Attaccare il cuore dello Stato attaccare le politiche centrali dell’imperialismo. Tribunale di Cuneo – Comunicato presentato il 18 dicembre 1990 dai militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

La nostra presenza in questo processo, come militanti delle BR-pcc prigionieri, si snoda essenzialmente su due elementi: la collocazione politica del “provvedimento coattivo” disposto contro di noi dalla magistratura e attuato dai carabinieri e guardie carcerarie nel maggio-giugno ’89 e, in relazione, la responsabilità che ci siamo assunti nel comportamento di resistenza attiva da noi opposto; il sostegno alla linea politica e all’attività di combattimento della nostra organizzazione.

Il provvedimento si inseriva in particolare nell’ambito della gestione, centralizzata a livello politico, dell’istruttoria-processo per l’azione della nostra organizzazione contro il senatore DC Roberto Ruffilli.

Una gestione politica tesa principalmente al ridimensionamento e spoliticizzazione dell’attacco portato al cuore dello Stato, nel tentativo di presentarlo come attività priva di progettualità politica e legittimità storica, negando così anche la contraddizione rappresentata dal processo stesso per lo Stato e in particolare per la DC; secondariamente come pressione sui militanti ostaggi nei diversi carceri.

Come militanti comunisti il nostro rapporto con lo Stato è un rapporto di guerra; siamo nemici politici e combattenti nemici. Di conseguenza ci opponiamo a ogni tentativo di criminalizzazione dell’attività combattente della nostra organizzazione, a ogni collaborazione e dunque anche all’“acquisizione di prove”.

Perciò, quando l’acquisizione di prove è stata disposta di forza, con le aggressioni alla nostra integrità fisica, altrettanto conseguentemente abbiamo organizzato e attuato la resistenza possibile nelle diverse situazioni.

Qui, abbiamo valutato possibile e necessario resistere attivamente nei diversi momenti di conflitto che abbiamo attuato, e dei quali ci assumiamo tutta la responsabilità politica.

La nostra condotta in questa occasione, e per quanto ci è possibile sempre, non risponde a una logica “carceraria“ di prigionieri, ma si riconduce prima a una logica di militanti, consapevole dell’estrema parzialità della condizione di prigionia e che implica una dimensione politica e strategica d’organizzazione, di partito, una dimensione collettiva dell’attività rivoluzionaria che perciò non parte dal carcere né ruota attorno a esso.

I prigionieri come tali non possono realmente essere soggetto politico autonomo: coltivare illusioni su ciò sarebbe l’opposto di uno sviluppo di soggettività rivoluzionaria, sarebbe stare del tutto al di sotto delle necessità imposte dal livello raggiunto dallo scontro. Impadronirsi politicamente e teoricamente delle dinamiche oggettive e non-aggirabili di sviluppo del processo rivoluzionario, che danno centralità alla guerriglia nel suo insieme – della quale i prigionieri sono solo la parte caduta – e che pongono il baricentro sempre nella guerriglia in attività è la condizione per sviluppare una condotta il più possibile coerente nel quadro della guerriglia, stando in questa situazione.

Partire dalla guerriglia come organismo, soggettività organizzata e strutturata a livello collettivo secondo un programma, un progetto strategico, un piano di conduzione dello scontro generale è dunque il solo modo non dispersivo ma produttivo in termini rivoluzionari di collocare la propria militanza reale; i prigionieri non sono niente se non conservano quel superamento che ogni proletario opera nell’aderire alla guerriglia, dove egli non è più l’operaio, il proletario, né tanto meno… il prigioniero, ma si ricompone come uomo nel collettivo che combatte: diventa, da ribelle, rivoluzionario – un militante, un comunista. In questa logica essere prigionieri indica solo il luogo fisico e politico in cui i militanti si possono trovare, e che impone il ruolo disciplinato che è loro proprio nel quadro della condizione generale dello scontro.

I militanti nelle mani del nemico non possono che essere sempre, nel conflitto generale, il fianco materialmente più debole del movimento rivoluzionario: lo sviluppo del processo rivoluzionario non può che decidersi sempre fuori, nel centro dello scontro reale, al livello imposto dallo sviluppo storico.

Questa concezione che ha informato e informa la nostra condotta in questi anni è stata per noi una conquista politica dell’esperienza nel confronto generale con la controrivoluzione, secondariamente con l’attività antiguerriglia rispetto al carcere.

Questo è valido a tutti i gradi del conflitto poiché sin dall’inizio l’organizzazione combattente agisce in un rapporto di guerra, e solo secondo queste leggi si può dare attività rivoluzionaria reale, produttiva, efficace del partito combattente. Lo sviluppo della guerriglia si dà nell’attacco pratico, nella capacità politica e pratica di costruirlo, nei colpi – anche – che inevitabilmente si subiscono, nella ricostruzione di nuova capacità d’attacco; così ancora si sbaglia, ma questa prassi, come è stato in tutto il nostro percorso storico, via via si precisa, cresce e in questa prassi si costruiscono i termini della guerra di classe.

Queste leggi valgono anche e particolarmente in carcere: qui, solo dentro questa disciplina – che è un’arma: lo strumento che lega alla lotta generale – è praticabile una condotta che sia organica allo sviluppo rivoluzionario complessivo, ed è anche questo il significato, l’utilità pratica, la continuità e il senso della militanza, anche nelle mani del nemico.

Solo così anche la oggettivamente limitatissima “prassi” dei militanti prigionieri smette di essere un dimenarsi, un attivismo di settore, di “categoria”, e anche le parole smettono di essere lamenti, “parole urlate” per diventare, nei loro limiti, cristallizzazioni più o meno grezze di esperienza effettiva, la quale non è “dei prigionieri”, ma dell’insieme del partito, della guerriglia. Soltanto così si può dare capacità di crescere, di imparare dallo sviluppo pratico di cui si è parte.

Ecco perché per noi, identità, militanza, prassi rivoluzionaria non è una “nostra prassi di prigionieri”, ma la prassi autentica: l’attività rivoluzionaria pratico-critica dell’organismo rivoluzionario che è il partito in costruzione, organismo nel quale noi, ogni militante, siamo soltanto un elemento, una parte – nostro ruolo è essere funzionali al processo della guerra di classe.

Questa logica, di partito, sta alla base della nostra condotta anche in questa particolare occasione.

Le Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente si sono conquistate una legittimità storica, politica, teorica a prendere la parola sul carattere attuale dello scontro di classe formandosi concretamente come parte attiva di questo scontro e sua direzione rivoluzionaria.

Il contesto storico dello sviluppo della lotta armata per il comunismo nei paesi del centro imperialista è caratterizzato dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha determinato con il secondo conflitto mondiale sul piano economico-sociale e storico-politico.

La divisione del mondo in “sfere di influenza”, Est/Ovest, vede il capitale, alla cui testa sono gli USA, nella necessità di assestare gli equilibri a suo favore. La controrivoluzione imperialista nel secondo dopoguerra è la risposta alla stabilizzazione della rottura rivoluzionaria dell’Unione sovietica, ai processi rivoluzionari decisi in Est-Europa dal nuovo equilibrio internazionale e alla necessità di stabilizzare la pacificazione dell’Europa attraversata dai risvolti rivoluzionari formatisi durante il conflitto – ciò anche a fronte dello sviluppo dei processi rivoluzionari nel mondo.

La crisi del 1929, con le politiche delle infrastrutture, del riarmo e lo sforzo bellico avevano innestato sia nei paesi vinti che in quelli vincitori, in special modo negli USA, un processo di sviluppo monopolistico. Per parte USA, l’enorme capacità produttiva sviluppata nello sforzo bellico richiedeva partner solvibili, pena la crisi economica immediata. Perciò, controrivoluzione imperialista e “piano Marshall” furono due facce della stessa medaglia con le quali fu normalizzata l’Europa, a partire dal punto critico costituito dalla Repubblica Federale Tedesca.

Il piano di internazionalizzazione e interdipendenza delle economie che ne seguì ha dato luogo ad un processo di polarizzazione tra le classi con la proletarizzazione di vasti strati della società, al formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario USA – quest’ultimo si è innervato nella composizione dei gruppi monopolistici dominanti all’interno della catena imperialista -, e nel contempo al formarsi del proletariato metropolitano.

Come riflesso sovrastrutturale a questa fase dell’imperialismo, la democrazia parlamentare moderna assume il ruolo di rappresentare e portare avanti gli interessi della frazione dominante di borghesia imperialista.

Dal punto di vista economico si affina, data la conoscenza acquisita, la capacità di gestione e di governo dell’economia attraverso politiche economiche di supporto che, nella fase della crisi generale di valorizzazione assumono carattere controtendenziale, intervenendo per attutire gli effetti negativi della crisi dal momento che non possono agire sulle cause, che sono strutturali.

Dal punto di vista politico ancora di più si esalta il ruolo che lo Stato assume in riferimento all’antagonismo inconciliabile tra le classi. A partire dai rapporti di forza generali tra le classi che caratterizzano il quadro di scontro nel dopoguerra, la democrazia rappresentativa si organizza in modo tale da farsi carico del controllo e del governo del conflitto di classe superando il carattere essenzialmente repressivo che aveva informato la Stato fascista anteguerra, per servirsi delle istituzioni democratiche come ambito politico in cui convogliare e compatibilizzare le spinte e le tensioni antagonistiche che si riproducono nel paese, le quali, incanalate dentro le gabbie istituzionali, vengono svuotate di ogni contenuto destabilizzante per non farle collimare con il piano rivoluzionario. Partiti, sindacati, organismi politici istituzionali vengono delegati a “rappresentare” la classe e diventano l’unica “controparte” legittima in quanto strutturalmente lealista alle istituzioni democratiche e agli interessi della borghesia imperialista. La democrazia parlamentare ingloba così la nuova qualità della controrivoluzione imperialista, cristallizzandosi in quella che definiamo appunto “controrivoluzione preventiva”.

Nel quadro di queste modificazioni la strategia insurrezionalista (politica dei due tempi, doppio livello, ecc.) che aveva caratterizzato l’impostazione dell’Internazionale comunista rivela la sua inadeguatezza.

Con l’insieme dei dati storici oggettivi si è misurata la soggettività rivoluzionaria: a partire dalle esperienze delle rivoluzioni cinese, vietnamita, algerina, cubana… si viene formando un quadro di elaborazione teorica delle avanguardie rivoluzionarie sia del centro che della periferia che si coagulano attorno ai nuovi termini che assume la politica rivoluzionaria e afferma la lotta armata, la guerriglia, come l’unica strategia adeguata a questa fase dell’imperialismo e alla corrispondenti forme di dominio della borghesia imperialista per il raggiungimento dell’obiettivo di tappa (liberazione nazionale, rivoluzione socialista).

Le espressioni più mature di questa elaborazione sintetizzarono le prime linee teoriche e politiche di quello che va considerato sul piano dell’esperienza rivoluzionaria uno sviluppo vivo del marxismo: il concretizzarsi storico-pratico della teoria del proletariato rivoluzionario. Un’elaborazione che si sintetizza nell’attività rivoluzionaria nella periferia di forze rivoluzionarie come i feddayn palestinesi, i Tupamaros in Uruguay, Erp e Montoneros in Argentina…, nel centro imperialista con le organizzazioni rivoluzionarie nere-americane, con i Weathermen, la Gauche Proletarienne, la Raf, le BR…

La soggettività rivoluzionaria dunque afferma la lotta armata come il solo modo di operare in queste condizioni storiche, e specificamente per il centro imperialista la necessità di operare nell’unità del politico e del militare, e secondo i criteri offensivi di clandestinità e compartimentazione, presupposti che si confermano come indispensabili per la guerriglia nelle metropoli, unitamente al carattere di lunga durata della guerra di classe.

Questo quadro complessivo è dunque il contesto generale sul quale si afferma la lotta armata, la guerriglia nei centri imperialisti: il particolare contesto dello scontro di classe nei singoli paesi in cui si inserisce ne determina poi le caratteristiche specifiche di sviluppo.

Quello che possiamo affermare sulla base della nostra esperienza è che i caratteri generali fondamentali della guerriglia validi in ogni Stato del centro imperialista determinano un processo di maturazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che obbligatoriamente si generalizza in ogni contesto, in ogni Stato. Così, lo sviluppo di nuove forze rivoluzionarie che si formano in paesi che non hanno avuto precedenti deve misurarsi necessariamente con il livello dato nel contesto generale del rapporto rivoluzione/controrivoluzione a livello internazionale, e prendere atto di cosa è già determinato sul piano generale dall’attività di altre forze rivoluzionarie. Relazionarsi a ciò non significa travalicare il necessario calibramento politico che ogni forza è tenuta a misurare nel radicare la sua proposta politica e strategica, né tantomeno non tener conto del tipo di mediazione politica tra le classi entro cui si racchiudono le specifiche forzature, ma significa relazionarsi anche al livello che si è stabilito sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione.

Condizione generale immanente che sovrasta lo sviluppo del processo rivoluzionario è l’accerchiamento strategico, determinato dal fatto che il potere è nelle mani del nemico completamente fino al suo rovesciamento: i rapporti di forza, intesi in termini generali, sono dunque sempre favorevoli al nemico di classe. La rottura dei rapporti di forza a favore del campo proletario che l’avanguardia rivoluzionaria opera è quindi sempre relativa. Contemporaneamente vige il principio che la guerra di classe è strategicamente vincente. Infatti, la borghesia vi interviene per mantenere il potere ma non può ’distruggere’ il proletariato, chiave di volta del modo di produzione capitalistico in quanto creatore di plusvalore; il proletariato rivoluzionario, al contrario, combatte per il potere e in questo processo vive e si sviluppa come classe rivoluzionaria nell’obiettivo di annientare la borghesia in quanto classe del capitale, liberando così lo sviluppo delle forze produttive dai rapporti di produzione capitalistici.

L’accerchiamento strategico, nel contesto dello scontro che si sviluppa negli Stati del centro imperialista, si carica di significati riconducibili al fattore dell’aumentato peso della soggettività nello scontro di classe generale, una questione da cui non si può prescindere se si vuole intervenire nelle dinamiche dello scontro. Più specificamente vi influiscono i termini del rapporto rivoluzione/controrivoluzione che si è prodotto storicamente.

Sul piano del funzionamento della guerriglia, l’esperienza delle Brigate Rosse permette di precisare le importantissime implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare, implicazioni che condizionano tutto il modo in cui si sviluppa la guerra di classe.

In questo senso possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nell’intero processo rivoluzionario, dai meccanismi che consentono a una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi, al processo nel suo complesso.

La guerriglia nelle metropoli non è sempre semplice e sola guerra surrogata, essa agisce e può sviluppare una sua efficacia muovendosi ben dentro i nodi centrali dello scontro politico tra le classi. L’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere e avere spazio deve riferirsi strettamente a questo patrimonio generale. La guerriglia, dunque, nel costruire i termini della guerra di classe, esplicita la natura di guerra che vive nello scontro di classe, natura fortemente dominata dalla politica e che influenza tutte le dinamiche dello scontro, dal piano generale della lotta di classe al piano rivoluzionario.

Il processo rivoluzionario è processo di attacco politico-militare al nemico – cuore dello Stato, politiche centrali dell’imperialismo – e nel contempo, a partire da questo attacco è costruzione e organizzazione delle forze sulla lotta armata al grado imposto dallo scontro e dai diversi livelli delle forze che vi concorrono.

Il nodo della direzione rivoluzionaria nella guerra di classe è dunque un vero e proprio processo di costruzione-fabbricazione del partito combattente che si configura come tale nel percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. La direzione rivoluzionaria dello scontro di classe si realizza in ciò che abbiamo definito «agire da partito per costruire il partito» e che è stata la condotta delle Brigate Rosse in tutta la loro storia.

Questa concezione fondamentale, così come il modulo politico-organizzativo secondo cui sono strutturate le BR, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono elementi validi sempre, strategici, affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro tra le classi e che permettono il carattere offensivo della guerriglia.

Sul piano internazionale, il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuova tecnologia nella produzione, ha fatto da acceleratore nei processi di accentramento e centralizzazione monopolistica mettendo in movimento enormi quote di capitale finanziario.

Questa dinamica ha determinato un salto qualitativo in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista.

Sul piano politico questo ha portato alla esigenza di una maggiore coesione e di concertazione delle politiche economiche.

Gli Stati della catena imperialista, muovendosi all’interno di necessità comuni che in ultima istanza ne condizionano l’azione verso un comune obiettivo, devono però fare i conti con gli interessi dei propri singoli capitali (che sono in concorrenza tra loro e con i capitali degli altri paesi) e con la lotta di classe e rivoluzionaria interna che ha connotazioni specifiche dovute alla storia economica, politica, sociale di ogni singolo Stato. Quindi, il processo di integrazione e coesione economica, politica, militare invece di dissolvere i singoli Stati della catena imperialista in un unico “super-imperialismo” esalta le funzioni degli Stati di questo processo. Sono gli Usa, quale paese capitalista più sviluppato della catena imperialista, che hanno espresso le tendenze e le contraddizioni economiche affermatesi nel mondo capitalistico, e proprio per questa ragione hanno consumato per primi le tappe che conducono alla crisi. Le controtendenze messe in atto negli anni Ottanta (Reaganomics) hanno esaurito il loro effetto controtendenziale finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale, aprendo le porte alla recessione produttiva.

Sono quindi le contraddizioni prodotte dalla crisi economica che caratterizzano il capitalismo nella fase imperialista dei monopoli che premono, nel loro interconnettersi, sul piano delle relazioni politiche e militari.

Quello che va maturando è un complesso processo che muove verso la tendenza alla guerra, manifestandosi con caratteristiche specifiche in questa fase imperialista.

Il riflesso di questi passaggi muove, sui piani economico-politico-diplomatico-militare, nella tendenziale ridefinizione dei rapporti di forza relativi al quadro storico post-conflitto della divisione del mondo in sfere d’influenza. Le differenze che si sono prodotte in questo processo decennale nella catena imperialista hanno spostato relativamente il peso economico verso l’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership USA, che nonostante la recessione economica, rimane il paese capitalisticamente più sviluppato, sia perché i monopoli Usa sono capillarmente presenti nell’intera Europa Occidentale, che per il ruolo politico-diplomatico-militare che a tutt’oggi vede gli Usa in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte i partner della catena imperialista (pur tra relative contraddizioni). L’Europa Occidentale, in questo contesto generale, per i processi di coesione politico-militare che ha promosso, acquista un peso più rilevante, e questo proprio a partire dalle modificazioni delle aree periferiche.

All’interno di questa dinamica la Repubblica Federale Tedesca, “grande Germania”, ha assunto un peso e un ruolo centrali; infatti essa ha fatto pesare a suo favore le modificazioni degli equilibri dell’Est europeo.

L’arretramento ad Est e la risultante modificazione dei rapporti di forza in favore dell’imperialismo ha rideterminato il rapporto Est/Ovest, influenzando e riflettendosi sulla direttrice Nord/Sud e proletariato/borghesia sul piano internazionale.

Una dinamica che mette in evidenza come la pressione economica, politica, diplomatica e militare dell’imperialismo in questa fase muove tendenzialmente nella ridefinizione di tutte le aree geopolitiche per come si erano definite con Yalta. Un processo che apre lo spazio all’imperialismo per normalizzare-ridefinire le aree strategiche ratificando i rapporti di forza a suo favore a livello mondiale.

Una tendenza attraverso cui l’imperialismo ha teso a dare soluzione utilizzando tutto il suo armamentario controrivoluzionario, a partire dalla “bassa intensità”, unitamente allo strangolamento economico, e pressioni diplomatiche, fino all’attuale interventismo diretto nelle aree di crisi (Centroamerica, Medioriente…).

Una realtà che rende quanto mai demagogica la cosiddetta “soluzione pacifica” dei conflitti nelle aree geopolitiche di crisi, in primo luogo perché per l’imperialismo la soluzione della crisi da sovrapproduzione assoluta di capitali e mezzi di produzione non si dà nella sola “apertura” dei mercati.

Va detto che la crisi economica che investe a diversi livelli la catena imperialista è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali, che non possono essere utilizzati al saggio di profitto atteso dal capitalista. In questo senso non si tratta di merci che non trovano un mercato solvibile; questo semmai è un effetto. Perciò, l’“apertura” di nuovi mercati all’Est non può risolvere (nel lungo periodo) la contraddizione insorta a livello strutturale.

La tendenza alla guerra quindi, intesa come necessità per la borghesia imperialista di distruzione di capitali sovraprodotti per far ripartire il ciclo economico su una nuova base, rimane tutta intera, approfondendosi ulteriormente come tendenza di risoluzione critica delle contraddizioni economiche.

Sul piano politico-militare ciò significa per l’imperialismo la ridefinizione delle aree di influenza e di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati capitalistici.

È dunque nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi politici, diplomatici, militari di compattamento all’interno della catena imperialista, pur nella diversità di ruoli e ai diversi gradi con cui si manifesta la crisi, che gli Usa spingono l’iniziativa diplomatico-militare adottando una strategia globale tesa a intervenire in ogni area di crisi.

Questa tendenza si sta esprimendo attualmente nella regione mediterraneo-mediorientale che per la sua importanza strategica (materie prime e rotte strategiche) vede un intervento complessivo dell’imperialismo che vi ha installato già dal 1948 l’entità sionista come suo avamposto.

Una regione dove oggi l’imperialismo Usa spinge per modificare l’equilibrio geopolitico in suo favore e in cui sono coinvolti in prima persona gli Stati dell’Europa Occidentale, perché loro “naturale” zona d’influenza.

Per questi motivi questa regione è l’area di massima crisi rispetto alle altre aree periferiche.

I recenti avvenimenti nel Golfo persico, che si intrecciano con la grande mobilitazione delle masse arabe attorno al cuore politico della nazione araba: la rivoluzione palestinese, l’intifada e l’eroica lotta delle forze rivoluzionarie palestinesi e libanesi nella Palestina occupata e nel Sud Libano dimostrano che l’imperialismo deve ancora fare i conti con la lotta di classe, sua prospettiva rivoluzionaria.

La vitalità dei processi rivoluzionari in tutte le aree di crisi, dove i rivoluzionari si stanno misurando con la nuova situazione, stanno a dimostrarlo. I fondamenti dei processi rivoluzionari stanno nelle cose, nei rapporti sociali dell’epoca imperialista: lì trovano alimento le forze rivoluzionarie, lì si riproducono, crescono, si sviluppano.

La ridefinizione in atto degli assetti mondiali lungo le storiche linee di demarcazione del mondo contemporaneo dovrà fare i conti, e già li sta facendo, con queste “potenze” reali.

Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia, quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista.

L’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello Stato, costituendo entrambi i binari su cui le Brigate Rosse sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alle funzioni di direzione politica dello scontro.

Per la guerriglia nel centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni di scontro della metropoli, sapendone collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia.

L’antimperialismo per le Brigate Rosse non è una mera questione di solidarietà internazionalista o di politica estera ma si tratta del contributo alla costruzione-consolidamento del Fronte combattente antimperialista quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo.

Il Fronte è innanzitutto un fronte oggettivo, costituito dai percorsi rivoluzionari che hanno luogo sia nel centro che nella periferia del sistema imperialista. L’assunzione soggettiva di questa realtà permette di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo e antimperialismo.

Lavorare alla costruzione e al consolidamento del Fronte costituiscono dunque un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria.

La necessità del salto politico al Fronte combattente antimperialista si è posta e si pone in termini soggettivi a partire dal grado di sviluppo dell’imperialismo sia dal punto di vista economico che dal punto di vista delle politiche di coesione regionali che impongono la necessità da parte delle forze rivoluzionarie di costruire quei livelli di unità e cooperazione che permettono di incidere sulle politiche dominanti dell’imperialismo, pur senza esaurire con questa attività il complesso del lavoro che ogni organizzazione combattente porta avanti relativamente ai suoi obiettivi e alle caratteristiche storiche e sociali del paese in cui opera.

Deve essere infatti chiaro che i processi di coesione tra gli Stati del centro imperialista non significano la semplificazione del quadro di scontro sul solo piano internazionale: l’internazionalizzazione della formazione monopolistica, lo sviluppo integrato tra gli Stati e l’interdipendenza economica connessa muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano. Un processo appunto tendenziale, che non dissolve la funzione degli Stati, ma anzi li esalta all’interno degli organismi internazionali. Ogni specifico percorso rivoluzionario dunque si sviluppa necessariamente all’interno del singolo Stato ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto interno della lotta di classe. Si tratta dunque di due livelli differenti, che, sebbene reciprocamente influenzati, devono essere collocati sul loro piano distinto.

Dato l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militari, per lo sviluppo del processo rivoluzionario è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in questa area geopolitica che abbiamo definito come “Europa Occidentale – Mediterraneo – Medio oriente”.

La necessità del Fronte si dà in quanto prassi offensiva che mira alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare quelle condizioni di instabilità politica nell’area, funzionali al procedere del processo rivoluzionario al livello dei singoli Stati.

Obiettivo del Fronte combattente antimperialista è dunque spostare a favore delle forze rivoluzionarie i rapporti di forza nei confronti dell’imperialismo su scala internazionale determinando una condizione di ingovernabilità nell’area; cosa questa, differente dall’impedire il processo di integrazione e coesione in atto a livello internazionale. Anche perché la stessa attività rivoluzionaria oggettivamente e soggettivamente antimperialista è uno degli elementi che contribuiscono allo sviluppo di questo processo di integrazione, poiché l’attacco all’imperialismo produce come conseguenza non una separazione tra i vari Stati, ma, al contrario, come dinamica rivoluzione/controrivoluzione, una risposta sempre più unitaria e centralizzata. Infatti l’acquisizione della prassi della guerriglia sul terreno dell’antimperialismo ha costretto la borghesia imperialista a rideterminare il terreno antiguerriglia. Già all’interno dei processi di coesione economica, politica, diplomatica, militare della catena imperialista, con particolare riguardo all’Europa Occidentale, uno dei punti qualificanti è quello che passa attraverso un più stretto coordinamento degli apparati di polizia e servizi segreti dei singoli Stati, con la tendenza alla omogeneizzazione degli strumenti repressivo-legislativi, con la definizione di iniziative comuni come la “soluzione politica” e come lo “spazio giuridico europeo” contro la guerriglia (Germania, Francia, Italia, Spagna…).

Ciò chiarisce come i termini dello scontro rivoluzione/controrivoluzione, imperialismo/antimperialismo si rideterminano soggettivamente rispetto al peso politico e strategico acquisito dalla guerriglia nell’intera area geopolitica.

L’approdo all’accordo politico con il testo comune Rote Armee Fraktion-Brigate Rosse del settembre ’88 ha portata storica, per il progetto politico che pone e per ciò che significa l’esperienza rivoluzionaria della RAF e delle BR, che fa ormai parte della materialità dello scontro di classe nel centro imperialista, e sancisce un salto in avanti nella politica del Fronte, misurandosi con la definizione più precisa della sua proposta politica, così espressa nel testo comune:

«(…) Il salto ad una politica di Fronte è necessario e possibile per le forze combattenti allo scopo di incidere adeguatamente nello scontro.

Per questo bisogna battere e superare tutte le impostazioni ideologiche e dogmatiche che esistono oggi dentro le forze combattenti e il movimento rivoluzionario in Europa Occidentale, poiché le posizioni dogmatiche e ideologiche dividono i combattenti.

Queste posizioni non sono in grado di portare la lotta e l’attacco al livello necessario di iniziativa politica.

Le differenze storiche, di percorso e di impianto politico di ogni organizzazione, differenze (secondarie) di analisi eccetera non possono e non devono essere di impedimento alla necessità di lavorare a unificare le molteplici lotte e l’attività antimperialista in un attacco cosciente e mirato al potere dell’imperialismo.

Non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione. Il Fronte in Europa Occidentale si sviluppa intorno all’attacco pratico in un processo cosciente e organizzato in cui si maturano successivi momenti di unità tra le forze combattenti. Perché organizzare il Fronte combattente rivoluzionario significa organizzare l’attacco; non si tratta di una categoria ideologica, né tanto meno di un modello di rivoluzione. Si tratta invece di sviluppare la forza politica e pratica per combattere adeguatamente la potenza imperialista, per approfondire la rottura nelle metropoli imperialiste e per il salto qualitativo della lotta proletaria (…)».

Gli elementi politici di fondo che rendono possibile e necessario il Fronte sono così espressi, in riferimento all’Europa Occidentale:

«(…)L’Europa Occidentale è il punto cardine nello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.

L’Europa Occidentale per le sue caratteristiche storiche, politiche, geografiche è la parte dove si incontrano le linee di demarcazione classe/Stato, Nord/Sud, Est/Ovest.

L’inasprimento delle crisi del sistema imperialista, l’abbassamento del potenziale economico degli USA sono il motivo principale che, insieme ad altri fattori, determina una perdita relativa di peso degli USA. Questi fattori comportano un avanzamento (sviluppo) del processo di integrazione economico, politico, militare del sistema imperialista. In questo contesto e per le ragioni sopra dette la funzione dell’Europa Occidentale nel governo della crisi cresce di importanza.
– Sul piano economico: l’Europa Occidentale sviluppa un piano concertato di politiche economiche di sostegno e ammortizzamento delle contraddizioni economiche all’interno del governo della crisi dell’imperialismo.
– Sul piano militare: forzature verso una maggiore integrazione politico-militare nell’ambito dell’alleanza atlantica – Nato, sia con piani politici economici di riarmo all’interno della nuova strategia militare imperialista nei confronti dell’Est, sia con un intervento politico e militare integrato contro i conflitti che si inaspriscono nel Terzo Mondo, principalmente verso l’area di crisi mediorientale.
– Sul piano controrivoluzionario: la riorganizzazione ed integrazione degli apparati di polizia e dei servizi segreti contro lo sviluppo del Fronte rivoluzionario, contro le attività rivoluzionarie e contro l’estensione e l’inasprimento dell’antagonismo di massa. Riorganizzazione e integrazione che si avvale di precisi interventi politici contro la guerriglia, come ad esempio i progetti di “soluzione politica” che stanno avvenendo nei vari paesi europei.
– Sul piano politico-diplomatico: i progetti di “soluzione negoziata” dei conflitti al fine di consolidare le posizioni di forza imperialiste. Questa attività politico-diplomatica ha anche la funzione di rafforzare i processi di coesione politica dell’Europa Occidentale, un movimento dal quale nessun paese dell’Europa Occidentale è escluso. Un dato questo da cui nessuna forza rivoluzionaria combattente può prescindere nella propria attività rivoluzionaria. (…)
(…) – L’attacco unificato contro le linee strategiche della coesione dell’Europa Occidentale destabilizza la potenza dell’imperialismo.

– Organizzare la lotta armata nell’Europa Occidentale
– Costruire l’unità delle forze combattenti sull’attacco: organizzare il Fronte, combattere insieme».

La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione del Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva dello sviluppo del Fronte non solo tra le forze rivoluzionarie europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte del centro imperialista e i movimenti di liberazione della periferia.

Il complesso di fattori che caratterizzano sui piani politico, economico, diplomatico, controrivoluzionario i processi di coesione si riflettono infatti, oltre che in Europa, anche nella concretizzazione di iniziative tese alla normalizzazione e stabilizzazione dell’intera area geo-politica Europa Occidentale – Mediterraneo – Medioriente come obiettivo funzionale all’acquisizione di migliori rapporti di forza da parte dell’imperialismo.

Un progetto di normalizzazione e stabilizzazione dell’ordine imperialista che è poi il progetto politico dominante nell’area e che trova il suo maggiore ostacolo nella lotta antimperialista e antisionista condotta dal popolo palestinese e libanese, e nella lotta più generale delle masse arabe.

Lo specifico contesto di classe in Italia determina per la guerriglia, per le Brigate Rosse, il tipo di strategia e le particolarità di sviluppo della lotta armata nella costruzione del processo rivoluzionario della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico generale.

Storicamente in Italia il plasmarsi della sovrastruttura statale sulle condizioni dettate dal ripristino dell’ordine imperialista e in un contesto di classe ricco di fermenti rivoluzionari ha condizionato la stessa “impalcatura” istituzionale e, ciò che è più importante, il personale e le forze politiche atte al suo funzionamento.

La stessa formazione della Democrazia Cristiana avviene in questo contesto assumendo nel dopoguerra la rappresentazione più fedele della borghesia imperialista, assicurandone gli interessi generali, attraverso le altre forze politiche in grado di articolare la necessaria dialettica interborghese. Nello stesso tempo, ottemperando alla funzione di normalizzazione e stabilizzazione del quadro politico interno, all’interno del quale l’insieme dei partiti costituiranno il “garante democratico” delle politiche antiproletarie e controrivoluzionarie degasperiane.

Una normalizzazione e stabilizzazione che si è avvalsa, nelle diverse fasi dello scontro, di forzature vere e proprie nelle relazioni tra classe e Stato, operate anche attraverso l’uso del terrorismo di Stato (da Portella delle Ginestre alle stragi degli anni ’70 e ’80).

È in relazione a queste caratteristiche che possiamo rilevare nel percorso storico e politico dello Stato, della borghesia imperialista nostrana, dentro il processo di assestamento delle forme di dominio della borghesia, un unico tratto antiproletario e controrivoluzionario inerente alla natura e allo sviluppo dello scontro di classe. Un filo organico, dentro al procedere non-lineare di questo scontro, che va dalla nascita della “democrazia rappresentativa” alla attuale “fase costituente” che evolve verso una “Seconda Repubblica”. Un processo storico, politico e sociale così sintetizzato dalla nostra organizzazione nel volantino di rivendicazione dell’azione contro Ruffilli:

«(…) Non a caso l’attuale fase politica in cui si è inserito il progetto imperialista evidenzia la continuità, pur nella rottura con le diverse fasi politiche e storiche vissute nel nostro paese. In altri termini c’è un filo continuo che lega la Costituente del ’48, espressione dei rapporti di forza usciti dalla Resistenza al nazifascismo, a questa nuova “fase costituente”. Un filo continuo che passa dalla restaurazione degli anni ’50 per controllare il movimento insurrezionale ereditato dalla Resistenza, al “centro-sinistra” degli anni ’60, al tentativo neo-golpista di stampo fanfaniano dei primi anni ’70 teso a contrastare in termini reazionari le forti spinte dell’antagonismo di classe e della guerriglia, l’“unità nazionale” morotea in un clima di forte scontro per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, alla “controrivoluzione degli anni’ 80”, vera e propria base su cui ha trovato forza questa fase politica».

La centralità dell’attacco allo Stato costituisce oggi più che mai per le BR uno dei principali assi programmatici attorno a cui costruiscono organizzazione di classe sulla lotta armata, costituendo insieme all’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo con il Fronte combattente antimperialista i due assi programmatici su cui si costruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. L’attacco al cuore dello Stato è l’attacco politico-militare della guerriglia alle politiche dominanti dello Stato, atte a determinare nel paese equilibri politici tra classe e Stato funzionali all’attuazione dei programmi della frazione dominante della borghesia imperialista e mira, nelle diverse congiunture, a disarticolare l’iniziativa del nemico favorendo l’ingovernabilità delle tensioni di classe per rovesciarle e organizzarle sul terreno della guerra di classe di lunga durata contro lo Stato, dando così prospettiva rivoluzionaria allo scontro di classe.

Lo scontro politico tra le classi, e soprattutto il piano rivoluzionario avanzano nella misura in cui si rompono gli steccati e i filtri stabiliti dalle relazioni classe/Stato, la loro mediazione politica. Un dato che si riferisce sempre alla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato e che può esistere e affermarsi dentro gli equilibri politici che si formano nel paese tra le classi; gli equilibri inter-borghesi si formano secondariamente, di riflesso e accanto agli equilibri di forza e politici tra classe e Stato.

L’iniziativa della guerriglia è tesa a rompere, lacerare il piano degli equilibri tra classe e Stato e a costruire le condizioni per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario: ciò può avvenire soltanto intervenendo con l’attacco politico-militare al punto più alto dello scontro. Questo attacco si ripercuote poi come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi, fino al piano capitale/lavoro. Una dinamica di intervento che libera, anche se momentaneamente, energie proletarie; energie, vantaggi momentanei derivati dall’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione e disposizione delle forze sul terreno della lotta armata.

La nostra esperienza sul terreno dell’attacco allo Stato ci ha consentito di superare pratiche dispersive che nel passato hanno caratterizzato un attacco teso a disarticolare, quasi si collocassero sullo stesso piano, i diversi centri della macchina statale, a livello periferico e centrale; ciò era in quella fase il riflesso di una visione ancora schematica dello Stato, i cui apparati erano visti nella loro separatezza di apparati politici, burocratici, militari… e derivava da una visione schematica, linearistica e ancora manualistica delle fasi rivoluzionarie della guerra di classe, che riconducevamo a due sole fasi principali: quella della costruzione-accumulo di capitale rivoluzionario e quella del suo dispiegamento nella guerra civile.

L’esperienza fatta dalle BR sul terreno del processo rivoluzionario ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nel quadro di un andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati; un dato questo ulteriormente approfondito dagli attuali processi di rifunzionalizzazione istituzionale.

Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore politico nelle diverse congiunture, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, che definiamo di “centralità, selezione, calibramento”.

Centralità: dato l’approfondimento dello scontro, la capacità dell’attacco di disarticolare, inteso sempre in termini relativi e non assoluti, risiede in primo luogo nella capacità politica di individuare, all’interno della contraddizione principale che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista.

Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che, nel progetto politico centrale, assume una funzione di equilibrio delle forze che sostengono il progetto stesso.

Calibramento: consiste nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado, irreversibile, di approfondimento raggiunto dallo scontro – anche negli inevitabili arretramenti, che sono costitutivamente interni alla dinamica del processo rivoluzionario, il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto attestato -, allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie sul terreno della lotta armata, allo stato dei rapporti di forza tra le classi sia interni al paese che negli equilibri internazionali tra imperialismo e antimperialismo. Questi criteri guidano l’attacco, e permettono alla guerriglia di incidere nello scontro al livello imposto e necessario, traendone il massimo vantaggio politico e materiale. Sulla base della nostra esperienza possiamo affermare che questa logica, questi criteri saranno determinanti per diverse fasi ancora dello scontro, poiché solo in una fase di “guerra civile dispiegata” si dà la necessità-possibilità di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

Di questa logica l’attacco al cuore dello Stato con l’azione centrale contro il senatore DC Ruffilli è un chiaro esempio. Una vittoria politica, non solo delle Brigate Rosse che l’hanno concepita e praticata, ma che segna per parte rivoluzionaria e proletaria un’intera fase dello scontro di classe in Italia, un suo passaggio centrale e decisivo.

Con il progetto demitiano di “riforma istituzionale” la DC si prefiggeva la ratifica e il consolidamento degli equilibri generali tra le classi conquistati dalla borghesia imperialista nei confronti del proletariato con la controrivoluzione degli anni ’80. Un progetto molto articolato, sia nelle tappe politiche da mettere in pratica sia nei fini perseguiti, i quali sono così espressi dalla nostra organizzazione nel documento di rivendicazione dell’attacco:

«(…) In termini generali questo progetto si inserisce nella tendenza attuale di ridefinizione-riadeguamento complessivo di tutte le funzioni e istituzioni dello Stato ai nuovi termini di sviluppo dell’imperialismo e ai corrispettivi termini del governo del conflitto di classe. Ossia, una tendenza generale di riadeguamento delle democrazie parlamentari quali forme di dominio più maturo degli Stati a capitalismo avanzato. Quindi un avanzamento delle forme di dominio della dittatura della borghesia imperialista.

Una tendenza generale che, nelle sue direttrici, seppur con tempi e modi diversi, interessa molti paesi europei (…) e che in Italia assume caratteristiche peculiari in relazione al ruolo economico e politico che il nostro paese, con la presenza della prassi rivoluzionaria portata avanti dalle BR in dialettica con i settori più avanzati dell’autonomia di classe, svolge e ai caratteri, infine, della classe dominante nostrana necessariamente prodotta dai primi due fattori.

(…) L’ossatura del progetto imperialista è imperniata sulla formazione di coalizioni che si possono alternare alla guida del governo dandogli così un carattere di forte stabilità, una maggioranza forte e un esecutivo stabile in grado di garantire da un lato le risposte in tempo reale ai movimenti dell’economia, dall’altro decisioni consone all’instabilità del quadro politico internazionale. Questo è il massimo della democrazia formale, dove l’“alternanza” fa la funzione dell’opposizione e dovrebbe riuscire a contenere le spinte antagonistiche che si riproducono nel paese.

(…) Che questo progetto politico affondi le sue radici nella natura e nelle funzioni dello Stato ne sono ben coscienti gli elaboratori stessi, i quali si richiamano ai termini economici e di sviluppo di questa fase dell’imperialismo; di qui il puntare alla scadenza del 1992 il riferimento alla liberalizzazione dei capitali in modo da favorire la formazione di nuovi monopoli.

Per quanto riguarda il conflitto sociale, una delle riflessioni fondamentali parte proprio dalla constatazione del fatto che in Italia si è prodotto uno scontro di classe che ha trovato nella guerriglia il suo punto più alto. La controffensiva dello Stato negli anni ’80 parte dal presupposto che, senza assestare un duro colpo alla guerriglia, non si sarebbe potuto procedere alla ristrutturazione economica che la crisi rendeva impellente. Una dinamica controrivoluzionaria che, a partire dall’attacco all’organizzazione e ai settori più avanzati dell’autonomia di classe, ha attraversato orizzontalmente tutto il corpo di classe costruendo i termini dei nuovi rapporti di forza a favore dello Stato.

È in questo rapporto di forza che può essere varato il patto neo-corporativo; esso ratifica un avanzamento della controrivoluzione; un modello di relazioni che, a partire dal rapporto classe/Stato, ha costretto tutti i soggetti sociali dell’opposizione istituzionale a modificare il proprio ruolo.

Un riadeguamento che, dovendo ruotare intorno al processo di rifunzionalizzazione dello Stato – in cui tale progetto è inserito -, ha nella sostanza modificato, sulla base dei nuovi rapporti di forza, il carattere della mediazione politica tra classe e Stato, la funzione degli strumenti e dei soggetti istituzionali con cui lo Stato si rapporta al proletariato, il modo stesso di governare il conflitto di classe. Per questo possiamo dire che nella mediazione politica tra classe e Stato vi è incorporato il salto di qualità operato dalla controrivoluzione degli anni ’80.

(…) L’obiettivo è quello della “democrazia governante”, dove al massimo dell’accentramento del potere reale corrisponde il massimo della democrazia formale. È questo il progetto politico demitiano, formalmente teso alla costruzione di una “democrazia finalmente matura”; nei fatti teso a concentrare tutti i poteri nelle mani della maggioranza di governo nel nome di un interesse generale del paese che nella realtà è solo l’interesse generale della frazione dominante di borghesia imperialista, nella normale dialettica tra maggioranza e opposizione, in cui la maggioranza ha gli strumenti di governo e l’opposizione ha facoltà di critica, senza però poter intervenire nei processi decisionali, in un gioco in cui apparentemente i partiti rappresentano l’intera società, nella realtà rappresentano solo gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista. Un progetto politico che nel complesso tende a svincolare il governo della società dalle spinte antagoniste, garantendo la stabilità politica del sistema; è per questo che il progetto demitiano è in questo momento “il cuore dello Stato”, in quanto da un lato sancisce l’equilibrio politico in grado di far marciare i programmi della borghesia imperialista, dall’altro assesta e ratifica i rapporti di forza tra classe e Stato in favore di quest’ultimo: da ciò il suo carattere controrivoluzionario e antiproletario.(…)».

È all’interno di questo contesto che il progetto demitiano, centralmente dominante nei rapporti tra classe e Stato, viene attaccato e disarticolato dalla nostra organizzazione.

Questo intervento porta in sé tutte le potenzialità politiche e strategiche insite nel riadeguamento dell’avanguardia combattente, e in quanto tale capace di portare la sua iniziativa politico-militare ancora una volta al punto più alto dello scontro tra le classi, dove si determina la ridefinizione dei rapporti politici tra classe e Stato, dei rapporti di forza, delle modalità di governo relative alla mediazione politica tra le classi.

Questo intervento rivoluzionario, espressione dell’attività complessiva operata dalle BR, ha spostato e approfondito il livello dello scontro; una dinamica consapevolmente prodotta e calibrata dalle BR ai rapporti di forza generali e alle condizioni dello scontro, un contesto che si è riflesso sulla rideterminazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’attacco all’ideatore del progetto, elemento di spicco nel ricomporre e ricondurre le forze politiche intorno agli equilibri necessari per effettuare i passaggi del progetto, ha di fatto aperto un varco, avendo attaccato l’elemento centrale di coesione di quegli equilibri su cui dovevano stringersi le intese politiche; in questo senso ha contribuito sostanzialmente al suo ripiego e allo scompaginamento relativo del quadro politico istituzionale, poiché ha interessato l’incrinamento degli equilibri legati all’aspetto dominante della contraddizione classe/Stato, che per la sua importanza rimette parzialmente e relativamente in gioco gli equilibri tra le classi.

In questo senso la disarticolazione del progetto dominante della borghesia imperialista nella congiuntura permette di acquisire lo spazio politico, il termine relativo di rapporto di forza per l’avanzamento della dinamica complessiva dell’attività rivoluzionaria a partire dalla dialettica attacco-costruzione-organizzazione-attacco.

L’iniziativa politico-militare infatti non si riferisce ad obiettivi simbolici che servano a “svelare” la natura delle contraddizioni di classe – questo può essere semmai uno degli effetti -, ma essa è invece il concreto modo di procedere di questo particolare tipo di conflitto che è la guerra rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste.

L’attacco quindi si pone l’obiettivo di danneggiare effettivamente il nemico di classe, di disarticolarlo sulla base di criteri di “centralità, selezione, calibramento” dell’attacco stesso, che permettono di ottenere il massimo di risultato con il minimo sforzo, data la disparità di forze esistente tra guerriglia e Stato.

Da questa prassi l’avanguardia combattente sintetizza il vantaggio materiale in forza politico-militare, attraverso la costruzione-consolidamento dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, adeguato ai livelli di scontro e agli obiettivi della fase.

Questa iniziativa politico militare delle Brigate Rosse esprime una qualità politica che lo sviluppo successivo della vicenda istituzionale in questi anni dimostra e conferma. In questo paese infatti la borghesia imperialista deve fare i conti, e lo si vede nel grottesco ma reale travaglio della riforma istituzionale, con contraddizioni e conflitti che hanno le proprie radici nella concretezza della lotta di classe e nella qualità impressa allo scontro da venti anni di attività e presenza della lotta armata, della guerriglia, delle BR.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi a porre le basi alla fase di ricostruzione, la quale prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica.

Le condizioni politiche generali in cui fu aperta la ritirata strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’organizzazione rispetto ai termini dello scontro. Nella sconfitta tattica dell’82 si dimostrava l’incapacità di comprendere e anticipare lo sviluppo del processo controrivoluzionario: l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo stavano modificando il quadro degli equilibri generali a fronte della profonda crisi economica; per quanto riguardava l’analisi dello Stato e della situazione interna si riteneva che la “Campagna di primavera” del ’78 avesse lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche.

Questo era anche il prodotto di una visione schematica che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro schematizzava le funzioni dello Stato ad “articolazione locale del sistema imperialista multinazionale”. Soprattutto non si coglieva il movimento avviato all’interno della borghesia e dello Stato, teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe a partire dalle sue avanguardie, col fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi, ridimensionando il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato.

Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla guerriglia in modo che si riversasse sull’intero corpo di classe, dai settori più maturi dell’autonomia di classe in dialettica con la guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato a livello generale. Una controffensiva che, per proporzioni e metodi di dispiegamento ha assunto carattere di vera e propria controrivoluzione.

Le impostazioni e posizioni inadeguate allo scontro, prodotte principalmente dalla giovinezza politica della nostra esperienza, sono state battute e superate nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo fabbrichista.

Il ricentramento operato dalle BR con la “Campagna sulle fabbriche” e l’operazione contro la Nato nel 1981, sulla questione del piano classe/Stato e sulla questione dell’antimperialismo non impedì l’accumularsi critico delle contraddizioni e dei ritardi.

Il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della ritirata strategica, nonostante i limiti di comprensione che le BR stesse ancora avevano della stessa, ma che permise alle BR di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento, pur nel quadro della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato.

La giustezza della scelta della ritirata strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché ha permesso alle BR, interpretando correttamente le leggi della guerra rivoluzionaria, di ripiegare da posizioni politiche non-avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nel quadro dell’andamento discontinuo dello scontro nel percorso di lunga durata. Quella scelta ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi da posizioni politiche niente affatto avanzate, hanno sottratto, per quanto possibile, forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato, evitando così di cadere in una condotta avventurista: in tal modo hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo di fronte alle modifiche avvenute nel contesto dello scontro e alla conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali determinatesi nel tessuto proletario.

Questo processo di riadeguamento, dovendosi misurare con la materialità degli effetti prodotti dalla controrivoluzione nel campo proletario, è avvenuto e avviene, proprio per il suo svolgersi nel vivo dello scontro e dovendo confrontarsi “sul campo” con la controrivoluzione, in maniera non-lineare nelle contraddizioni che la dinamica controrivoluzionaria ha immesso in maniera differente sia nel movimento di classe che nelle stesse forze rivoluzionarie. Un processo dinamico ad andamento discontinuo e contraddittorio che, nella fase iniziale, ha dovuto fare i conti con i segni lasciati dall’offensiva dello Stato: l’incomprensione del reale livello di scontro prodottosi alimentava un piano di contraddizioni che riduceva di fatto la ritirata strategica ad atto difensivo e portava di conseguenza a subire l’iniziativa dello Stato, e al logoramento delle forze, la cui disposizione non adeguata ne limitava la funzionalità rispetto alle necessità dettate dalla fase rivoluzionaria stessa. La logica difensivistica cioè si dimostrava incapace, di fronte alle necessità imposte dal livello di scontro, impantanandosi nel possibile, inteso limitatamente alle condizioni materiali del momento. In questa dinamica contraddittoria hanno trovato spazio posizioni che, quando si sono chiaramente delineate nel dibattito interno all’organizzazione, sono state espulse per quelle che erano: posizioni liquidazioniste che, “interiorizzando” la sconfitta dell’82, e portando all’estremo la logica difensivistica, revisionavano la lotta armata fino a ridurla a “strumento di lotta”, sottraendosi perciò al livello dello scontro.

Il superamento della logica difensivistica ha segnato una tappa importante per lo sviluppo della fase di ritirata strategica, ed è maturata dalle BR nella prassi rivoluzionaria, come le iniziative combattenti contro Giugni, Hunt, Tarantelli, Conti, l’esproprio del febbraio ’87, Ruffilli e l’accordo politico raggiunto con la RAF stanno a dimostrare.

La ritirata strategica, per adempiere alla sua funzione, deve aderire concretamente alle caratteristiche dello sviluppo della guerra di classe, così come si sono formate nello scontro rivoluzionario in questo paese. Essa non si risolve con la sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, ma il suo procedere è legato strettamente alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione e organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento; tenendo conto che per la guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e del militare, implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una condotta della guerra rivoluzionaria i cui termini restano interni ai presupposti della ritirata strategica sino a che l’evolvere successivo dei livelli di ricostruzione non abbia maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza.

Per questo la ritirata strategica è una fase rivoluzionaria di lungo termine il cui superamento implica un salto e una rottura delle attuali condizioni dello scontro.

La ritirata strategica caratterizza un lungo periodo del processo rivoluzionario e procede attraverso la ricostruzione di diversi passaggi sostanziali; all’interno di ciò le BR già lavorano alla ricostruzione delle condizioni per attrezzare la classe allo scontro con lo Stato.

Per sostanza, modi e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività complessiva di ricostruzione, parliamo di fase rivoluzionaria e non di semplice momento congiunturale, tenendo conto che prende forma e consistenza all’interno della ritirata strategica, ma costituisce al tempo stesso il primo passaggio, la prima base su cui si modificano i rapporti di forza attuali tra campo proletario e Stato.

Le BR hanno lavorato in questi anni e lavorano oggi per porre le basi alla fase di ricostruzione. Queste basi poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi.

La fase di ricostruzione è un passaggio problematico e complesso per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione.

A fronte della qualità richiesta dall’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per praticarlo, vi è la costante necessità di operare la ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte nello scontro. La necessità di mantenere l’equilibrio tra il confrontarsi con l’attività antiguerriglia e controrivoluzionaria dello Stato da una parte, e il processo di formazione delle forze rivoluzionarie dall’altra, comporta un andamento di avanzate-ritirate fortemente discontinuo.

Il grado di approfondimento dello scontro, le sue caratteristiche sono il perno principale su cui si misura la portata dell’intervento rivoluzionario relativamente ai rapporti di forza esistenti.

Ciò mette in luce una questione ineludibile per le forze rivoluzionarie, e cioè: per quanto un arretramento ponga problemi di assestamento dello stato stesso delle forze rivoluzionarie, questo assestamento può influire soltanto in termini relativi sulla portata dell’intervento rivoluzionario; al contrario, è lo stato delle forze rivoluzionarie che deve ricostruirsi e attrezzarsi per essere adeguato al grado raggiunto dallo scontro, al livello delle contraddizioni politiche dominanti che maturano tra classe e Stato e tra imperialismo e antimperialismo.

Occorre cioè sempre conquistare, costruire la capacità di operare la funzione di avanguardia dello scontro a partire dalle modifiche che l’attività guerrigliera stessa ha apportato nella dinamica dello scontro rivoluzione/controrivoluzione.

Le avanguardie di classe che si dispongono a contribuire al processo rivoluzionario in corso devono, sono obbligate a misurarsi con le caratteristiche reali raggiunte dallo scontro.

Le stasi apparenti e le condizioni provocate da ogni arretramento non significano mai ritorno-indietro del livello di scontro; non si possono ridare condizioni politiche generali proprie di periodi precedenti, l’andamento dello scontro procede sempre verso il suo approfondimento. Da ciò deriva l’impraticabilità reale di forme di intervento che possono aver avuto un qualche ruolo in fasi precedenti; l’inefficacia e l’improduttività di interventi che mettano in campo livelli deboli di organizzazione rivoluzionaria o supportati a situazioni di lotta.

L’adeguamento nella capacità di esprimere direzione al livello delle nuove condizioni dello scontro nella fase della ricostruzione è dato dal salto alla centralizzazione, che tende a muovere le forze dentro un piano organico di lavoro, come un corpo unico. Dunque non per apporto spontaneo, ma disposte e organizzate in modo da contribuire produttivamente: una dinamica cioè di “centralizzazione politica-decentralizzazione delle responsabilità”.

Non è infatti più sufficiente disporsi spontaneamente sul terreno della lotta armata ritagliandosi in piccolo i problemi posti dallo scontro. Si tratta invece di formare le forze all’interno di una disposizione che permetta di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede, la dimensione del senso organizzato del lavoro rivoluzionario per rispondere alle necessità imposte da questo livello di sviluppo della guerra di classe.

Ciò all’interno dell’esigenza di operare, nell’unità del politico e del militare, alla ricostruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato.

Tenendo nel dovuto conto l’approfondimento del piano di scontro rivoluzionario attuale – classe/Stato, imperialismo/antimperialismo -, è alle dinamiche che si sviluppano a partire dalla dialettica tra questi due fattori nel rapporto guerriglia-autonomia di classe sul terreno rivoluzionario che le BR fanno riferimento nel procedere alla ricostruzione delle forze e costruzione degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario a sostenere lo scontro e nel perseguire le linee programmatiche di attacco allo Stato e all’imperialismo.

Su questi termini le BR-PCC sviluppano e verificano la loro capacità di attacco e assolvono alla funzione di direzione politico-militare della guerra di classe di lunga durata, all’interno della proposta strategica alla classe della lotta armata, e su questi termini di programma la nostra organizzazione lavora e dà sostanza all’unità dei comunisti.

Come militanti prigionieri rivendichiamo l’intero patrimonio teorico-politico della nostra organizzazione, che qui abbiamo riassunto in tratti generali, e che trova i compiuti punti di concretizzazione nell’attacco al cuore dello Stato con l’azione dell’aprile ’88 contro il senatore DC Roberto Ruffilli, nel raggiungimento della posizione unitaria nel Fronte nel testo comune con la RAF del settembre ’88 e nell’insieme dell’elaborazione teorico-politica che ne è complementare e che li ha costruiti.

In questo insieme teorico-pratico, frutto del confronto con la controrivoluzione, e con l’insieme dei problemi dello scontro, si ha il più alto grado di insegnamento della nostra esperienza storica come organizzazione, che si concretizza oggi nell’attività che le BR continuano a svolgere fuori di qui, nello scontro più concreto.

In quanto militanti della BR-PCC, forza attivamente operante nel quadro della politica del Fronte Combattente Antimperialista, ci riconosciamo nell’azione della RAF del luglio’90 contro Hans Neusel, segretario di Stato del Ministero dell’Interno di Bonn.

Rivendichiamo tutta l’attività politico-militare della nostra organizzazione.

Per noi e meglio di noi parla comunque la guerriglia, la nostra organizzazione, le Brigate Rosse.

Per quanto riguarda infine la nostra posizione in questo processo diciamo questo: ogni nostra iniziativa si svolge nell’ambito degli interessi della guerriglia, è una condotta dentro un conflitto in corso e non ha bisogno di alcuna giustificazione.

Perciò non c’è nulla da “giudicare”, e di certo noi non abbiamo niente riguardo cui “difenderci”.

Argomentare la nostra condotta sul terreno giuridico non ci interessa: il nostro terreno è il terreno della rivoluzione.

Onore alla combattente antimperialista Fadwa Hassan Ghanem caduta nell’azione del 25 novembre ’90 ad Arnon nel Sud Libano.

Onore a tutti i comunisti e combattenti antimperialisti caduti.

 

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di “riforma” dei poteri dello Stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee generali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista, per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica “Europa Occidentale-Mediterraneo-Medio Oriente”.
– Combattere insieme.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi

 

Cuneo, 18 dicembre 1990

 

Un pensiero su “Attaccare il cuore dello Stato attaccare le politiche centrali dell’imperialismo. Tribunale di Cuneo – Comunicato presentato il 18 dicembre 1990 dai militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cesare Di Lenardo, Franco Galloni, Stefano Minguzzi”

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