LOTTE E COMPOSIZIONE DI CLASSE 2010/2011

Premessa

Questo materiale è stato prodotto nel contesto del lavoro d’inchiesta e analisi che, in quanto militanti comunisti prigionieri, cerchiamo di continuare a sviluppare.
Lo facciamo avvalendoci anche dell’esperienza di vita lavorativa e di presenza militante nella classe; ed in continuità, dall’interno del passaggio carcerario, della nostra militanza rivoluzionaria.
Lo concepiamo come contributo, come partecipazione a quel lavoro di inchiesta e conoscenza che, da sempre, alimenta le realtà militanti della classe. Proponendolo perciò nei suoi evidenti limiti, di ristrettezza nelle fonti d’informazione e nelle occasioni di riflessione e confronto.
Materiale grezzo quindi, finalizzato al confronto e aperto alle integrazioni. I temi di approfondimento possono essere tanti.
Ne accenniamo solo alcuni:

  • Forme e organizzazione del conflitto, in rapporto alle forme dei cicli produttivi e della composizione di classe
  • Soggetti in campo: linee di contraddizione e ricomposizione.
  • Piattaforme e ragioni delle lotte, tendenze alla autonomia di classe.Lavoro concluso in Aprile 2011
    nel carcere di Siano-Catanzaro

2 militanti per il PCP-M
(vecchie talpe operaie)

Lotte e composizione di classe 2010/11

ROSARNO – RIVOLTA NELL’ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA

Possiamo iniziare una descrizione di vicende e evoluzioni interne al proletariato proprio a partire dal gennaio 2010, dalla rivolta di Rosarno. Rivolta che è sicuramente il fatto più marcante sul fronte del proletariato immigrato. Essa ha messo in luce la brutalità dello sfruttamento e di meccanismi di utilizzo stagionale, mobile, polivalente. Caratteri che, insieme all’infimo livello salariale, ne fa appunto assumere il ruolo di massa di pressione ai margini del mercato del lavoro: parte del moderno esercito industriale di reserva. Il salario, al nero, è intorno ai 2/3 euro all’ora, cioè una media di 25 euro giornalieri su una decina d’ore, da cui sottrarre ancora l’imposta dell’infame caporale. Tutt’altro che essere forme di sfruttamento residuale da “zone arretrate”, esse sono assolutamente organiche alle attuali filiere agro-alimentari, comandate e plasmate dai gruppi capitalistici della grande distribuzione.
Cosi, il famoso prezzo della cassetta di arance, pagato al “produttore”, equivalente approssimativamente al suddetto salario orario, diventa la tariffa referente, la barriera da non oltrepassare (piuttosto da comprimere), la legge di bronzo che grava su questo settore operaio. Mentre la stagionalità e mobilità delle occupazioni confina migliaia di operai nei miserabili campi e baracche ai margini delle città. Siamo proprio ai gradini più bassi della condizione proletaria, dove l’estrema marginalità, talvolta pure clandestinità determina la ricattabilità e il sistema di violenza che li opprime. Sono innumerevoli gli episodi (e solo quelli noti) di violenza, fino al sequestro e omicidio, che si verificano in tutte le regioni italiane, nei principali settori di impiego del lavoro nero – agricoltura, edilizia, ristorazione. Ricordiamo lo stillicido di edili caduti in cantieri e poi gettati per strada, (come falsi incidenti stradali), lo squadrismo fascista imperversante attorno ai campi di baracche e sulle strada, i “pogrom” di Castel Volturno, persino i “desaparecidos” in alcune campagne (immigrati venuti dall’Est appositamente per una stagione e poi sequestrati).
Queste punte “avanzate” dello sfruttamento e della precarizzazione alimentano anche la concorrenza sul mercato del lavoro ed il suo supporto culturale, il razzismo.
Nel 2005 vide la luce una ricerca, di tal Richard Freeman dell’Università di Harvard, intitolata “Il grande raddoppio”. Nella quale egli mostrava come negli anni novanta la forza lavoro disponibile alle economie capitalistiche radoppiò passando da circa un miliardo e mezzo di persone a circa 3 miliardi. Ciò che avenne soprattuto con l’apertura dell’ex-campo socialista e con la maggiore integrazione dell’India e di altre aree del Tricontinente. Nella maggioranza, si tratta di lavoratori qualificati o la cui attività è desiderata. Cioè la nuova forza lavoro non è solo complementare a quella dei paesi avanzati bensì largamente sostitutiva. Quelle che si realizza pienamente nel fenomeno delocalizzazione. Sono proprio questi caratteri che fanno svolgere all’esercito industriale di riserva (EIR) il ruolo di struttura fondamentale nelle dinamiche capitalistiche della crisi.
E questo in continuo lavoro di mobilità sociale, geografica (di stratificazione) e rinnovamento a ondate successive. Dinamica che, sul piano immediato, degrada la condizione proletaria trascindola nel vortice concorrenziale, svela le forze in campo ed offre una base oggettiva, potenzialmente, enorme per le parole d’ordine storiche del movimento operaio: solidarietà, unità, internazionalismo. Qualsiasi iniziativa e movimento di lotta che cerchi di opporsi a questa situazione, anche solo sul piano sindacale, deve mettere in pratica questi indirizzi per contrastare e “rovesciare” la suddetta dinamica concorrenziale; contraddizione che vediamo emergere in quantità di episodi.
La stessa rivolta di Rosarno, pur essendo stata vissuta dai soli migranti ha visto levarsi rapidamente iniziative solidali, dal sud fino a Torino; scritte e volantini che coglievano l’importanza e la gravità dei fatti, ripercuotendole politicamente. Si creava una struttura d’organizazzione fra questi migranti “l’Associazione Lavoratori Africani” – coinvolgente soprattutto braccianti, e che stilava una prima piattaforma di rivendicazioni su cui coordinare scadenze pure nazionali come presidi sotto il Ministero dell’Agricoltura. Mentre settori di movimento solidale apportano sostegno e mezzi talvolta indispensabili a questi proletari demuniti di tutto.
È il caso delle “Brigate di solidarietà attiva” che, partendo da un’ attivismo attorno ai CIE e contro le espulsioni nonché organizzando ospitalità e strutture di supporto, sono passate giustamente a porsi i problemi dell’organizzazione contro lo sfruttamento sul lavoro. Prendendo come obiettivo proprio il lavoro bracciantile ed a riferimento storico l’esperienza delle leghe sindacali che avevano guidato le grandi lotte contro lo stesso genere di rapporti capitalistici e di connesse violenze.
Connettere questi piani diversi è sicuramente positivo e nei due sensi: la lotta contro le espulsioni, i CIE, e tutta la gabbia repressiva, tende a scivolare su caratterizzazioni umanitarie e/o anarchiche. Mentre una lotta incentrata solo sul lavoro si scontra con le tante difficoltà che ricadono dalle condizioni di ricatto, clandestinità e dispersione. Questa tendenza si è sviluppata attorno alcuni specifici momenti di lotta: le occupazioni della gru di cantiere a Brescia e della ciminiera dell’ex-Carlo Erba a Milano; come punto di arrivo di ripetute mobilitazioni di massa per la regolarizazzione. Occupazioni coraggiose che hanno dato impulso ad una notevole aggregazione e combattività contro l’apparato repressivo. Sconfinando nei quartieri, andandosi a saldare alla questione abitativa: è avvenuto cosi nella vicenda di Brescia e a più riprese nel quartiere di via Padova a Milano, dove alla testa dei cortei si è qualche volta posto significativamente, il coordinamento di lotta delle cooperative logistiche. Così a Torino/Porta Palazzo, così a Castel Volturno, dopo la strage, e più in generale a Napoli ed in Campania.
Per il secondo anno si è svolto l’appuntamento nazionale del “Primo marzo senza di noi”. Seppur sia terreno di inquadramento sindacal-istituzionale, per il momento è anche un’occasione di mobilitazione, di “uscita allo scoperto” per tanti proletari. Dalle poche cifre – e cronache apparse – sembra che sia meno riuscito che l’anno precedente, ma comunque si parla di alcune decine di migliaia di partecipanti a scioperi e manifestazioni. La giornata coincideva con le tensioni createsi attorno alla morte dell’ambulante marocchino a Palermo, datosi fuoco per esasperazione delle vessazioni poliziesche, in sinistra analogia con gli episodi in Maghreb. Episodio che è stato al centro di questa giornata non solo a Palermo, trovando degli emuli come a Torino, nel cortile della Questura (!) e mentre gli immigrati manifestavano davanti alla stazione ferroviaria centrale. Molto riuscita la giornata a Bologna dove il “Coordinamento Migranti” pare avere una certa consistenza riuscendo ad articolare degli scioperi entro diverse fabbriche importanti (Ducati e Titan). Nel frattempo gruppi di militanti hanno assaltato il CIE provocando la rivolta interna. Di una certa gravità, secondo le informazioni (tant’è che sarà uno dei capi d’accusa per gli arresti del 6 aprile). Questa mobilitazione nazionale fa risaltare pure la realtà di organizzazione proletaria e sindacale, ormai diffusa fra gli immigrati. Basti pensare questi dati: la loro percentuale sul totale degli iscritti ai sindacati è del 15%.
Cioè, fra l’altro, in proporzione maggiore rispetto alla percentuale della popolazione immigrata sul totale della popolazione italiana. Significativo il dato nell’edilizia: il 46% degli iscritti sindacali.

UN SETTORE CROCEVIA CON L’ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA

Il settore della Logistica si evidenzia in alcuni semplici cifre: il suo peso nella composizione media dei prezzi delle merci si aggira attualmente attorno al 20% (calcolo europeo). In Lombardia, solo nella grande area metropolitana milanese, in una definizione economica comprensiva di un triangolo fino a Pavia e Lodi, esso occupa 100’000 dipendenti regolari, più altrettanti al nero. Ripartiti su più di 4’000 imprese (erano 700 solo 10 anni fa).
Nonostante la frammentazione e l’alto sfruttamento esercitato, in un connubio tra forme arcaiche – caporalato, lavoro nero, finte cooperative, capitale mafioso – e loro sussunzione in ciclo produttivo centralizzato e comandato da grandi multinazionali, si danno notevoli possibilità di lotta e ricomposizione. Infatti esistono precisi nodi, soprattutto le cosi dette piattaforme, e altri centri zonali, dove si concentra moltissima attività; per cui, pur divisi in una miriade di piccole imprese e cooperative, centinaia di operai ed impiegati si ritrovano su uno stesso sito, sotto gli stessi capannoni. A loro volta poi, molti di questi dipendenti lo sono rispetto ad una stessa multinazionale operante su diversi siti sparsi per l’Italia. Così la GLS, multinazionale tedesca, contro cui si è sviluppata lo lotta esemplare nel Lodigiano, dispone di 14 siti e di 1100 dipendenti diretti, mentre la New-Ardo di Pavia – finita sotto inchieste giudizarie per l’intreccio con capitali mafiosi – impiegava fino a 4’000 operai al nero, oltre le centinaia di diretti.
Le lotte sono riuscite, pur in dimensioni ancora molto limitate, a tradurre questa base oggettiva in capacità di organizzazione, a rete appunto. Con la determinante forma di organizzazione territoriale, che permette di unire le esili forze locali e di praticare blocchi di merci e picchetti su interi siti, oltre le singole imprese coinvolte. I percorsi prodottisi sono incoraggianti, sedimentando unità e organizzazione, fra cui l’aspetto inter-etnico ed antirazzista è importante, strategico. Tra l’altro per il blocco di potere che queste si trovano a fronteggiare, utilizzante sistematicamente il ricatto e la violenza specifica contro gli immigrati. I risultati ottenuti, pur modesti, hanno costituito piccole vittorie e proprio perciò questi percorsi sembrano consolidarsi e diffondersi.
Qui si può inserire la comparazione con situazioni significative, come quella francese. Il movimento dei “sans-papiers” (senza documenti) incentrato sulla rivendicazione di regolarizzazione, è ormai di lunga data, ed è passato per diversi fasi. Quella attuale verte su un’analoga forma d’organizzazione territoriale e cioè scioperi alternati su vari territori e quartieri, promossi da picchetti volanti e presidi/occupazioni di giornata; soprattutto davanti a cantieri edili, grandi ristoranti, catene di distribuzione, agenzie interinali ed altri snodi tipici dello sfruttamento di lavoro nero. Cioè un metodo che ha consentito di coinvolgere capillarmente quel tessuto occupazionale frammentato e di piccole imprese. La rotazione dei periodi di sciopero permette di estendere l’iniziativa nel tempo, nei mesi, mantenendo aperta una campagna di mobilitazione e agitazione. Su impulso di vari collettivi “sans-papiers”, essa ha comunque potuto dispiegarsi e strutturarsi solo grazie alla decisione della CGT di farla propria. Ovviamente quest’assunzione di direzione ha comportato l’inquadramento della campagna entro limiti più restrittivi. Per esempio, le azioni di picchettaggio ed occupazione sono diventate più leggere e simboliche; lo stesso contenuto della lotta è stato circoscritto alla sola regolarizzazione, evitando di generalizzare le varie spinte esistenti sulle condizioni di lavoro. Però resta il fatto di una campagna di mobilitazione che si protrae nei mesi (da ottobre 2010 ad oggi) e con modalità unificanti ed estensive, che riescono a portare lo sciopero e l’iniziativa laddove normalmente è quasi impossibile. Finora sono coinvolti più o meno 5/6’000 scioperanti per periodo, su circa 2’000 imprese.

L’AUTUNNO FRANCESE

Ancora più va considerata la sua genesi e continuità rispetto alla grande ondata di lotta generalizzata dell` ottobre scorso. Questa si sviluppò su una situazione già altamente conflittuale. Senza soluzione di continuità della grande lotta delle Antille francesi d’inizio 2009, che ha lasciato tracce profonde e gettato semi fecondi in quanto a determinazione, capacità di organizzazione unitaria di base e su contenuti di classe – l’organismo dirigente si chiama “Unione contro lo sfruttamento” (LKP) – e ha possibilità di vincere: strappato un aumento di 200 euro mensili per tutti i salariati. Qualcuno ha definito quei 2 mesi di sciopero “semi-insurrezionale”.
Poi vi è stata la radicalizzazione delle lotte di fabbrica contro i licenziamenti molto diffuse su tutto il territorio. Diffusione dovuta alla forte dispersione del tessuto industriale in seguito alle grandi ristrutturazioni degli anni ‘80/’90. Questo decentramento ha prodotto il fenomeno sociale degli “urbani-rurali” (“rur-bans” in francese), cioè un forte incremento della popolazione residente in campagna pur gravitando attorno alle città o alle suddette fabbriche decentrate. Così le statistiche classificano l’80% degli attuali abitanti nelle zone rurali! E la più consistente come classe fra questi, sono proprio gli operai d’industria.
È chiaro questa dispersione pesa sulle possibilità di lotta ed organizzazione. Sicché, pur dandosi molte resistenze, queste restano il più delle volte confinate nel loro cantone. Forse anche per ciò, quelle contro i licenziamenti e le chiusure partono già battute, ed il loro obbiettivo si risolve nella rivendicazione di liquidazioni aggiuntive. Ma ciò che ha dato valore ad esse è stata la radicalità messa in campo dagli operai, essendo qui che si sono sviluppate le azioni di sequestro di dirigenti, di incendio di depositi-merci o capannoni fino alla devastazione di uffici pubblici. Tutt’altro che fatti episodici, essi hanno costellato diversi mesi dello stesso 2010, dopo aver imperversato nel 2009. Rimandiamo alla cronaca redatta per i soli mesi di marzo-aprile-maggio, e basti ricordare che vi furono più di una ventina di tali episodi. Ancora da considerare, che qualcuno si è prodotto anche entro le aree metropolitane, toccando i famosi centri logistici di distribuzione e depositi.
La geografia di questa conflittualità è rappresentativa della nuova composizione di classe. La stessa dispersione sul territorio può tramutarsi in nervatura diffusa di un nuovo movimento operaio; ciò che si annuncia nella suddetta esperienza dei “sans-papiers” contro il lavoro nero; e che soprattutto si profilerà nelle caratteristiche del movimento di ottobre.
Prima di questo va ancora sottolineata la persistenza delle “sommosse” di banlieu, che continuano a punteggiare il quotidiano delle aree metropolitane. Anche se bisogna tenere in conto il loro carattere contradditorio: tanto esse sono espressioni di gioventù proletaria, di sano odio per sbirri e oppressione statale, tanto lo sono di bande extralegali a difesa nel loro traffici e territorio. Cioè non bisogna sovraccaricarle di significato come fanno certi gruppi, tant’è che la politicizzazione di questa realtà resta problematica. Mentre resta sicuramente interessante lo scenario di conflitto permanente, la linea di affrontamento con gli organi repressivi di stato, al punto che talvolta esso esibisce l’intervento dei reparti speciali anti-terrorismo, retate notturne con chiusure di quartieri; illuminazione dagli elicotteri etc. in stile coloniale. Tutto questo ravviva nell’immaginario un orizzonte da scontro violento e generale. E ricordiamo che già vi sono stati episodi di passaggio all’uso di armi da fuoco.
Già nell’estate vi erano state un paio di “giornate d’azione” sindacali nazionali, con circa 2 milioni di manifestanti su circa 200 piazze, contro l’ennesimo attacco governativo alle pensioni. Attacco in linea con quello generalizzato in Europa secondi i dettami del “patto di stabilità”. E comunque su quest’asse portante si innestavano altri movimenti particolari; come quello contro le leggi securitarie e razziste, ed una dinamica ampia di ribellione contro condizioni sociali percepite sempre più come insopportabili. Da questo humus, fertile da lungo tempo, sono scaturite le tendenze che hanno caratterizzato l’ondata di lotta: “Bloccare l’economia”, “Bloccare i flussi economici”, generalizzare il conflitto sul territorio. Così si è arrivati rapidamente, agli inizi di ottobre, ai blocchi stradali su snodi e accessi a zone industriali e alle famose raffinerie. Queste, essendo relativamente poche, 12 in tutto il paese si prestano bene alla concentrazione di forze dall’esterno. Ovviamente a partire dello sciopero interno, però il dato nuovo è l’affermarsi di una pratica/idea di sciopero territoriale anche imposto dall’esterno. Imponendo così anche l’estensione della forma di “sciopero passivo” (a favore di chi non può fare sciopero, come le piccolissime imprese) e producendo grossi danni al funzionamento economico nazionale.
Quindi, ogni giorno l’appuntamento era presso un centro importante, attorno cui e da cui partiva un azione di picchettaggio di massa e mobile. Nella sua dinamica si sviluppavano varie altre azioni:
Occupazioni, irruzioni, devastazione di sedi padronali, del partito presidenziale, uffici pubblici, agenzie interinali ecc.
Scontri con la sbirraglia in molte occasioni
Incendi e sabotaggi di strutture economiche, linee di trasporto in particolare.
I blocchi decisivi sono stati attorno le raffinerie e vari depositi petroliferi; mantenuti per la bellezza di due settimane, han finito per mandare a secco 1/3 dei distributori di benzina del paese; il consenso sociale attorno a questa forma di lotta è stato altissimo e lo si misura pure nel successo concreto delle casse di resistenza (altra pratica che si sta sviluppando molto dalle lotte precedenti). Quelle istituite per gli operai delle raffinerie hanno assicurato l’equivalente di settimane di salario per gli scioperanti! È il concetto di “sciopero per procura” che agisce: molta gente che non riesce o non può scioperare, contribuisce così, con gesti concreti e di solidarietà.
E tutti hanno capito subito l’importanza decisiva che assumeva il blocco delle raffinerie. Semmai questa delega ha avuto anche il suo corrispettivo negativo poiché, come ogni meccanismo di delega, ha comportato ancora aspetti di passività, di attendismo. Così il punto più critico di quest’ottobre è stata l’insufficiente partecipazione di qualche settore operaio centrale, con forme di sciopero spezzettate, non continuative, non determinate come ormai la situazione richiedeva.
Infine si è dovuto affrontare il salto nello scontro, imposto dallo Stato. Oltre alla consueta repressione con molte centinaia di fermati e denunciati, si è fatto ricorso ad una tecnica da “guerra interna”: l’accerchiamento e isolamento di una piazza di manifestanti, bloccandoli per parecchie ore (mezza giornata) e identificandoli in massa. Una specie di fermo di massa, in caserma a cielo aperto. Similitudini inquietanti, ancor più il dispiegamento di mezzi. L’episodio più eclatante fu sulla grande piazza di Lione, dove vennero esibiti dei commando anti-terrorismo in tenuta robocop e incappucciati, fucile a pompa in pugno (con tanto di foto sui giornali). Stesso scenario e stessa tecnica in Inghilterra contro il movimento studentesco. Segnali precisi, salti in avanti di tendenza alla “guerra interna”.
Non poteva poi mancare l’opera sabotatrice dall`interno, affidata agli esperti in materia, le centrali sindacali. Essa culminerà nel colpo di freno decisivo dopo l’approvazione della legge di contro-riforma pensionistica in parlamento. I due giorni seguenti, le centrali sindacali toglieranno ogni supporto ai blocchi. E ancora una volta, nonostante il grande fermento partecipativo di base, non si è dato un livello organizzativo sufficiente ad invalidare il dispotismo sindacale. E qui si riviene sempre al nodo fondamentale: il livello che possono raggiungere i movimenti di massa, oltre il quale è indispensabile un salto di qualità grazie alla dialettica con l’Organizzazione Rivoluzionaria.
Tornando al valore in sé di questo movimento di massa, è utile ascoltare il punto di vista di un avanguardia di massa come è la grande fabbrica di motori della Regione Nord (al confine belga): “Eravamo abituati allo sciopero interno, scopriamo ora che la fabbrica si può bloccare dall’esterno”. Questi operai, come quelli della Good Year, in regione vicina, sono stati alla testa dei blocchi. È molto significativo che siano questi nuclei centrali di classe a cogliere ed assumere la nuova dimensione. Un’altra conferma viene da Fos-Marsiglia, una specie di porto Marghera (terminal petrolifero e area industriale, con petrol-chimico, acciaieria e altra siderurgia): “Non amiamo la violenza ma ci rendiamo conto che non potremo farne a meno. Attaccare sedi padronali e governative… difendere i blocchi dalla polizia, è giusto.” Stessi livelli, stessa coscienza e pratica espressi in altri porti industriali – S.te Nazaire, Dunquerke, Brest – dove si è arrivati a impedire l’attracco (cioè l’entrata in porto) a qualche nave petroliera. Insomma c’è stato un indubbio sviluppo e crescita dei livelli di coscienza e radicalizzazione; un salto in avanti nella comprensione dello scontro, della sua portata e quindi nella necessità di darsi obiettivi e mezzi più adeguati. Percorso che ovviamente si trova di fronte molti ostacoli, erti appositamente per impedirlo. Ma già il modo di incassare la sconfitta, perché di sconfitta comunque si è trattato, porta in sé lo sviluppo futuro dei movimenti di massa e a partire da queste notevoli acquisizioni. Il deflusso durerà ancora un paio di settimane, con un ultimo picco l’11 novembre giornata nazionale incentrata sui blocchi ai centri commerciali. Entusiasmo duro a spegnere ma a tutti era chiaro che la partita, per il momento, si chiudeva con la riapertura delle raffinerie e dei principali centri di sciopero.

IL BRACCIO DI FERRO IN FIAT

Le vicende di classe del 2010 sono fortemente intrecciate a quelle di un suo settore centrale per eccellenza, la FIAT.
Si comincia a Pomigliano. Questo è uno dei siti che ha dato più filo da torcere negli ultimi anni, con la sua resistenza e “indisciplina”, che si esprimono anche nella presenza di uno SLAI COBAS significativo e promotore d’iniziativa. Tant’è che FIAT giunse a decentrare un reparto interno, nello stile dei reparti-confino, appositamente per un buon numero di operai combattivi e “problematici”, istituendo il polo logistico di Nola, con oltre 300 addetti. Ciò che non passò senza resistenza, sia per ritornare a Pomigliano, sia sulle nuove condizioni di lavoro.
Preliminare al nuovo corso, vi fu la fermata completa degli impianti per un paio di mesi, onde spedire tutte le maestranze a scuola. Cioè ad una formazione intensiva sul nuovo modello di organizzazione del lavoro, la così detta Ergo-was, di ispirazione giapponese/toyotista. Ed è alla riapertura dell’impianto in febbraio, che FIAT lancia la nuova offensiva. La quale è all’evidenza un salto di qualità pesante: il ricatto alla delocalizzazione è ormai consueto, esercitato a diverse tornate dagli anni ’80, però ora viene drammatizzato, esplicitato in maniera brutale, persino terroristica. Così come l’erosione dei diritti, che viene spinta sul binario ideale per i padroni: il principio di contratto individuale, con il complemento della “clausola di responsabilità individuale” e della “clausola di responsabilità sindacale”. Cioè una specie di gabbia normativo-repressiva, fino all’illegalizzazione di fatto del diritto di sciopero; e gabbia di cui diventano corresponsabili i sindacati firmatari.
Evidentemente, i cedimenti su ritmi, pause, turnazioni ecc., per quanto gravi, sono pur sempre oggetto di continuo braccio di ferro e quindi recuperabili; mentre queste modifiche sul quadro contrattuale – normativo incidono sulle strutture portanti dei rapporti di classe, sulle possibilità stesse, di organizzarsi e lottare.
Il dato positivo della notevole resistenza operaia concretizzatasi nell’inatteso risultato referendario va comunque temperato dal non essere diventato un momento di lotta aperta e dall’inevitabile arretramento prodotto da tale svolta. Ma proprio questo, proprio l`entità dell’aggressione e dei mezzi messi in campo dal Capitale e dallo Stato fa risaltare ancora più la valenza del risultato referendario. È infatti interessante la valutazione che di esso dà la voce forse più interna e significativa dell’autonomia di classe a Pomigliano, e cioè lo SLAI-COBAS. Nella appassionata arringa di Mara Malavenda c’è tutto l’orgoglio di un risultato che viene da lontano, dalla lunga resistenza che questa fabbrica ha apposto nel corso degli anni e delle successive ristrutturazioni. E la determinazione a continuare questo percorso, avendo raccolto in questo passaggio ancor più forza ed autonomia di classe.
Poi si ricorda contro la corrente mistificazione, che i NO al ricatto FIAT sono stati invocati solo dal COBAS mentre la FIOM, pur con la sua onorevole battaglia, è rimasta invischiata nella sua ambiguità per cui appunto, lasciò il voto alla “libera coscienza” di ciascuno. E c’è stata una generale, diffusa presa di coscienza della gravità degli eventi, a base di una serie di scioperi di solidarietà nelle varie fabbriche di FIAT e oltre. Embrione, abbozzo di quello che dovrà, e non potrà che essere il livello adeguato di scontro; estendendosi necessariamente pure alla sua dimensione multinazionale. Pur essendo stati pochi gli scioperi, e di solo qualche ora, sono stati anche accompagnati da cortei interni molto partecipati conclusi con comizi-assemblee alle porte esterne. Per esempio, un paio di questi cortei a Mirafiori hanno coinvolto tra i 1/2.000 operai (su 4’000 per turno). E poi scioperi e cortei nel Torinese – Rivalta (Magneti Marelli), a Torino-Stura (IVECO), a San Mauro (CNH), a Grugliasco (COMAU, ITCA-lastratura decentrata, LEAR-selleria decentrata) – a Cassino, Melfi, Termoli, Atessa, Suzzara-Mantova (IVECO) e alla PIAGGIO di Pontedera. Scioperi che si intrecciavano agli altri motivi di scontro del momento: contratto separato di FIM e UILM, disdetta di FEDERMECCANICA.
FIAT attiva licenziamenti di rappresaglia: 3 a Melfi, 1 a Mirafiori, 1 a Termoli, gettando altra benzina sul fuoco, finendo per ravvivare le mobilitazioni. Licenziamenti che si assommano ad altri in altre situazioni di lotta, come i 16 operai della cooperativa “Papavero” sul sito GLS nel Lodigiano. E ricordiamo anche la repressione specifica che colpì gli operai FIAT di Pratola Serra (AV) a febbraio: in lotta contro il protrarsi della cassa integrazione, il loro tentativo di blocco delle merci fu immediatamente attaccato da uno spropositato dispiegamento poliziesco e a manganellate (la fabbrica fornisce i motori ad un paio di siti di assemblaggio).
Un ultimo apporto alla resistenza di Pomigliano venne della famose lettere di un gruppo di operai di Tychy (Polonia). Pur essendo una presa di posizione, il suo valore non sfuggiva a nessuno. Il suo contenuto, molto chiaro e netto, è stato un bell’appello all’unità operaia internazionale contro la concorrenzialità indotta dal Capitale; e pure un’autocritica rispetto ai loro cedimenti passati: “(…) qui ci hanno usati anche contro di voi, operai italiani; spremuti e ora magari ci buttano via.” Si tratta di lottare già ora, seppur non ancora coordinati nel senso di un reciproco sostegno. “Lavoreremo molto, molto lentamente …”
Non solo promesse: nel mese di febbraio 2010 esce la notizia di un 300 vetture danneggiate. Episodio che, oltre a rivelare un`azione probabilmente di un gruppo ed organizzata, (visto il clima da caserma che ha dovuto eludere), ha fatto da sintomo di un malessere diffuso: “Non siamo d’accordo con questo tipo di atti, però essi sono la conseguenza delle condizioni insopportabili che ci sono in fabbrica.” (dicono degli intervistati). D’altronde va ricordata – contro la leggenda diffusa sullo stabilimento modello dove gli operai sarebbero felici ed in gara per prendersi il lavoro, alla faccia dei fannulloni italiani – la grande lotta dell’estate 2007. 52 giorni di sciopero per rivendicare salari simili a quelli italiani; e che riuscì quasi a raddoppiarli, portandoli da circa 350 euro a circa 600. Lotta letteralmente oscurata, e che dev’essere stata notevole per realizzare un simile risultato.
E ci sarà ancora un seguito alle loro iniziative internazionali: una delegazione ai cancelli di Mirafiori, in occasione della giornata di mobilitazione nazionale FIOM, il 28 gennaio scorso, con lo striscione “proletari di tutto il mondo uniti !” E, in un’altra occasione della vertenza FIAT, un presidio davanti al Consolato di Varsavia, indetto dal sindacato “Agosto ’80”.

FRA TAGLI E LOTTE. PARAMETRI SALARIALI NEL MONDO

Dunque alla FIAT in Polonia siamo intorno ai 600 euro, lordi e per 48 ore settimanali. Pare che siano i salari industriali più alti in Polonia. Ciò che è in linea con la politica delle grandi multinazionali che nei paesi periferici, dipendenti, praticano “alti salari”, sempre ampiamente profittevoli per loro e consentendo loro pure di presentarsi “bene”. Anche in Brasile, per esempio, le multinazionali dell’Auto pagano i salari più alti. Non disponendo dei dati FIAT, può orientarci un dato di un paio di anni fa: Volkswagen pagava intorno ai 700 Dollari al mese, cioè il doppio di quelli medi industriali. La stessa VW è in testa ai salari in Germania, con i famosi 2700/3500 Euro, lordi per 35 ore settimanali (ventaglio fra operai di linea e di manutenzione). Con un differenziale di 20% in più rispetto alla media metalmeccanica.
All’estremo minimale sempre rispetto ai settori produttivi centrali come l’Auto e l’elettronica, abbiamo la Cina. Qui vi sono grosse differenze regionali, regolate per legge, per cui esiste pure l’istituto del salario minimo, che può essere aumentato centralmente dal governo, come ciò è avvenuto nei mesi scorsi per placare la grande ondata di scioperi in fabbrica. Il più alto salario minimo è attualmente nella regione di Shanghai: 165 Dollari al mese (non si dice per quante ore). Le disparità regionali si situano in un ventaglio che va dai 50/100 Dollari ai 200/250. Questi ultimi realizzati nei punti alti degli scorsi scioperi (FOXCON, HONDA ecc). E va considerato l’orario molto lungo, che spesso si estende sui 6 giorni la settimana. Addirittura nell`area di Shenzen, polo metropolitano dell’elettronica, APPLE sta ricontrattando, prezzi e salari, in seguito ai forti scioperi (e suicidi); ha chiesto alle sue fabbriche di non far lavorare più di 60 ore (!)1
Bisogna sottolineare una tendenza che sembra generalizzarsi mondialmente e cioè il movimento/dinamica salariale a tenaglia: dal basso verso all’alto e dall’alto in basso. Del primo movimento sappiamo ormai parecchio da vari fronti del Tricontinente, Cina compresa appunto. Dinamica ancora molto contrastata per cui non bisogna farsi ingannare dalle sue punte avanzate che, come detto nel caso delle multinazionali auto, restano relativamente speciali.
Basti pensare alla fatica terribile che fanno le classi operaie del Bangladesh o dell`Egitto (e di tanti altri paesi) a superare la soglia dei 50 dollari al mese! E a far rispettare gli avanzamenti conquistati.
Mentre l`altra dinamica sta diventando più forte nei settori centrali della classe operaia dei centri imperialisti. In USA, i famosi 28/30 dollari all’ora vengono letteralmente dimezzati per i nuovi assunti e con i nuovi contratti, alla Marchionne-Chreysler. Tagli salariali che cominciano a toccare persino i dipendenti pubblici (come vedremo con la vicenda in Wisconsin). In Germania si è cominciato a vedere ciò presso i portuali. Che, dai 20 euro all’ora circa, scendono ora ad un ventaglio fra 15 e 9 euro, per i nuovi assunti e sempre in base ad accordi sindacali.
Che questo movimento abbia sfondato nei settori centrali non può che voler dire, che presto o tardi, si estenderà all’insieme del mondo del lavoro. Quindi è pensabile che, globalmente, assisteremo ad una generale compressione salariale nei centri imperialisti, negli anni prossimi. Mentre la crescita dei minimi tricontinentali sembra più problematica. Di sicuro aumenterà la stratificazione, visto che dei grossi avanzamenti, a macchia di leopardo, si danno. E proprio quelli trainati dalle multinazionali possono favorire una tendenziale, concreta convergenza di azione delle classi operaie.
Ricordiamo il caso dell’industria tessile del Bangladesh, emblematica per varie ragioni. Essa si è enormemente sviluppata, su impulso della delocalizzazione imperialista, arrivando ora a contare circa 4 milioni di addetti. Al tempo stesso, da anni, subisce in pieno e nel modo più brutale i meccanismi della crisi che, nel 2006, spinsero il governo ad alzare l’orario settimanale legale a 72 ore! (e questo dopo la fine del sistema di quote-import nei centri imperialisti, che sancì il dilagare della competitività cinese). E, terzo fatto, questo innescò il ciclo di lotte e rivolte operaie che arrivano ad oggi; e, pertanto, con scarsissimi risultati.
Comunque per quanto difficile a praticarsi, il terreno è ormai fertile per iniziative unitarie internazionali. Alcuni casi lo testimoniano. Per esempio, le forti lotte con un inizio di coordinamento che hanno attraversato i siti minerari del gruppo VALE, gigante minerario brasiliano. Nel corso del 2009/10 epicentro ne è stata la filiale canadese (EX-INCO, altro potente gruppo acquisito appunto due anni fa). La ristrutturazione e l’attacco alle condizioni operaie, in seguito all’acquisizione, sono stati tali da provocare una forte risposta durante circa un anno. Attorno a questa si sono tessuti gli sforzi di coordinamento (attraverso i cinque continenti!), sembra con risultati concreti, fra cui lo stabilizzarsi di un comitato di collegamento composto da 60 delegati da vari siti.
C’è poi un tentativo, in corso da alcuni anni, di costruire un coordinamento stabile addirittura di tutto il settore Auto, mondiale. Tentativo promosso da diversi gruppi di avanguardie di fabbrica, principalmente di orientamento marxista-leninista. Il suo nome è CITA, in francese “Conference International Travailleurs Automobile”. Coinvolge centinaia di militanti e concretamente si applica a percorsi di estensione internazionale attorno a lotte precise: Ford in Russia, Opel fra Germania e Belgio, Renault tra Francia e Romania. È un`esperienza in espansione, da seguire.
Certamente la crisi ha provocato, indotto un grande salto nei movimenti di massa, in molti paesi ed una loro nuova sintonia. I casi forse più eclatanti sono proprio quelli nei principali paesi imperialisti. L’esplosione in Gran Bretagna del movimento studentesco e dei lavoratori della scuola, contro il massacro della scuola pubblica e del diritto allo studio è stata sorprendente.
Per la radicalità espressa, nei livelli di coscienza e nel ricorso alla lotta dura di piazza: la violenza di massa è stata ampiamente compresa e difesa di fronte all’immediata canea mediatica e politica. Ricordiamo che è stata letteralmente devastata la sede centrale del partito conservatore a Londra; che è stata attaccata la Rolls-Royce con i Reali dentro; che più volte gli scontri di Piazza sono stati violentissimi. Avvenimenti svoltisi nell’autunno, in sintonia con analoghi movimenti in Italia, Francia, Grecia, Spagna, Germania, Ungheria, Romania, Estonia, ed altri ancora.
E l’altro grande “movimento contro la crisi” è quello messosi in moto più recentemente negli USA, da febbraio. A partire dallo Stato del Wisconsin ed allargatosi rapidamente ad altri, si è innescata una poderosa mobilitazione contro i pesantissimi tagli al wellfare, alcuni dei quali significano la fine di certi servizi pubblici. Insieme a misure di repressione antisindacale (fra cui, guarda un pò, l’abolizione del contratto unico di categoria). Si è giunti così a manifestazioni di massa mai viste ed all’occupazione del Capitol di Madison, per due settimane, mentre la polizia recedeva da suoi compiti repressivi sentendosi colpita dai tagli.
Sia quello in Gran Bretagna che questo in USA sono all’evidenza movimenti di tipo nuovo, che possono dare il via ad un vero e proprio ciclo. E ciclo internazionale.

RITORNANDO IN ITALIA

Vista la connessione, si può riprendere giustamente a partire dallo sviluppo dei movimenti contro i tagli finanziari ai vari settori pubblici. Quello che è stato più consistente e continuo nell’anno è sicuramente quello nella scuola, Università e ricerca. A salti, in periodi determinati dalle scadenze scolastiche e dal procedere legislativo in materia. Un salto decisivo fu il blocco degli scrutini, a giugno, particolarmente riuscito e con un crescendo nella partecipazione alle manifestazioni.
L’opposizione alla legge Gelmini è stata, dall’inizio forte e chiara perché chiara e drastica la ristrutturazione epocale che essa avvia. I famosi 8 milioni di Euro di tagli, entro il 2014, corrispondono ad una drastica svalorizzazione dell’istituto pubblico, in tutti suoi aspetti, nel mentre sfacciatamente viene rilanciata la scuola privata, d’eccellenza. Cioè è diventato palese il progetto di definitiva degradazione della scuola pubblica, a sorta di parcheggio per proletari in attesa del loro destino salariato e precarizzato. Corrispondente a quella dei rapporti sociali di produzione. Con le pesanti conseguenze per i lavoratori della scuola che, ricordiamolo, sono molto numerosi – circa un 1,3 milioni, fra corpo insegnante ed ATA – e socialmente rilevanti per il loro ruolo e capillarità sociale. Come si dice “figure di legame sociale”.
Va ricordata la precedente tornata di lotta, nel 2008, anch’essa già molto forte, intensa. Però essa si arenò sia sui limiti “fisiologici” di espansione di una lotta settoriale, sia sui limiti corporativi, che invece verranno parzialmente superati ora. Allora, nel 2008, questo limite fu ancora pesantemente riscontrato nel tentativo di costruire il “Coordinamento 3 ottobre”, cioè di stabilizzare quella rete di militanti, di varia estrazione sindacale, che avevano retto le mobilitazioni; e di articolarsi in Comitati di Istituto. Vale a dire Comitati unitari di lotta, allargati a tutte le categorie, a sindacalizzati e non: insomma, un’ottima idea, ma, appunto nella verifica concreta, insorsero molte difficoltà e le solite distanze corporative. Per esempio, parte del corpo docente si fece facilmente corrompere dall’offerta di un maggior numero di ore settimanali e compensi per supplire alla soppressione di precari supplenti! Cioè la legge Gelmini fomenta scientemente la concorrenza fra precari e stabili.
Il movimento del 2010, con la sua profondità, estensione e radicalità, è andato più avanti. Anche se, si sa, l’unità creata nella lotta è una cosa, quella che resta e sedimenta è un’altra. Ma il grande dato, che fa la differenza, è che in quei due anni c’è l’esplosione di crisi e drammatizzazione delle condizioni sociali e dello scontro. Il nuovo movimento infatti beneficia della sintonia con quelli analoghi in Europa.
Collegate a questa, le mobilitazioni nel settore Ricerca e in quello della Cultura coinvolgono ambienti propriamente intellettuali. Oltre ad estendere il fronte scuola, esse sollevano questioni sociali ed economiche più ampie, fra cui quella dell’inibizione delle forze produttive. I tagli alla Ricerca, in un disegno complessivo di suo drastico ridimensionamento, sono proprio una concreta manifestazione di questa legge capitalistica tendenziale. Ed in effetti abbiamo assistito non solo ad un livello di mobilitazione inedito, e coinvolgente settori finora estranei alla lotta di classe ma pure ad una critica sociale interessante che integra quella più generale sulla crisi ed il sistema che la produce (il tutto ovviamente nei termini grossolani ed iniziali da parte di settori ancora tutti interni alla logica istituzional-riformista). Citiamo i 57 giorni sui tetti dell’ISPRA conclusisi con un accordo sul mantenimento dell’Istituto e dei posti di Ricerca, seppur a scadenze incerte.
Un settore molto presente nelle lotte è stato anche quello dei Call Center e delle aziende di TLC, settore che presenta analoghe caratteristiche di forza-lavoro: impiegati molto precarizzati e di esperienza di classe del tutto recente. Il caso EUTELIA-OMEGA-OMNIA è diventato un spaccato di tutto il moderno malaffare capitalistico su cui impera il capitale finanziario, nella più oscura opacità. Infatti questi lavoratori, in tutto circa 10mila, si sono ritrovati in balia di successivi, opachi passaggi di proprietà che in realtà procedevano al così detto “spezzatino societario” e, infine, alla distruzione di gran parte delle attività. La resistenza è stata forte, giungendo a varie occupazioni e salite sui tetti. Si è assistito ad un’ampia percezione di massa di questa fondamentale contraddizione capitalistica che porta alla distruzione di forze produttive ed alla finanziarizzazione. Contraddizione ancor più stridente essendo proprio essa (sempre nella percezione di massa) l’origine della crisi in corso. Anche questa è lotta significativa, che coinvolge settori impiegatizi di massa. Tanto che il Capitale si è sentito di dover fare ricorso alla repressione, fino all’impiego di squadristi armati. Ricordiamo che il settore Call Center occupa circa 300.000 addetti.

L’OFFENSIVA CAPITALISTICA D’ESTATE

Ed è sempre negli agitati mesi di giugno e luglio 2010 che si dà l`ennesimo salto nell’offensiva borghese generale. Marchionne, Confindustria, Sacconi, la conducono su più direzioni convergenti: l’accordo di Pomigliano diventa modello e si apre il fronte Mirafiori/Serbia. “Patto per il lavoro” e superamento dello “Statuto dei lavoratori”, enti bilaterali e arbitrato, deroghe ai diritti ed alla contrattazione, ecc. Il clima creato è molto pesante, da aggressione continua. La risposta di classe ha trovato il suo punto di riferimento e aggregazione attorno al NO di Pomigliano. Sviluppandosi seppur in modo frammentato: diversi scioperi contro l’aumento dei ritmi, a Melfi e Cassino; altri contro la repressione, come a Termoli dove un delegato viene licenziato per rappresaglia per le sue iniziative solidali con Pomigliano (sciopero molto riuscito con manifestazione fino al centro città). E soprattutto una tornata di scioperi contro l’ulteriore drastico taglio del premio produzione (la 14°mensilità, quella che “permette” di andare in ferie), annunciato a inizi luglio. Questo era già stato dimezzato da una accordo separato con FIM, UILM, FISMIC nel 2009, ora veniva a dirittura ridotto a 200/300 Euro! Scioperi ripetuti e partecipati con cortei che talvolta sono usciti in strada, sopratutto a Mirafiori. E di nuovo nelle grandi e medie fabbriche del torinese: COMAU, IVECO, MAGNETI-MARELLI, TEKSID, ITCA, LEAR, ecc. “L’Assemblea lavoratori africani” (quella nata in seguito alla rivolta di Rosarno) interviene di nuovo a meeting e manifestazione di fronte a Pomigliano con striscione “Senza diritti siamo solo schiavi”. Cercando unità sulla base della comune rivolta alla politica di ricatto.
Analoga serie di scioperi, sempre rispetto al “premio di risultato” in questo caso, presso FINCANTIERI, in tutti i siti. Dove si intrecciano e si rafforzano con le altre vertenze aperte: occupazione, carichi di lavoro, incidenti, ecc. Con tale tensione si arriva alle ferie di agosto. La ripresa è ovviamente battagliera, con anche nuove vertenze come ad ATESSA (SEVEL) dove si sciopera contro lo straordinario del sabato, nel mentre vengono licenziati 1’500 operai in contratto a tempo determinato!
Ripresa che avviene sullo sfondo di agitazioni crescenti in tutta Europa, agitazione che non sbagliano obiettivo prendendo di mira la politica e le direttive di UE e BCE. Le quali martellano sul rigore finanzaria (per le masse popolari ovviamente), sull’aumento di produttività e sulla compressione salariale; il tutto riassunto nel “Patto di stabilità”. A cui fanno da corredo le puntate ricorrenti di un Marchionne che, per esempio, dagli USA manda a dire “Bisogna tornare dalla cultura dai diritti acquisiti alla cultura della povertà”.
In questo periodo escono dati molto significativi sull’andamento di produzione, “volumi”, e rapporti di forza fra i vari gruppi capitalistici e relativi Stati nazionali:

Produzione Auto nei primi nove mesi del 2010

Belgio    230.000 unità       – 40% su base annuale
Romania   240.000 “        + 18%
Italia     450.000 “        – 11 %
Polonia   645.000 “         + 8 %
Rep. Ceca.  800.000 “         + 13 %
G.B.     940.000 “         + 45%
Francia   1.450.000 “        + 13%
Spagna  1.460.000 “         + 12%
Germania 4.100.000 “         +14%

Altro dato significativo, che a sua volta spiega questi, è la dimensione dei crolli produttivi nei 2 anni – apice, fin’ora, della crisi – cioè nel 2008/09: la produzione italiana crollò del 34%, a fronte di una media mondiale del –17%. E, come si vede, mentre altri paesi stanno rimontando, la caduta italiana continua. Sono gli imperialismi trainanti dell’Europa a imporsi, conto tenuto per di più che gran parte delle suddette produzioni dei paesi minori sono filiali delocalizzate dei primi.
A proposito di vincenti, FORD ha realizzato un record storico nei suoi profitti trimestrali: 1,7 miliardi di dollari nel terzo trimestre 2010. Che costituisce un picco in tendenza generale per i grandi capitali USA, i cui 500 maggiori gruppi hanno realizzato nel 2009 390miliardi- dollari di profitti, cioè +335% sul 2008.
E ovviamente anche al livello mondiale: le 374 maggiori multinazionali hanno cosi aumentato il fatturato del 20% e l’utile netto del 210%.
È chiaro che queste evoluzioni nel quadro dei rapporti di forza intercapitalistici pesano molto, in ricaduta sui rapporti di classe interni. E qui spieghiamo in buona parte il salto di qualità nell’offensiva capitalistica in Italia. Benché pure presso i vincenti la politica antioperaia sia orientata nello stesso senso, gli stessi 500 maggiori gruppi USA hanno, nello stesso periodo, licenziato 761.000 dipendenti!
Ma tutto ciò determina anche, sempre più, la tendenza a momenti di lotta coordinata in un’area/regione. Il rientro a settembre è stato marcato da un’iniziativa europea, la giornata di protesta contro il “Patto di stabilità”, a Bruxelles. Patto ampiamente percepito come un attacco frontale contro il mondo del lavoro, come concretizzazione nella linea “far pagare la crisi alle masse lavoratrici”. Giornata che si intrecciava a tante proteste attraverso Europa, in particolare con uno sciopero generale in Spagna, in cui si sono verificati violenti scontri. A Bruxelles ci sono state varie azioni dimostrative e tafferugli di massa sotto i palazzi europei. Fra questi, da segnalare la presenza di gruppi di lotta e sostegno degli immigrati, come i “No-Border” (che giorni dopo andranno a nuovi scontri di piazza, con 200 fermi), e le “Brigate di solidarietà attiva”. Queste ultime organizzano anche attività concrete come casse di resistenza, tende, e distribuzione pasti, concependole in quanto supporto alle lotte con gli immigrati e non, anzi contro, le pratiche caritatevoli. In questo loro percorso sono giunte all’interessante consapevolezza del dover affrontare il nodo centrale attorno cui verte la condizione migrante, e cioè il lavoro e la funzione di esercito industriale di riserva. E partendo proprio da esperienze come quella di Rosarno, si son poste l’obbiettivo di favorire l’autorganizzazione proletaria in questi “campi di lavoro”; prendendo a modello anche le passate forme di organizzazione come le Leghe bracciantili, che affrontarono analoghe situazioni di sfruttamento e squadrismo. Indicativa di questo blocco di potere che il proletariato immigrato deve affrontare è la cronaca di quei giorni a Castel Volturno (città della strage dei 6 operai africani): il sindaco che risulta colluso con il Clan dei Casalesi, invoca uno squadrismo come a Rosarno e si allea con Forza Nuova!

AUTUNNO ITALIANO

Fine settembre/ottobre, anche in Italia c’e tutta un escalation di lotte. A Genova sciopero selvaggio di autoferrotranvieri pubblici ANT contro i tagli finanziari governativi (il piano globale sui trasporti nazionali prevede – 20 miliardi di Euro, sui prossimi anni). Che qui appunto si traducono nella soppressione di 400 posti di lavoro. Lo sciopero è selvaggio, sconvolge il traffico per qualche giorno, pure con blocchi pesanti, come al Salone Nautico o agli accessi del Porto.
FINCANTIERI conosce diverse giornate di mobilitazione fra cui una nazionale. Molto forti sono quelle a Castellamare di Stabia, che spesso finiscono in manganellate sotto le sedi istituzionali. Oggetto dello scontro è il piano di ricentramento mondiale – e, come FIAT, verso gli USA – e siccome questo è un settore particolare, dove livello di automazione e la stessa taylorizzazione sono molto basse, la strategia capitalistica consiste essenzialmente nelle delocalizzazioni (ciò che è stato molto pesante dagli anni ottanta, verso le aree asiatiche). Il piano attuale prevede il taglio di circa 2’500 dipendenti, sui 9’000 totali (più ovviamente gli indiretti degli appalti, ancor più numerosi), e la chiusura di un paio di cantieri. Si moltiplicano episodi di incontro e unità fra lotte diverse. Per esempio, a Modena ci si è aiutati reciprocamente ai picchetti fra i lavoratori della scuola, sulle loro scadenze, e gli operai della FERRARI contro gli straordinari al sabato. Situazioni non occasionali, ma che riflettono tensioni reali a far fronte comune, percependo che i vari attacchi sono sottesi dalla stessa logica, dalla stessa politica economico – sociale.
A Brescia e Milano si creano due situazioni di aggregazione attorno alla lotta dei migranti per la regolarizzazione. Soprattutto a Brescia, la lotta ne coinvolge migliaia – è una delle province a più alto tasso d’imigrazione, ben 180’000 su 1’200’000 abitanti – e, dopo alcune settimane di sviluppo si arriva ad una manifestazione con 5’000 partecipanti, che sfocia in tafferugli e nell’occupazione di una gru edile, in pieno centro città. Viene issato lo striscione “Lotta dura senza paura!”. L’attenzione cresce attorno alla Piazza che diventa epicentro di mobilitazione e di ripetuti affrontamenti con la polizia. Reti antirazziste, nuclei operai e sezioni sindacali, studenti e lavoratori della scuola si raccolgono attorno. Significativa la presenza degli operai delle cooperative logistiche, provenienti anche dalle famose lotte, a conferma del peso specifico di questo settore. Arrivando persino ad una manifestazione con 10’000 partecipanti, il 6 ottobre.
L’occupazione della gru si concluderà dopo 17 giorni! Con una vittoria pagata a caro prezzo, poiché i permessi di soggiorno temporaneo conquistati sono seguiti immediatamente da rappresaglie, come l’espulsione di alcuni dei protagonisti. Resta il dato fondamentale della grande mobilitazione sollevata, della dinamica innescata.
In questo periodo montano anche episodi di contestazione ai sindacati collaborazionisti CISL e UIL soprattutto. Sono episodi minori, poco consistenti, che però tengono viva l’attenzione sulle questioni centrali dello scontro e sulle necessarie linee di frattura. E tanti momenti di tensione e scontri sui territori dove la mobilitazione popolare fronteggia le devastazioni capitalistiche: discariche di rifiuti, grandi opere, dissesto idrogeologico e terremotati, ecc. Le violenze poliziesche non si contano, alcune particolarmente gravi come a Terzigno(NA) o, sempre a Napoli, nell’irruzione dentro il teatro San Carlo occupato simbolicamente dai precari della scuola e della Ricerca, e con la solidarietà dei musicisti; così come non si contano denunce, fermi e misure di sorveglianza.
A quest’onda sociale montante contribuiscono pure movimenti trasversali e storici come quello per la casa che, per altro, conosce una nuova stagione con la nota drammatizzazione provocata dalla crisi dei mutui. Si estendono le forme di occupazione e resistenza, sia organizzata che di gruppo nei quartieri. E nuovi movimenti, molto coinvolgenti, come quello a difesa dell’acqua-“bene comune”, molto importante per le varie questioni sociali che tocca. Ed è in questa congiuntura, in quest’onda montante che emerge la FIOM, come soggetto di riferimento e catalizzatore. È stata soprattutto la resistenza a Pomigliano a farla ergere come “ultimo baluardo” all’offensiva borghese, che si avvale della complicità di quasi tutti i partiti e sindacati. Gran parte dei movimenti, sindacati di base, settori in lotta (ecc.) le riconoscono sia una certa coerenza nell’opposizione, sia la dimensione e la forza necessaria.
S’intende qui la percezione ed il riconoscimento sul piano ampio di massa, poiché in realtà FIOM non è così intransigente come parrebbe. La storia degli anni precedenti è comunque di concertazione e subalternità al sistema capitalistico. Fino a rendersi complice di FIAT nella repressione dell’area operaia del COBAS di Pomigliano, “deportata” nel reparto-confino di Nola. In questa stessa tornata del 2010, FIOM ha dato anche disponibilità alle concessioni sul piano dello sfruttamento, mentre si è sollevata contro l’attacco ai suoi spazi sindacali (anche se ciò non ha valore corporativo, anzi, essendo un attacco in profondità alla possibilità stessa dell’organizzazione operaia in fabbrica).
È cosi che si arriva a una giornata marcante, il 16 ottobre. Giornata di sciopero nazionale dei metalmeccanici, che vede sancire questo ruolo acquisito da FIOM. Un grande successo ed una grande dinamica che si intensifica fra i movimenti sociali. Ancor più in risalto rispetto all’abiezione dei sindacati collusi che, dopo tutto un periodo passato a boicottare la resistenza e la semplice partecipazione ad assemblee, arrivano a plateali gesti di servilismo: Bonanni che urla in piazza, fra i crumiri del 16 ottobre, “10-100-1’000 Pomigliano”.
L’importanza di questa giornata la si vedrà subito nei giorni seguenti, con il diffondersi della spinta di massa e di settori militanti a fare fronte, a cercare unità. Naturalmente questa spinta vive nel magma della realtà di classe, ancora fortemente attraversata dalle strutture para – istituzionali. Esempio più evidente ne è il formarsi del coordinamento “Uniti contro la crisi”, in cui due pilastri sono la FIOM e l’area disobbediente. Esso tiene un suo meeting costitutivo, di 2 giorni, al Centro Sociale di Marghera e dà risonanza e amplificazione a realtà locali che già si battono su questo orientamento “Uniti contro la crisi” – “la vostra crisi noi non la paghiamo”, ecc.
Così, indicativamente, negli stessi giorni vediamo scioperi e manifestazioni locali, di città-porto come Ancona, unificati dietro queste parole d’ordine. Sia scioperi operai, sia insistenti iniziative di occupazione di case (soprattutto a Roma e dintorni) e di lotte territoriali come quelle in Campania. Anche nella Logistica si ravvivano i focolai: la lotta presso la cooperativa CLO, su un sito del grande gruppo di distribuzione BILLA, sempre nella grande area metropolitana milanese. Attorno agli operai, il coordinamento territoriale (attivatosi dalle precedenti esperienze) ha dato il via a presidi e contestazioni davanti a supermercati di questa catena; “Unirsi contro lo sfruttamento e la precarietà!” e ha messo su una Cassa di Resistenza. Pratica estremamente giusta ed importante per dare possibilità di tenuta e continuità ad uno sciopero, soprattutto in questi settori dove la condizione operaia è ancora più dura e fragile.
È il caso emblematico della GFE di Reggio Emilia. Questa cooperativa occupa addirittura 500 operai, sulle piattaforme del grande gruppo SNATT, che a sua volta lavora per grandi firme della moda, come CALVIN KLEIN, D&G, ecc. Dopo i miglioramenti conquistati un anno fa, principalmente la paga oraria portata a 7,5 euro, GFE ha contrattaccato spezzettando il lavoro tramite sub-appalti ad altre due COOP alle quali ha riversato più di 200 suoi dipendenti. Ha creato essa stessa una situazione di precarietà aggravata del ciclo produttivo; prendendo infine questa situazione a pretesto – l’incapacità a mantener gli impegni – per procedere a massicci licenziamenti e per ritornare ai precedenti 5 euro orari.
Vicenda che mette in luce le dimensioni di questo ormai famoso segmento logistico – imprese e cooperative – che per quanto frammentato, concentra migliaia di dipendenti. È forte il livello di sfruttamento e flessibilità/precarietà (ricordiamo che la paga oraria a 7,5 euro è una conquista e che nella maggioranza dei casi è ancora inferiore). La lotta, come in questo caso, è un braccio di ferro prolungato nel tempo, i capitalisti cercando di invalidare subito eventuali avanzamenti operai.
Ma bisogna dire che in questo autunno è anche il movimento di scuola-università a tenere banco. La sua ascesa è netta, nel corso dell’anno, con ripetute giornate d’azione che vedono fino 200/300’000 manifestanti su più di cento piazze e in sintonia con quelle britanniche, francesi, tedesche, greche, e pure dell’Est-Europa. È un movimento che conosce un vero salto di qualità nei contenuti sempre più anticapitalistici e nella determinazione allo scontro. E così si arriva al 14 dicembre, a Roma.
Le immagini, da sole, ci dicono quello che è avvenuto: per la prima volta da tanti anni, è una piazza di massa che ha voluto lo scontro sotto i palazzi del potere. E ciò è successo pure a Palermo e Torino. Una piazza che non ha arretrato di fronte alla violenza repressiva e che ha rivendicato questa scelta. Il dibattito che è seguito, su web e giornali, è molto indicativo. A dargli ancor più spessore è stata la convergenza di altri settori in lotta (operai FIOM, USB, COBAS, comitati territoriali) e precisamente nella tensione a provocare una possibile crisi governativa. Si sa l’esito negativo che ha avuto, ma ciò non inficia il grande sviluppo dei movimenti di massa e quindi il potenziale per il futuro. Il fatto sostanziale più importante, e di cui la disponibilità allo scontro è conseguenza, è la presa di coscienza rispetto a un sistema chiuso, blindato ai bisogni basilari delle grandi masse: ciò che si esprime negli slogan “Ci rubano il futuro – ci rubano la vita”. E finalmente si diffonde la consapevolezza che non ci si può attendere nulla dai palazzi del potere e che l’unica cosa che conta è la costruzione del rapporto di forza. Così è percepito il quadro europeo di queste politiche, e cioè il “Patto di stabilità”. Un seguito al 14 dicembre è nella settimana stessa il 22. L’enorme dispiegamento preventivo (poliziesco e mediatico) per inquadrare la manifestazione, ne impedisce un analogo svolgimento. La mobilitazione è stata egualmente consistente e con vari episodi specifici: a Roma, ha invaso qualche periferia, andando verso i quartieri e le loro realtà organizzate, all’insegna della lotta contro la precarietà (in tutti i sensi, di lavoro e condizioni di vita). Ritornando poi alla “Sapienza” per esprimere solidarietà agli operai che vi lavoravano su dei cantieri, colpiti dalla morte di uno di loro (immigrato tunisino). Attacchi mirati ci sono stati a Genova, contro il giornale dei padroni e contro la CISL, e a Palermo, dove anzi si è ripetuto l’assedio violento ai palazzi governativi. A Bologna forti movimenti unitari operai-studenti. Dal lato istituzionale si segnalano due interventi significativi: la neo-segretaria generale CGIL, Camusso, dice “No allo sciopero generale”, mentre il ministro Gelmini vuole “archiviare il ’68 e distribuire una Bibbia a ogni allievo”.

GENNAIO, OFFENSIVA SU MIRAFIORI

Inutile ripetere i dettagli da tutti conosciuti, bensì va ribadito il senso di un attacco di portata “storica” per la gravità del suo contenuto e per la centralità anche simbolica di Mirafiori nel corpo di classe. Tant’è che esso ha rapidamente polarizzato lo schieramento di classe in tutta Italia. Scioperi di solidarietà, prese di posizione, iniziative, sono state diffuse; molto forte ancora una volta la convergenza del movimento studentesco, fino alla presenza militante ai cancelli (come negli anni ’70). Convergenza anche tra FIOM e USB, lungo tutto il periodo di mobilitazione. Di nuovo, come a Pomigliano, presenza di “Immigrati auto-organizzati di Torino” con striscione “senza diritti siamo solo schiavi !”, richiamando all’unità necessaria di fronte ad attacchi dello stesso nemico, ed all’interesse comune che si gioca in ognuna di queste battaglie. Proprio in gennaio, infatti, ricorreva l’anniversario di Rosarno; ciò che è ribadito con una manifestazione organizzata dalla CGIL a Rosarno con circa 600 partecipanti (per lo più operai), poi spostatasi pure a Reggio. Riaffermando l’avanzamento, seppur minimo, imposto con la propria nuova presenza sociale e militante, con il coraggioso contrasto al blocco sfruttatore. Ancora una volta scende una delegazione da Tychy, con striscione “proletari di tutti i paese uniti !”. E un altro fatto interessante avviene alla Zastava di Belgrado, quell’altra fabbrica giocata da FIAT in concorrenza proprio a Mirafiori. Lo Stato, suo principale proprietario, ha iniziato la fase preparatoria per il piano FIAT, licenziando i 1’600 dipendenti per riassumere in seguito secondo il criterio di una “New Company” – da notare che questi 1’600 sono fra quelli che nel ’90 difesero la fabbrica dai bombardamenti NATO, rimettendola poi in moto. In questi giorni in gennaio si sono messi in sciopero contro i licenziamenti e il piano in corso. Sciopero che è stato stroncato con il ricatto sui sussidi di disoccupazione. Nonostante la sconfitta ed il clima regnante, un responsabile sindacale fa appello all’unità internazionale, ricordando la solidarietà operaia ricevuta ’99 e dopo: “Solo con un coordinamento stabile e con scioperi internazionali del gruppo FIAT si potrà rispondere alla sua politica di sfruttamento e concorrenza”.
Dopo altre iniziative molto partecipate – la fiaccolata una sera a Torino e un meeting di “Uniti contro la crisi” nelle Marche, attorno CNH di Jesi in lotta, anch’essa sempre presente sul fronte FIAT, cosi come la PIAGGIO di Pontedera- si giunge allo sciopero dal 28 gennaio.
Le cifre di adesione variano dal 60% della FIOM al 18% di FEDERMECCANICA. Ma non ingannano le cifre sulle manifestazioni: 40.000 a Torino, “persino troppi rispetto alle aspettative”, e molta lunga la lista di fabbriche partecipanti. A Cassino, dove lo sciopero ha coinvolto ampiamente l’indotto, c’è stato corteo fino al centro-città.
A Massa-Carrara 10’000 in corteo attorno ai licenziati della EATON. Ovunque FIOM e COBAS insieme, mentre sono frequenti gli attacchi ai sindacati di regime (piccoli atti dimostrativi ma comunque significativi e diffusi).
Infine il voto al referendum. E cioè una manifestazione di notevole resistenza operaia che conferma e approfondisce quella rivelatasi a Pomigliano. Il risultato è stato tanto più eclatante quanto più forte era la pressione ricattatoria, l’assedio politico-istituzionale dispiegato tutto attorno alla classe operaia. È stato proprio come votare “con la pistola puntata in testa”.
Purtroppo ora questo risultato, indubbiamente forte e che si riversa su tutto il movimento di classe è anche sminuito dall’infinito protrarsi della Cassa Integrazione. Questa non solo sfianca e impoverisce ma è anche un oggettivo impedimento al conflitto e all’organizzazione. Il dato principale però resta la dimostrazione di resistenza e orgoglio operaio. Che, incrociandosi con i precedenti ed attuali avvenimenti del fronte di classe, ne amplifica forza e contenuti. Episodi del genere sono marcanti e incidono sui caratteri generali del movimento di classe.
In senso contrario, negativo, si è data infine la vicenda alla ex-BERTONE (terza fabbrica FIAT ad essere investita dalla strategia New-Company). Qui il ricatto era ancora più pesante, la fabbrica essendo ferma da anni e quindi la FIAT ponendosi come ultima “salvezza”. Ma, paradossalmente, la schiacciante forza della FIOM, non è servita a ribadire la resistenza di Mirafiori e Pomigliano. Perché qui la questione si poteva porre solo come sua generalizazzione alle altre fabbriche, come fronte di lotta contra la strategia FIAT. Ciò per cui, appunto, vi erano delle possibili premesse. Perciò risalta ancor più la vera natura subalterna della stessa FIOM, che non si sogna certo di sollevare una forte lotta di classe contro il grande padrone. La capitolazione in questo caso è stata scioccante e rivelatrice. Ancora una volta l’unica via è quella all’autonomia di classe!
MIRAFIORI. FIAT Auto ha conservato solo il segmento centrale (carrozzeria) e quello finale (assemblaggio), con 5.500 addetti circa. Mentre ha scorporato le Meccaniche nell’altra sua nuova società, POWERTRAIN, con circa 1.500 addetti; lo stampaggio (presse) addirittura esternalizzato, cioè venduto ad una società non FIAT, ma sempre interno a Mirafiori, con altri 1.200 addetti; cosi pure la logistica, venduta alla multinazionale USA TNT, altri 500 addetti.
Quindi, in totale: il ciclo di produzione AUTO completo in Mirafiori occupa quasi 9.000 addetti. Divisi però, ed è questa la pesante involuzione dal punto di vista di classe, addirittura in quattro società diverse, di cui una non è nemmeno metalmeccanica, ma di terziario (TNT). Infine, vi sono oltre 5.000 impiegati, tecnici e ingegneri di così detti Enti Centrali, cioè il cuore progettuale e ingegneristico della FIAT.
In tutto a Mirafiori lavorano intorno ai 15.000 dipendenti.
PORTO MARGHERA. Conta attualmente 13.000 salariati, sparsi su circa 350 imprese. Il confronto di massima è con i 40.000 di fine anni ’60, su circa 200 imprese. Fra queste, il Petrolchimico è passato dagli allora 12.000 agli attuali 2.000 addetti. Cioè vi si vedono i fenomeni di riduzione della grande impresa, di frammentazione e di crescita di peso specifico del settore “terziario”. Oggi infatti, solo la metà dei 13.000 salariati sono del settore industriale.
Le attività principali sono diventate quella portuale e la cantieristica. Ma sopratutto è diventata percentualmente molto consistente la piccola impresa (fino a 50 dipendenti), occupando 5.000 salariati; principalmente in attività di terziario e servizi alle imprese, cioè in realtà in decentramento,esternalizzazione

DAL MAGHREB ALLA NUOVA ONDATA INTERNAZIONALE?

Questi scossoni nella lotta di classe interna risentono ovviamente, di altre potenti scosse provenienti dai dintorni.
E le rivolte arabe partono negli stessi giorni di gennaio. Non entriamo più nel merito ma rileviamo il fatto più semplice e essenziale: un simile scoppio di tutta l’area araba, dovuto principalmente alle dinamiche di crisi capitalistica, ha/avrà un effetto moltiplicatore, d’impulso tutt’intorno. In primo luogo sull’area euro-mediterranea, dove la commistione, l’osmosi di classe è strutturale e storica.
Un episodio ne è immediato esempio: a Palermo un ambulante marocchino, esasperato dalle angherie poliziesche, si è dato fuoco. Suscitando proteste e solidarietà fra la comunità di immigrati, per parecchi giorni, con evidenti richiami al filo che lega le condizioni di oppressione fra i due bordi del Mediterraneo. Episodio che si inserisce nel tessuto di una metropoli attraversata da tante tensioni e focolai di lotta: da FINCANTIERI agli studenti, dai disoccupati alla lotta per la casa.
Fino alla recente lotta dei dipendenti di grosse aziende di servizi, in subappalto dal Comune; fra cui i 2’000 della GESIP che stanno dando luogo ad una continua “guerriglia” urbana, con blocchi stradali, irruzioni in sedi pubbliche, scontri di piazza.
Ma le rivolte arabe risuonano fin nel cuore dell’Impero. In Wisconsin (USA), le incredibili manifestazioni e invasioni del palazzo governativo (il Capitol), occupato per diversi giorni di seguito, dove si urla al Governatore “Walkers degage!” (in francese come in Maghreb). Mentre risuonano altre parole d’ordine in eco ai movimenti europei contro lo smantellamento del “wellfare”, contro la crisi ed il capitale finanzario; in eco alla FIAT e altre fabbriche, contro la repressione antisindacale e l’introduzione di nuovi contratti, che vengono compresi nel loro carattere devastante rispetto alle possibilità stesse di essere classe.
Movimento che si è esteso rapidamente in altri stati confinanti, quelli cioè della cintura di antica industrializzazione attorno ai grandi laghi e che ha trovato comunque echi di solidarietà in tutte le metropoli USA.
Movimento che si installa nelle lunga durata, nel braccio di ferro con il potere e la sua offensiva, imperniata anche sulle questione dei debiti pubblici e su una soluzione di tipo tatcheriano. Questo movimento trova amplificazione in altri fenomeni di resistenza. Per esempio, quella interna ai quartieri, con le requisizioni di case abbandonate per insolvenza da subprime. Pare che questo fenomeno sia molto diffuso, pur se difficile da quantificare, trattandosi di azioni “selvagge” di piccoli gruppi, talvolta sostenuti dai vicini di quartiere. Le azioni consistono nella resistenza alle espulsioni, nella rioccupazione di case svuotate (e lasciate in abbandono dalle banche), fino alla vandalizzazione di quelle che non si riesce a rioccupare (cioè al recupero del recuperabile, porte, finestre, ecc. e distruzione del resto per fare “danni alle banche”). Ciò che dà idea di consistenza e di diffusione del fenomeno è il formarsi di associazioni, legali o meno, di supporto (ve ne è una lista). Una delle loro attività consiste proprio nel reperire case sfitte e organizzarne l`occupazione; ma anche la battaglia legale in tribunale, organizzandovi il sostegno popolare. Ed è in margine di queste iniziative che gruppi più radicali hanno individuato banchieri e dirigenti, contro cui hanno poi organizzato attacchi, sia alle persone che alle loro sedi e abitazioni.
In trama, l’attività solidaristica di mutuo soccorso è diventata vero asse portante di questo associazionismo popolare. Estendendosi pure al campo scolastico e sanitario. Ciò è significativo sia della reale consistenza di queste resistenze, sia della loro drammaticità poiché sono forme che emergono laddove la crisi e lo scontro sono diventati virulenti: si pensi all’Argentina del 2000, ora alla Grecia… L’auto-organizzazione di massa è sia strumento di lotta, sia strumento di sopravivenza, talvolta di concreta, benché grossolana, riorganizzazione sociale nei quartieri (questo ovviamente nelle situazioni di grande massificazione).
Ma anche sul fronte delle fabbriche c’è da rilevare un evoluzione parallela a quella FIAT: cessione di stabilimenti e loro riapertura come New Co, con tutto il correlato sui livelli di sfruttamento. GM, nel corso del 2010, decide di chiudere uno stabilimento di stampaggio a Indianapolis (sempre nella suddetta cintura industriale), con 630 addetti. Il nuovo contratto prevede il taglio salariale alla moda in USA: dai 29 dollari orari ai 14/15! Più altri tagli sui contributi previdenziali, sanitari, ecc. Il potente, e unico, sindacato UAW firma e fa basse manovre per impedire qualsiasi risposta operaia. Ma gli va male: trova forte resistenza, i burocrati vengono impediti di parlare in assemblea e il referendum (per quanto a voto segreto e pilotato) vede un fragoroso NO di 457 votanti sui 630 dipendenti. Di nuovo da manuale, il nuovo padrone si ritira e la UAW toglie la copertura finanziaria ad un eventuale sciopero (in USA questa copertura è un compito da statuto sindacale).
Si costituisce allora un Comitato di Lotta, che indice lo sciopero e tenta da subito, di allargarlo ad altre fabbriche, GM e non solo. Per ora gli operai sono riusciti ad ottenere solo una deroga alla chiusura, a fine 2011.
Però questo scontro esemplare sta facendo scuola. Alla GM di Lake Oreon (area di Detroit) il nuovo contratto prevede il taglio-salari della metà per i nuovi assunti e viene firmato dalla UAW senza la minima consultazione di base – interessante notare già la nuova composizione di classe, con 800 salariati “normali” e 1’600 a mezzo salario! Nonostante ciò, si riproduce l’appello di Indianapolis a formare comitati di resistenza e si diffonde molto l’utilizzo di Internet nel tessere queste reti di contatti ed iniziative. Fra cui, quest’ultimo comitato riesce a portare 200 operai a picchettare la sede UAW (!) di Detroit, per protestare contro l’accordo. Altre iniziative e lotte analoghe avvengono sempre nell’estate-autunno 2010, in grandi fabbriche metalmeccaniche: la NUMI in California, la fonderia NAVISTAR e la NEXTER AUTOMATION in Michigan. I giornali-media ne parlano come di fenomeno che si va diffondendo.
Quindi, il dato rilevante è una certa sintonia, sia dei caratteri dell’attacco padronale di fase, sia del tipo di risposta operaia, attraverso i grandi centri imperialisti. La stessa fonte, militante, di questi dati sulle lotte presso GM, sviluppa poi considerazioni generali sulla fase e sulle prospettive per la lotta di classe. Cita il dibattito e gli orientamenti dottrinali nei circoli dirigenti USA: da Robert Gates, che evoca spesso la problematica del “nemico esterno e di quello interno”, come tendenza sempre più concreta; alla ripresa del testo classico di Frank Kitson “La vigilia della guerra” (manuale di riferimento della Controinsorgenza, opera teorica del ’71, basata sull’elaborazione delle grandi esperienze sui fronti del Tricontinente, negli anni ‘50/’60, di questo comandante); all’opera tutta fresca di D. Petraus “Counter Insurgency”, frutto del suo impegno in Medio Oriente/Afghanistan.
L’evocazione è insistente su inevitabili futuri scoppi di violenza sociale e estremista, pure negli USA, comportanti pure il rischio rivoluzionario. Il paragone più ricorrente è quello con gli anni ‘20/’30!
La classe dirigente USA sembra consapevole della degradazione sociale che va diffondendo e vi risponde con le consolidate politiche di criminalizzazione/carcerizzazione della stessa povertà (buoni ultimi questi operai ribelli e i resistenti dei quartieri devastati). E con la dichiarazione di controrivoluzione preventiva! Più chiaro di cosi…

CONCLUSIONI, PISTE…

La centralità della contraddizione di classe si conferma anche in negativo: lo stagliarsi cosi netto del Capitale Finanziario, come soggetto principe della crisi e delle politiche antisociali da esso alimentate, rende chiaro come non mai il dominio sociale di una classe. Come l’ha detto recentemente il miliardario USA Warren Buffet, “la guerra di classe esiste. È quella che la classe dei ricchi conduce contro quella dei poveri. Ed è la mia classe, quella dei ricchi, che la sta vincendo”.
Per ora….
Quindi il vero problema sta all’altro polo, sta nel realizzare il percorso di  ricostruzione di classe operaia e proletariato in quanto soggetto cosciente e determinato, ciò che può darsi assumendo il terreno imposto dalla borghesia stessa e da tutto il decorso storico: la guerra di classe!
Ma la centralità emerge anche dalla dinamica di lotta e movimenti sociali. Di nuovo si impongono quelli nei principali cicli di produzione, proprio perché sono l’epicentro dell’offensiva capitalistica: la grande battaglia si dà sempre sui livelli di sfruttamento, ed il suo esito nelle grandi fabbriche s’irradia su tutto il corpo sociale.
Per di più questa battaglia si articola mondialmente. Il ricatto alla delocalizzazione, la riorganizzazione mondiale e continua dei cicli e dei siti (mettendo in diretta concorrenza operai e politiche salariali), sono diventate l’asse portante dell’offensiva capitalistica. Che si voglia o meno, bisogna imparare a rapportarsi e ad organizzarsi con la classe operaia di altri paesi: non è più questione di scelta politica, è una necessità!
Ma è chiaro che questo apre pure prospettive grandiose per un nuovo Internazionalismo, per la Rivoluzione!
Costruire il fronte di lotta della classe operaia, dalla grande fabbrica a quella diffusa sul territorio e sul piano internazionale è il compito che si situa al centro della contraddizione capitale/lavoro per come si presenta oggi (per come ce la impone la FIAT, fra Pomigliano, Mirafiori, Tychy, Kraguyevac, Betim, e ora pure Detroit e Canada).
Infatti un’aspetto molto interessante che emerge da varie lotte di questi anni è l’aumentata incisività e peso contrattuale, proprio in causa della nuova configurazione dei cicli produttivi. Essendo questi improntati sui principi di “ciclo snello” e “flusso teso”, cioè connettendo una rete di imprese specializzate in componenti e/o sotto sistemi del prodotto-finale, confluenti alla casa-madre, allo stabilimento principale, solo per l’assemblaggio finale, questi cicli produttivi presentano una grossa fragilità proprio perché lo stabilimento è stato frammentato in una rete sul territorio, riducendo al minimo magazzini di scorte e “polmonature”; e, tramite l’informatizzazione, sempre a rete, fra siti produttivi e terminali commerciali, rispondendo in tempo reale alla domanda di mercato, alla sua volubilità. Ciò che viene detto anche nella formula “Una volta si vendeva ciò che si produceva, oggi si produce quello che si vende”. È questa l’organizzazione di ogni filiera produttiva – auto, elettrodomestici, telefoni… – rafforzando la struttura di filiera (al posto della grande fabbrica autosufficiente di una volta).
È chiaro che intervenire con la lotta dentro una tale sistema, in un suo qualsiasi segmento ha un impatto pesante; significa interrompere il flusso, arrestare rapidamente l’intero sistema. Lo si è visto già in diverse occasioni: sia a Melfi nel 2004, che alla GM, alla FORD e ben altre nel mondo. Buon ultima la famosa rivolta alla FOXCONN in Cina, che ha imballato fabbriche di telefoni e computer fino negli USA, facendo accorrere APPLE e altri grandi committenti per far finire lo sciopero. Anche questo spiega la linea FIAT, di controriforma globale delle “relazioni industriali”, mirante a neutralizzare preventivamente qualsiasi possibilità di conflitto.
Ma questo, soprattutto, ci dimostra che è possibile lottare e vincere! È possibile rivolgergli contro i nodi di fragilità del loro prezioso sistema, trasformandoli in punti di forza. E, come già sulla catena di montaggio, modellare una nuova organizzazione operaia.
Da questa nuova grande fabbrica, diffusa sul territorio, la contraddizione si irradia a tutti gli altri settori che, concentricamente, ruotano attorno partecipando, in intensità graduale, al ciclo complessivo del Capitale sociale e/o alle funzioni dello stato borghese. Ciò che vediamo attraverso tutte le politiche di demolizione della “spesa sociale” e di estensione dei criteri capitalistici fin dentro i settori di pubblico impiego relativamente più “protetti”. Dinamiche che abbiamo visto esplodere dal 2010 in tutti i paesi europei, con il conseguente formarsi di grandi movimenti di resistenza. In particolare quello attorno scuola-università si dimostra sempre fonte di grandi energie che possono diventare vettore militante di diffusione e connessione sociale (come dimostra il ruolo dei giovani studenti disoccupati nelle rivolte arabe).
La questione giovanile è diventata ancor più drammatica, situandosi all’incrocio fra disoccupazione, precarietà prolungata, svalorizzazione dei titoli di studio, perdita preventiva dei diritti sociali; il tutto confluendo a caratterizzare gran parte della gioventù in quanto esercito industriale di riserva. Struttura portante del modo di produzione capitalista che agisce pesantemente nelle fasi di crisi acuta. Sull’esercito industriale di riserva si gioca una partita decisiva, perché è sulla possibilità di parte capitalistica di alimentarlo e rinnovarlo costantemente, talvolta potenziandolo drasticamente – tramite le grandi ondate migratorie o con l’irruzione dei bassissimi salari tricontinentali sul mercato del lavoro, fin qui dentro le metropoli centrali – che si determina gran parte del rapporto di forza generale fra le classi.
Esempio attuale ne è quella fascia di operai gravitanti sul settore della Logistica: in gran parte migranti e occupati sotto le varie forme della precarietà, sempre sul margine del ricatto più totale. Però le loro lotte stanno rovesciando in elemento di forza il fatto di essere inseriti in un segmento, oggi particolarmente sviluppato e necessario, dei moderni cicli produttivi. Stanno favorendo percorsi di ricomposizione territoriale, di aggregazione nel reticolato della fabbrica diffusa e frantumata. Sono esperienze che finalmente cominciano e stravolgere la geografia della fragilità proletaria in nuove possibilità/capacità di lottare e di incidere sui “nuovi” cicli produttivi. E ad incentrare sempre di più la lotta dei migranti sul fronte del lavoro, cogliendo cosi il vero nodo che tiene insieme gli altri aspetti dell’oppressione: razzismo, repressione poliziesca, condizioni sociali.
L’interruzione/blocco negli snodi dei flussi produttivi/commerciali, le cosi dette piattaforme logistiche, è un significativo ampliamento delle odierne forme di lotta. Di cui il caso finora più massificato è quello dell’autunno francese, con il grande blocco di raffinerie, depositi, aree industriali e logistiche. Si sviluppa l’organizzazione territoriale, coinvolgente i tanti settori che, sa soli non possono scioperare; imponendo la forma di lotta dello “sciopero dall’esterno”.
Esperienze su cui sta avanzando il dibattito e la maturazione di coscienza sulle implicazioni ed i possibili sviluppi. Perciò anche la ricerca-inchiesta militante possono svilupparsi per approfondire la conoscenza di queste nuove realtà e per coglierne le possibilità di organizzazione.

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