Il libro nell’edizione greca

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Red n’ Noir

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“Κι ας είμαστε γυναίκες. Ιστορίες επαναστατριών” Της Πάολα Στατσόλι.

Νέα κυκλοφορία των εκδόσεων #rednnoir από σήμερα στα ράφια του #rednnoir_bookstore_cafe_bar (Δροσοπούλου 52, Κυψέλη)

Αυτό το βιβλίο γεννήθηκε για να προσδώσει ένα πρόσωπο και μια αιτία σε ένα σημείο συνάντησης. Στο κομάντο συμμετείχε και μια γυναίκα. Αυτός ήταν ένας συνηθισμένος τίτλος εφημερίδων που χρονολογούνται αρκετές δεκαετίες πίσω. Και. Ένας ολόκληρος κόσμος περιλαμβάνεται μέσα σε μια λέξη για να υπογραμμίσει την εξαίρεση και να μηδενίσει την αξιοπρέπεια μιας επιλογής. Είναι κάτι εντελώς αρνητικό. Για έναν κοινό νου μια γυναίκα παίρνει τα όπλα λόγω της αγάπης της για έναν άντρα ή επειδή έκανε κακές παρέες. Ποτέ αυτοβούλως.

Το βιβλίο αφηγείται τις ιστορίες δέκα αγωνιστριών που, από τη δεκαετία του 1970 μέχρι τις αρχές της νέας χιλιετίας και κατά κύριο λόγο στην Ιταλία, έκαναν την επιλογή των όπλων, πραγματοποίησαν παράνομες ενέργειες –συμμετέχοντας σε διάφορες οργανώσεις και χώρους της επαναστατικής αριστεράς– και θυσίασαν τη ζωή τους καθώς έκαναν πράξη τις επιλογές τους.


Una intervista per il sito della casa editrice Red n’ Noir, che ha pubblicato l’edizione in greco del libro Sebben che siamo donne. Parliamo di militanti rivoluzionarie, della storia di Silvia Baraldini, della situazione in Italia ai tempi del coronavirus.
In occasione della pubblicazione dell’edizione greca del tuo libro “Sebben che siamo donne”, la prima domanda che viene spontanea riguarda il punto comune che tiene legate queste dieci biografie di donne rivoluzionarie. Qual è il filo che accomuna queste storie e vite che sono state troncate, all’ambasciata USA ad Atene o nelle strade di Roma e non solo, oppure in stato di reclusione.
Nel momento in cui ho deciso di scrivere un libro con le storie di militanti politiche che in Italia, dall’inizio degli anni Settanta fino a tempi più recenti, hanno scelto di prendere le armi, o comunque di combattere con mezzi illegali nell’ambito delle diverse organizzazioni o aree della sinistra rivoluzionaria, ovviamente mi sono trovata a dover fare una scelta. Ho quindi deciso innanzi tutto di occuparmi solo di compagne non più in vita. Per svincolarmi dalla cronaca e parlare di storia, anche se molto recente e densa di temi di riflessione utili per l’oggi. Però è stata necessaria anche una seconda scelta. Negli anni alcune compagne della lotta armata degli anni Settanta e Ottanta sono morte di malattia, di incidenti. Un libro non bastava per ricostruire tutte le loro storie. Ho quindi deciso di parlare solo di quelle rivoluzionarie la cui morte è strettamente legata alla militanza politica, compagne uccise dalle forze di polizia, cadute nel corso di azioni oppure suicide durante la detenzione. Sono così rimaste le dieci storie che ho inserito nel libro. Storie sicuramente diverse ma con un filo in comune. A partire da Elena Angeloni, la prima in ordine cronologico, che nel 1970 ha sacrificato la vita per la libertà del popolo greco dal regime dei colonnelli, fino all’ultima, Diana Blefari, militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente (BR-PCC), morta suicida in un carcere romano dopo essere stata sottoposta a un regime di detenzione così duro da poter essere equiparato a tortura. Nel mezzo ci sono Margherita Cagol e Annamaria Ludmann, che hanno militato nelle Brigate Rosse, Annamaria Mantini nei Nap, Barbara Azzaroni in Prima Linea, Wilma Monaco nell’Unione dei comunisti combattenti, Diana Blefari nelle Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente. Poi, ci sono due compagne che hanno effettuato azioni illegali nell’ambito di gruppi o organizzazioni legati all’Autonomia operaia, Maria Antonietta Berna e Laura Bartolini, e, in tempi più recenti, Maria Soledad Rosas, Sole, anarchica, squatter argentina arrestata nel marzo 1998 a Torino insieme a due suoi compagni con l’accusa di aver effettuato alcune azioni di sabotaggio in Val di Susa, contro i cantieri del treno ad alta velocità. Nel libro ci sono poi schede storiche sulle organizzazioni politiche o aree di riferimento di queste compagne.
Il libro vuole quindi ricostruire il filo della memoria, ma anche contribuire alla riflessione sull’oggi, sui temi della trasformazione radicale, rivoluzionaria della società. Perché rispetto agli anni Settanta e Ottanta del Novecento molte cose sono cambiate, ma sicuramente non è diminuita la necessità di lottare per una società basata sulla giustizia sociale.
Nell’edizione è inclusa anche una storia americana, scritta da Silvia Baraldini, una donna in lotta, attiva – negli USA degli anni ’70 – nella questione della liberazione afroamericana, che per questa sua scelta politica si è trovata rinchiusa – per quasi un quarto di secolo – nelle carceri dello “stato piu’ libero del mondo”, fino al suo ritorno in Italia. Ci vuoi riferire brevemente la sua storia, visto che non è molto conosciuta in Grecia come anche qualche spunto dalla vostra collaborazione in questa edizione.
Silvia è una compagna molto conosciuta in Italia, ma di lei sono note soprattutto la abnorme condanna avuta negli Stati Uniti, le brutali condizioni di detenzione, gli anni di isolamento in un carcere sotterraneo, alla base delle campagne di solidarietà che sono riuscite a ottenere un suo trasferimento in Italia nel 1999. Con la partecipazione a questo libro, Silvia ha invece voluto ricostruire per la prima volta le ragioni e le tappe della sua esperienza politica negli Stati Uniti – dove era emigrata con la famiglia – iniziata nel movimento contro la guerra in Vietnam e presto approdata a una più decisa e radicale lotta contro l’imperialismo americano. Il suo sostegno alla lotta per l’autodeterminazione del popolo afro-americano, insieme alla militanza nel movimento femminista, l’hanno condotta a sostenere la lotta clandestina e agire in solidarietà con il Black Liberation Army. Per questo suo contributo – e per la partecipazione alla liberazione dal carcere della rivoluzionaria afro-americana Assata Shakur – Silvia è stata arrestata nel novembre 1982. Condannata a 44 anni di detenzione per associazione e per aver rifiutato di collaborare con l’istituto del grand-jury, è stata trasferita nelle carceri italiane nel 1999, dove ha finito di scontare la pena. È stata scarcerata nel settembre 2006. Un altro motivo che ha spinto Silvia a partecipare al libro, è stata la volontà di dissipare alcune convinzioni presenti nel movimento che si è battuto per la sua scarcerazione, ovvero che fosse una “vittima innocente”, condannata solo per le sue idee. Silvia ha invece voluto ribadire che la sua condanna, sicuramente spropositata, è stata però conseguenza di una scelta politica cosciente e radicale.
Molto interessante ed emozionante è stata l’esperienza che ho fatto con Silvia in questi ultimi anni, dall’uscita del libro. Da allora, abbiamo fatto quasi duecento presentazioni e dibattiti in tutta l’Italia, in centri sociali, associazioni, spazi occupati, comitati. Un’attenzione che non avremmo mai immaginato, soprattutto da parte di giovani compagni e compagne. Interessati al passato, alla memoria, ma anche a cercare di capire i nostri compiti dell’oggi. E questo per noi era molto importante, perché uno degli obiettivi del libro, oltre a ricordare figure di militanti politiche, è proprio quello di cercare di capire come agire oggi, in questa situazione di difficoltà, in cui però a nostro avviso non esistono scorciatoie possibili. L’ipotesi rivoluzionaria rimane l’unica via possibile per un reale superamento di una società basata sullo sfruttamento e l’oppressione.
“Sparare prima alle donne!”. Queste sono delle parole pronunciate da un dirigente dei reparti antiterroristici nella Repubblica Federale Tedesca degli anni ‘70. Questo egregio servitore del potere del Reich democratico argomentava questa sua sentenza spiegando che le donne arrivate a scelte così radicali come quelle armate hanno superato limiti, ruoli e pregiudizi molto più profondi di quelli richiesti ai loro compagni in lotta, quindi la loro morte vale molto. Che ne pensi?
Per una donna, in particolare all’inizio degli anni Settanta, era sicuramente più difficile compiere una scelta radicale come quella armata, che in alcuni casi comportava anche conseguenze dolorose quale la separazione dai propri figli. La decisione richiedeva quindi spesso una maggiore consapevolezza. Nelle organizzazioni armate italiane degli anni Settanta-Ottanta (a differenza di quelle successive, come le BR-PCC) le donne erano in numero minore rispetto ai loro compagni di lotta, ma non avevano ruoli o responsabilità differenti all’interno dell’organizzazione.
Nella istigazione criminale a uccidere le militanti rivoluzionarie che hai ricordato nella domanda, c’è però un dato che spesso è stato negato alle donne combattenti, il riconoscimento di una scelta. Da parte borghese, si è infatti sempre cercato di sminuire il ruolo autonomo delle compagne. Che si sarebbero trovate nella lotta armata non per scelta ma per seguire il proprio uomo, per disagio di vita, per cattive conoscenze.
Il libro vuole evitare le due opposte reazioni, l’esaltazione o la demonizzazione, per ricollocare queste vite nel loro contesto, ripercorrendo un periodo in cui forme di lotta illegali e violente erano patrimonio di tutta la sinistra antagonista.
Visto che queste domande vengono scritte mentre il mondo si trova in una situazione assai distopica, in guerra contro il Virus Covid 19 e l’Italia sta in quarantena, in un stato di emergenza e coprifuoco permanente, ci vuoi riferire un po’ il clima che si respira nel paese?
In questi giorni in Italia ci troviamo a fare i conti con scenari “blindati” che mai avremmo immaginato di vivere. Uno stato di guerra e di terrore, che ovviamente blocca anche le iniziative politiche e sociali. È una situazione sicuramente difficile, per tutti e tutte, a maggior ragione per chi come me ha una patologia oncologica o un’altra malattia grave. Ma è proprio in situazioni come questa che emergono senza ambiguità i caratteri sostanziali e deteriori del sistema capitalistico. Di un sistema che ha demolito la sanità pubblica tagliando fondi e chiudendo ospedali, stanziando invece ingenti risorse per le armi di distruzione di massa, di un sistema che blocca le persone in casa (per chi una casa ce l’ha…) ma nello stesso tempo non ferma la produzione, e con il ricatto del licenziamento costringe una moltitudine di operai a lavorare senza le necessarie misure di sicurezza, e non solo quelle legate all’attuale epidemia. Condizioni che stanno producendo numerosi scioperi spontanei, mentre la borghesia di nuovo “scopre” la centralità della fabbrica, dopo tante narrazioni sulla fine della classe operaia.
Stanno poi emergendo importanti elementi di protesta e di solidarietà sociale, e una grande prova di dedizione da parte di medici, infermieri e operatori socio-sanitari del servizio pubblico, che sarà importante cercare di valorizzare una volta fuori dall’emergenza.
Le carceri in questi giorni sono esplose. Il motivo scatenante è stato il blocco dei permessi e dei colloqui fra i detenuti e i loro familiari. Ma alla base delle rivolte, con numerosi morti – senza che la dinamica dei fatti sia stata finora comunicata – ci sono le condizioni preesistenti, soprattutto l’estremo sovraffollamento e le conseguenti inadeguate condizioni igienico-sanitarie. In generale le vere responsabilità sono, come sempre, di chi gestisce questo sistema e le sue carceri. Quindi, la situazione non fa che confermare ancora una volta quanto già sappiamo da tempo. Per vivere in un mondo più libero e più giusto non c’è altra strada che l’abbattimento del capitalismo. Perciò, anche se le apparenze potrebbero far pensare il contrario, oggi più che mai è tempo di rivoluzione!