di Crotone, Sulcis, Pordenone, lotte che sono giunte all’uso organizzato della violenza; la lotta alla Fiat dove si è invertito il ciclo di riflusso degli ’80 e dove si è massificato un fenomeno di primaria importanza, cioè la partecipazione degli impiegati alla lotta.

È vero che globalmente la quantità annuale degli scioperi ristagna (rispetto ai ’70) ma questo è un fatto ricorrente nei periodi di crisi capitalista: non si può sottovalutare il fatto che il proletariato vive sotto permanente ricatto e che, comunque, i conflitti che si esprimono sono mediamente radicali nel contenuto e nelle forme. In Europa vale la pena di citare le lotte “vincenti” di Air France e dei giovani francesi contro il “salario d’ingresso” e di alcuni settori operai in Germania ed all’Est.

Diciamo che queste lotte sono difensive, ma nel momento e nel contesto in cui si situano mettono in discussione tutta la logica che governa le istituzioni sociali e l’organizzazione del lavoro. Sulla stessa stampa borghese se ne discute sempre più, per quanto strumentalmente: a molti non sfugge che, pur nei limiti tollerabili dal sistema, bisognerà comunque operare una ripartizione di reddito e lavoro per contenere le attuali devastanti conseguenze dei processi ristrutturativi (ardua intenzione vista la tendenza concreta su cui si muovono i gruppi capitalisti ed i governi).

Quindi, ciò che ci interessa è l’esistenza di un terreno concreto su cui svolgere un ruolo politico, in cui ricercare un rapporto dialettico tra la nostra proposta politica, come sintesi (per quanto difettosa ed approssimativa) del nuovo Movimento Rivoluzionario sorto dalla ripresa dei ’70. Quello che manca, e che da alcuni anni sta diventando mancanza pericolosa, è un livello minimo per operare politicamente sul terreno suddetto, è la capacità di fare alcuni passi visibili e verificabili, è la capacità di far vivere la proposta non più e no solo nel circuito dei “vecchi” rivoluzionari ma dentro il vivo dello scontro di classe.

È una tesi fondante per noi, non più rinviabile: l’unità del politico-militare deve darsi da subito (pur ai livelli minimali concretamente sostenibili) come dato costitutivo dell’Organizzazione d’avanguardia, perché è elemento che struttura, che dà credibilità alla proposta rivoluzionaria, perché è l’elemento che sintetizza e rilancia le punte più alte raggiunte dal Movimento rivoluzionario.

Quindi noi affrontiamo questa contraddizione: arretratezza delle condizioni oggettive di classe e della sua espressione comunista, necessità di rilanciare una proposta politica basata sulla centralizzazione delle Forze rivoluzionarie e sulla sua strutturazione complessiva. Sentiamo cosa dicono i compagni belgi al riguardo (anch’essi alle prese con grosse difficoltà):

 

I rivoluzionari in Belgio si trovano di fronte ad una situazione di vuoto completo, in cui tutto dev’essere apportato, tutto deve essere costruito. Da parte nostra abbiamo l’abitudine di dire che le C.C.C. sono il prodotto di questa estrema povertà del M.R. di classe e, più ancora, dell’imperativa necessità storica di uscirne. (…) e se la modestia e la fragilità della nostra O. hanno testimoniato l’atomizzazione e la dispersione dell’insieme delle forze proletarie, ciò va messo in rapporto con la durata e la profondità dello sbandamento del M.C. nel paese e va compreso, di conseguenza, che questa atomizzazione e questa dispersione sono a tal punto radicate che caratterizzeranno ancora per un certo tempo la realtà su cui agire.

Sarebbe dunque vano sperare di veder sorgere, qui ed a breve scadenza, una forza organizzata realmente presente in tutti i settori proletari (o per lo meno nei principali) e che potrebbe quindi ambire alla polarizzazione dell’insieme delle iniziative delle avanguardie R. di classe. (…) le condizioni oggettive per ciò non sono semplicemente riunite.

Pertanto questa centralizzazione è d’importanza capitale. Questo è il motivo per cui i comunisti e i proletari d’avanguardia devono lavorare prioritariamente all’emergenza di queste condizioni.

Praticamente, ciò implica secondo noi la costituzione di una vera e propria rete di iniziative R., la costruzione responsabile di numerose piccole unità p.m. attive, il più generalmente – purtroppo – isolate le une dalle altre. Qui si dà il principio strategico della parola d’ordine “che mille cellule nascano”: poiché attualmente la costituzione d’una O.R. in grado di esercitare un’azione centripeta è fuori portata, è dovere di ogni compagno di operare concretamente all’impulso di iniziative R., quali che ne siano i limiti o il grado d’isolamento iniziali. Solo la comparsa di tale rete (il cui sviluppo si farà naturalmente in trama), la sua propria dinamica e la sua azione sulla realtà politico-sociale consentiranno il superamento della disgregazione e del disarmo attuale (in tutti i campi ed in primo luogo politico) del campo R., la conquista di tappe superiori di lotta per la R.

Tuttavia, che ci si comprenda bene: questa concezione strategica particolare d’emergenza è indissociabile dall’obiettivo primordiale della costruzione dell’O. unica, politica e combattente, centralizzata e gerarchizzata, catalizzante e sintetizzante le aspirazioni dell’insieme del proletariato in una prospettiva storica, raggruppante gli elementi d’avanguardia della classe. Perché il peggiore errore sarebbe certamente di stabilizzarsi nella frammentazione o di accomodarsene politicamente: più presto avremo finito di averne bisogno, meglio sarà! Questa situazione non è tollerabile che nell’esigenza della sua liquidazione più rapida e completa.

(…) A nostro avviso, i seguaci della tesi dogmatica, che subordina una volta per tutte la pratica armata all’esistenza ed alla direzione del M.C., commettono un doppio errore. Il primo è che non comprendono il ruolo politico ideologico essenziale della L.A. nel processo R. all’interno delle metropoli imperialiste. Il secondo è che la loro concezione del P.R. e del suo processo di edificazione è idealista.

Il P. non nasce né fuori né prima della lotta. Nasce nella lotta R., come espressione dello sviluppo e della maturazione delle F.R., come segno della radicalizzazione dello scontro di classe. Ai primi tempi del processo R. corrispondono forze deboli o relativamente isolate (come le C.C.C.). Al secondo stadio emerge un’O. (che noi chiamiamo “O. combattente dei proletari”) che polarizza le manifestazioni crescenti della lotta R. e costituisce l’embrione partiti sta. E solamente in seguito, ad un livello superiore, appare il P. come espressione organizzata dell’avanguardia R. del proletariato, capace di rappresentare gli interessi generali e particolari di tutto il proletariato nella lotta di classe. Il P. non si proclama, non si decreta: si fonda nella lotta ad un certo momento del processo R., ben dopo le prime iniziative – armate o non – d’agitazione, di propaganda e di strutturazione. Considerato ciò, rinviare l’inizio della propaganda a dopo la fondazione del P. equivale, nella situazione delle metropoli imp. D’oggi, ad intralciare il progresso R. e dunque ogni cammino che porta alla fondazione del P. Tale rinvio consiste infine nel rifiutare un elemento capitale per la riunione delle condizioni necessarie alla fondazione del P.

 

Allo stato attuale non possiamo che ribadire: bisogna affrontare questo nodo dialettico, questa relazione dialettica indissolubile tra il presente della difficile realtà di classe ed il suo unico futuro concepibile, la lotta R. sulla base del programma comunista, la relazione dialettica tra il presente della disgregazione ed il futuro della centralizzazione, dell’unificazione. Perciò dobbiamo avere sia la massima attenzione e presenza possibili nelle realtà di classe, sia la massima tenuta sul terreno del programma comunista e del progetto di costruzione del P., trovando i ponti, i legami possibili tra i due livelli.

Rinunciare ad uno dei due elementi di questa relazione significa rassegnarsi, perdere, rinunciare.

 

Cellula per la costituzione del Partito comunista combattente

1997.

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