Rivendicazione azione contro Massimo D’Antona

Il giorno 20 maggio 1999, a Roma, le Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Combattente hanno colpito Massimo D’Antona, consigliere legislativo del Ministro del Lavoro Bassolino e rappresentante dell’Esecutivo al tavolo permanente del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”. Con questa offensiva le Brigate Rosse per la Costruzione del partito Comunista combattente, riprendono l’iniziativa combattente, intervenendo nei nodi centrali dello scontro per lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, portando l’attacco al progetto politico neo-corporativo del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”, quale aspetto centrale nella contraddizione classe/Stato, perno su cui l’equilibrio politico dominante intende procedere nell’attuazione di un processo di complessiva ristrutturazione e riforma economico-sociale, di riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo. Un attacco che spezza la mediazione politica neo-corporativa, su cui questo Esecutivo tenta di assestare un consolidamento del dominio della borghesia imperialista, contrapponendovi gli interessi generali del proletariato, con l’obiettivo di farne il piano su cui organizzare la classe per costruire lo sbocco rivoluzionario alla crisi della borghesia imperialista e alla sua guerra, in un momento in cui gli stessi connotati dello scontro generale tra le classi vengono investiti dalla guerra aperta che lo Stato italiano, nel quadro più generale dell’Alleanza Atlantica, sta conducendo nei Balcani per assoggettare la Jugoslavia. Una guerra, quella odierna, che ha i suoi presupposti nella politica attuale fin dagli inizi degli anni ’90, dalla Nato e dall’Europa, per favorire la disgregazione della Federazione Jugoslava, con la creazione di Stati o protettorati su base etnica, e che ora è rivolta a distruggere il potenziale produttivo, e le risorse infrastrutturali della Repubblica Serba, per ridurla in miseria, piegarne la volontà e annientare l’entità statuale jugoslava per imporre i termini del dominio imperialista, in un disegno folle che mira a costruire condizioni di insediamento politico-militari dirette, funzionali ad esercitare funzioni di dominio politico con cui governare le profondissime contraddizioni sociali generate in queste aree dai riflessi della crisi dell’imperialismo e dall’inserimento dell’ex-campo socialista nel mercato capitalistico. Un quadro politico generale che impone al proletariato e alle sue avanguardie rivoluzionarie di assumersi la responsabilità politica di costruire l’alternativa di potere storicamente adeguata a questi progetti, attraverso la ripresa dell’attacco rivoluzionario, sia al cuore delle politiche che consentono a questo Stato di sostenere il suo ruolo imperialista, per logorarne il potere e in questo avanzare nella costruzione delle condizioni della guerra di classe e del Partito, che nei nodi centrali della contrapposizione tra imperialismo ed antimperialismo, per costruire le alleanze antimperialiste necessarie ad indebolire il nemico comune nell’area politica Europea-Mediterraneo-Mediorientale, attrezzandosi conseguentemente a sostenere lo scontro prolungato con lo Stato e l’imperialismo. In questa prospettiva si colloca l’offensiva a Massimo D’Antona, con la quale, le avanguardie rivoluzionarie che concretamente l’hanno costruita, per la valenza politica che essa assume nello scontro generale tra le classi, possono svolgere un ruolo d’avanguardia in continuità oggettiva con la proposta delle Br-Pcc ed assumersi perciò la responsabilità politica di prenderne la denominazione.

Massimo D’Antona, esponente di spicco dell’equilibrio politico dominante e del progetto affermatosi come centrale nel corrispondere agli interessi di governo dell’economia e del conflitto di classe della Borghesia Imperialista, ha costituito cerniera politico-operativa del rapporto tra esecutivo e sindacato confederale, un formulatore ed interprete della funzione politica del “Patto Sociale” e della sede neo-corporativa in dialettica con i caratteri storici della democrazia rappresentativa in Italia, e del ruolo antiproletario e controrivoluzionario della corresponsabilizzazione delle parti sociali e innanzitutto del sindacato, nelle decisioni sulle materie di politica economica, a maggior ragione oggi, nel quadro delle necessità implicate a livello, sia di esercizio della funzione economica dello Stato, che della governabilità delle contraddizioni sociali, dal contesto della coesione europea, e dal rinnovato interventismo bellico rivolto ad assoggettare i popoli che resistono al dominio imperialista ed a imporre l’ordine sociale del capitale. “Patto Sociale” che opera specificatamente in funzione dell’isolamento e dell’accerchiamento delle espressioni di autonomia di classe, che non accettano la subordinazione degli interessi proletari alla centralità degli interessi della B.I., oppure dell’inglobamento di quelle componenti che, per penetrare i filtri che selezionano un ruolo negoziale sul piano della contrattazione capitale/lavoro o un ruolo politico sul piano politico generale, attivano un progressivo processo trasformistico, condizioni, quelle dell’accerchiamento delle prime e dell’inglobamento delle seconde, che per l’equilibrio dominante, costituiscono termini politici complementari necessari ad assicurare la governabilità. Un progetto politico che ha consentito, già dal governo Amato e poi con quello Ciampi, di tradurre, gli indirizzi politici di controllo delle leve statuali del governo macroeconomico, in elemento attivo nelle contraddizioni di classe, grazie al sostegno del radicamento reale e diffuso, e ad un’azione soggettiva di ricomposizione forzata del conflitto sul piano neo-corporativo, in dialettica con le dinamiche politiche in sede parlamentare, del sindacato confederale, che, in questi anni, ha assunto tutti i caratteri della soggettività politica riferendo la sua progettualità non solo alla contrattazione capitale-lavoro, ma ai nodi politici complessivi con cui confronta l’azione dello Stato. L’accordo del ’93 fu infatti momento di ratifica di un processo di trasformazione dei soggetti coinvolti nel Patto, e momento di assunzione di ruoli coerenti con l’azione di governo dei fattori critici dell’economia e del conflitto sociale e di classe. Ogni soggetto, e cioè Confindustria, Governo e Sindacati confederati, si impegnava a tenere una condotta in linea sia con gli obiettivi dell’accordo (contenimento dell’inflazione), che con i contenuti dello stesso, che riguardavano la struttura contrattuale e le relazioni industriali in modo fondamentale, per cui lo snodo era la subordinazione del salario all’inflazione programmata, con la quale il paese viene agganciato al programma di Maastricht. In quelle circostanze, se il governo (tecnico-istituzionale) aveva una sua maggioranza programmatica che ne sosteneva le scelte, e la Confindustria era il soggetto che si muoveva all’offensiva e non doveva fare altro che ripetere i suoi attacchi e le sue forzature per assumere ruolo politico, il sindacato era il soggetto che doveva operare le maggiori forzature al suo interno e soprattutto nel corpo della classe, come dimostrò la forte opposizione e la dura protesta anti-confederale all’accordo del ’92 nell’autunno di quell’anno, per potersi collocare sul terreno generale della negoziazione corporativa e svolgervi il proprio ruolo politico. Un patto, quello per la politica dei redditi del ’92, che fu passaggio centrale che apriva la strada al più organico Patto del luglio del ’93, e contro cui si è attuato l’attacco alla sede nazionale della Confindustria dei Nuclei Comunisti Combattenti con cui veniva proposta la ricostruzione delle forze rivoluzionarie attorno alla ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria. Un progetto, quello neo-corporativo, che oggi si è qualificato per l’assumere la direzione di un avanzamento-assestamento con la definizione di un assetto stabile ed articolato della politica neo-corporativa, per consolidare le forme di dominio della borghesia nel rapporto con il proletariato, per sostenere il carattere complessivo e generale dell’intervento sulle materie di ordine economico-sociale, componendo gli interessi sociali in modo corporativo; per articolare una capillare diffusione della dinamica negoziale centralizzata, come funzione della competitività generale, per poter sfruttare i differenti vantaggi competitivi locali; per l’allineamento agli indirizzi centralizzati e per una garanzia rafforzata della prevenzione e controllo del conflitto sociale; per l’inglobamento nella sede, con il suo allargamento, dei soggetti sociali non rappresentati e socialmente rappresentativi, se necessario, tramite regole e formule che spingano al riallineamento, e in tutto ciò intendendo rafforzare, la dinamica dell’intero processo di decisione politica, istituzionale e negoziale. Un progetto che oggi si completa con l’elezione di Ciampi alla Presidenza della Repubblica e con l’incarico ad Amato al Tesoro, soggetti politici che hanno svolto un ruolo storico nell’affermazione della politica neocorporativa e che perciò rappresentano punti di unità politico-istituzionale su cui maggioranza e opposizione, pur non senza contraddizioni, possono convergere. All’interno di questo quadro si è collocato l’incarico conferito a Massimo D’Antona, dapprima come esponente dell’Esecutivo nella definizione generale del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”, poi come responsabile della sua sede stabile, ossia il Comitato consultivo sulla legislazione del Lavoro, il Comitato ha la funzione dare attuazione alla strutturazione delle politiche neo-corporative, approvata con il Patto nel dicembre del 1998, e cioè alla istituzione di una consultazione continua tra esecutivo e parti sociali, e di occuparsi dell’adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee, di semplificazione e delegificazione, di rivedere le norme sul contratto di formazione e di potenziare l’apprendistato, perciò tende a svolgere una funzione di pressione sul Parlamento, per velocizzare l’attuazione del Patto, e sostiene l’esecutivo nell’esercizio delle deleghe su ammortizzatori sociali, incentivi e collocamento. Un compito nient’affatto semplice date le contraddizioni sociali che la crisi, e in particolare il ciclo recessivo, generano, perciò l’incarico sanziona, in un ruolo complessivo, la funzione politico-operativa svolta da Massimo D’Antona sulle principali contraddizioni su cui l’avanzamento e capillarizzazione dell’assetto neo-corporativo va ad impattare, e cioè regole della contrattazione, della rappresentanza e dello sciopero, tutti piani inclinati su cui può scivolare la prevenzione del conflitto che a sua volta è linea di affrontamento dello scontro ai fini di garantire la governabilità; e perciò aspetti di riferimento per condurre l’opera di revisione legislativa. E’ infatti al Ministero della Funzione Pubblica, con Bassanini, nell’Esecutivo Prodi, che Massimo D’Antona elabora la normativa sulla rappresentanza sindacale dei lavoratori per il pubblico impiego, modello di riferimento, nelle sue linee generali, anche per la legge sulla rappresentanza nel privato, e sperimentato nella sua capacità di garantire, la predominanza del sindacato confederale. Mentre è con l’Esecutivo D’Alema che lavora alla modifica della legge 146 sulla regolamentazione del diritto di sciopero in quei settori strategici che vengono definiti “servizi pubblici essenziali”, in direzione dell’inasprimento ed estensione delle misure sanzionatorie, passaggio a cui si intende pervenire avendo attestato su basi più solide, almeno nel settore pubblico, la legittimazione della linea sindacale che accetta di subordinare il diritto di sciopero agli interessi del capitale, mascherati da diritti fondamentali di cui sarebbe portatrice la “categoria degli utenti”.

Una legge con la quale si intende affiancare il processo di privatizzazione e liberalizzazione in corso, di settori, soprattutto come quello dei trasporti, e più in generale di quelli che abbiano una funzione infrastrutturale. Processo di privatizzazione e liberalizzazione che, oltre ad esercitare la funzione di abbattere i costi nel trasporto delle merci, può svolgere un ruolo importante nelle politiche U.E. di sostegno alla concorrenza del capitale monopolistico europeo, sia in generale per il ruolo del trasporto delle merci nell’attuale sistema di produzione incentrato sulla segmentazione e delocalizzazione del ciclo, e nelle attuali dimensioni dei mercati, sia, in specifico, per la funzione di traino che i settori infrastrutturali possono svolgere nell’investimento di capitali. La nuova legge dovrebbe servire a superare quei limiti dimostrati dalla 146, soprattutto nell’effettiva comminazione delle sanzioni, affinché funzioni da fattore di contenimento e prevenzione del conflitto in settori in cui, avendo i lavoratori una forza contrattuale potenziale superiore, costituiscono poli di attrazione oggettivamente rischiosi per la governabilità. Nello scontro politico generale entro cui, secondo le intenzioni della borghesia e del suo Stato si dovrà pervenire a ridimensionare, in modo drastico, lo sciopero in quanto diritto, l’aggressione Nato alla Jugoslavia ha costituito, per il sindacato confederale, Cgil in testa, l’occasione per cercare di sfruttare le contraddizioni, presenti in seno alla classe in questa fase, tramite l’invito rivolto ai settori che avevano annunciato azioni di lotta a rinunciare a realizzarle, e la promozione di attivazioni solidaridastiche e di pronunciamenti, per capitalizzare sia un atto di lealismo nei confronti dello Stato in guerra che la subordinazione degli interessi del proletariato a supposti superiori interessi “dell’umanità”, più concretamente della borghesia imperialista e concorrenziale che trae vantaggio sia dall’assoggettamento della Jugoslavia che dalla subordinazione del proletariato nazionale. Con ciò ha cercato di realizzare il duplice obiettivo di affermare la subordinabilità della lotta ad altre istanze e di incanalare la posizione dei lavoratori, ad esprimere un consenso all’intervento dello Stato. La linea seguita dalla Cgil, nell’aggressione Nato alla Jugoslavia, è stata quella di fare assumere con gesti concreti una posizione ai lavoratori italiani, nella polarizzazione del conflitto tra Jugoslavia e secessionismo kosovaro-imperialismo Nato, per sfruttare ogni minima possibilità di attiva legittimazione dell’intervento bellico, che viene qualificato dal suo segretario Cofferati, come una “necessità contingente”, in una posizione più generale che preme il governo italiano e che, rivendicando una funzione attiva dell’Europa nell’area balcanica, chiede che l’Europa stessa si attrezzi politicamente, istituzionalmente e militarmente a svolgerla congiuntamente agli Usa. Posizione che se ha dato bene il polso di quanto il sindacato si attesti in una posizione di prima linea antiproletaria anche su questo piano, non ha trovato spazio nella classe, la cui situazione difensiva non è equivocabile con una disponibilità a farsi strumento della propria oppressione.

L’adozione di una normativa che ridimensioni il diritto di sciopero, è strettamente connessa alla definizione in via di legge delle regole della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, affinché le sanzioni siano applicabili come strumento reale di prevenzione del conflitto e non finiscano per renderla debole, come sarebbe possibile se la condivisione politica di questo passaggio da parte del complesso dei lavoratori o la criminalizzazione delle azioni di lotta operate dall’interno stesso della classe e quindi come sua propria contraddizione, apparisse debole e incerta, a causa della inattendibilità degli strumenti formali di verifica dell’entità di una forza sociale quella del sindacato confederale, che non si manifesta esercitandosi in azioni di lotta, e che deve sostenere questo ruolo imprescindibile di quinta colonna dello Stato e della borghesia nei luoghi di lavoro.

La definizione del quadro delle norme sulla “rappresentanza sindacale dei lavoratori”, con le necessarie modifiche al testo in discussione in parlamento, è a sua volta anche la base su cui quest’Esecutivo intende sciogliere il nodo della struttura della contrattazione, affinché la contrattazione aziendale o locale, possa assumere il peso che gli si vuole dare in modo che il salario, e le condizioni di impiego della forza-lavoro, nel quadro delle compatibilità macroeconomiche, siano strettamente legati agli obiettivi e alle sorti del capitale (qualità, produttività, redditività). Nodo che va sciolto in modo tale che sia certa la complementarietà tra il merito della contrattazione centrale e quello della contrattazione aziendale, tra il ruolo della rappresentanza associativa (e storicamente in massima parte confederale) e quello della rappresentanza nei luoghi di lavoro, nell’intreccio e subordinazione del secondo al primo, affinché siano rese solide le basi di un sistema di relazioni industriali fondato sulla dipendenza della variabile forza-lavoro al capitale come principio, e sulla politica neo-corporativa come quadro generale del governo delle contraddizioni sociali e di classe. Nodi questi che Massimo D’Antona ha affrontato con l’organicità politica che sintetizza il legame tra la maggioranza politica e sindacato confederale, che gli ha fatto svolgere un ruolo di perno nell’equilibrio politico dominante e gli ha valso un incarico decisivo. Nella sfera delle responsabilità del soggetto, per il ruolo che il Ministero del Lavoro è approdato a svolgere e intende svolgere nella ristrutturazione e riforma economico-sociale, si collocano anche materie come la flessibilizzazione e l’incentivazione del part-time, come strumento per spalmare la precarizzazione del lavoro, per superare lo strumento del prepensionamento, e affrontare il nodo delle pensioni d’anzianità. L’attacco alle conquiste storiche della classe, come presupposto di una subordinazione strutturale della forza-lavoro al capitale, viene cinicamente giustificato, con ragioni di equità e tutela sociale, per quelle componenti di salariati arrivate di recente sul mercato del lavoro e più precarie. La spinta alla trasformazione del vecchio quadro normativo, quadro a cui queste componenti sono parzialmente sottratte attraverso l’impiego di forme contrattuali e giuridiche specifiche, è stata canalizzata e focalizzata, nell’operato di Massimo D’Antona, verso una politica neo-corporativa caratterizzata dalla costruzione di metodo e obiettivi comuni tra esecutivo e parti sociali, così che, nelle scelte e nelle decisioni concrete, l’Esecutivo sia vincolato, in modo formalmente legittimo, dalle istanze provenienti dagli interessi antagonisti, in un contesto in cui, le finalità sociali, in riferimento alle quali metodo e obiettivi si definiscono, è ovvio, sono date e immutabili, e coincidono strutturalmente con le finalità della frazione dominante della Borghesia Imperialista. In questo senso Massimo D’Antona ha rappresentato una figura organica dell’Esecutivo D’Alema, che ha assunto “la concertazione come metodo di governo” come aspetto sostanziale del suo programma. D’Alema e il gruppo della Quercia che ha incarichi nell’Esecutivo, infatti, intendono far pesare l’iniziativa politico-legislativa del governo, ben all’interno delle dinamiche parlamentari come termine di risoluzione, specificamente, delle contraddizioni interne alla maggioranza e in particolare ai Ds, e in generale delle resistenze della rappresentanza parlamentare al cambiamento, dovute alla sua impossibilità di pervenire a mediazioni politiche sufficienti e organiche, all’interno del quadro di compatibilità economico-politiche dettate dalla centralità degli interessi della B.I. e dai suoi obiettivi di fase. Questo ulteriore ruolo politico-legislativo, l’Esecutivo lo svolge adducendo la legittimità delle parti sociali a pesare, nelle trasformazioni politico-giuridiche, in virtù delle materie in oggetto sulle quali si riconoscono loro facoltà autonome. Questa “autonomia”, che per quanto riguarda il sindacato confederale è fondata sul peso politico storico del movimento operaio e derivata da questo, diventa la giustificazione dell’accentuato intervento legislativo dell’Esecutivo, su temi che non concernono semplicemente il piano capitale-lavoro, ma il modo di concepire il ruolo del “lavoro” nella società e nelle sue finalità, e che perciò necessitano di formalizzazioni giuridiche di livello legislativo, e anche costituzionale, che investono il Parlamento e perciò il ruolo della rappresentanza politica.

D’altra parte, nella sede politica, la contraddittorietà tra, i contenuti costituzionali che riflettono il peso che ha avuto in essi l’interesse politico autonomo del proletariato e il peso politico decisivo che tuttora ha la classe e, il riferirsi, della dinamica politica, agli attuali rapporti di forza generali tra proletariato e borghesia, si manifesta nella difficoltà a superare il quadro normativo che è ancora significativamente condizionato dal peso politico della classe, e che ostacola l’attuazione dei nuovi indirizzi che devono operare aggirando i vincoli costituzionali e perciò vengono frenati dalle contraddizioni generate dalla debolezza di questa pratica, in termini di disorganicità o inconcludenza dell’iniziativa legislativa parlamentare, che l’Esecutivo si incarica di forzare. La tradizionale impostazione dell’azione politica dei partiti che, in un contesto di impiego della spesa pubblica per stimolare la produzione, poteva essere tesa a una gestione delle risorse statali, in funzione del consolidamento del consenso politico-elettorale, si è dovuta riadeguare alle istanze della borghesia imperialista a fronte delle odierne contraddizioni della crisi del capitale. Ora, l’azione politica dei partiti, sostiene la funzione economica dello Stato perseguendo linee di attivo di bilancio, di contenimento dell’inflazione, di contrazione dei costi diretti e indiretti di produzione, di definizione di meccanismi che stimolino la competizione interna, come condizioni irrinunciabili affinché il capitale a base nazionale conservi quote di mercato e la formazione economico-sociale non arretri nella scala gerarchica della catena imperialista. Le scelte politiche assumono un carattere più spiccatamente antiproletario, sia perché per sostenere la funzione economica dello Stato in questo contesto, il presupposto diventa il dispiegamento di un’offensiva complessiva alle posizioni e condizioni della classe, sia perché si riduce strutturalmente la mediabilità degli interessi. Il carattere di queste scelte è stato sostenuto con l’adozione di un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario, che corrispondesse alla oggettiva riduzione del complesso degli interessi rappresentabili e mediabili. Questi fattori nel loro insieme rendono tendenzialmente più fragile il dominio politico-economico della borghesia. Se da una parte, quindi, la risposta è quella di incrementare le misure repressive generali, rafforzare organici e strumentazioni degli apparati di polizia (vedi pacchetto anticriminalità Diliberto-Jervolino), inasprire le sanzioni anti-sciopero, estendere le campagne di criminalizzazione e la pratica dell’incriminazione delle lotte di settori che non accettano la subordinazione agli interessi della B.I. ma anche alternativamente quella di assorbire e svilire l’opposizione di settori di proletariato, dall’altra, l’istanza di una più forte legittimazione dell’azione statuale viene soddisfatta affiancando al canale di legittimazione istituzionale, politico-rappresentativo, quello negoziale con le parti sociali, che tende a controbilanciare gli effetti negativi, in termini di governabilità, dell’esecutivizzazione implicata a livello di ri-disposizione dei ruoli delle istituzioni nell’ordinamento politico-istituzionale materiale, dagli odierni indirizzi politico-economici rispondenti alle istanze della classe dominante. Una manovra che, però, ha il limite della sovraesposizione politica del sindacato confederale e di acuire la crisi di legittimazione reale che lo investe. L’assestamento in senso neo-corporativo della dinamica politica e sociale è il progetto politico che tiene coeso l’equilibrio politico dominante, equilibrio che a sua volta è la risultante del processo di trasformazione e selezione delle forze dell’arco costituzionale nel rapporto organico con il sindacato confederale, che hanno investito il capitalismo negli anni ’80 e ’90, per candidarsi a rappresentare gli interessi della borghesia imperialista nel nuovo corso, basandosi proprio sulla capacità di effettuare la trasformazione funzionale, e nel contempo, garantire la coesione e il consenso sociale necessario a governare, pur senza poter adottare i tradizionali strumenti della spesa pubblica.

Questo equilibrio si puntella sul ruolo della negoziazione neocorporativa, che a propria volta ha come principi fondanti la negazione degli interessi generali del proletariato e la composizione forzata di interessi sociali particolari e transitori intorno agli interessi generali della frazione dominante di B.I., ed è indirizzata a completare il processo di riforma e ristrutturazione economica e sociale per sostenere il ruolo del capitale monopolistico nella competizione e nel quadro dell’integrazione europea, e a strutturarsi come modalità di governo delle contraddizioni di classe, sostanziando lo Stato imperialista neo corporativo, che vuole ingabbiare le contraddizioni sociali in modo funzionale anche alla sua assunzione di ruolo nelle politiche centrali dell’imperialismo. Così la composizione neo-corporativa delle contraddizioni sociali, mentre è modalità di affrontamento delle contraddizioni sviluppate dalla crisi del capitale nell’ambito nazionale, è anche condizione politica interna per affrontare il manifestarsi delle stesse sul piano internazionale, condizione del sostegno alla borghesia imperialista che lo Stato può espletare nelle sue funzioni di dominio non solo all’interno, ma anche rivolto all’esterno, a spezzare le resistenze opposte alla penetrazione imperialista e alla sua oppressione.

Dentro questo quadro generale si colloca l’intervento dell’Esecutivo e delle parti sociali rivolto, come linea di fondo, alla ulteriore flessibilizzazione e abbassamento del costo del lavoro, nel sostenere il rapporto concorrenziale con altre aree economiche, incrementato dall’Uern e dalla crisi capitalistica. Una linea che cerca di coniugare corrispondenza alle istanze di competizione del capitale e risposta alla crisi occupazionale, ma nel concreto prevede una condizione di lavoro privata di garanzie fondamentali, selettiva su basi meritocratiche o produttivistiche e di controllo sociale, e mediamente impoverita come condizione salariale e di sussistenza in genere. La delega ottenuta dal Parlamento, per la riforma degli ammortizzatori sociali e il riordino degli incentivi, assieme alla delega sul collocamento, e a quella sulla sanità, e alla più complessiva politica fiscale, (ben 7 sono le deleghe, nel collegato ordinamentale all’ultima finanziaria su investimenti e occupazione), sono gli strumenti per un’opera organica di redistribuzione del reddito a favore del capitale e di riorganizzazione della società in funzione della competizione capitalistica e del profitto. Le “politiche attive del lavoro” sono un aggiornamento degli aiuti statali alle imprese, nel quadro dell’integrazione europea e della liberalizzazione dei mercati e del movimento dei capitali, che impongono allo Stato di svolgere la sua funzione di sostegno economico al capitale, stimolando non più i consumi, ma sostenendo e stimolando l’accumulazione capitalistica, in modo selettivo. La finalità ideologica è quella dell’occupazione, drasticamente contrattasi a partire dal programma di Maastricht, su cui può essere convogliato il consenso sociale. La concessione di tagli a oneri sociali e altri costi del capitale, viene compensata con tagli e rifunzionalizzazione della spesa sociale, in modo tale che le erogazioni siano, in parte circoscritte ad assistere situazioni socialmente marginali e particolarmente svantaggiate, quindi più universali, ma selettive, e in generale fungano soprattutto da stimolo alla flessibilità interna ed esterna della forza-lavoro incrementando la competizione tra proletari. La riforma amministrativa e quella fiscale, nel quadro più generale di una riforma in senso federale a livello costituzionale, sono tasselli di un mosaico di condizioni che è in corso di costruzione e di completamento, nel quale gli obiettivi di fondo di questo progetto possano trovare realizzazione, e di questo fa parte anche la riallocazione a livello locale e regionale della gran parte del sistema degli incentivi. Il complesso di questi passaggi dovrebbe costituire un processo di frammentazione degli interessi particolari e immediati della classe per poterli convogliare a una composizione subordinata, in primo luogo e in generale, agli interessi della B.I., e anche a quelli delle componenti di capitale concorrenziale e di borghesia locali, situazione per situazione. Dopo la riforma pensionistica di Dini che, rovesciando il criterio delle pensioni da retributivo a contributivo, introducendo il sistema a capitalizzazione e aprendo la strada alla previdenza integrativa privata, prospetta un futuro di povertà ai pensionati dei prossimi decenni, il processo di riforma e ristrutturazione economica e sociale, dovrebbe, oltre che velocizzare le scadenze della riforma pensionistica stessa, cancellare istituti come la Cigs e i prepensionamenti che, assieme alle pensioni di invalidità, criminalizzate ad arte negli ultimi anni, costituivano le misure di un welfare state povero che aveva essenzialmente consentito di governare gli effetti delle crisi e delle ristrutturazioni degli anni ’80. In un contesto in cui la disoccupazione non è solo un effetto di crisi cicliche, ma è un dato strutturale non governabile con questi strumenti tradizionali, nelle contraddizioni sociali che genera e, dal momento che rapporti di forza favorevoli alla borghesia fanno reputare di poter eliminare questi costi sociali, la linea che nasce dal progetto centrale della B.I. prevede la loro sostituzione con un istituto come quello del “reddito minimo di inserimento” che consenta di perseguire l’obiettivo specifico di ridurre la spesa sociale, pur a fronte di incrementate esigenze sociali, e quello generale di favorire la competizione tra proletari. La natura e i caratteri di questo istituto in via di definizione, per la limitatezza, transitorietà e proporzionalità dell’erogazione, sono tali da farne una leva per la svendita della forza-lavoro che, affiancata alle misure per la “flessibilità in uscita” cioè per la liberalizzazione dei licenziamenti, svilupperà competizione tra occupati e disoccupati. L’ “incentivo” a competere è dato dal rischio di perdita di questo reddito minimale e dello status stesso di disoccupazione che, con la riforma in atto del collocamento, si cerca di collegare alla ricerca attiva di lavoro, alla partecipazione a corsi di formazione, all’accettazione del lavoro che c’è, alle condizioni imposte. L’affermazione, attraverso una riforma organica degli ammortizzatori sociali, della logica “premiale” dell’erogazione di un reddito minimo, come corrispettivo dell’attribuzione all’iniziativa e responsabilità del disoccupato, della ricerca del lavoro e dell’ottenimento di un reddito, che consente di svincolare lo Stato da qualsiasi altro dovere sociale, è passaggio necessario da affiancare all’affrontamento del nodo della “flessibilità in uscita” ossia della libertà dei padroni di licenziare. Lo scardinamento dei vincoli alla discrezionalità del capitale nella disponibilità della forza lavoro (vincoli che ora ruotano sul principio dell’ammissibilità del licenziamento per giusta causa, da cui nascono significativi diritti di risarcimento e reintegrazione) e che erano stati formalmente addirittura estesi nel 1990, con la legge 108, alle piccole imprese, diventa urgente ora che i contratti di formazione-lavoro sono stati sanzionati dall’Ue come una forma di sostegno mascherato alle imprese e quindi di concorrenza sleale, e perciò vengono a diminuire i margini per aggirare questi vincoli con i contratti a tempo determinato. Altre misure, quali la formazione obbligatoria fino ai 18 anni (che assieme alla ridefinizione dello status di disoccupazione, otterrà il risultato, sul piano statistico, non certo sostanziale, di diminuirne il tasso percentuale), la generalizzazione della figura dell’apprendistato al di fuori dell’ambito artigianale nel quale aveva una qualche motivazione funzionale, con lo scopo di istituire, senza chiamarlo con il suo nome, il salario d’ingresso (che viene a sancire, come istituto di valenza generale, la pratica diffusissima negli ultimi anni di prevedere a livello di contratti aziendali questa forma di salario), sono tutti tasselli che raccolgono-sistematizzano-rilanciano trasformazioni avvenute a macchia di leopardo o tendenzialmente, nei rapporti capitale-lavoro e sfruttano il vantaggio di forza ottenuto dallo Stato, e dalla borghesia in generale, nei confronti della classe, in un quadro organico di riforma e ristrutturazione economico-sociale che ha inciso in modo acuto nel corpo della classe in termini di condizioni di vita e contraddizioni e in cui gioca un ruolo centrale la forma entro cui questo processo si è sviluppata, cioè la negoziazione neo-corporativa, e in essa il ruolo dei sindacati confederali. Questo governo non rinuncia nemmeno a tentare di gestire in modo offensivo queste contraddizioni, coniando uno slogan “meno ai padri, più ai figli” che, nel tentativo di sintetizzare una supposta contraddizione sociale centrale, cerca di intercettare e mobilitare un altrettanto supposto consenso di fasce giovanili, per contrapporlo alle resistenze della massa dei lavoratori ad accettare il ridimensionamento e la rifunzionalizzazione in senso antiproletario di quel poco di sicurezza sociale che c’è stata in Italia. Lo scambio che la “concertazione” e la maggioranza politico-sindacale offrono al proletariato è quello tra sicurezza sociale e “sicurezza pubblica” cioè in realtà, la difesa della proprietà privata. Un passaggio come quello del “pacchetto anticriminalità”, ha seguito infatti, in modo puntuale la firma natalizia del Patto, preceduto dalla campagna di “allarme criminalità” con cui il governo ha iniziato il nuovo anno e, assieme alla criminalizzazione e incriminazione delle lotte che non accettano la subordinazione ai nuovi rapporti di forza favorevoli alla borghesia in generale e alla sua frazione imperialista in particolare, sono l’arco più vasto di risposte, di indirizzo riformatore, che questo equilibrio politico, intende dare al proletariato e alle contraddizioni che la crisi del capitale rovescia sulle sue condizioni di vita. Risposte, sostanzialmente inscritte in una strategia difensiva nei confronti della crisi del capitale, e di attacco al proletariato, che questo equilibrio politico intende dare alle contraddizioni generate dall’approfondimento della crisi-sviluppo dell’imperialismo e dalle politiche con cui sono state affrontate, in funzione degli interessi della frazione dominante di B.I. Un approfondimento che è il portato dell’internazionalizzazione dell’economia reale e finanziaria, tendenza a sua volta accentuatasi con la modificazione degli equilibri internazionali prodottisi con il crollo degli Stati aderenti al patto di Varsavia alla fine degli anni ’80, e che ha costituito la risposta complessiva di “sviluppo” alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e alla tendenziale caduta del saggio di profitto, che ha indotto l’incremento della concorrenza, della lotta per contendersi margini di profitto e spazi di mercato, e ha spinto alla concentrazione e centralizzazione che si è combinato con l’allocazione su scala internazionale di segmenti del ciclo produttivo, laddove questo richiedesse elevato impiego di manodopera e fosse possibile ottenere forza-lavoro a costi ridotti. I processi di concentrazione e centralizzazione di capitale hanno accentuato la finanziarizzazione dei capitali, tipica dello stadio imperialistico del capitalismo, così che questa ha assunto una dimensione e mobilità tali da costituire un fattore costante di potenziale destabilizzazione, aggravato dall’approfondimento del legame di interdipendenza che caratterizza il rapporto tra capitali e quello tra formazioni economico-sociali. Questa dinamica di crisi/sviluppo dell’imperialismo, è alla base dell’aumentato peso della borghesia imperialista che porta a far assumere agli Stati, e alla soggettività politica della borghesia, il ruolo dominante della centralità dei suoi interessi. L’interesse comune delle varie componenti nazionali di borghesia imperialista si coagula e trova realizzazione nell’affermazione di politiche di liberalizzazione, nella ristrutturazione delle diverse formazioni economico-sociali, funzionali a sostenere questo livello di concorrenza monopolistica e il mantenimento dei necessari livelli di governabilità delle conseguenti contraddizioni di classe, e nella definizione di politiche e organismi politico-militari atti a sostenere la penetrazione economica, l’aggressione e l’oppressione politico-militare nei confronti di paesi politicamente autonomi dagli Stati dominanti della catena imperialista, in relazione all’attuale ridefinizione degli equilibri internazionali.

Il carattere non espansivo del capitalismo, in questa fase storica, rende immediatamente tangibile che, se l’affermazione di queste controtendenze consente di contenere gli effetti della crisi, in realtà ciò si traduce in un approfondimento delle contraddizioni. Nei paesi del centro, la borghesia imperialista ha premuto o preme sui rispettivi Stati nazionali per la rifunzionalizzazione di tutti i fattori competitivi a partire dalla gestione della forza-lavoro e, complessivamente, del ruolo dello Stato nell’economia, con i conseguenti riflessi sul piano dei caratteri dell’assetto politico-istituzionale delle democrazie rappresentative per corrispondere ai nuovi termini di governo dell’economia e del conflitto di classe, e al ruolo che può essere svolto negli attuali equilibri internazionali. Su questi aspetti, la borghesia imperialista, tramite la soggettività politico-istituzionale, media con le altre componenti della borghesia. La pressione della borghesia imperialista sugli Stati si riflette nell’assunzione di ruolo, degli Stati stessi, nelle politiche centrali dell’imperialismo. Attraverso questo ruolo, corrispondente sia al peso assunto dalla competizione a livello internazionale che alla funzione politico-militare e diplomatica degli Stati, le varie componenti di B.I. ricercano condizioni politiche di vantaggio competitivo sul piano economico. Un ruolo che colloca l’autonomia e l’interventismo degli Stati, dentro il quadro integrato e interdipendente delle aree economiche (ruotanti intorno ai poli statunitense, europeo e giapponese), e nei rapporti di forza storici tra i paesi della catena imperialista, in dialettica con la funzione e l’azione di organismi interstatali (Ue, Nato, Fmi…). Queste condizioni costituiscono fattori di acutizzazione dello scontro di classe, ulteriormente accentuato dal carattere non espansivo dello sviluppo capitalistico, che produce conseguenze macroscopiche visibili negli elevatissimi livelli di disoccupazione e nell’incapacità del reddito da lavoro salariato di garantire la stabilità dei livelli di sussistenza, con una tendenza di fondo all’impoverimento. Per altro verso, le politiche centrali dell’imperialismo, per assestare le condizioni politiche ed economico-sociali rivolte ad approfondire la qualità della penetrazione economica degli interessi della borghesia imperialista nei paesi dipendenti, e in particolare nei paesi ex-socialisti, hanno costituito e costituiscono fattore di destabilizzazione di queste aree, e definiscono il quadro politico in cui si colloca l’avanzamento della tendenza alla guerra come portato delle contraddizioni intrinseche dell’imperialismo. Contraddizioni che vengono affrontate collocandone progressivamente la soluzione sul piano dell’accentuato intervento politico-militare, rivolto alla stabilizzazione del dominio imperialista. Nell’area regionale europea, la borghesia imperialista ha perseguito linee di integrazione e coesione economica, politica e militare, al fine di rafforzare la capacità di dare risposte comuni alle contraddizioni generate dalla crisi. L’ostacolo alla liberalizzazione dei mercati e alla dimensione internazionale della concorrenza tra monopoli costituito dalla frammentazione politica di una regione del centro imperialista, quale quella europea che è storicamente investita da tutti gli assi di contraddizione, quello proletariato/borghesia, nord/sud ed est/ovest, è stato affrontato dalla frazione dominante della borghesia imperialista con passaggi politici e indirizzi che rispondessero sia all’istanza di unificazione e integrazione dell’Europa in quanto mercato delle merci, dei capitali e della forza lavoro, sia a quella di una superiore attivizzazione sul piano delle politiche economiche, e sul piano politico e militare, degli Stati europei stessi che, isolatamente presi, sono privi della dimensione e capacità per svolgere un ruolo che affianchi gli Usa (e il Giappone) nell’affrontare le misure sempre più critiche richieste per il mantenimento del dominio imperialista. Un progetto che si è definito intorno al connotato di relazioni intestatari e non sovrastatali, e che esprime, nei rispettivi ambiti nazionali, lo strumento di pressione politica rappresentativa degli interessi comuni della frazione dominante della borghesia imperialista, e in particolare, del ruolo del capitale finanziario che, nell’imperialismo, tende a sussumere il capitale industriale. D’altra parte, tale progetto, ha risposto anche alle specifiche esigenze del capitale monopolistico a base europea, in quanto condizione per poter esercitare il proprio ruolo nella concorrenza internazionale, come richiedevano le nuove dimensioni dell’accumulazione capitalistica raggiunte nella crisi subentrata all’espansione della ricostruzione post-bellica e alle politiche liberiste avviate dal polo dominante statunitense. Nell’affermazione del processo di coesione europea una funzione centrale di spinta è stata svolta dalla Germania, nel suo ruolo di principale potenza economica europea, che si è ulteriormente accentuato con la fine degli equilibri di Yalta, con l’inglobamento dell’ex-Ddr e con l’esportazione di capitali nei paesi dell’est europeo e con l’influenza politica che vi esercita. Un approfondimento di ruolo economico a cui si è affiancato un intensificato riadeguamento della capacità di intervento militare e della legislazione che lo limitava, nel quadro dell’integrazione Nato e con l’assunzione di iniziative di creazione di strutture militari interforze a livello bilaterale nel quadro europeo (ad es. Francia). I differenti gradi di sviluppo delle singole formazioni economico-sociali appartenenti all’Ue e quelli all’interno delle stesse, con l’adozione di politiche economiche comuni, e con linee di riforma economico-sociale omologhe, costituiscono un fattore favorevole ai capitali monopolistici europei nella concorrenza sul piano internazionale, perché si avvantaggiano della competizione interna alla Ue stessa e ai singoli paesi, che viene imposta dalle politiche macroeconomiche, e incentivata dalle politiche specifiche. Al contrario questa dinamica condanna all’inesorabile declino quelle aree che non presentano sufficienti vantaggi competitivi e consente al capitale operante in Europa, nel suo complesso, di esercitare una forza superiore nella contrattazione salariale e nel mercato del lavoro. Un progetto, quello della coesione europea, che sta operando il passaggio cruciale dell’adozione di una moneta unica e si sta attrezzando politicamente e istituzionalmente per l’inglobamento organico dei paesi dell’est-europeo che riescono a stabilizzare quelle condizioni macroeconomiche che vengono valutate funzionali all’investimento di capitali (l’allargamento dell’Ue). Essa costituisce un nuovo ambito di relazione del quadro politico nazionale che si aggiunge a quello Atlantico di cui ne supporta il ruolo di dominio nell’area mediterraneo-mediorientale e nell’est-europeo, entro cui, e in riferimento al quale, costruire le condizioni politiche istituzionali e materiali che consentano ai suoi Stati di svolgere sia una funzione economica più adeguata alle attuali dimensioni dell’accumulazione capitalistica che un ruolo politico-militare più attivo e incisivo nelle aree in cui il dominio imperialista deve essere stabilizzato, affinché la Nato nel suo complesso sia capace di affrontare anche un conflitto in più teatri o generalizzato. Un ruolo che non è né antagonista al polo dominante statunitense né asservito ad esso, ma è unitario, a causa dei processi di internazionalizzazione e dei legami di interdipendenza che si sono storicamente affermati tra gli Stati dominanti della catena imperialista con la capillare presenza di capitali Usa in Europa e viceversa. Infatti le politiche controrivoluzionarie e militari, contemplate dal progetto di Unione Europea, e le politiche di allargamento ad est, trovano motivo di definizione in specifici interessi degli Stati europei, in modo complementare al progetto di ridefinizione del ruolo della Nato, in funzione sia del dominio imperialista verso i paesi dell’Europa orientale, balcanica e dell’area del mediterraneo-mediorientale, che del rafforzamento del dominio interno. E ciò perché la dimensione del capitale finanziario, la sua concentrazione e centralizzazione si è, fin dal dopoguerra, sviluppata trasversalmente nei paesi dominanti della catena, e in un ambito separato da quello del campo socialista, facendo prevalere sulle intrinseche, ma relative, istanze concorrenziali, quelle dell’interdipendenza tra i capitali monopolistici, e conseguentemente anche tra le formazioni economico-sociali, e si è progressivamente accentuata man mano che, nelle crisi, le tendenze e le politiche, approfondivano il grado di concentrazione e centralizzazione capitalistica. L’ambito integrato europeo pesa nel favorire queste tendenze del capitale e perciò anche la sua crisi di sovrapproduzione. Crisi che non può mutarsi in una fase espansiva se non per un passaggio di ingente distruzione di capitali e forze produttive che solo una guerra di estese proporzioni può produrre, come gli esiti non-espansivi dei processi di penetrazione nei paesi dell’est e delle aggressioni imperialiste, hanno ampiamente dimostrato in questi anni.

Sul piano delle relazioni politiche tra le classi, nella loro determinazione storica di fase, l’aspetto principale è lo spostamento dei rapporti di forza nella contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, uno spostamento dovuto all’attestamento di un processo controrivoluzionario. Un processo controrivoluzionario che, nei paesi del centro imperialista, e in particolare in Europa, si è dispiegato a partire dall’attacco militare e politico al ruolo che, la Strategia della Lotta Armata per il Comunismo, ha svolto come ridefinizione di una proposta politico-organizzativa adeguata a sviluppare il processo rivoluzionario nelle attuali forme di dominio dell’imperialismo. Una dinamica controrivoluzionaria che, con la crisi e la caduta degli Stati a transizione socialista, ha modificato le condizioni di forza che, a partire dalla Rivoluzione Sovietica, si erano prodotte nella contraddizione borghesia imperialista/proletariato internazionale. Sebbene questa condizione di vantaggio non sia assestata e sia impossibilitata ad eliminare il dato storico-politico prospettico che, la rivoluzione del ’17, ha fissato nella storia del proletariato e dell’umanità, gli assetti internazionali ne sono stati mutati profondamente, e alla situazione di sostanziale equilibrio strategico tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica e quelli del campo socialista, che aveva favorito i processi di autodeterminazione dei popoli dei paesi dominanti, è subentrata una situazione di squilibrio politico-militare a vantaggio della Nato, che ha visto sia l’intensificarsi dell’impiego della sua forza militare che dell’iniziativa politica per la legittimazione degli interventi, con la formulazione di principi di diritto che sanzionassero il nuovo quadro dei rapporti di forza internazionali, come quello dell'”ingerenza umanitaria” su cui l’Alleanza imperialista cerca di basare la giustificazione di un ruolo di gendarme e stabilizzare il retroterra politico sulla base del quale poter aggredire qualsiasi popolo, o come quello che riconosce la facoltà, ai tribunali degli Stati della catena, di processare qualunque combattente antimperialista a cui gli Stati imperialisti abbiano attribuito l’etichetta di criminale di guerra; fattori con cui si vuole ratificare lo stato dei rapporti di forza internazionali in un ruolo di dominio legittimato. Un quadro che, gli eventi bellici che si sono succeduti in questo decennio, si incaricano sia di dimostrare quanto esso sia la base sulla quale la tendenza alla guerra indotta dalla crisi di sovrapproduzione di capitale, si possa trasformare in processo reale, sia che la direttrice di questo processo, non è altro che la storica direttrice est-ovest, stante il grado di interdipendenza maturato tra gli Stati della catena imperialista, cementato dal comune attuale interesse di imporre il proprio dominio ovunque questo non si sia assestato o non sia realizzabile né per via economica, né con limitate offensive militari.

In Italia, il processo controrivoluzionario, avviato dai primi anni ’80, ha inciso in profondità, assumendo prioritariamente il piano dell’attacco alle forze rivoluzionarie e in particolare al ruolo delle Brigate Rosse e della loro proposta strategica, in quanto elemento caratterizzante lo sviluppo dell’autonomia di classe in Italia. Un processo che ha operato collegando il rapporto di scontro militare ad una strategia politica complessiva rispetto allo scontro di classe, tesa a separare il piano della lotta di classe dal piano rivoluzionario, e a sfruttare le contraddizioni interne al Movimento Rivoluzionario e alle stesse B.R., espressione delle tendenze critiche da sempre presenti nel movimento operaio e proletario ed espressione soggettiva del carattere contraddittorio del ruolo della classe nei rapporti socialisti capitalistici. Tendenze al soggettivismo, all’economicismo, all’idealismo che si sono espresse oppositivamente al passaggio politico-organizzativo allora in corso, cioè il passaggio di costruzione del Partito Comunista Combattente. Contraddizioni aggravate dalle difficoltà di distinguere i caratteri della proposta politica delle B.R., influenzati dall’essere nata in un ciclo di lotte fortemente offensivo, dagli elementi strategici che qualificavano tale proposta politica come avanzamento della strategia della rivoluzione proletaria nell’adeguamento alle forme di dominio e ai caratteri economico-sociali dell’imperialismo, in questa fase storica.

Il ricentramento dei termini dell’impianto politico-strategico, operato dalle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente, nel rapporto con lo scontro, secondo la dinamica prassi/teoria/prassi, pur costituendo, per parte rivoluzionaria, termine di approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, si è confrontato con le contraddizioni storiche che presiedono alle condizioni della Fase della Ricostruzione delle Forze in quella più generale di Ritirata Strategica, e si è prodotta una condizione di discontinuità nel percorso rivoluzionario. Il rafforzamento delle posizioni della borghesia realizzato con l’affermazione di questo duplice processo controrivoluzionario, sul finire degli anni ’80 comincia a riversarsi sul piano complessivo delle relazioni politiche tra le classi. L’articolazione della dinamica controrivoluzionaria è stata infatti, il piano su cui le forze politico-istituzionali hanno avviato un processo di riposizionamento intorno agli interessi della frazione dominante della B.I., modificando il riflesso sulle stesse, del ruolo che lo sviluppo del movimento di classe aveva prodotto sui caratteri generali dello scontro politico; un riposizionamento, che ha riguardato principalmente le rappresentanze istituzionali della classe. La necessità di evitare la congiunzione tra piano rivoluzionario e piano della lotta di classe, aveva, infatti, contenuto l’attacco alle condizioni complessive della classe; il consolidamento del processo controrivoluzionario, determina le condizioni per riversare l’offensiva su tutta la classe, in quanto i passaggi per sostenere il governo dell’economia, nei caratteri storici attuali dell’accumulazione capitalistica, potevano avvenire in un quadro ipotetico di governabilità del conflitto di classe.

In quegli anni le linee di politica economica, che avevano accompagnato la risposta dello Stato all’offensiva di classe e rivoluzionaria, dovendo sostenere l’accumulazione capitalistica e sufficienti margini di governo del conflitto, raggiungono un punto critico di fronte alla ridefinizione degli interessi della frazione dominante della B.I., in relazione ai nuovi termini di concorrenza intermonopolistica e in relazione alle contraddizioni aperte dall’approfondirsi della crisi, aggravate dalle condizioni di debolezza dell’Italia collegate al posto da essa occupato nella divisione internazionale del lavoro. La leva del debito pubblico, come sostegno alla domanda interna e alla produzione, e come fattore su cui costruire equilibri sociali intorno agli interessi della B.I., ha teso a saturarsi per i livelli raggiunti e per gli effetti dell’investimento di capitali, tali da incrementare il deflusso di risorse in favore dell’accumulazione finanziaria ed estera, anziché sostenere la produzione e il mercato interno.

La differenziazione valutaria come fattore di compensazione competitiva, rispetto alle economie di paesi dominanti, venne ridimensionata per l’aumento della spesa per interessi comportata dalla svalutazione, per i riflessi delle politiche di unificazione monetaria, e per l’interesse della frazione dominante della B.I., a favorire processi di concentrazione e centralizzazione di capitale e, della borghesia nel suo complesso, a ricercare la competitività del sistema economico. Tutto ciò, non ha peraltro impedito di ricorrere a svalutazioni che hanno portato la lira fuori dallo Sistema Monetario Europeo fino a quattro anni orsono. Anche il ruolo dello Stato come capitalista reale, è stato ridimensionato, a fronte delle politiche di liberalizzazione corrispondenti alle spinte alla concorrenza, alla concentrazione monopolistica multinazionale e al recupero di settori sottratti alla competizione internazionale.

La frazione dominante della B.I., espressa dal capitale monopolistico italiano, ha premuto sul quadro politico affinché si facesse carico di sostenere i nuovi termini di concorrenza connessi all’avanzamento del progetto di Unione Economico-Monetaria-Unione Europea, e più complessivamente, di collocarsi nelle politiche centrali dell’imperialismo, che si rapportavano alla modificazione degli equilibri internazionali, in quanto il ruolo dello Stato sul piano internazionale per sostenere gli attuali termini di concorrenza intermonopolistica, assumeva, in questo contesto, un peso ancor più significativo.

Questi elementi, tra cui l’approfondirsi di un ciclo recessivo, connessi all’avvenuta modifica dei rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione, fanno assumere, all’azione della soggettività politica della borghesia, e in particolare dei diversi esecutivi che si sono succeduti, un connotato offensivo e complessivo, rispetto ai rapporti con la classe, e i caratteri di un sempre maggiore attivismo politico-militare nel quadro dell’Alleanza Atlantica e della Nato. La crisi delle leve consolidate e strutturate attraverso cui le forze di governo avevano costruito equilibri sociali e politici intorno agli interessi della frazione dominante della B.I., spingendo a un riadeguamento dell’azione politica degli esecutivi, si riversava anche sugli assetti istituzionali, sul ruolo del potere esecutivo, legislativo, giudiziario, delle forze politiche, e sulle forme di rappresentanza. Ciò, connesso agli esiti dell’offensiva controrivoluzionaria, assumeva il carattere di una crisi e ridefinizione della mediazione politica; cioè della sintesi del rapporto di forza e politico tra borghesia e proletariato riferita sia al piano del rapporto sociale di produzione, che al piano del rapporto classe/Stato, che a quello dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, in una determinata fase storica. Sintesi dei caratteri storici, quindi, che informa gli aspetti di fondo di una fase, e cioè i connotati delle strutture politiche, e delle forme della soggettività politica istituzionale, e a cui, le politiche stesse devono riferirsi per essere efficaci. Il sistema politico-istituzionale del dopoguerra aveva esercitato il suo ruolo antirivoluzionario e antiproletario, attraverso l’istituzionalizzazione e la massima rappresentatività in sede parlamentare degli interessi conflittuali, per ricercare, in essa, equilibri politico-istituzionali rappresentativi di equilibri politici generali, che consentissero il governo dell’economia e del conflitto di classe, avvalendosi del ruolo dello Stato nell’economia, per sostenere forze politiche e maggioranze di governo, funzionali alla tutela degli interessi della frazione dominante della B.I.. I nuovi termini del governo dell’economia, collegati all’approfondirsi della crisi, che aveva già eroso la capacità di essere rappresentative delle forze politiche storicamente al governo, inducevano la necessità di ridurre la misura di rappresentatività con cui si dovevano andare a comporre maggioranze di governo, e quella di accentuare il ruolo dell’esecutivo rispetto al legislativo. Inoltre la modificazione degli interessi espressi dalla frazione dominante della B.I., premendo per un’azione offensiva antiproletaria degli esecutivi, comportava una necessità di selezione degli interessi rappresentabili in sede politica decisionale. La ridefinizione della mediazione politica, non ha assunto la tendenza di un superamento della democrazia rappresentativa, ma quella della ridefinizione dei caratteri particolari che essa aveva in Italia in relazione ai caratteri dello scontro di classe e rivoluzionario. Rispetto a questi elementi, si è verificata l’impossibilità, per le forze politiche, di operare una ridefinizione organica del sistema politico-istituzionale e dei poteri dello Stato, come progetto che consentisse di traghettare il sistema politico-istituzionale, espressione della fase storica precedente, nelle condizioni della fase attuale, creando quegli equilibri che permettessero di governare linearmente una ristrutturazione complessiva del sistema economico-sociale, ed in particolare del contenuto e del ruolo dello Stato sociale. La saturazione critica delle politiche economiche che avevano consentito di sostenere l’accumulazione capitalistica e il governo del conflitto di classe, come politica di gestione dell’offensiva controrivoluzionaria, si verifica sul finire degli anni ’80 quando, l’approfondimento della crisi, accentua la pressione del capitale monopolistico nazionale per l’adozione delle politiche controtendenziali che, a livello internazionale, si affermavano già come termine di sviluppo della crisi. Una pressione indotta anche dalla necessità di sostenere i nuovi termini di concorrenza intermonopolistica che si andavano definendo. Per cui, la frazione dominante della borghesia europea, ha premuto sugli Stati per l’adozione di politiche economiche aperte ai processi di concentrazione e centralizzazione del capitale monopolistico (è nell’87 che i responsabili della politica economica dei governi europei, sanciscono l’asimmetria degli accordi di cambio nello S.M.E., quindi l’impegno alla stabilità valutaria, solo per le monete sottoposte a svalutazione e non per quelle che si rivalutano, e assumono gli accordi di Basel-Nyborg, sulla liberalizzazione del movimento dei capitali, e sull’uso della politica dei tassi di interesse come strumento per la stabilizzazione dei cambi). Nel contempo si era avviata, con le aperture gorbacioviane, la prospettiva della ri-definizione degli equilibri internazionali che si presentava come possibilità di estensione della penetrazione capitalistica nei paesi del blocco socialista. In questo quadro, De Mita, sia come segretario della Dc, che come Presidente del Consiglio, nell’assunzione della necessità di ridefinizione complessiva della mediazione politica, richiesta dal dover corrispondere ai termini del governo dell’economia che si prospettavano per dare risposta alle spinte della borghesia imperialista e garantire la governabilità del conflitto di classe, tentò di attestare un progetto, e i relativi equilibri politici, che partisse dalla ridefinizione della rappresentanza politica e dell’assetto istituzionale. Questo per condurre il sistema politico in una condizione adeguata a sostenere lo scontro di classe, implicato dalla ridefinizione dei termini di governo dell’economia, che avrebbe investito complessivamente la regolamentazione dei rapporti sociali e politici tra le classi assestati nella fase precedente, processo che avrebbe inciso sulla rappresentanza politico-istituzionale. La concezione che sosteneva questo progetto ruotava intorno alla tesi che il processo controrivoluzionario avesse prodotto una condizione di modificazione dei rapporti di forza tra le classi e una ridefinizione delle forze politiche intorno agli interessi della B.I. L’attacco delle Br-Pcc al progetto di riforma dello Stato, attuato con l’azione contro Ruffilli in dialettica con l’opposizione della classe, e le contraddizioni interne al quadro politico-istituzionale legato anche ad altre frazioni della borghesia, impediscono l’affermazione del progetto. Dato il rapporto di guerra in cui le forze rivoluzionarie sono inserite, il vantaggio politico ottenuto con la realizzazione della disarticolazione degli equilibri che sottostavano al progetto di riforma dello Stato, non ha potuto trasformarsi in un lineare avanzamento del processo di ricostruzione delle forze, a causa delle operazioni di controguerriglia dell’88-89 a cui segue una condizione di discontinuità nell’iniziativa di attacco al cuore dello Stato e nella costruzione del complesso delle condizioni per l’avanzamento della guerra di classe. Così pure, la rottura degli equilibri internazionali, aveva indotto una condizione per la modificazione della divisione internazionale del lavoro e dei mercati, e una spinta della catena imperialista a riassestare gli equilibri a suo favore, e al suo interno, tra interessi comuni e contraddizioni. Il processo controrivoluzionario raggiungeva l’obiettivo del crollo degli Stati socialisti frutto della Rivoluzione sovietica e della resistenza all’offensiva imperialista, ma anche dell’operato revisionista delle dirigenze politiche della transizione. Questa evoluzione del quadro politico internazionale produceva una condizione economica e politica di accelerazione delle controtendenze di sviluppo della crisi, sulla direzione dell’internazionalizzazione, della concorrenza e della concentrazione monopolistica, in un quadro di permanenza in una condizione di non espansione. La frazione dominante della borghesia imperialista, perciò ha premuto sugli Stati per definire una progettualità politica che corrispondesse a queste condizioni, una progettualità che assumesse i caratteri dello specifico sviluppo che la politica centrale dell’imperialismo dell’Ue, nelle caratteristiche di Uem espresse con il trattato di Maastricht, determinava il progetto di Uem, i in particolare il trattato di Maastricht, definiva una prospettiva e un quadro di integrazione e concorrenza tra capitali monopolistici multinazionali, che accelerava le tendenze già in atto, scadenzandole e inquadrandole in politiche economiche restrittive e di liberalizzazione. La frazione dominante della B.I. ha premuto sul quadro politico-istituzionale per affermare i suoi interessi di concorrenza nel contesto europeo, una pressione che, se da un lato si è espressa contraddittoriamente rispetto ad altre componenti della borghesia, dall’altro ha espresso il loro interesse comune per scaricare sulla classe operaia e sul proletariato i costi della crisi; e che, date le modifiche dei rapporti di forza tra le classi prodottesi nella fase precedente, e le contraddizioni indotte dal governo dell’economia, ha sviluppato un’azione offensiva a tutto campo da parte della soggettività politica della borghesia. Il quadro politico-istituzionale italiano, ha visto, le forze qualificatesi nel processo politico come rappresentanze istituzionali della classe, ridefinire, già nella fase precedente, la loro collocazione intorno agli interessi della borghesia, sul piano controrivoluzionario e nella priorità della difesa dell’accumulazione capitalistica. Un processo graduale in cui la classe dirigente di tali forze politiche e sindacali, ha cercato di conservare il radicamento sociale assunto come rappresentanza istituzionale della classe, nella ricerca di formule politiche che mantenessero questa base sociale, ricollocandola intorno all’interesse della borghesia imperialista. Un processo scandito dall’assunzione delle ferme priorità: dell’adesione al progetto dell’Ue, dell’adesione alle politiche imperialiste di intervento nell’area mediorientale e balcanica, dell’adesione al superamento dell’ordinamento costituzionale, del riconoscimento della riforma dello Stato sociale etc. Una ricollocazione peraltro niente affatto priva di contraddizioni per il contrasto tra gli interessi da comporre. Le formule politico-sociali che erano state adottate dalle forze politiche che nel dopoguerra si erano collocate intorno alla priorità della rappresentanza degli interessi della B.I, per sostenere la capacità di governo del conflitto di classe, nel quadro dello sviluppo del processo rivoluzionario e della lotta di classe espressasi in Italia, informate come erano dal tipo di ruolo dello Stato nell’economia che aveva caratterizzato la fase precedente, avevano prodotto il costituirsi di vere e proprie componenti sociali della borghesia sorrette da questo sistema, la cui presenza all’interno dei partiti che avevano governato il paese, rendeva difficilmente governabile il processo di trasformazione e riadeguamento politico che doveva essere operato. Il processo di trasformazione che doveva svilupparsi ed è ancora in atto, a fronte dei nuovi termini di crisi-sviluppo dell’imperialismo, e nel contesto di una sostanziale modificazione dei rapporti di forza tra le classi in favore della borghesia, si definisce come una ristrutturazione e riforma complessiva del sistema economico-sociale per riadeguarlo agli attuali termini di concorrenza intermonopolistica e per ricollocarlo nel nuovo quadro di concorrenza internazionale, attraverso il ruolo esercitato dallo Stato nelle politiche centrali dell’imperialismo che, con la ridefinizione degli equilibri e delle relazioni internazionali, modificano le posizioni dei diversi sistemi economici nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Processo che mette in crisi il contenuto della mediazione politica su cui si era strutturato il sistema politico-istituzionale, entro cui la soggettività politica della borghesia aveva stabilizzato relativi termini di governo dell’economia e del conflitto di classe. Ciò che si è evidenziato negli anni ’90, è stato che l’aspetto principale sul piano della contraddizione Classe/Stato, quello che si presentava prioritariamente ed emergenzialmente, non è stato il riadeguamento dell’assetto dei poteri dello Stato, ma la costruzione di equilibri politici e sociali che potessero realizzare, nello scontro di classe, quella ristrutturazione e riforma complessiva del sistema economico-sociale e della relativa politica economica dello Stato, che sostenesse i nuovi termini di concorrenza intermonopolistica, e in essi, gli interessi della frazione dominante della borghesia imperialista. Ciò nelle condizioni che si andavano definendo in relazione alle modificazioni nel quadro europeo e internazionale. E’ quindi sui nodi politici dello scontro di classe legato alle priorità dell’attuazione di questo processo di ristrutturazione, che si sarebbe costruito quel processo di rifunzionalizzazione dello Stato e del sistema politico tendente a definirsi, sui contenuti e dagli equilibri politici che emergono in questo scontro, in un complessivo riassetto degli istituti e dei poteri da codificare in un nuovo ordinamento costituzionale. Le formule politiche ed economiche su cui si erano assestati gli equilibri politici e sociali che avevano consentito il governo dell’economia e del conflitto di classe, per i quaranta anni precedenti, erano minate dall’interno, e per sostenere l’interesse della frazione dominante della B.I., dovevano essere stravolte. La contraddizione era data anche dal fatto che, la modificazione dei rapporti di forza tra le classi collegata al processo controrivoluzionario, in realtà non si era affatto riversata, in termini generali, e di rottura storica, sulla legislazione che regolava i rapporti sociali tra le classi, nella riproduzione materiale, espressione dei rapporti politici attestatisi nella fase precedente.

Le modificazioni indotte da questo processo avrebbero avuto un portato critico sull’assetto politico-istituzionale. Tale assetto, per garantire l’accumulazione capitalistica di fronte al forte conflitto di classe, si era fondata su un sistema parlamentarista che, grazie alla massima rappresentatività della sede parlamentare, istituzionalizzava il conflitto. Gli equilibri di governo dovevano rappresentare la maggioranza reale nel corpo elettorale, il ruolo economico dello Stato era il contenuto materiale per garantire maggioranze parlamentari, espressione di diversi interessi di classe, da rendere compatibili con la priorità dell’interesse della frazione dominante della B.I. Il processo di ristrutturazione e riforma del sistema economico-sociale, attraverso la modifica della legislazione che lo regolava e delle relazioni politiche tra le classi formalizzate in essa, per corrispondere agli effetti dell’approfondimento delle contraddizioni di classe, spingevano e spingono a ridimensionare la rappresentanza reale e la mediabilità degli interessi, nelle sedi politiche decisionali. Il rafforzamento del potere esecutivo e la modificazione della rappresentanza degli interessi sociali in sede istituzionale, in modo da garantire il mantenimento della rappresentanza formale, svincolando la sede politica decisionale, sarebbe stato il piano su cui stabilizzare il governo del conflitto di classe nei nuovi termini di governo dell’economia. La modificazione dell’assetto istituzionale e costituzionale non si colloca a seguito del crollo di uno Stato per una rivoluzione di classe o a seguito di un conflitto tra Stati. C’è stato sì uno scontro rivoluzionario e un processo controrivoluzionario che ha modificato le relazioni politiche tra le classi e ha modificato i fattori che hanno caratterizzato la mediazione politica, ma non tale da qualificare il passaggio attuale come crisi di Stato. I motivi del riordino dell’assetto istituzionale originano dalla ridefinizione degli istituti e della materia legislativa attraverso cui lo Stato regola i rapporti sociali in funzione del sostegno ai caratteri storici dell’accumulazione capitalistica, una modificazione di portata complessiva, distinta dai normali interventi di politica economica, in questo incidono, come quadro di scontro in cui si svolge tale modificazione, i rapporti di forza e politici tra le classi, e la collocazione della formazione economico-sociale nella divisione internazionale del lavoro come condizione e margini economici di compatibilizzazione delle contraddizioni. Il tentativo demitiano quindi, mirava a costruire un equilibrio politico-istituzionale che, a partire dalla rifunzionalizzazione dei poteri dello Stato e del sistema politico-istituzionale, ponesse le condizioni per trasformare linearmente il sistema politico, come passaggio prioritario per affrontare e governare la ristrutturazione del sistema economico-sociale. Le contraddizioni indotte dallo scontro di classe e rivoluzionario, evidenziano come, la realizzazione di questo passaggio non si presentava come la codificazione degli equilibri politici tra le classi prodottisi nella fase precedente, ma la risultante, in sede politico-istituzionale, dello scontro di classe collegato alle nuove contraddizioni. La ristrutturazione e riforma del sistema economico e sociale, la sua priorità di fronte all’accelerazione delle politiche di integrazione europea, trova nel supporto tra esecutivo e sede neocorporativa, e nella assunzione di questa a sede di valenza istituzionale, la formula politica per costruire equilibri politici e sociali in grado di dare risposta alla contraddizione dominante nella fase, sul piano Classe/Stato, cioè affrontare tale priorità ridefinendo in essa i termini di governo del conflitto di classe. Una ridefinizione data dall’introduzione del contenuto neocorporativo nella legislazione riguardante la regolazione del sistema economico-sociale, e dalla trasposizione a tutti i livelli dello scontro di classe di strumenti repressivi e preventivi sia di carattere politico-giuridico che di ordine pubblico. Tale legislazione non risponde solo all’esigenza di finalizzare tutti i fattori economici e sociali al sostegno dell’accumulazione capitalistica nel quadro dei nuovi termini di concorrenza che pure è una precisa necessità, ma incanala le contraddizioni di classe al fine di collocarle sul terreno di una mediazione corporativa degli interessi. Con ciò la mediazione corporativa degli interessi sociali si coniuga con l’approccio riformistico e le istanze di ristrutturazione economico-sociale, per dare una base materiale alla governabilità, cercando di legare agli interessi della borghesia imperialista, quelli di settori di aristocrazia proletaria e di piccola borghesia, che storicamente costituiscono il referente sociale del riformismo. Un tentativo che, in particolare in un paese come l’Italia, impatta con l’erosione reale di vantaggi e tutele che, anche questi settori, hanno dovuto subire per gli effetti della crisi e delle politiche adottate, e perciò è intrinsecamente debole. Nel contempo il rapporto esecutivo-parti sociali, consente sia di sottrarre la funzione decisionale dell’esecutivo ad un potere interdittivo, in quanto le parti sociali, a differenza della rappresentanza parlamentare non hanno titolo ad intervenire nella decisione politico-legislativa, che di costruire equilibri politici nel paese atti a dare governabilità alle forzature e di definirne la sostenibilità reale, nel rapportarsi ad apparati radicati nel tessuto sociale perché vi svolgono un ruolo di soggetti della contrattazione tra capitale e lavoro. Un ruolo ridefinitosi in chiave neocorporativa sulla base di una rappresentazione dell’interesse della classe operaia esclusivamente come merce forza-lavoro, componente del ciclo di accumulazione capitalistica, alla quale viene riconosciuta solo una legittimità di contrattazione del proprio prezzo e condizioni d’uso, nel quadro di una subordinazione alla priorità del processo di accumulazione di cui essa è considerata solo funzione. Un ruolo di contrattazione riconosciuto come fattore economico funzionale in quanto garante della lineare gestione dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Ruolo economico-sociale che può mettere in grado di sostenere la governabilità nell’attuazione delle politiche che vengono definite, mentre nella sede neocorporativa, l’esecutivo, espressione di una maggioranza parlamentare, come espressione dell’interesse generale del paese, dovrebbe garantire la corrispondenza tra accordo in sede di trattativa neocorporativa e produzione legislativa. La ristrutturazione e la riforma del sistema economico e sociale, nel quadro del progetto di Ue-Uem, e la relativa ridefinizione delle forme statuali e istituzionali, è la contraddizione dominante sul piano Classe/Stato, la negoziazione neocorporativa Stato/parti sociali, è stato il perno del progetto che ha costruito gli equilibri politici e sociali che hanno consentito di garantire il governo del conflitto di classe, la mediazione neo-corporativa è il contenuto generale della composizione di interessi che viene operata e il piano di trasformazione della mediazione politica che lo Stato vuole assestare, come base di un processo più complessivo di ridefinizione che si sviluppa sia sul piano dell’assetto dei poteri dello Stato che del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo e dei suoi piani di guerra nell’area Europa Mediterranea Mediorientale. Nel breve-medio periodo i caratteri della contraddizione dominante sul piano Classe/Stato sono riferibili nel complesso al passaggio che realizza l’integrazione monetaria europea, informato dai criteri e dai vincoli concreti del patto di stabilità, alle tendenze recessive, all’intensificazione dell’intervento politico militare e diplomatico rivolto ad estendere e stabilizzare il dominio imperialista. Per cui si rinnova e approfondisce sia la necessità di un controllo centralizzato di tutti i fattori del mercato delle merci e della I.I., che segue al passaggio ruotato intorno al risanamento del bilancio statale e al controllo dell’inflazione finalizzato a garantire l’ingresso dell’Italia nella moneta unica, che di equilibri politici solidi che sostengano l’interventismo politico-militare. Il triennio che si è aperto dal primo gennaio del 1999, si concluderà con la sostituzione delle monete nazionali con la moneta unica europea, che sancisce l’avvenuta integrazione economica. Un triennio durante il quale i rapporti economici e monetari tra i paesi dell’area euro vengono regolati dai patti di stabilità che costituiscono un approfondimento dei vincoli macroeconomici fissati da Maastricht e dovrebbero garantire la possibilità di attribuire all’euro, il valore di scambio voluto per sostenere il capitale finanziario europeo nell’ambito della competizione globale. Dato il nesso tra deficit di bilancio, indebitamento, Pil e valore di mercato dell’Euro, il controllo sulla spesa statale continua ad essere un asse della politica economica in funzione dell’osservanza dei vincolo posti dal patto di stabilità. Questa condizione e l’approfondimento dell’integrazione, omologa le politiche economiche dei diversi paesi europei, sul piano delle politiche di bilancio e per la liberalizzazione, per l’apertura alla concorrenza. Il tendenziale risanamento del bilancio statale italiano e il taglio dei tassi di interesse bancario, secondo i parametri di Maastricht, il controllo dell’inflazione assunto nel corso degli ultimi anni, attraverso la politica dei redditi, sono i presupposti su cui l’equilibrio politico dominante ha inteso procedere a un completo riassetto, che andasse dai livelli della contrattazione, a quello degli incentivi, dalla decurtazione del costo del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali, dal riordino delle forme contrattuali, alla prosecuzione graduale della riforma del sistema pensionistico, dal riordino dell’organizzazione dell’impiego della forza-lavoro (orario di lavoro) alla revisione progressiva delle norme sulla licenziabilità, dalla riforma della rappresentanza, alle politiche per la programmazione industriale e il relativo impiego di risorse pubbliche interne o UE. Riassetto complessivo tanto più necessario e urgente per l’accumulazione capitalistica, a fronte dei riflessi negativi che la crisi asiatica ha prodotto sulla competitività delle merci italiane e sui profitti, e all’impatto economico negativo che ha la guerra alla Jugoslavia. L’esigenza di governabilità, per essere assicurata, ha visto affiancare al disegno teso a comprimere il costo diretto e indiretto della forza-lavoro, a flessibilizzarne prezzo e condizioni di impiego, a cancellare o comprimere certe garanzie e sicurezze sociali, un tentativo di promozione di uno sviluppo competitivo che stimolasse e attirasse nuovi investimenti e profitti anche attraverso un limitato e selettivo impiego della spesa pubblica, in una formazione economico-sociale come quella italiana che è tra le più fragili tra i paesi del centro imperialista, e questo ha cercato di costituire il terreno di un consenso sociale che bilanciasse le contraddizioni generate dalle misure adottate e che l’approfondimento della crisi accentuerà. Il problema dell’accrescimento del Pil o quantomeno della sua tenuta nell’attuale contesto di crisi, e la contraddizione della disoccupazione, condizione comune a tutti i paesi europei (ma che in Italia assume un particolare connotato di stabilità), e spinta ad acuirsi dalle politiche economiche adottate nel quadro europeo, pongono urgentemente il problema dello sviluppo, mentre la caduta delle residue barriere all’integrazione dei mercati con l’adozione di politiche per la liberalizzazione che acuiscono la concorrenza, pone il problema dell’assunzione di un indirizzo teso alla competitività in generale dei fattori produttivi, come condizione strategica per sostenere i vincoli dei patti e nel contempo contrastare le tendenze recessive per conservare la collocazione occupata dal paese nell’Uem e nella catena imperialista. Un indirizzo di competitività, e per uno sviluppo ad essa congruo, che rinnova e approfondisce l’adozione di una linea e di un controllo centralizzato di politica economica e su tutti i fattori di mercato, che pone al centro le istanze di flessibilizzazione della forza-lavoro e di compressione del costo del lavoro nelle sue diverse variabili. Questa linea che pone al centro queste istanze e che viene propagandata come funzionale allo sviluppo economico e sociale, denuncia le sue motivazioni strettamente difensive, attraverso le previsioni di crescita per l’anno in corso, che sono ben lontane, essendo inferiori della metà, da quelle solo molto relativamente rosee del 2,5%, rispetto alle quali veniva proposto lo scambio tra conquiste del movimento operaio sul piano del diritto del lavoro, e sviluppo, cioè occupazione. Una prospettiva su cui oltretutto, a breve termine, incide negativamente l’impegno bellico per il rastrellamento di risorse che dovrà essere effettuato per sostenere le spese, e nella quale, in generale, le spese di riarmo che dovranno essere effettuate per svolgere il ruolo politico-militare corrispondente agli interessi della borghesia imperialista, previsto dai nuovi indirizzi strategici della Nato, ipotecano gli indirizzi di gestione del bilancio e le linee della programmazione economica. Per l’attuazione di queste politiche è perciò fondamentale il rapporto tra Esecutivo e sindacato confederale per la funzione economica che questi svolge nella contrattazione tra capitale e lavoro e, sulla base di questa, per la sua corresponsabilizzazione politica in un cambiamento che necessita tanto dell’estensione capillare del suo ruolo, che di una certezza della rappresentatività e capacità di rappresentazione dei soggetti della contrattazione, secondo regole che selezionino a priori la compatibilità delle istanze sociali con le politiche economiche che informano il quadro generale dei contratti di lavoro, e la disponibilità a contenere l’azione conflittuale. Da queste istanze nascono le linee rivolte sia all’inglobamento, attraverso queste regole, di nuovi soggetti sindacali, che all’allargamento della negoziazione centralizzata a un arco più ampio di forze sociali; di qui nasce, anche un sistema sanzionatorio più rigido, e conciliatorio più diffuso e stringente. Se è solo nell’ambito della sede neo-corporativa e delle relative politiche che l’affrontamento di questi passaggi può trovare avanzamento, la contrazione della base produttiva e la crisi occupazionale – accentuata dalle politiche economiche adottate in questi anni, e aggravata dalle prospettive di approfondimento del ciclo recessivo internazionale- , costituiscono un forte fattore di contraddizione nel ruolo di questa sede, in particolare nella capacità del sindacato confederale di garantire la tenuta delle politiche che vengono adottate. Intorno all’asse del neo-corporativismo, e intorno a questi equilibri, si sono definiti e dovranno definirsi anche passaggi di rifunzionalizzazione dello Stato: dall’accentramento di ministeri economici, alla riorganizzazione della pubblica amministrazione, dalla riforma fiscale nel senso del sostegno diretto della fiscalità generale al profitto e all’accumulazione capitalistica e del federalismo fiscale, alla rifunzionalizzazione del ruolo delle amministrazioni locali nel senso del rafforzarne il ruolo di esecutivo locale attraverso il decentramento, alle privatizzazioni e alla ridefinizione in senso privatistico dell’intervento economico dello Stato. La necessità che si presenta per un equilibrio politico in cui i Ds hanno ruolo centrale, in un passaggio come quello attuale, è quella di dare soluzione alla contraddittorietà intrinseca di questo modello politico che vede due canali di legittimazione, attraverso il rafforzamento del ruolo politico dell’Esecutivo, con un maggior intervento di proposta legislativa, nell’opera di mediazione tra l’ambito della negoziazione neo-corporativa e quello parlamentare. La rinnovata funzione dell’Esecutivo e della componente Ds-Cgil, nel mediare le funzioni di questi ambiti, nella ricerca dell’equilibrio sufficiente a sostenere il complesso delle politiche che vanno adottate per governare la crisi e il conflitto, ha stagliato il ruolo centrale che vanno ad assumere quei soggetti che rappresentano l’Esecutivo nella sede negoziale, anche nel costruire le condizioni dell’unità di questa stessa componente politica. L’affermazione del progetto di ridefinizione del sistema economico-sociale e del ruolo dello Stato nell’economia, con le politiche neocorporative, se ha dato risposta alla contraddizione prioritaria ed emergenziale, è avvenuta in un contesto di permanente instabilità del quadro politico-istituzionale. Un’instabilità che, però, non ha affatto impedito allo Stato di effettuare quei passaggi politici che costituivano interessi vitali per la frazione dominante della B.I. Le ragioni di questa instabilità si presentano relativamente al ruolo dell’esecutivo, un ruolo che è stato rafforzato con la riforma della Presidenza del Consiglio, e progressivamente incrementato con forzature rispetto al rapporto con la dialettica parlamentare, con gli strumenti della decretazione, del ricorso alla fiducia, dell’introduzione del voto palese, dei vincoli di copertura finanziaria per gli emendamenti, delle deleghe legislative etc. Un ruolo che, di fronte alla crisi della rappresentanza politica, si è ulteriormente rafforzato. Non essendo però sancito formalmente, il suo rapporto con le forze politiche di maggioranza è attraversato da instabilità. Permane infatti la difficoltà a formare maggioranze di governo omogenee e stabili e, nonostante l’introduzione di un sistema elettorale maggioritario, non c’è stata una semplificazione del quadro politico. Gli schieramenti politici odierni non sono equivalenti rispetto al riconoscimento della sede neocorporativa, nè nel rapporto con il sindacato confederale, disparità che sottopone l’impianto neocorporativo, non nel suo contenuto, ma per il sistema di relazioni e l’equilibrio che lo deve sostenere, al rischio di rimessa in discussione in relazione al prevalere o meno di un determinato equilibrio parlamentare, oppure lo eleva a criterio selettivo dell’equilibrio capace di dominare, in contrasto con il sistema formale. Questo, in un quadro in cui la sede neocorporativa ha assunto un particolare ruolo istituzionale, e ha valenza nel far avanzare gli interessi della B.I., nella governabilità, costituisce elemento di contraddizione. La ridefinizione dei poteri locali, avvenuta con la riforma elettorale per i Comuni e per le Regioni, e con i provvedimenti tesi a rafforzare il decentramento amministrativo e il federalismo fiscale, non ha una collocazione istituzionale definitiva, e impedisce a questi poteri di esercitare un ruolo stabile e funzionale alla possibilità di utilizzare le significative diversità economico-sociali, come fattore di frammentazione del conflitto di classe e di ricomposizione corporativa degli interessi sociali su una base di mediazioni locali sul criterio della unicità di interessi alla competitività delle realtà territoriali. In questi anni si è evidenziata la difficoltà da parte del quadro politico di effettuare dei passaggi di avanzamento sul piano della riforma istituzionale. Le realizzazioni su questo piano hanno riguardato l’aspetto della riforma elettorale e sono state introdotte tramite forzature maturate all’esterno delle sedi parlamentari. Il fallimento della Bicamerale D’Alema, ha dimostrato l’impossibilità di separare, il piano delle riforme istituzionali, dallo scontro di classe e dai riflessi sul quadro politico-parlamentare. La frammentazione del quadro politico è da riferire alla difficoltà, nonostante l’introduzione del sistema maggioritario, di coniugare il posizionamento delle principali forze politiche intorno agli interessi della B.I. con la rappresentanza di interessi sociali di altre classi, in modo da raggiungere un consenso ampio tale da eliminare la pressione di interessi non omologabili. Il Prc e la Lega esprimono questa contraddizione, ma anche la necessità e la funzione di garantire, attraverso la rappresentanza in sede parlamentare, l’istituzionalizzazione di istanze di classe o di interessi particolaristici della borghesia concorrenziale. Per il Prc, significativo è stato il ruolo svolto di compattare settori del movimento di classe intorno agli indirizzi politici antiproletari del governo Prodi. Altro aspetto critico è l’affermazione di soggetti politici, quali F.I., A.N. e Lega, estranei all’arco delle forze costituzionali, espressione di un personale politico che, non essendosi selezionato nella fase storica precedente, evidenzia un’inidoneità a rapportarsi ai caratteri della mediazione politica storicamente definitasi, e quindi ad esprimere una capacità di governo in grado di intervenirci calibratamente, che, nel passaggio del governo del Polo e nelle posizioni assunte rispetto alla Bicamerale per le riforme, ha dimostrato la inadeguatezza di questo schieramento a garantire governo dell’economia e del conflitto di classe, ma anche a saper collocare il proprio interesse particolare nel far affermare l’interesse della frazione dominante della B.I. come interesse generale, tra cui le ambigue posizioni rispetto ai passaggi dell’Uem. Una contraddittorietà acuita dall’anomalia della figura di Berlusconi e del suo gruppo di potere, ma soprattutto legata all’estraneità alla sede neocorporativa e a componenti sociali che organizzino e rappresentino significativamente interessi di settori proletari intorno agli interessi della borghesia. Infine, altro aspetto, è l’impossibilità di azzerare la soggettività politica sulla base del criterio della opportunità di introdurre formule di ingegneria istituzionale. E’ il caso ad esempio, del P.p.i. erede di quella componente della D.C. che più di tutte ha rappresentato gli interessi della frazione dominante della B.I., in equilibrio tra interessi atlantici ed europei, inquadrando intorno ad essi, componenti sociali quali Cisl, primo tra i sindacati a proporsi in un ruolo neo-corporativo e a rinnovarlo con il coinvolgimento dell’associazionismo e della finanza cattolica, componente politica che ha espresso il suo ruolo anche attraverso le massime figure istituzionali. Le modificazioni dell’assetto politico-istituzionale sono quindi derivanti dal processo politico collegato agli sviluppi dello scontro di classe e alle contraddizioni prodotte dal governo dell’economia e del conflitto sociale. Un processo politico che ovviamente con ha un rapporto meccanico con lo scontro di classe, ma contempla un ruolo attivo, e offensivo, della soggettività politica, un rapporto che si esprime come riflesso dialettico sulla sede politico-istituzionale che ha una autonomia relativa rispetto ai rapporti di forza tra le classi. Un processo che, in una irriducibilità del quadro politico-istituzionale a semplificazioni bipartitiche, si snoda intorno alla difficoltà di costruire due coalizioni idonee a sostenere una dinamica di alternanza tra equilibri politici di governo, in grado di rappresentare una continuità dell’azione del governo intorno agli interessi della frazione dominante della B.I., adeguata ai rapporti di forza reali tra le classi, e quindi all’equivalenza rispetto alla sede neocorporativa. Un processo che avviene nel posizionamento delle forze politiche intorno ai nodi congiunturali dello scontro politico, che ha visto un assestamento della posizione dell’Italia intorno ai passaggi che ne riguardavano il ruolo nelle politiche centrali dell’imperialismo, ma che ha caratteri maggiormente critici sul piano interno e della politica economica. Un ruolo particolare in questi anni è stato svolto dal Pds che ha sostenuto organicamente le politiche di riforma e ristrutturazione economico-sociale e di forzatura degli assetti politici. All’interno del Pds è D’Alema che ha operato alla costruzione degli equilibri politici che hanno sostituito il governo Berlusconi e ricondotto, l’opposizione di classe ad esso, in un ambito funzionale all’esercizio di un ruolo di governo. Un ruolo politico che ha incontrato, con la paralisi della Bicamerale da lui presieduta, una caduta significativa, per la presunzione di pervenire ad un riordino complessivo dell’assetto costituzionale e istituzionale, in una piena autonomia della sede parlamentare dalle contraddizioni derivanti dallo scontro di classe e dagli effetti dell’operato dell’Esecutivo. Un ruolo quello di D’Alema, e dei Ds in generale, che viene rilanciato dalla responsabilità assunta, dal suo governo, con il pieno impegno dell’Italia nell’attacco alla Jugoslavia, responsabilità che gestisce le continue forzature con un’articolata tattica di progressive ratifiche parlamentari al coinvolgimento delle forze armate italiane nella infame e folle aggressione al popolo Jugoslavo, ed è sorretta da una volontà politica ad andare fino in fondo, consapevole sia del rischio costituito dal manifestarsi di segnali di debolezza per un equilibrio politico strutturalmente fragile, che del processo di selezione che è in corso all’interno della Nato. Seppure il Ppi, per il ruolo del suo personale politico, abbia spesso formulato le basi per la definizione di passaggi corrispondenti ai reali equilibri parlamentari e quindi adeguati ad affermarsi, la coalizione di centro-sinistra come maggioranza politica e come coalizione dell’Ulivo, non costituisce una formula politica stabile, né si potrà istituzionalizzare la prassi della unificazione della coalizione intorno alla designazione della figura che viene proposta come presidente del consiglio come sintesi dell’equilibrio politico raggiunto all’interno della coalizione stessa. Già la caduta del governo Prodi e l’uscita di Rifondazione dalla maggioranza, dimostrarono come permanesse un processo di trasformazione delle forze e delle formule politiche, processo riconfermato dal successivo definirsi del progetto Prodi-Di Pietro, teso non solo ad una semplificazione del quadro politico, ma anche ad assumere ruolo in essa, definendo un soggetto di centro-sinistra che superasse gli attuali partiti che compongono la coalizione dell’Ulivo, progetto che l’incarico di Prodi alla Presidenza della Commissione Europea ha ridimensionato in modo sostanziale. Un processo di trasformazione critico, a causa della difficoltà della coalizione di centro-sinistra a tradurre le scelte politiche di chiaro connotato antiproletario adottate dal suo Esecutivo, in formazione di un consenso elettorale sufficiente ad ottenere una maggioranza parlamentare. Un processo in cui dapprima, la ricerca di semplificazione, attraverso l’accentuazione del meccanismo elettorale maggioritario, ha impattato sull’esito referendario, decretando il concludersi di una stagione di forzature extraparlamentari legittimate con il voto referendario; poi, avendo la compattezza della coalizione, subìto una frattura con l’elezione di Ciampi alla Presidenza della Repubblica ed essendosi determinata una ridefinizione dei rapporti politici interni a vantaggio dei Ds, si è riaperto alla prospettiva di riforme istituzionali. Sul piano internazionale dominano, il quadro della crisi economica e finanziaria con le sue prospettive di recessione mondiale, in particolare con il tracollo dell’economia giapponese, e la crisi economica sociale e politica che investe in specifico la Russia. All’interno di questo contesto si colloca l’offensiva Nato contro la Jugoslavia, con il pretesto di una “crisi umanitaria” nel Kosovo, passaggio odierno, e salto di qualità di quel processo di destabilizzazione e successiva normalizzazione imperialista dell’area balcanica e dei paesi dell’est europeo, su cui si è andato ridefinendo il ruolo della Nato e dell’Ue e dei loro Stati membri. Un ruolo che si colloca nel mutare dei termini della contraddizione est-ovest, non più imperniati sulla contrapposizione di sistemi economico-sociali e sulla deterrenza nucleare, ma sulla penetrazione economica e del modo di produzione capitalistico, operata in funzione della ricerca di nuovi ambiti di investimento di capitali, di forza-lavoro a basso costo e di nuove quote di mercato, con cui contrastare la crisi del capitale. Penetrazione economica e del modo di produzione capitalistico, che impossibilitata, non solo a prospettare uno sviluppo economico per queste aree, ma anche solo a mantenere, seppure nel medio-lungo periodo, gli storici livelli di sviluppo delle forze produttive e di risorse sociali, e che perciò non può essere sostenuta solo con i tradizionali strumenti usati negli ultimi decenni. Perciò il ruolo di Nato, Ue e Stati imperialisti, si è qualificato nel costruire le condizioni che la consentissero, attraverso la destabilizzazione politica, l’intervento bellico diretto, oppure attraverso l’integrazione dell’Alleanza Atlantica di alcuni Stati ex-socialisti, e , per governare le contraddizioni economico-sociali che genera questa penetrazione e il loro sviluppo politico, è stata attuata una strategia di annientamento di quegli Stati che rappresentavano punti di autonomia politico-militare, per l’assoggettamento politico e per l’insediamento militare, e per allontanare il fronte dai paesi del centro imperialista, e stringerlo intorno alla Russia e agli altri paesi non assoggettabili né semplicemente con la dipendenza economica, né con limitate offensive politico-militari. Processo in cui possono costruirsi le condizioni e le forzature politiche interne al rapporto Classe/Stato nei vari Stati europei, che mettano in grado di sostenere, nella Nato, questo complesso ruolo politico-militare nei confronti dell’Est europeo e dell’area mediterraneo-mediorientale. Un processo che, con i passaggi interni alla costruzione dell’Unione europea, e in particolare sul piano delle politiche repressive e controrivoluzionarie (Schengen), con la rifunzionalizzazione e il rafforzamento delle forze armate e di polizia, con la partecipazione attiva degli Stati europei alle iniziative militari Nato, con il rafforzamento della complementarietà tra Nato e Ue, nella funzione di quest’ultima di allargamento verso i paesi dell’est europeo, costituisce una dimensione idonea per mettere in grado i singoli Stati europei, di sostenere una proiezione offensiva su un piano politico-militare degli Stati Uniti. Processo che trova proprio nell’attestamento della mediazione politica in senso neo-corporativo, la principale base di attuazione e sviluppo, per un paese come l’Italia che svolge un ruolo cardine nella Nato, per la sua storica funzione di portaerei nel Mediterraneo, e che vede nella penetrazione in quest’area e in quella dell’Est europeo, uno sbocco non solo per il capitale monopolistico, ma anche, per quel capitale a più bassa concentrazione e centralizzazione investito in settori maturi, che può trovare quote di mercato e occasioni di investimento laddove vada costruito o ricostruito un intero tessuto economico (vedi la funzione svolta dall’Albania), interessi comuni a frazioni di borghesia per i quali, l’intervento politico-militare dello Stato in queste aree, costituisce una mediazione politica. Il carattere dell’aggressione alla Jugoslavia, costituisce un ulteriore significativo approfondimento nel costruirsi delle condizioni per cui, la tendenza alla guerra accelerata dall’approfondimento della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali, può trasformarsi in effettivo sbocco bellico generalizzato per la sua maturazione, rivolta a forzare ulteriormente il rapporto con la Russia attraverso la completa esautorazione del ruolo dell’Onu; per il suo contenuto politico, attraverso il salto di qualità dell’intervento militare diretto e aperto della Nato che sulla base del principio dell’ingerenza umanitaria ha fondato la legittimazione formale dell’aggressione, e ha attestato il consolidamento della riformulazione della propria concezione strategica, riadeguata agli attuali caratteri economico-politici dell’imperialismo che vedono nell’accentuazione dei processi di internazionalizzazione del capitale i motivi della ridefinizione degli strumenti di dominio, nella direzione della tutela della penetrazione economica laddove le condizioni politiche degli Stati la consentano, e nella direzione dell’insediamento politico-militare e della costruzione delle condizioni politiche istituzionali e militari necessarie a stabilire l’ordine dei rapporti sociali capitalistici, laddove esistano sistemi politico-statuali che esprimano termini di autonomia rispetto all’ordine imperialista o formazioni economico-sociali che non riescano a strutturare un ordinamento politico-istituzionale funzionale ad un’economia di mercato. Un’aggressione che vuole affermare il principio dell’ineluttabilità dell’intervento militare nel caso della non accettazione dei dettami politici della Nato e che è espressione dell’organicità dei rapporti Usa-Ue; che è apice pratico di quel processo di rifunzionalizzazione del ruolo imperialista e controrivoluzionario da sempre svolto dalla Nato, nel quadro degli attuali equilibri internazionali, e in cui infine, lo Stato italiano non ha affatto assunto una posizione servile nei confronti del polo dominante Usa; ma si è collocato in prima linea per rappresentare gli interessi della propria borghesia e coniugarli con quelli delle altre borghesie dei paesi dominanti della catena. Un processo di rifunzionalizzazione della Nato e del ruolo dei singoli Stati imperialisti in essa, che non è affatto privo di contraddizioni, che si deve imporre sulle resistenze che trova all’interno dei paesi e deve contrastare le tendenze al coagularsi dell’opposizione alla guerra in opzioni offensive e rivoluzionarie; processo contro il quale, in Italia, già nel 1994 i Nuclei Comunisti Combattenti collocarono la propria iniziativa offensiva contro il Nato Defence College, in occasione del Vertice Nato di Bruxelles con cui si sanzionavano le linee del Nuovo Ordine Mondiale, in un quadro più complessivo di iniziative politico-militari del Movimento Rivoluzionario attuale in questi anni, contro la Nato e, che recentemente si sono affiancate ad attacchi al ruolo dei Ds nella guerra imperialista alla Jugoslavia, in dialettica con la tendenza dell’autonomia di classe a dare un contenuto offensivo alla opposizione all’imperialismo. Sul piano politico europeo le velleità di un riformismo sociale non liberista a cui in particolare in Italia aveva guardato il Prc, decadono con l’uscita di scena di Lafontaine dapprima, e poi con l’inizio dell’aggressione alla Jugoslavia, e il procedere di un processo di convergenza delle maggioranze politiche dei paesi europei verso equilibri politici di governo analoghi e politiche economiche omologhe, si è venuto a misurare con l’impegno comune nella guerra, nuovo piano su cui si dovranno assestare sia questi equilibri che le politiche economiche che dovranno essere adottate per reperire le risorse per sostenere la guerra e la spesa per il riarmo e il riassetto militare necessario, che i progetti per garantire i necessari termini di governabilità interni. In questo quadro si colloca il recente Vertice Nato di Washington che avrebbe dovuto sanzionare la nuova strategia Nato, l’adesione ad essa di ex-membri del Patto di Varsavia, e anche l’esito dell’offensiva contro la Jugoslavia. A causa della guerra in corso, ha dovuto avere funzione di costruire alcune condizioni per proseguirla e per concluderla raggiungendo l’obiettivo politico di scardinare l’assetto politico Jugoslavo. E’ ora infatti questa guerra la cartina di tornasole della validità della nuova dottrina, e della sostenibilità del ruolo che la Nato si è data. Un vertice a cui manca la Russia, formalmente invitata a svolgere un ruolo di mediazione tra la Nato e la Jugoslavia, per evitarne una palese umiliazione che la destabilizzi ulteriormente, in realtà delegata ai margini del quadro internazionale, in attesa del suo turno. Un vertice che lo stesso recente plebiscitario voto del Parlamento Usa al finanziamento dello scudo satellitare anti-missili balistici, progetto rimasto per anni fermo, indica quanto sia indirizzato a strutturare le linee del nuovo ordine mondiale, ossia di un dominio imperialista che deve essere imposto con la forza. Nel quadro generale di processi e tendenze presenti a livello europeo e internazionale, in Italia, il governo, i sindacati confederali, la Confindustria e altre sigle del mondo della piccola e media impresa e sindacali, firmano, nel dicembre del 1998, il “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”. Il Patto rinnova le linee di politica dei redditi già presenti nel ’93, e ne rilancia i contenuti di fondo, a partire dal principio che sono le imprese il motore primo dell’occupazione, e perciò, il destinatario del sostegno dello Stato, e in funzione dell’emergenza occupazione, approfondisce il ruolo della politica dei redditi nella direzione di un intervento che si articola a tutti i livelli di governo, dal nazionale al regionale al locale, e continua e riferirsi ai criteri macroeconomici di controllo dell’inflazione e del deficit pubblico, stabilendo un rapporto più organico tra negoziazione e processi decisionali interni e U.E. A sostegno di questi obiettivi e delle politiche “per lo sviluppo e l’occupazione” e della “programmazione dei fondi strutturali 2000-2006″, che il patto delinea, viene disegnata la struttura della negoziazione corporativa come un articolato che attraversa tutti i livelli di governo e capillarmente, come un vero e proprio assetto di carattere istituzionale che palesa in modo esplicito, tutta la sua funzione non solo economica, ma anche politica, di natura antiproletaria e controrivoluzionaria, quando viene previsto che la concertazione si rafforzi nel campo dei servizi di pubblica utilità, anche attraverso l’attivazione di sedi di confronto, regole, e istituzioni specifiche, “in particolare laddove si registrano un tasso di conflittualità elevato e forti esternalità verso il sistema economico e sociale”!! Il carattere corporativo, antiproletario e controrivoluzionario di questa impalcatura economico-politica è inequivoco e profondo, perciò in questo progetto politico la nostra O. ha individuato il ruolo politico-operativo svolto da Massimo D’Antona, ne ha identificata la centralità e, in riferimento al legame tra nodi centrali dello scontro e rapporti di forza e politici generali tra le classi, ha rilanciato l’offensiva combattente, secondo i criteri dell’attacco al cuore dello Stato, cardine della Strategia della Lotta Armata per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato. Con questa offensiva, mirata a ostacolare lo sviluppo programmatico del progetto centrale, che è teso ad ottenere sia avanzamenti nel merito della ristrutturazione e riforma economica e sociale, sia nel consolidamento del dominio della borghesia, con l’assestamento di una mediazione politica di carattere neocorporativo, le BR-PCC si prefiggono, in generale, il rilancio della prospettiva della conquista del potere per l’instaurazione della dittatura del proletariato, come prima tappa della costruzione di una società comunista, e, in specifico, di ottenere un relativo vantaggio politico per il campo proletario, da impiegare ai fini della ricostruzione delle forze rivoluzionarie e degli strumenti politici e organizzativi atti ad attrezzare la classe allo scontro prolungato con lo Stato. La linea politica che indirizza l’offensiva combattente è orientata a colpire le responsabilità centrali nell’opera di istituzionalizzazione della sede neo-corporativa, nell’approfondimento del ruolo politico dell’Esecutivo, e nella sua azione programmatica tesa a tradurre in iniziativa legislativa quelle linee di riforma e ristrutturazione economico-sociale, tutti aspetti, intorno ai quali oggi si gioca lo scontro tra le classi, e rispetto a cui il consolidamento del progetto neo-corporativo costituisce condizione generale attraverso cui l’Esecutivo intende gestire le contraddizioni antagonistiche, trasformandole in passaggio di arretramento politico per il proletariato. Un’iniziativa politico-militare che per questo opera, nel contempo, sul piano immediato, aprendo un varco offensivo nella situazione difensiva della classe, e su un piano di prospettiva politica, facendo vivere offensivamente il nodo del potere: opera sul piano progettuale e programmatico imponendo nello scontro, sul terreno della guerra, gli interessi generali del proletariato, qui ed ora, portando l’offensiva, al livello in cui si definiscono i rapporti di forza e politici tra le classi, al livello cioè dell’iniziativa politica, e nel merito dei nodi centrali dello scontro, nella congiuntura. In ciò pone i concreti termini politico-programmatici su cui fare avanzare la guerra di classe di lunga durata, nella dialettica con le istanze di potere che sorgono dalla lotta del proletariato. Un attacco al “cuore dello Stato” che è il portato della dialettica politica tra una linea di continuità-critica-sviluppo del patrimonio comunista in specifico dell’esperienza prodotta dalle Br nel nostro paese e peculiarmente del ricentramento operato dalle B.R.-P.C.C. nella Ritirata Strategica, e il concetto percorso di riaggregazione delle avanguardie rivoluzionarie, in funzione della ricostruzione delle forze rivoluzionarie e in particolare di un’Organizzazione Comunista Combattente che agisca da partito per costruire il Partito. Un processo di aggregazione che costituisce uno stadio peculiare della Fase di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie, processo che ha visto come passaggio centrale il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria operato dai Nuclei Comunisti Combattenti, con l’attacco all’accordo sulla politica dei redditi tra governo Confindustria e sindacati confederati, nel ’92 con l’attacco contro la sede della Confindustria, e nel ’94 in occasione del Vertice N.A.T.O. di Bruxelles, con l’iniziativa contro il N.A.T.O. Defence College con cui veniva attaccato il disegno di nuovo ordine mondiale e la strategia di “presenza avanzata” e la complessiva rifunzionalizzazione della Nato e dell’architettura con cui il dominio imperialista si attrezzava a sostenere il ruolo politico-militare aderente ai caratteri odierni del modo di produzione capitalistico e della sua crisi e a sfruttare i rapporti di forza favorevoli determinatisi negli equilibri internazionali. Con queste iniziative, i N.C.C. sintetizzano il rilancio dell’offensiva rivoluzionaria, con l’avvio di un processo di aggregazione delle avanguardie rivoluzionarie, operando nel vivo dello scontro e intervenendo nei nodi politici su cui ruota la contraddizione classe/Stato e quella imperialismo/antimperialismo. Un processo con cui inevitabilmente si misurano tutte le avanguardie che vogliano rilanciare la prospettiva comunista e i suoi obiettivi storici, e avviare un processo di superamento della attuale situazione di difensiva della classe. Un’esperienza, quella dei N.C.C. che si sviluppa nel tradurre in prassi rivoluzionaria, il contenuto offensivo dell’autonomia politica di classe, rapportandosi con i termini più avanzati di autonomia politica espressi dal proletariato nel paese, ovvero il patrimonio politico-strategico sviluppato dalle BR-PCC, collocandolo nelle condizioni di difensiva della classe, prodottesi nel duplice processo controrivoluzionario, che ha determinato una condizione di discontinuità del percorso rivoluzionario, delle condizioni interne sul piano Classe/Stato, e negli equilibri internazionali. Un rapporto con le condizioni e con le contraddizioni della situazione di difensiva della classe, che attraverso la soggettività rivoluzionaria, in quanto parte dello scontro generale, che ha imposto di definire strumenti politico-organizzativi e condizioni, che costituissero soluzioni politico-concrete per rapportarsi in termini offensivi nello scontro di classe. Solo organizzando le forze rivoluzionarie e proletarie, fin da subito sul terreno strategico adeguato a sostenere una prospettiva di potere a partire dall’attacco, e costruendo le condizioni politico-organizzative e materiali, per assumere iniziativa d’avanguardia rispetto ai nodi generali relativi alla contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, è possibile avviare un percorso che, relazionandosi allo scontro di classe, nei suoi caratteri generali, affronti le condizioni storiche di fase in termini di avanzamento. Su questo piano, le avanguardie rivoluzionarie si rapportano con i caratteri storici presenti della Fase di Ricostruzione, cioè con la necessità di operare un processo di aggregazione dal quale si possano selezionare i termini complessivi necessari alla ricostruzione di un’Occ che agisca da Partito per costruire il Partito e che, in quanto tale, possa costituire il Nucleo Fondante il Partito. La costruzione di un soggetto organizzato che affronti il nodo della ricostruzione delle condizioni per lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, si può avviare solo a partire dall’esercizio di un ruolo d’avanguardia rispetto allo scontro di classe in generale. Per questo, l’avvio di tale percorso, deve essere impostato dalla costruzione delle condizioni politiche, militari, tecniche e organizzative, per mettere in campo e sostenere il rilancio dell’offensiva rivoluzionaria nei nodi politici centrali dello scontro di classe, al fine di collocare in questo scontro il dato politico assente, ovvero l’espressione dell’autonomia politica di classe che, rispetto alle contraddizioni generali dello scontro, definisce e colloca l’interesse autonomo della classe e le sue prospettive di potere. In sostanza, il carattere principale dell’avvio di questo processo, si definisce intorno al nodo di costruzione delle forze per l’offensiva, della tenuta e della stabilità dell’organizzazione delle forze sul terreno strategico. Dover superare questo stadio, nella tensione all’avanzamento, come soggetto organizzato, verso l’obiettivo della ricostruzione di un’Occ che agisce da partito per costruire il Partito, nel vivo dello scontro rivoluzionario, consente di evidenziare le contraddizioni concrete, collegate al rilancio della prospettiva rivoluzionaria, nelle condizioni politico-organizzative danneggiate e disperse dal processo controrivoluzionario. Una definizione di problemi che può dare concretezza ai caratteri della fase, altrimenti assumibili solo ideologicamente, quali ad esempio la contraddizione costruzione/formazione. Una concretezza relativa alla specificità delle condizioni di discontinuità che, nella definizione dei caratteri dei nodi, ne delinea anche le possibili soluzioni politico-organizzative, nella costruzione di un patrimonio politico collettivo. Il dato di fondo è che, la ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie, nel quadro del passaggio della ricostruzione di un’Occ che abbia funzione di nucleo fondante il Partito, riguarda tutti gli aspetti che consentono di concepire il conflitto e di combatterlo: dagli elementi di materialismo storico-dialettico, alle competenze operative per agire nell’unità del politico e del militare, ai criteri che consentono ad un soggetto organizzato di essere tale. Dati costanti sono che, ciò è impossibile, se non si affronta operando immediatamente sul terreno della prassi rivoluzionaria in una dimensione organizzata, riferita ai nodi generali della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, e che le avanguardie rivoluzionarie, l’insieme delle forze militanti, devono tener conto della complessità e complessità su cui operare per avanzare in termini di ricostruzione d’una forza rivoluzionaria. Le condizioni attuali della Fase di Ricostruzione, sono state connotate da questi elementi: – da un lato l’acutezza delle contraddizioni di classe e l’operare offensivo della borghesia e del suo Stato, in un rapporto di scontro immediatamente politico, in quanto inerente alla ridefinizione della mediazione politica e al portato in essa dello scontro rivoluzionario. – dall’altro, la mancanza nei nodi politici generali, che costituiscono l’oggetto immediato dello scontro, di una posizione che definisse fattivamente gli interessi generali della classe, sia in termini di critica di classe, che di prassi offensiva, che di prospettiva di potere; che si definisse nello scontro di classe attuale. Il portato del processo controrivoluzionario e gli sviluppi dell’offensiva della borghesia e del suo Stato, hanno indotto l’affermazione nel campo proletario e rivoluzionario di tendenze difensive, prodotte proprio dal rapporto di forza sfavorevole che rilancia tali tendenze approfondendo le condizioni di arretramento, mentre nel contempo, la mediazione neocorporativa è il piano proposto e imposto dallo Stato. Il contenuto prevalente nell’opposizione proletaria ha avuto, in questi anni, un carattere di critica sociale, aclassista o interclassista e, dentro questo contenuto, si sono collocate componenti politiche e sociali che mettono in atto una prassi che vagheggia ipotesi di riformismo sociale. In questo quadro si sono collocate anche forze politico-istituzionali che fanno riferimento al proletariato, la cui progettualità ha egualmente un carattere di riformismo sociale e che, su questo punto di congiunzione, hanno incorporato e istituzionalizzato istanze della autonomia di classe che scaturiscono dallo scontro, ingabbiandole in pratiche di lealismo istituzionale. Una tendenza questa, disarmante per gli interessi generali della classe, che in alcuni passaggi politici, ha visto queste componenti farsi carico del sostegno ai progetti dello Stato e alle politiche centrali dell’imperialismo. Su un altro piano si è collocata una tendenza all’economicismo che, svuotando le istanze di autonomia di classe del loro contenuto politico generale, le ha indirizzate verso uno sbocco di subordinazione in quanto riferite ad istanze rivendicative, parziali, storicamente prive di prospettiva, proprio per le delimitazioni del piano di lotta assunto, che a maggior ragione in una fase che vede la classe in posizione di difensiva, non sono in grado di costruire rapporti di forza con prospettive di avanzamento nemmeno in contesti particolari, tranne in settori strategici per il funzionamento del sistema economico, rispetto ai quali lo Stato combina misure repressive e un terreno di trattativa corporativa remunerativo per frammentare e procedere gradualmente nel compatibilizzare tali settori. Per componenti politiche che si riferiscono alla classe come classe in sé e per sé, l’assunzione in termini difensivi di questo contenuto, ha portato alla loro collocazione su un piano ideologico, se non ideale. Cioè si è stabilito un rapporto immediatistico con la lotta di classe, dove la politica rivoluzionaria costituisce esclusivamente un riferimento ideale o tutt’al più interpretativo, senza nessuna ricerca di direzione consapevole organizzata, dialettica ma finalizzata, della politica rivoluzionaria sul piano della lotta di classe. Rapporto immediatistico che vede il piano rivoluzionario come sbocco più o meno meccanico della lotta di classe, della sua estensione come prodotto dell’approfondimento della crisi capitalistica. Il portato del processo controrivoluzionario, e il suo risvolto sul campo proletario, in chiave di assunzione di tendenze difensivistiche, si è manifestato anche in opzioni politiche che, nell’oggettiva difficoltà di rapportarsi all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, (connotato dall’avanzamento dei termini strategici della guerra di classe di lunga durata nei paesi del centro imperialista, conquistati nel mantenimento dell’offensiva nelle condizioni di Ritirata Strategica, ma anche dalla discontinuità delle forze e dell’iniziativa rivoluzionaria, e che implica l’aumento del peso assunto dalla soggettività nello scontro, essendo necessario che sia operato l’idoneo riadeguamento ai nuovi termini del rapporto rivoluzione/controrivoluzione) hanno assunto le condizioni di agibilità consentite dallo Stato, come principio in base a cui ridefinire la strategia rivoluzionaria. Partendo da queste basi, azzerando il rapporto tra forme di dominio dell’imperialismo e strategia rivoluzionaria, come unico terreno su cui si può sviluppare la costruzione del Partito e l’organizzazione rivoluzionaria della classe, hanno rinchiuso lo sviluppo della strategia della Lotta Armata per il Comunismo, in un incidente di percorso del movimento operaio, ricollocandosi nel riferimento ideologico alla strategia terzinternazionalista dell’insurrezione. Azzerando il dato politico che ha visto la ripresa del processo rivoluzionario in Europa, nascere dalla critica a tale concetto strategico e alla prospettiva revisionistica e riformistica in cui portava ad impantanare lo scontro rivoluzionario, di fronte ai caratteri delle moderne democrazie rappresentative. Nonostante questa condizione di arretramento, è proprio dall’opposizione di classe alle compatibilità politiche ed economiche, imposte attraverso i passaggi di ridefinizione della mediazione politica in chiave neocorporativa che, nello scontro, ha continuato ad esprimersi l’istanza di autonomia del proletariato. La valutazione dello scontro di classe nella fase, evidenzia come, nonostante l’acutezza delle contraddizioni prodotte, e la crisi del sistema politico-istituzionale, si sia affermato un dato politico di arretramento, un dato politico per cui, nel generale e nel particolare dello scontro, gli interessi generali del proletariato, e la sua contrapposizione complessiva alla borghesia e al suo Stato, non costituiscono il contenuto, se non episodicamente, su cui la classe o settori di essa, costruiscono il rapporto di scontro. Tale contenuto si esprime implicitamente, nei contesti di lotta che si contrappongono offensivamente alle compatibilità e alla subordinazione della mediazione neocorporativa, ma tale latenza, oltre che la condizione dei rapporti di forza, costituisce vincolo alla capacità di catalizzare l’opposizione di classe. Questa condizione, la sua durevolezza, di fronte all’offensiva della borghesia, si manifesta nella difficoltà ad esprimere una critica di classe all’esistente, e a tradurre questa critica in processi di mobilitazione e organizzazione che, dalla situazione concreta presente, valutata storicamente e dialetticamente, costituiscono termine di avanzamento possibile nel senso del contributo allo sviluppo di un processo rivoluzionario. Una difficoltà che è nata dal venir meno della prospettiva di potere come contenuto orientante, impostativo, punto di vista necessario per una critica di classe e opposizione ai rapporti sociali capitalistici, e degli strumenti teorico-politici e organizzativi definiti dalla Rivoluzione Sovietica, dalla Rivoluzione Cinese etc. e sviluppati dalla Strategia della Lotta Armata per il Comunismo. Un venir meno, non tanto come contenuto ideologico, seppure anch’esso abbia un peso, ma come contenuto politico, cioè come patrimonio politico che scaturisce dalla collocazione di tale prospettiva di potere, coscientemente perseguita, nelle condizioni di scontro presenti nella loro determinazione storica. Una condizione indotta dal portato del duplice processo controrivoluzionario, che conferma come l’autonomia politica di classe (ovvero l’istanza di autonomia di classe oggettiva, generata dalla contraddizione antagonistica tra borghesia e proletariato, tradotta in proposta politico-organizzativa di sviluppo del processo rivoluzionario), sia un prodotto essenzialmente politico, e non il meccanico e spontaneo sviluppo della lotta di classe, anche quando l’acutezza delle contraddizioni di classe è estrema. Una cognizione che lo Stato borghese ha ben compreso, assumendo come principale fine della sua azione di controrivoluzione preventiva, la neutralizzazione attraverso l’istituzionalizzazione, il riformismo o l’annientamento, degli aspetti che, nelle varie congiunture, politicizzano l’opposizione di classe e ne costituiscono prospettiva di potere. Il carattere politico dell’avanzamento verso la ricostruzione dell’Occ che agisce da partito per costruire il Partito, si definisce intorno alla costruzione della capacità di assestare stabilmente nello scontro di classe i due aspetti mancanti, di una posizione nello scontro che definisca gli interessi generali della classe, e di una prospettiva di potere, nei vincoli delle condizioni di fase. Si tratta quindi di continuare ad operare, in termini di iniziativa politico-programmatica e costruzione organizzativa, sul livello più avanzato di definizione di strategia rivoluzionaria, ricostruendo nello scontro di classe, tutti i piani di definizione di una progettualità e di una prassi rivoluzionaria, considerando il soggetto organizzato, come ciò che, nello sviluppare questo scontro, su tutti i piani, deve costruirsi e formarsi. Rispetto allo scontro di classe in generale, si tratta di definire e collocare l’interesse generale e autonomo del proletariato come classe, in riferimento alle contraddizioni generali, politiche e materiali, prodotte dalla crisi della borghesia e dalla sua azione offensiva espressa dallo Stato, per scaricare sul proletariato il costo di questa crisi. Si tratta di affermare nello scontro, di costruire il dato politico, per cui, colo a partire dall’assunzione dell’interesse generale e autonomo del proletariato, come punto di vista, contenuto e prassi conseguente, su cui impostare un rapporto di scontro, anche particolare, è possibile sottrarsi all’offensiva e alla crisi della borghesia, e alla subordinazione derivante dall’assunzione dell’interesse particolare come piano di rapporto con le contraddizioni di classe.

L’interesse particolare è infatti il piano che la borghesia, a partire dalle condizioni ad essa favorevoli sul piano dei rapporti di forza, impone come piano di rapporto alla classe, questo è, la trasformazione della mediazione politica storica, nella mediazione politica neocorporativa. L’assunzione offensiva dell’interesse generale e autonomo del proletariato, non come somma di interessi particolari, ma come contenuto di ogni rapporto di scontro particolare, è la condizione per sottrarsi a un rapporto di forza sfavorevole e muoversi anche nella condizione di difensiva della classe. Rispetto allo scontro rivoluzionario, si tratta di collocare nello scontro di classe, in termini di attacco e di costruzione, come costruzione/formazione, tutti quegli elementi di patrimonio comunista, di proposta politico-strategica, e di linea, come sviluppo di tale patrimonio in questa fase, che consentono di sviluppare una prospettiva di potere, definendoli in relazione alle condizioni di fase, cioè di difensiva della classe, di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e di Ritirata Strategica. – Dal carattere dell’autonomia politica della classe, non come dato che si produce e riproduce spontaneamente nella lotta di classe, ma come prodotto dell’inserimento nello scontro, di una prassi finalizzata all’affermazione degli interessi generali e storici del proletariato. – Al ruolo della strategia rivoluzionaria e al suo definirsi in riferimento alle attuali forme di dominio dell’imperialismo, e cioè principalmente ai caratteri delle moderne democrazie rappresentative, che costituiscono l’affinamento e l’assestamento del carattere controrivoluzionario del ruolo dello Stato, che convoglia e struttura, attraverso un complesso reticolo di filtri e passaggi, l’azione che opera su un piano prettamente politico, alla legittimazione e al rafforzamento dello Stato stesso, svuotandola dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionari. Stato, che soprattutto assume, come qualificazione permanente della propria azione politica, la mediazione degli interessi sociali particolari, storicamente e congiunturalmente selezionabili, intorno agli interessi generali della frazione di borghesia dominante, in funzione controrivoluzionaria preventiva al coagularsi e all’organizzarsi del proletariato per l’affermazione dei propri interessi generali di classe. A ciò si intreccia una vera e propria politica controrivoluzionaria preventiva, intenzionalmente e specificamente perseguita, che non consiste in un’azione semplicemente repressiva, ma questa si connette strutturalmente a un’azione politica nei confronti delle contraddizioni di classe, rivolta a prevenirne lo sviluppo in direzione della loro politicizzazione e traduzione in organizzazione del proletariato sul terreno rivoluzionario. Oltre che in riferimento ai caratteri delle moderne democrazie rappresentative la strategia rivoluzionaria si definisce in rapporto alle forme di dominio storiche entro le quali gli Stati espletano le loro funzioni di dominio sul piano internazionale e che, nella nostra area geo-politica, fanno perno sull’Alleanza Atlantica e sull’integrazione politico-militare nella Nato e sui processi di coesione europea. Tali riferimenti alle attuali forme di dominio dell’imperialismo, impostano fin da subito i caratteri della costruzione del Partito, in qualità di Partito Comunista Combattente, dell’organizzazione della classe sul terreno rivoluzionario nell’unità del politico e del militare, definiscono la centralità del Fronte Antimperialista Combattente per la costruzione di alleanze politiche che operino all’indebolimento dell’imperialismo nella nostra area, e gli assi e i caratteri dell’iniziativa politico-programmatica, in quanto contenuto strategico che consente di sviluppare un processo, che costruisca, seppur nella sua linearità, una prospettiva di potere. – Al ruolo dei principi teorici che consentono di sviluppare un agire politico che si costruisce in un processo, che si dà nella dinamica prassi/teoria/prassi, rapportandosi a condizioni storiche di fase, prodotto degli esiti delle fasi precedenti, a partire da cui definire i passaggi di avanzamento. – Al ruolo dell’avanguardia rispetto alla classe, e all’inscindibilità di questo ruolo da quello concretamente esercitato dall’avanguardia sul piano politico della contraddizione classe/Stato. – Agli elementi politico-organizzativi che consentono al soggetto organizzato di muovere come un corpo unico. Il saldo riferimento al patrimonio comunista in generale, e in particolare a quello prodotto dalle BR-PCC nella direzione dello scontro rivoluzionario nel paese, e alle sue discriminanti teorico-strategiche, è ciò che guida le avanguardie rivoluzionarie nell’assunzione di ruolo politico nello scontro, sia nell’avviare un processo di ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria che di aggregazione e di selezione in essa dei termini della Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie. Tra queste discriminanti teorico-strategiche, Innanzitutto la valenza politica della Strategia della Lotta Armata, come modo in cui si rende praticabile un processo rivoluzionario in riferimento alle attuali forme di dominio dell’imperialismo, e si materializza lo sviluppo della Guerra di Classe di Lunga durata contro lo Stato, processo in cui l’avanguardia politico-militare si pone come direzione e organizza fin da subito i settori rivoluzionari di classe che si dialettizzano e si dispongono sul terreno della lotta armata. Da ciò ne deriva l’assumere il principio dell’unità del politico e del militare che agisce come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che permettono ad una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. Adottare il principio dell’unità del politico e del militare nei paesi del centro imperialista, fa assumere alla lotta armata la forma della Guerriglia che svolge la funzione di direzione dello scontro di classe, affrontando contemporaneamente e globalmente i principali piani del processo rivoluzionario, ed è volta a disporre e strutturate le forze per sostenere il livello di scontro dato, e ai fini della fase rivoluzionaria, sul terreno strategico della lotta armata.

La conduzione della guerra rivoluzionaria, adotta termini che sono interni alla fase in corso, che oggi è quella della Ritirata Strategica, e che sono indirizzati verso l’evolversi di successivi livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario, fintanto che non abbiano maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le classi. Per quanto riguarda il Partito, questo si qualifica come Partito Comunista Combattente; il riferimento centrale è all’unità del politico e del militare che evidenzia come il problema del Partito sia la costruzione-fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe, cioè problema di una direzione politica e di strutture organizzate, adeguate a sostenere lo scontro e a rilanciarlo ed approfondirlo, assolvendo alle necessità e ai compiti dettati dalla congiuntura politica che scaturiscono dalla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato, disponendo e organizzando le forze attivabili intorno ai compiti imposti dalla fase rivoluzionaria, compiti che in generale sono sempre riferibili allo stato dei rapporti di forza tra le classi, agli equilibri dei rapporti tra imperialismo e antimperialismo, allo stato delle forze proletarie e in ultima istanza ad un determinato passaggio del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. In questo riferimento più generale la costruzione del Partito è un processo risultante dall’agire dell’O.C.C., da partito per costruire il Partito, e dal prodursi delle condizioni necessarie e sufficienti a qualificare e configurare il Partito Comunista Combattente come tale. Per quanto riguarda il rapporto Partito/masse, esso non viene concepito in altro modo che come termine di costruzione/organizzazione di quelle componenti proletarie che esprimono termini di autonomia di classe, sul terreno della lotta armata, calibrato, nelle forme e nei modi, alle fasi rivoluzionarie che si attraversano, ma sempre fin da subito nell’unità del politico e del militare. Ma innanzitutto l’operare della Guerriglia, nella dinamica Attacco-Costruzione-Attacco, momenti tra i quali vi è interdipendenza e interrelazione, è teso a lacerare il piano degli equilibri politici tra Classe e Stato e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo con l’attacco al punto più alto dello scontro. E ciò perché, un processo rivoluzionario, non è la risposta agli attacchi della borghesia alle condizioni politiche e materiali della classe (cioè un atto difensivo), anche se nel suo sviluppo conosce fasi di resistenza più o meno prolungate, ma è nella sua sostanza un processo di attacco per affermare gli interessi generali del proletariato. Per quanto riguarda il programma politico, il piano di contraddizione Classe/Stato è il principale terreno programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata: con l’attacco al cuore dello Stato, alla sua centralità politica congiunturale e non semplicisticamente al suo apparato centrale, le Br-pcc hanno riproposto la centralità che ha, per i comunisti, la questione dello Stato. L’attacco al cuore dello Stato poi, si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro, una dinamica di intervento che apre uno spazio politico che può e deve essere sfruttato con la costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali. Vantaggi momentanei derivanti dall’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse” stabili, non può avere retroterra logistico, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti, è una guerra senza fronti, dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe); dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione di accerchiamento strategico, almeno fino alla fase finale del processo rivoluzionario. Per questo la Guerriglia nella metropoli è impostata sui principi di clandestinità e compartimentazione, cioè conseguentemente li adotta come criteri di organizzazione e mobilitazione. La centralità della questione dello Stato, per i comunisti, deriva dall’essere, il piano politico, il rapporto fondamentale su cui si determinano i rapporti di forza generali tra le classi. Le avanguardie rivoluzionarie, possono concepire ed articolare la Strategia della Lotta Armata, riferendola alle forme di dominio dell’imperialismo, e il suo programma in qualsiasi fase si trovi lo scontro di classe, solo rimettendo al centro un criterio-guida del marxismo-leninismo, che vede nella funzione di mediatore dello scontro inconciliabile tra le classi e nel contempo di rappresentante dell’interesse generale della classe dominante, gli elementi che connaturano lo Stato, e perciò il fondamento del ruolo sia di organo politico-istituzionale del dominio della borghesia, sua sede e soggettività politica, che di ordinamento dei rapporti politici e sociali. Lo Stato, infatti, non viene concepito solo come una sommatoria di apparati, solo sotto il suo profilo, meccanico-oggettivo, ma essenzialmente sotto un duplice profili: quello politico, di organo di dominio della borghesia, e contemporaneamente, quello giuridico-formale, di ordinamento politico-giuridico; cioè secondo la sua sostanza soggettiva e oggettiva. E perciò, l’analisi dello scontro e l’intervento rivoluzionario, sono tesi a individuare gli equilibri politici generali che permettono l’attuazione dei programmi congiunturali allo scopo di scardinarli e renderne ingovernabili le contraddizioni, secondo il criterio di centralità di identificazione, all’interno della contraddizione dominante, del progetto politico centrale della B.I., per lacerarli, adottando il criterio di selezione che individua il personale politico che assume una funzione di equilibrio delle forze che sostengono tale progetto, e per calibrare l’attacco allo stato delle forze proletarie e rivoluzionarie, nel paese e negli equilibri internazionali.

Essendo i rapporti sociali e politici regolati in modo storico nel corpo legislativo-istituzionale, carattere giuridico-formale della natura dello Stato, attraverso l’azione soggettiva dello Stato che traduce, sanziona e rilancia in norme e istituti imposti sulla società in generale, gli esiti dello scontro sociale che volta per volta si determina, riferendosi alla mediazione politica mediamente assestata storicamente, e attraverso la capacità cogente e sanzionatoria data dal monopolio della forza, l’intervento volto a scardinare gli equilibri politici colpendo l’azione soggettiva dello Stato, sui nodi centrali della contraddizione Classe/Stato, va a incidere sulle concrete possibilità di governo delle contraddizioni, in quanto inserisce, attraverso l’esercizio di forza, il dato politico degli interessi generali della classe nel quadro generale dei rapporti di forza e politici tra le classi, impedendone quindi la lineare sanzione in senso antiproletario, facendone termine a cui deve riferirsi lo scontro successivo, e le posizioni delle classi antagoniste in esso. E questo è il modo attuale e prospettico di “spezzare la macchina statale”, innescando una concreta dialettica politica tra proposta comunista e autonomia di classe. Questi elementi di concezione a cui si riferisce la Strategia della Lotta Armata, consentono anche di comprendere la funzione che può svolgere dall’interno stesso di una fase difensiva per il campo proletario, in quanto, riferendosi alla funzione dello Stato nella sua duplice natura di organo politico della dittatura della borghesia, e ordinamento politico-giuridico di una società divisa in classi antagoniste che incorpora i dati storici sia dello scontro di classe che delle trasformazioni strutturali, l’intervento combattente può concretamente incidere, con l’offensiva, laddove si definisce l’iniziativa che costruisce l’equilibrio politico che consente di sanzionare i vantaggi e gli avanzamenti ottenuti dalla borghesia e dallo Stato nello scontro, ottenendone vantaggio politico. Vantaggi e svantaggi, avanzamenti e arretramenti che non costituiscono solo elementi della storia dello scontro di classe, ma vengono incorporati nell’ordinamento politico-giuridico a costituire fattori della nuova base di partenza, parte di un nuovo quadro a cui deve riferirsi lo scontro, in cui la forza e il peso politico delle classi e delle loro frazioni, si struttura, riferendosi alla mediazione politica storica, in dato dal carattere generale incidente su tutta la società, e così pure vi si riflette il dato dell’intervento rivoluzionario. Perciò, anche in una condizione di difensiva della classe, come quella attuale, l’attacco al cuore dello Stato, consente di contrapporsi ai vincoli politico-concreti che spingono il proletariato in una posizione di svantaggio politico, e che oggi sono costituiti dalla costruzione dei termini complessivi di una mediazione politica neo-corporativa, e di condizionare i processi di scontro. Potendo svolgere questa funzione, la Strategia della L.A., nelle moderne democrazie rappresentative dei paesi del centro imperialista, essendo l’unica base da cui può essere rilanciata la progettualità comunista anche in condizioni di rapporto di forza sfavorevole per il proletariato, e perseguite le finalità di estinzione della società divisa in classi, attraverso la tappa della conquista del potere politico per la dittatura del proletariato, è anche irrinunciabile ai fini di sottrarsi all’offensiva complessiva che la borghesia ha lanciato contro il proletariato e costruire rapporti di forza più favorevoli. La tappa della conquista del potere politico e della dittature del proletariato è storicamente necessaria, avendo tuttora e sempre, il dominio della borghesia un carattere politico, ben e irrinunciabilmente radicato, nel ruolo che svolge la proprietà privata nell’ordinamento politico-giuridico; avendo, i rapporti tra proletariato e borghesia, tuttora e sempre, carattere antagonista, in quanto questo carattere è afferente al ruolo sociale (di forza-lavoro e di capitale) che viene sostenuto nella produzione e nella società, e non alla funzione sociale, né tantomeno alla forma giuridica in cui questa viene svolta, né alle condizioni materiali di vita; ed essendo, un ordinamento politico-giuridico, caratterizzato dal potere impositivo e sanzionatorio che nasce dall’esercizio del monopolio della forza da parte dello Stato. Perciò la dittatura del proletariato non è equivocabile, com’è usuale e strumentale fare, con una forma, più o meno democratica, del processo di decisione politica, ma deve essere concepita nel suo senso reale, cioè come la sostanza dei rapporti di potere tra le classi, e quindi delle corrispondenti centralità di interessi nei rapporti sociali, e perciò la conquista del potere politico è obiettivo di un processo rivoluzionario, e condizione di fondo imprescindibile per la costruzione della società comunista, in quanto solo attraverso l’esercizio del potere statuale gli interessi generali di una classe, possono essere garantiti e tutelati, a maggior ragione se questa classe è il proletariato che non è portatore, nella storia dell’umanità, di una forma di proprietà privata su cui si erige un modo di produzione che compete con quello che lo ha preceduto storicamente. In sintesi la Strategia della Lotta Armata è unica base di rilancio della progettualità comunista, in quanto possibilità concreta di far pesare, qui e ora, nello scontro, gli interessi generali della classe, ed esercitare forza, che incide ad aprire e far avanzare la prospettiva rivoluzionaria, e termine imprescindibile della ricostruzione di condizioni politiche e di forza favorevoli al campo proletario. Se l’attività della Guerriglia, può avere un riflesso positivo sulle condizioni di vita immediate della classe, come ha avuto negli anni precedenti, non è questo il criterio che guida la sua iniziativa politico-militare, in quanto lo scopo che si prefigge è quello di incidere sui rapporti di forza generali tra le classi, per lavorare alla costruzione del Partito Comunista Combattente e affermare la prospettiva di potere, espressione degli interessi generali del proletariato, favorendo con ciò lo sviluppo dell’autonomia di classe, condizioni queste, che sono termini concreti per il rafforzamento delle posizioni del proletariato nel rapporto di scontro con la borghesia e che conseguentemente incidono positivamente anche nelle condizioni immediate della classe, in quanto è solo sul piano politico che la classe può stabilire un rapporto di forza generale.

Perciò la proposta politica delle Br-Pcc si concretizza su due aspetti: da un lato organizzando le avanguardie più coscienti intorno alla strategia politica dell’Organizzazione; dall’altro rappresentando l’elemento di riferimento di spinta e di coagulo per le istanze più mature della lotta di classe rapportandosi ad esse con il programma politico. Infine, l’altro asse su cui le Br-Pcc intendono sviluppare il proprio programma politico, è sul piano della contraddizione imperialismo/antimperialismo al fine di indebolire e ridimensionare il dominio imperialista, costruendo offensive comuni contro le sue politiche centrali, con le forze rivoluzionarie e antimperialiste che operano nell’area Europea-Mediterraneo-Mediorientale. Perciò le Br-Pcc pongono al centro del proprio progetto politico la promozione e costruzione del Fronte Combattente Antimperialista, in cui la ricerca di unità politico-militare tra forze antimperialiste dell’area, sia funzionale a costruire le alleanze politiche necessarie a indebolire il dominio imperialista, a partire dalle differenze storico-strutturali della lotta di classe delle singole formazioni economico-sociali, dentro cui si collocano e maturano le esperienze e le forze rivoluzionarie e antimperialiste, ma anche dal ruolo unico e unitario che svolgono gli Stati dominanti della catena imperialista. Concepire la necessità politica di costruire un Fronte Combattente Antimperialista non significa escludere la ricostruzione di un’Internazionale Comunista, ma significa non trascurare di attivare tutte le forze disponibili contro il nemico imperialista al di là delle differenze tra tappe rivoluzionarie e concezioni che supportano le forze antimperialiste, e costruire una condizione favorevole al perseguimento anche dell’obiettivo dell’Internazionale Comunista che presuppone un’unità superiore nei caratteri di classe, nei fini e nelle concezioni delle forze appartenentevi. Promuovere la costruzione del F.C.A. implica porre al centro dell’offensiva combattente il rapporto organico tra il ruolo della Nato, come alleanza politico-militare degli Stati dominanti della catena imperialista, guidata dal polo Usa, e quello della Ue, quale progetto politico centrale dell’imperialismo nella nostra area geo-politica che affianca la Nato nell’azione di penetrazione e assoggettamento dei paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Est europeo e nella costruzione delle condizioni dell’approfondimento della tendenza alla guerra. Asse di combattimento che deve avanzare sempre complementariamente allo sviluppo dell’iniziativa combattente nei nodi centrali che oppongono la classe al proprio Stato, perché è sul piano Classe/Stato che si scioglie il nodo del potere che qualifica la tappa rivoluzionaria. Lo stadio aggregativo che investe la Ricostruzione delle Forze, in relazione alle peculiarità legate alla contraddizione costruzione/formazione, rappresenta il nodo con cui si confronta lo sviluppo del processo di costruzione di un’Organizzazione Comunista Combattente. In questo quadro il rilancio dell’iniziativa politica offensiva nei nodi centrali che opponevano Classe e Stato e Imperialismo e Antimperialismo, operato dai Ncc ha costituito un’espressione di progetto, di linea politica e di linea politico-organizzativa definiti in base alla comprensione politica dei nodi centrali che poneva lo scontro e la Fase strategica. L’avanzamento da un fisiologico stadio aggregativo iniziale, verso la costruzione di una forza rivoluzionaria che punta a qualificarsi come O.C.C. che agisce da Partito per costruire il Partito, necessariamente si confronta con il problema della riproduzione di forze militanti complessive che esercitino un’azione politico-operativa e organizzativa d’avanguardia; e quindi la dinamica che dall’Attacco costruisce aggregazione e forza per esprimere un livello più avanzato di capacità offensiva, politicamente e militarmente intesa, è strettamente connessa ad un processo di costruzione/formazione di ruoli militanti complessivi che operino materialmente ulteriore costruzione. Lo snodo della riproduzione di tali ruoli è a sua volta strettamente connesso con l’espressione di forza complessiva dell’organizzazione, che è data dalla costruzione delle condizioni e cognizioni per un movimento unitario e unico, pur nella diversità, delle forze organizzate, sul terreno dell’attività politico-programmatica ed in particolare nella costruzione dell’offensiva. Un movimento riferito alla costruzione delle condizioni e degli strumenti per l’operare di una dinamica di centralizzazione-decentralizzazione. I termini progettuali in cui viene inquadrato lo sviluppo del processo rivoluzionario, qualificano il ruolo dell’avanguardia nella direzione e organizzazione della classe sul terreno rivoluzionario, in un processo di scontro finalizzato all’instaurazione della dittatura del proletariato come prima tappa del processo rivoluzionario. Un processo di scontro che, nei termini strategici di riferimento, si dà fin da subito nell’unità del politico e del militare. Costruire una forza rivoluzionaria significa, quindi, costruire una forza che, nel complesso, ma anche in generale, cioè in ogni militante, possa riprodurre il ruolo di organizzazione e direzione della classe sul terreno rivoluzionario. Si tratta quindi di costruire-formare delle avanguardie nella loro caratterizzazione complessiva politico-militare e il loro movimento centralizzato e decentralizzato. Un processo che trova nel rapporto tra responsabilizzazione complessiva e impiego operativo, la leva della costruzione/formazione delle forze e dello sviluppo dell’autonomia politico-operativa, che si può produrre nel concreto esercizio della responsabilità politica nel lavoro rivoluzionario, in termini di “conduzione”, ossia di esecuzione dell’attività con impostazione complessiva, e collocandola nella dimensione organizzata. Un processo di costruzione, che si confronta con la centralità di fase cioè quella della Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie, andando a definire linee di costruzione e mobilitazione delle forze sul piano politico-programmatico, a partire dal dato che le forze non sono già formate né organizzate e che la soggettività di classe, in questa fase, anche quando si dialettizza in termini di militanza organizzata, con il piano rivoluzionario, mediamente riproduce una tendenza allo spontaneismo intendendo con ciò tutto quello che si produce al di fuori di una prassi finalizzata e funzionale allo sviluppo della progettualità rivoluzionaria. Nella tendenza spontaneista va inscritta la tendenza all’approccio ideologico, che può qualificare, il rapporto con la militanza rivoluzionaria, in termini di adesione, un rapporto che si riconosce in un patrimonio e che si schiera, prendendo posizione nello scontro e rendendosi disponibile ad essere attivato, ma che non stabilisce un rapporto politico con tale patrimonio, intendendo con ciò, il rapporto con cui si pone il problema di come operare soggettivamente per collocare e riarticolare questo patrimonio, quindi svilupparlo, in riferimento al problema di definire come agire, in modo che, a partire dalle contraddizioni oggettive e materiali presenti, che hanno sempre un inquadramento sul piano storico-politico ed economico-sociale, si possa operare per far avanzare verso le finalità rivoluzionarie, utilizzando in questo, il patrimonio complessivo, stabilendo con esso un rapporto di continuità/critica/sviluppo. L’approccio ideologico, vede l’ideologia come ciò che fa avanzare queste motivazioni verso gli obiettivi politico-generali; non si vede il ruolo dell'”ideologia”, come concezione, nell’indirizzare la prassi nell’immediato e nel concreto, e non si vede il ruolo della prassi nell’approfondire il rapporto politico con la concezione e nello svilupparla. L’ideologismo porta a non vedere come, l’avanzamento nella prassi e nella comprensione della concezione si produce solo se, a mettere in rapporto questi due piani, c’è il soggetto che opera nello scontro, e che, dal dare soluzione al problema dell’operare funzionalmente all’avanzamento del processo rivoluzionario, approfondisce la comprensione e lo sviluppo della concezione stessa. Da questo se ne ricava che è antimaterialistico pensare che, la risoluzione del problema, si dia sul piano della formazione ideologica, per operare, poi, successivamente, nello scontro, perché, non sviluppando un ruolo soggettivo nella realtà dello scontro, la comprensione del piano ideologico è fittizia, cioè sfocia sul piano idealistico e in posizioni opportunistiche o massimaliste, mancando di risolvere il problema politico di dare sviluppo al processo rivoluzionario. Limiti connessi all’ideologismo sono anche quelli dell’esecutivismo che, non essendo espressione di una disposizione complessiva d’avanguardia, ma di una dipendenza politico-operativa, caratterizza un contributo alla prassi rivoluzionaria sganciandolo dall’inquadramento politico-operativo più generale dei problemi che vengono affrontati e delle finalità perseguite, e del genericismo, causa ed effetto di una posizione di adesione che non si misura con il dettaglio dei problemi concreti assunti soggettivamente, ma con i problemi di discriminazione di una posizione di schieramento o interpretativa. Altro limite può vedersi nell’immediatismo, cioè l’attenzione rivolta esclusivamente all’aspetto specifico del problema o dell’attività a cui si vuole dare soluzione, ad una necessità particolare che si vede in funzione dell’avanzamento della prassi rivoluzionaria, limite questo che, nonostante il volontarismo e l’abnegazione rivoluzionaria, può portare all’inefficacia nell’attività, perché essa è inquadrata in una progettualità e in uno scontro politico-militare, ma può portare anche alla difficoltà di fare di questa prassi un’occasione di avanzamento nella costruzione soggettiva, dell’impianto teorico atto ad impostare una prassi più avanzata: oppure alla difficoltà a confrontarsi con problemi nuovi e complessi che, se mai affrontati e in assenza di un’impostazione che sappia riarticolare scelte funzionali alla progettualità rivoluzionaria, di fronte a novità e complessità particolari, possono mettere in crisi. Un ulteriore aspetto in cui si manifesta lo spontaneismo può essere anche la difficoltà ad operare in una dimensione organizzata, una dimensione organizzata che si differenzia dall’organizzazione di classe sul piano rivendicativo (anche quando questa rivendicazione assume un carattere offensivo), la quale non determina il proprio agire in relazione al problema di produrre un movimento unitario e unico nella diversità, di avanzamento rispetto ad obiettivi strategici, congiunturali, e secondo una linea che costituisce sintesi tra fine e mezzo. Una dimensione organizzativa che risponde quindi a leggi e problematiche proprie dell’operare collettivo, su questo piano, e influenzate dai termini di strategia politica, di collocazione di classe, di condizioni storiche, fattori questi, che trovano sempre il modo di affermarsi come aspetti concreti e materiali. Dallo spontaneismo, infine, può dipendere anche la difficoltà di riadeguarsi ai caratteri particolari dell’operare sul terreno della Guerra di Classe di Lunga Durata, che è piano assunto soggettivamente e offensivamente come unica prospettiva per dare sbocco rivoluzionario alle contraddizioni di classe, i cui caratteri, in questa fase, non sono il prodotto spontanei dello scontro sociale o della vita civile. Anche quei caratteri di offensività proletaria che possono prodursi spontaneamente sul piano dello scontro di classe, sono inadeguati rispetto ad una prassi che colloca l’agire offensivo sul piano degli interessi generali e storici del proletariato in una dimensione storicamente continua, scientifica e organizzata. Il rapporto con le necessità imposte dall’operare offensivamente nello scontro, e l’essere inseriti in una relazione organizzata, che rapporta istanze superiori e inferiori, mette immediatamente in evidenza gli aspetti inadeguati della disposizione spontanea sul terreno rivoluzionario. Il confronto tra, gli obietti generali che si perseguono, rappresentati concretamente dalle realizzazioni programmatiche da attuare, i problemi della prassi, la dimensione organizzata, nel momento in cui si opera un riadeguamento rispetto alle modalità spontanee con cui si è operato, e si analizza teoricamente il limite legato all’inefficacia, produce necessariamente un passaggio di approfondimento nella responsabilizzazione complessiva, e negli strumenti cognitivi per sostanziare l’autonomia politico-operativa.

Queste tematiche e contraddizioni, trovano in generale spazio significativo nel dibattito delle forze organizzate impegnate in processi rivoluzionari, finalizzate all’instaurazione della dittatura rivoluzionaria del proletariato, in particolar modo nella fase di costruzione del Partito. Ciò è dato dal carattere sociale e politico della Rivoluzione Proletaria, dai termini che informano il ruolo dell’avanguardia comunista nello scontro, dalla concezione comunista di tale ruolo e del rapporto avanguardia/masse, concezione connessa alla tesi che, la coscienza rivoluzionaria, viene portata alla classe dall’esterno, un esterno che però politicamente non va inteso come riferito né al ruolo degli intellettuali, né ad un ruolo didattico del Partito, ma va riferito al collocarsi dell’operato rivoluzionario sul piano politico dello scontro generale tra le classi, o in esso, all’approfondimento della contraddizione antagonistica tra proletariato e borghesia attraverso la contrapposizione, nella lotta per il potere, degli interessi generali e storici delle due classi antagonistiche. L’avanguardia rivoluzionaria svolge un ruolo imprescindibile rispetto allo sviluppo dello scontro rivoluzionario, se e perché, opera in funzione dell’affermazione dell’interesse generale e storico della classe, un’operare che si sviluppa per linee interne alle masse, ma che è un piano esterno rispetto alle contraddizioni sociali capitalistiche particolari e congiunturali, è appunto il piano generale e storico. Questa concezione, riportata sul piano dell’organizzazione comunista da costruire, concepisce il Partito come Partito di quadri. Da questo se ne ricava come, il problema del superamento dei caratteri spontaneistici presenti nella soggettività di classe, sia problema generale, da affrontare programmaticamente nella costruzione del Partito e dell’O.C.C. che agisce da Partito per costruire il Partito. Si capisce quindi, come le tendenze all’esecutivismo, all’immediatismo, al genericismo, all’ideologismo, siano espressioni di spontaneismo che si contrappongono alla costruzione di una forza rivoluzionaria e siano contraddittorie, quindi, con la progettualità e con la finalità in cui ci si riconosce, anche se questo riconoscimento è dato con tutta l’onestà rivoluzionaria possibile e come la lotta contro tali tendenze, operata non ideologicamente ma per l’affermazione di soluzioni concrete funzionali all’avanzamento della prassi rivoluzionaria, sia un fattore del processo di selezione che distingue il ruolo dell’avanguardia comunista e della ricostruzione degli strumenti per attrezzarne l’esercizio, dal complesso dei ruoli e delle condizioni che vanno ricostruiti nella Fase Rivoluzionaria della Ricostruzione delle Forze. Se queste tematiche hanno spazio in genere nel dibattito dei comunisti, in questa fase assumono problematicità e caratteri particolari. La fase attuale, infatti, è caratterizzata dal nodo della Ricostruzione delle Forze, connotato dalla contraddizione costruzione/formazione e dal permanere di una tendenza di depoliticizzazione legata al processo controrivoluzionario e al conseguente agire offensivo dello Stato rispetto al governo delle contraddizioni sociali, alla ridefinizione della mediazione politica e della funzionalizzazione della politica neo-corporativa a sostenere una condizione di governabilità interna che pur in un contesto critico, consenta la assunzione di ruolo politico-militare dello Stato sul piano internazionale. La discontinuità dell’intervento rivoluzionario capace di incidere al livello più alto dello scontro, è un fattore concreto di queste contraddizioni. Rispetto a questi nodi, i militari rivoluzionari che hanno operato nei N.C.C. hanno affrontato la Ricostruzione esercitando un ruolo d’avanguardia rispetto al non politico generale dello scontro rivoluzionario, dando una prima soluzione al problema della discontinuità attraverso il rilancio dell’iniziativa politico-offensiva nei nodi politici centrali dello scontro di classe, e misurandosi con il problema di estendere e approfondire il processo di costruzione presente nell’iniziativa rivoluzionaria all’aggregazione di forza ottenuta. Avanzare, necessariamente significa trasformare l’attacco in costruzione per operare ad un nuovo attacco nel quadro di gestione del complesso di aspetti prodottisi con il proprio operato. La costruzione di un O.C.C. attraverso l’esercizio di un ruolo complessivo d’avanguardia nello scontro è in rapporto con il problema di costruire-formare delle avanguardie politico-militari, a partire dallo sviluppo dell’autonomia politico-operativa e della responsabilizzazione complessiva come termini per l’avanzamento verso l’agire da partito per costruire il Partito. Un processo in cui l’assegnazione, l’assunzione e la gestione dell’attività in termini di direzione-conduzione è collocare lo sviluppo dell’autonomia politico-operativa e la responsabilizzazione complessiva nel quadro della dimensione organizzativa del lavoro rivoluzionario, e il metodo politico-organizzativo è il mezzo per l’assunzione di iniziativa nella proposta e nell’attività, rispetto ai problemi generali e particolari della prassi rivoluzionaria. Metodo di conduzione politica dell’attività a tutti i livelli (cioè di esecuzione di ogni attività progettata) che costituisce uno strumento politico-organizzativo che, a prescindere dal livello di competenza espresso, può consentire un affrontamento della prassi idoneo all’efficacia politica e che consiste in quell’impostazione e quelle pratiche che consentono di connettere i compiti parziali ad una responsabilità progettuale, intendendo con ciò il progetto politico dell’o., come fattore che media le finalità rivoluzionarie nel rapporto tra soggettività e realtà sociale storica. Un metodo che parte dalla definizione del nodo politico-organizzativo a cui dare soluzione – procede con l’individuazione di un’attività idonea allo scopo – per definire preventivamente gli elementi costitutivi di ogni attività -politici, tecnici, operativi- per l’individuazione delle caratteristiche problematiche di un lavoro in riferimento alle finalità complessive- per la gestione dei tempi funzionalizzata alle esigenze di centralizzazione – fino alla conduzione dell’esecuzione – e al bilancio tecnico e politico dei risultati ottenuti, concludentesi con la centralizzazione del patrimonio d’esperienza realizzato. E che quando non può valersi di un patrimonio teorico pratico sviluppato si affida all’attivazione pratica con carattere sperimentale, cioè a una prassi svolta mantenendo un approccio di ricerca rispetto ai nodi problematici da sciogliere, rispetto a cui si cercano elementi oggettivi funzionali a darne definizione teorica, che possa sviluppare un’esecuzione idonea al massimo dell’efficacia. Esso costituisce uno strumento fondamentale affinché la ricostruzione delle forze che viene perseguita, operi al contempo alla formazione di avanguardie complessive, in quanto costituisce l’alternativa concreta e funzionale all’efficacia della prassi, agli aspetti di spontaneismo, ideologismo, immediatismo, inesperienza a lavorare in modo organizzato e sul terreno politico-militare, che connotano mediamente la soggettività rivoluzionaria oggi. Se il metodo politico-organizzativo è lo strumento per esprimere e costruire autonomia politico-operativa ed esercitare responsabilità politica, l’autonomia politica è rapportarsi autonomamente, nelle scelte che si devono compiere per condurre la prassi rivoluzionaria, al patrimonio collettivo, espressione storica e politica dei termini generali della progettualità rivoluzionaria, patrimonio in continuo avanzamento rispetto al rapporto che la prassi innesca con la realtà, e alla teorizzazione generale che si opera di essa e che si collega ai termini teorici storici. Patrimonio che si concorre a definire in relazione alla propria specifica collocazione e percorso, e che vede la necessità di partecipazione e dialettica, proprio al fine di sviluppare un patrimonio massimamente efficace nel rapporto di trasformazione rivoluzionaria della realtà. Il piano aggiornato con cui il patrimonio d’organizzazione stabilisce una relazione storica con i termini di progettualità politico-strategica, la collocazione in questo quadro degli elementi di contraddizione e di avanzamento emersi nella prassi svolta, concorrono ad impostare la definizione di una “linea politica generale” che, riferendosi alle problematiche di fase, deve vivere funzionalmente in tutte le definizioni e realizzazioni programmatiche, per consentire quel movimento centralizzato in cui tutte le attività possono essere funzionali all’avanzamento complessivo. Linea che ha poi diversi momenti di specificazione, nascenti dalle difficoltà che scaturiscono dal collocarla materialmente nei momenti attuativi. Metodo politico-organizzativo e riferimento alla linea politica generale come orientamento relativo agli aspetti generali del quadro politico entro cui si colloca lo specifico nodo politico-organizzativo da affrontare, costituiscono gli assi principali intorno a cui può operarsi un processo di formazione delle forze rivoluzionarie. L’aspetto della costruzione delle forze rivoluzionarie vede nella disposizione delle forze sul programma, il piano centralizzato su cui si definiscono le attività che le forze devono condurre e la suddivisione delle responsabilità necessaria. Anche la disposizione delle forze sul programma può essere operata progettualmente sintetizzando, nel calibramento dei compiti, gli elementi che consentono l’efficacia nelle realizzazioni programmatiche con l’avanzamento del complesso dei termini necessari per andare a sciogliere il nodo di fase, cioè la Ricostruzione di un’Organizzazione Comunista Combattente che agisca da partito per costruire il Partito, tra cui lo sviluppo dell’autonomia politico-operativa, quale obiettivo legato a questo nodo e ai caratteri della tappa attuale. Progettazione della disposizione delle forze sul programma che si dimostra efficace, sul piano tanto delle realizzazioni programmatiche, specifiche, che della costruzione politico-organizzativa, in relazione alla capacità derivante dalla prassi concreta, e dalla sua analisi scientifica, di analizzare i compiti e le responsabilità, capendone il livello di complessità e di complementarità con altri compiti e ruoli. In sintesi: ideologismo e spontaneismo, ed esecutivismo e genericismo, come portato dei primi, costituiscono i limiti di formazione dell’autonomia di classe che si dispone sul piano rivoluzionario, che solo le fratture soggettive necessarie per l’assunzione di una responsabilità di avanguardia, l’adozione del metodo politico-organizzativo e il riferimento conseguente alla linea generale che viene definita possono governare-superare, mettendo in grado di assumere il metodo prassi-teoria-prassi come riferimento reale e non formale dell’agire rivoluzionario, consentendo di costruire un patrimonio politico-operativo collettivo e di accedervi, consentendo di qualificare l’identità comunista e di stabilizzarla a livello di concezione della realtà e del proprio ruolo di avanguardia in essa. Al contempo, la costruzione di una O.C.C. si misura con la costruzione di quegli strumenti e passaggi politico-organizzativi che ne consentono la mobilitazione e l’azione programmata (progettazione-programmazione-pianificazione-esecuzione-verifica), i termini dei quali si definiscono nel processo prassi-teoria-prassi e nel maturarsi di quelle condizioni politiche e materiali che consentono di sperimentarli e ricentrarli, e che, a loro volta, costituiscono la concretizzazione di un metodo politico-organizzativo del lavoro collettivo, nel quale ogni compito, seppur parziale costituisce momento di esercizio di un ruolo di avanguardia che collega, nella definizione degli obiettivi dell’agire e del modo di operare per conseguirli, l’aspetto della progettazione politica, cioè dell’articolazione funzionale della linea politico-generale e della progettualità, alla programmazione e pianificazione sviluppata con metodo scientifico, alla conduzione dell’esecuzione, al bilancio e riadeguamento della prassi, alla centralizzazione dei risultati, problemi e patrimonio. La prassi evidenzia come i piani di fondo su cui avanza la ricostruzione di una forza rivoluzionaria siano: la qualificazione dei caratteri d’avanguardia, esprimibili nell’esercizio di conduzione dell’attività a tutti i livelli, come espressione di autonomia politico-operativa e di responsabilizzazione complessiva, la regolarizzazione degli apporti, e la militanza regolare. Su questi poggia la possibilità di trasformare lo stadio aggregativo delle forze rivoluzionarie, in Organizzazione Comunista Combattente, e questo è un processo che, per quanto abbia conseguito il significativo passaggio del rilancio dell’iniziativa combattente e dell’esercizio di un ruolo di direzione politica nello scontro, è solo avviato, e ha come propria tappa la costruzione di un’O.C.C. che agisca da partito per costruire il Partito e, che, in quanto tale, possa costituire il Nucleo Fondante il Partito.

E’ perciò questo l’obiettivo che le Br-Pcc propongono alle avanguardie rivoluzionarie congiuntamente all’obiettivo della ricostruzione del complesso di strumenti politico-militari-teorici e organizzativi necessari al campo proletario per sostenere lo scontro prolungato con lo Stato per l’affermazione degli interessi generali della classe. Parallelamente, alle forze e istanze rivoluzionarie e antimperialiste della nostra area geopolitica, le Br-Pcc propongono la costruzione del Fronte Antimperialista Combattente per la realizzazione di attacchi convergenti e comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo al fine di indebolirne il dominio, quadro entro cui sviluppare i processi rivoluzionari nei singoli paesi.

Attaccare e disarticolare il progetto neo-corporativo, cuore politico della rifunzionalizzazione dello Stato imperialista e della ristrutturazione economico-sociale in Italia

Costruire le condizioni della guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato

Rilanciare la prospettiva della presa del potere politico come sbocco alla crisi della borghesia o alla sua guerra, e unico piano di avanzamento della lotta di classe

Agire da partito per costruire il Partito Comunista Combattente

Attaccare la coesione europea che rafforza la B.I. nei confronti del proletariato del centro imperialista e dei paesi dominanti

Attaccare la Nato e lo sviluppo della guerra imperialista

Promuovere la costruzione del Fronte Antimperialista Combattente

Trasformare la guerra imperialista in avanzamento della guerra di classe e rivoluzionaria

Guerra alla guerra

Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti

Maggio 1999

BRIGATE ROSSE per la costruzione del PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE

Nuclei Comunisti Combattenti, Volantino dell’azione contro il Nato Defence College

GUERRA ALLA GUERRA! GUERRA ALLA NATO!

Il giorno 10/01/94 i NUCLEI COMUNISTI COMBATTENTI hanno attaccato la sede del NATO DEFENCE COLLEGE (Collegio di Difesa della Nato) a Roma, struttura che si occupa della formazione di quadri politici e militari da inserire in ruoli dirigenti nella Nato o nelle amministrazioni nazionali ad essa collegate. Con questa iniziativa politico-militare gli N.C.C. hanno voluto colpire il ruolo svolto dalla Nato all’interno della strategia imperialista di “nuovo ordine mondiale” e in tal modo riproporre alle forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterraneo-mediorientale la costruzione ed il consolidamento del FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA che costituisce il passaggio politico più idoneo a sostenere lo scontro con l’imperialismo in questa fase. Il Fronte è l’organismo politico-militare più adeguato a colpire le politiche dell’imperialismo nella nostra area geopolitica, area in cui si concentrano tutti i fattori di crisi dell’imperialismo, sul piano classe-Stato, nord-sud, est-ovest, ricomponendo sul piano della soggettività rivoluzionaria l’oggettiva convergenza di interessi espressa dalle forze rivoluzionarie e dalle lotte proletarie nei paesi del centro imperialista con quelle della periferia col fine di favorire il più vasto schieramento combattente contro l’imperialismo, nemico comune. Una convergenza oggettiva data dall’inserimento di processi rivoluzionari distinti, per le diversità delle caratteristiche strutturali delle formazioni economico-sociali, in un processo storico concreto unitario di approfondimento; della crisi imperialista e di accelerazione della tendenza alla guerra da un lato e di inderogabile proposizione della guerra rivoluzionaria di classe o di popolo come alternativa alla crisi della borghesia dall’altro e dal confronto con un unico nemico che persegue precise politiche che si riversano in maniera differente sulle condizioni politiche e materiali del proletariato e delle forze rivoluzionarie del centro e sui popoli della periferia. Crisi della borghesia imperialista che ha la sua origine nella sovrapproduzione di capitali impossibilitati a impiegarsi nuovamente nella produzione secondo il livello di valorizzazione richiesto e che provocano recessione e depressione spingendo alla distruzione del capitale eccedente all’interno di una nuova definizione della divisione del lavoro e dei mercati. Di qui il carattere di necessità della guerra nel modo di produzione capitalistico e l’innescarsi di processi lungo i quali maturano le condizioni concrete per le scelte guerrafondaie.

Il nuovo contesto disegnato dalla rottura degli equilibri politici internazionali costituisce un complesso di condizioni favorevoli allo sviluppo della tendenza alla guerra, come dimostra l’intervento militare nel Golfo operato sotto il cappello Onu, la spinta data alla destabilizzazione e alla guerra in Yugoslavia con il riconoscimento di Slovenia e Croazia e all’esacerbazione dei fattori di instabilità nell’area balcanico-danubiana con il riconoscimento della Macedonia – forzature in cui si sono distinte la Germania e l’Italia – o ancora l’offensiva al popolo curdo per stabilizzare l’avamposto turco e la trattativa in Medioriente con cui gli Usa tentano di incidere sui rapporti di forza nel conflitto sionista-palestinese per riqualificare il ruolo di Israele nell’area mediorientale, centrale per il controllo della produzione petrolifera e delle rotte strategiche. Ma altresì, a fianco della tendenza alla guerra imperialista si sviluppa la tendenza alla rivoluzione nel centro quanto nella periferia ed è il portato di questa tendenza, processi rivoluzionari in corso, che vanno stretti sul piano soggettivo in un’alleanza che costruisca momenti di unità pratica intorno all’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, attacco rivolto ad indebolire l’imperialismo, favorendo una condizione di ingovernabilità che consenta l’avanzamento dei processi rivoluzionari a livello dei singoli paesi. Con l’iniziativa politico-militare di attacco alla Nato i Nuclei Comunisti Combattenti danno corpo all’internazionalismo proletario che da sempre caratterizza la prassi dei comunisti.

Nelle politiche dell’imperialismo continua ad essere centrale il ruolo giocato dalla Nato, l’organismo politico-militare costituito all’indomani della seconda guerra mondiale con funzione controrivoluzionaria interna ai paesi dell’alleanza e di affrontamento e accerchiamento del campo dei paesi socialisti, che nel nuovo quadro di equilibri politici internazionali vede esaltata la sua funzione di sede e strumento privilegiato del dominio della catena imperialista egemonizzata dagli Stati Uniti. E’attorno ad essa che nella strategia imperialista del “nuovo ordine mondiale” espressa nella dottrina della “presenza avanzata” viene articolata una complessa e flessibile architettura costituita da organismi politico-diplomatici e da organismi politico-militari deputati a operare i passaggi di realizzazione della strategia (Csce, Onu, Ueo, Naac). Il vertice Nato si colloca proprio nella congiuntura di definizione di tale architettura istituzionale nella quale occupa un posto importante il nodo dell’associazione dei paesi dell’est europeo alla Nato concepita secondo la formula della partnership che preclude l’automatismo dell’intervento Nato a difesa dei paesi che appartengano a questo livello di alleanza, ma rende possibile l’espletamento del ruolo di gendarmi dell’area da parte dei paesi aderenti supportati dall’Alleanza. Esso viene convocato a conclusione di un processo iniziato nel 1991 col vertice di Roma in cui fu enunciata la nuova dottrina di “presenza avanzata” assunta dall’Alleanza e sperimentata in precedenza nel massacro del popolo iracheno, momento storico che ha costituito la svolta nell’attivazione fuori area delle forze della Nato, nella tenuta dell’Alleanza e del vasto schieramento di forze armate e interessi politici mobilitati attraverso l’Onu, e proseguito con l’attivazione delle forze Ueo nel pattugliamento dell’Adriatico e delle forze Nato per il controllo dei cieli nel conflitto jugoslavo, con l’intervento Onu in Somalia e con esercitazioni congiunte in ambito Naac tra forze della Nato e dei paesi dell’est europeo. La ridefinizione della concezione strategica della Nato ed in particolare il vertice di Bruxelles del ’94 tendono a provare la capacità statunitense di rappresentare l’interesse generale imperialista a fronte della necessità dell’intera catena di garantirsi condizioni di dominio sul proletariato e sui popoli adeguate alle condizioni di crisi in cui versa il modo di produzione capitalistico che richiedono sempre più l’affrontamento in termini militari delle contraddizioni che esso fa sorgere. La crisi di sovrapproduzione di capitale per le caratteristiche di integrazione e interdipendenza, venutesi a determinare storicamente, della catena imperialista preme per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro soprattutto lungo le linee di demarcazione est-ovest puntando alla distruzione del patrimonio produttivo dei paesi dell’ex-campo socialista. Se l’apertura di questi paesi ad economia pianificata all’economia di mercato ha già provocato la paralisi e l’abbandono di fette consistenti di attività produttive, l’impoverimento acuto della maggioranza della popolazione e l’imbarbarimento delle relazioni sociali, le peculiarità delle economie di transizione tanto più marcate quanto più profondi erano stati i processi rivoluzionari rendono problematica la trasformazione di tutti i paesi dell’est in aree di investimento proficuo per il capitale monopolistico al punto da contenere gli effetti perversi della caduta tendenziale del saggio di profitto e da riaprire un periodo di ripresa economica. Per queste ragioni strutturali si approfondisce la tendenza alla guerra che si alimenta dell’instabilità politica che le contraddizioni politiche e materiali producono.

In questo contesto di crisi generale è decisivo per l’imperialismo dotarsi della capacità di intervenire in ogni area di crisi con tempestività preservando il delicato equilibrio tra l’ordine nel proprio dominio e la destabilizzazione laddove questo non è esercitato, tra imposizione della forza e legittimazione. Per una capacità di intervento così dispiegata non è più sufficiente la sola attivazione delle forze statunitensi, ma è necessario attivare a seconda delle caratteristiche dell’intervento un complesso di forze mobilitabili sotto diverse sigle ma vincolate alla Nato e agli Stati Uniti dalla disparità di potenza e dal possesso da questi detenuto dell’infrastruttura logistica per operare a livello planetario. Di qui l’importanza della messa a punto e dell’operativizzazione della Ueo (come pilastro europeo della Nato) della partnership con i paesi dell’est, della riforma dell’Onu e della mobilitazione dei caschi blu. Questa complessa strategia in particolare in Europa, teatro in cui man mano che procede il mutamento del quadro geopolitico per la modifica dei rapporti di forza tra est e ovest si concentrano tutte le contraddizioni di quest’epoca storica, richiede la maturazione di processi complementari che apportino le trasformazioni necessarie a sostenere i compiti derivanti dalla dottrina della presenza avanzata, relativi sia alla sicurezza del territorio da cui partono le operazioni militari (retroterra logistico) sia all’attivizzazione esterna delle forze armate ai vari livelli di mobilitazione previsti. Un complesso di trasformazioni che investe gli assetti costituzionali, come quelli istituzionali dei vari paesi dell’Alleanza, la composizione delle forze armate e il loro stesso ruolo. La messa a punto di queste politiche ha un riflesso decisivo sulle dinamiche di sviluppo dell’opzione bellica, mentre su di esse influisce quel processo decennale seppur non lineare di coesione europea atto a creare un favorevole ambito alla concentrazione e centralizzazione capitalistica a livello continentale e che trova sintesi, man mano che la crisi spinge a scelte di tipo politico e militare, nelle politiche di difesa comune.

Il “Nuovo modello di difesa” risponde a queste esigenze e un processo di atti materiali, provvedimenti governativi e forzature politiche, ne hanno già radicato i presupposti e approvato la sostanza. Con le operazioni Forza Paris e Vespri Siciliani sono passati i principi della professionalizzazione delle forze armate, dell’uso dell’esercito in funzione di ordine pubblico, di rimilitarizzazione delle forze di polizia e del trasferimento progressivo delle funzioni investigative e repressive dalla magistratura all’esecutivo. I risultati ottenuti dall’invio dell’esercito in Sicilia giustificato in funzione antimafia, sono essenzialmente relativi al controllo preventivo della popolazione, ragione per cui sono stati valutati tanto soddisfacenti da far approvare un’estensione dell’intervento alla Calabria e al napoletano. Queste operazioni, peraltro non del tutto riuscite e non certo per l’opposizione dei “democratici” mentre rendono palese l’acutezza dello scontro di classe in corso nel paese, si prefiggono di mantenere ed estendere il capillare controllo del territorio per più ragioni: sia per la sicurezza del retroterra logistico nell’ambito del rafforzamento e dell’attivizzazione fuori area del fianco sud della Nato, sia per contenere e reprimere gli effetti degli attacchi alle condizioni di vita del proletariato con i quali il capitale cerca di recuperare i margini di profitto erosi dalla sua crisi, sia in funzione controrivoluzionaria.

Le dinamiche della crisi dell’imperialismo e la nuova situazione internazionale determinatasi con la rottura degli equilibri postbellici impongono ad ogni Stato di manovrare per evitare di retrocedere o per migliorare la propria posizione nella gerarchia della catena imperialista. Catena che a partire dal secondo dopoguerra è andata configurandosi secondo linee di sempre maggiore integrazione, per cui la crisi si è ripercossa in ogni paese ed è stata affrontata negli anni 80 approfondendo ulteriormente l’integrazione monopolistica sotto la guida degli Stati Uniti che hanno adottato il riarmo come stimolo economico, mantenendo la propria egemonia nella ridefinizione della gerarchia della catena. La produzione ha subito un processo ulteriore di internazionalizzazione e globalizzazione nel quale persino i singoli comparti produttivi sono stati allocati internazionalmente secondo criteri di vantaggio competitivo. A tale processo ha corrisposto la politica neoliberista rivolta ad abbattere gli ostacoli alla massima libertà di movimento e di impiego dei capitali come insieme di misure per contenere gli effetti della crisi. In tale contesto l’Italia occupa un posto particolare determinato dalla debolezza strutturale storica del capitalismo interno e dal patrimonio di lotta proletaria e rivoluzionaria. Per queste ragioni essa è costretta ad assumere un ruolo sempre più aggressivo all’esterno facendosi carico degli interessi generali della catena pena la perdita di posizioni in essa e il conseguente accumularsi di fattori di crisi sociale all’interno, dall’altro lato deve forzare i termini della mediazione classe/Stato attorno a cui si articolata la prima Repubblica sia per dotarsi di quell’impianto politico-istituzionale adeguato al ruolo interventista, che per rastrellare risorse – in un difficile contesto recessivo – a sostegno del capitale monopolistico interno nella lotta di concorrenza intermonopolistica, che per creare quelle condizioni favorevoli all’investimento di capitali esteri nel paese in funzione di argine alla deindustrializzazione indotta dal restringimento della base produttiva implicato dalla crisi di sovrapproduzione di capitale e dall’esportazione di capitali in aree che offrono maggiori margini di profitto, che infine per garantirsi il governo delle contraddizioni antagonistiche capitalizzando gli effetti di un decennio di controrivoluzione. La riforma dello Stato come insieme di misure volte alla rifunzionalizzazione degli istituti e degli apparati statali secondo le linee di un’accentuata esecutivizzazione e verticalizzazione dei processi di formazione decisionale ha il suo cuore politico nella riforma elettorale ossia nella riforma delle procedure di legittimazione dell’assetto statuale-governativo ed è intorno ad essa che è maturata la crisi degli equilibri politici interni e dei partiti, per le implicazioni che la riforma in senso maggioritario e uninominale ha sulla rappresentanza politica. L’ingovernabilità derivatane è stata relativa per la sostanziale unanimità delle forze che hanno sostenuto il governo Ciampi sulle linee programmatiche relative al nodo del “risanamento economico” espresse nella finanziaria e nell’accordo del 3 luglio e in tutti quei provvedimenti che pur non avendo titolo per essere inseriti nel dibattito parlamentare sulla finanziaria sono stati ad essa furbescamente affiancati ed approvati (scuola, forze armate etc. ). Sostegno al governo che ha visto esaltato il ruolo del P. D. S. e dei sindacati confederali, impegnati nel confermare la loro piena disponibilità a farsi carico, degli interessi della borghesia imperialista, appoggiando e garantendo una veste di legittimità democratica ad uno dei più pesanti attacchi alle condizioni politiche e materiali del proletariato dal dopoguerra ad oggi.

In particolare l’accordo del 3 luglio ha formulato una vera e propria carta costituzionale delle “relazioni industriali” e ha costruito la cornice istituzionale della dialettica neocorporativa, cornice già indicata nell’accordo del 31 luglio precedente. L’accordo neocorporativo diventa la sede legittimata alla definizione delle politiche economiche costituendo un tassello nel processo di rifunzionalizzazione dello Stato. Questi accordi hanno costituito la base politica su cui sono avanzati i provvedimenti in materia di politica economica dei governi Amato e Ciampi, provvedimenti che con l’attacco ai salari, la destrutturazione dello stato sociale e l’intensificazione dello sfruttamento capitalistico, operato grazie alla precarizzazione e alla liberalizzazione dell’impiego della forza-lavoro, scaricano sul proletariato i costi della crisi capitalistica, tentando di rendere le condizioni della classe operaia una variabile totalmente dipendente dagli interessi di profitto del capitale.

I Nuclei Comunisti Combattenti ben individuarono la centralità di questo nodo politico nello scontro di classe, collocando su questo terreno l’attacco alla sede della Confindustria a Roma il 18/10/’92. Infatti nel corso della ridefinizione della mediazione politica tra le classi attraverso il processo di rifunzionalizzazione dello Stato, per rendere quest’ultimo idoneo agli attuali livelli di sviluppo/crisi dell’imperialismo e ai corrispettivi termini di governo del conflitto di classe, un passaggio centrale è stato quello del trasferimento di alcuni aspetti del processo di formazione delle scelte politiche, in particolare riguardo alle politiche economiche, dalle sedi parlamentari a sedi esterne al rapporto tra poteri istituzionali e una di queste sedi è stata la trattativa neocorporativa governo-confindustria-sindacati. La dialettica istituzionale governo/parlamento maggioranza/opposizione, intorno a cui si formano le scelte politiche secondo l’assetto costituzionale della prima Repubblica è un percorso lento e contraddittorio (prescindendo dalle forzature operate in questi ultimi anni con il continuo ricorso alla decretazione d’urgenza e alla fiducia)

Le ragioni di questa contraddittorietà sono insite nei termini delle relazioni politiche tra le classi presenti in Italia. I rapporti di forza scaturiti dalla II guerra mondiale avevano infatti imposto l’assetto costituzionale della I Repubblica, dove la lentezza dell’iter legislativo era una forma di garanzia democratica che avrebbe dovuto consentire alle rappresentanze istituzionali della classe di sviluppare, riguardo alle scelte politiche, una mobilitazione di massa nel paese in modo da avere maggiori possibilità di condizionare l’azione del governo. Anche la contraddittorietà dei processi decisionali era legata alla permeabilità delle sedi parlamentari rispetto ai condizionamenti provenienti dallo scontro di classe. Questo perché le forze politiche, nonostante i “sistemi di potere” di cui si avvalgono, sono legate al rapporto con l’elettorato di riferimento, agli interessi che rappresentano, rapporto che crea condizionamenti e vincoli nel loro agire. L’approfondirsi della crisi capitalistica rende sempre più pressante per la borghesia imperialista la necessità di incidere sulla mediazione politica tra classe e Stato, per realizzare interventi drastici e rapidi, in particolare sulle materie di politica economica; in ragione di ciò si afferma l’esigenza della definizione di sedi, soggetti e procedure, che rendano tali interventi meno contraddittori perché più svincolati dai condizionamenti derivanti dall’andamento del conflitto di classe. E’ all’interno di questa logica che in Italia prendono corpo gli accordi neocorporativi nei quali i soggetti, le parti sociali, sono meno condizionabili dalle dinamiche dello scontro, rispetto ai partiti politici.

I sindacati confederali infatti sono un’organizzazione privata autorappresentativa, verticalizzata e centralizzata. La legittimità dei dirigenti sindacali a fare accordi validi per tutti i lavoratori nasce dal mandato conferitogli esclusivamente dagli iscritti al proprio sindacato e queste iscrizioni sono il frutto di una tradizione storica legata alla stagione del “sindacato conflittuale” e di un potere burocratico-amministrativo che i confederali si sono ritagliati avvalendosi del monopolio dell’azione sindacale riconosciutogli per legge. Nell’ambito del “processo di riforma dello Stato” caratterizzato dall’esecutivizzazione e dal sistema elettorale maggioritario avremo un quadro politico dove il parlamento svolge un ruolo di controllo e di ratifica dell’operato dell’esecutivo, un sistema quindi estremamente sbilanciato, dove gli accordi neocorporativi rimangono l’unica sede in cui l’esecutivo può tentare di comporre lo scontro di classe bilanciando i suoi interventi attraverso il confronto con i sindacati di regime. Una composizione che in realtà si articola proprio nell’interposizione di un complesso di relazioni e strutture formalizzate che radicandosi sul presupposto della compatibilità con gli interessi del capitale costituiscono un filtro politico attraverso cui selezionare le istanze di lotta che nascono nello scontro e delegittimare automaticamente ciò che non è in linea con questa compatibilità.

In questo contesto si riconferma la validità della strategia della lotta armata per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, come unica in grado di rappresentare l’autonomia di classe, nella capacità di incidere nel quadro politico dei rapporti di forza tra le classi in direzione di una soluzione proletaria alla crisi che attanaglia la borghesia imperialista. La guerra di lunga durata proposta dalle BR-PCC a tutta la classe, secondo il principio dell’unità del politico e del militare è l’unica progettualità in grado di affrontare e sostenere lo scontro politico nell’attuale fase dell’imperialismo.

I Nuclei Comunisti Combattenti riconoscono la centralità delle BR all’interno del percorso rivoluzionario del proletariato e la validità del loro impianto politico assumendolo come proprio. Esso a partire dalla centralità della questione dello Stato e dalla concezione leninista di esso e misurando la prassi rivoluzionaria con quelli che sono stati i cambiamenti nelle forme di dominio della borghesia imperialista, si articola secondo i principi che consentono alla Guerriglia di affrontare lo scontro con lo Stato in una guerra di lunga durata. L’attività di combattimento è volta alla disarticolazione degli equilibri politici per causare una relativa crisi del quadro politico ed acquisire forza politica da usare nel lavoro di costruzione delle forze che si dialettizzano con la linea politica dell’organizzazione. Sul piano organizzativo-operativo la guerra di classe di lunga durata richiede l’adozione dei principi di clandestinità e compartimentazione nella strutturazione per cellule delle forze, di centralizzazione nel movimento delle forze e di unità del politico e del militare nell’agire della Guerriglia. Sul piano programmatico l’iniziativa rivoluzionaria si articola intorno a due assi strategici, quello dell’attacco al cuore dello Stato e quello alle politiche centrali dell’imperialismo secondo i criteri di centralità selezione e calibramento. Ed è su questo terreno che la Guerriglia, operando secondo il criterio dell’agire da Partito per costruire il Partito, in stretta dialettica con le istanze dell’autonomia di classe lavora alla costruzione del Partito Comunista Combattente.

Su queste direttrici si è dimostrata la massima capacità per una forza rivoluzionaria di incidere sul piano politico e far avanzare il processo rivoluzionario.

All’interno dell’attuale fase di Ritirata Strategica che connota la situazione delle forze rivoluzionarie nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, che è tesa a un prevalente ripiegamento per rilanciare la capacità offensiva, i Nuclei Comunisti Combattenti collocano la propria offensiva antimperialista nel quadro della complessa ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e del più generale processo di ricostruzione delle forze, un quadro su cui influiscono i termini dello scontro politico generale tra classe e Stato, scontro sul quale gli N.C.C. si prefiggono di far gravare la rappresentanza dell’autonomia di classe espressa dall’opzione rivoluzionaria immettendovi la propria prassi offensiva.

Nel processo di ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e di ricostruzione delle forze rivendichiamo l’offensiva condotta il 3 settembre 1993 contro la base Usa di Aviano e procediamo con la massima determinazione sul cammino iniziato venti anni fa dalle Brigate Rosse consapevoli che la non linearità del processo rivoluzionario può solo provocare l’illusione tra le fila della borghesia che il “nuovo” e le “nuove” forze politiche che si candidano ad esercitare il suo dominio saranno capaci di contenere e sopprimere l’istanza rivoluzionaria che sorge dalle lotte proletarie, quando questa ha la propria ragione oggettiva nel sistema di sfruttamento e di dominio praticato dalla borghesia e in esso trova il suo alimento.

Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di riforma dello Stato che evolve verso la II Repubblica!

Organizzare i termini politico-militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata!

Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo, dalla linea di coesione europea ai progetti di guerra diretti dalla Nato, che si dispiegano in questo momento lungo l’asse dei paesi dell’est Europa e sulla regione mediterranea-mediorentale!

Lavorare alle alleanze necessarie alla costruzione del fronte combattente antimperialista!

Guerra alla guerra, guerra alla Nato!

Trasformare la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria!

Onore alla compagna Barbara Kistler rivoluzionaria antimperialista caduta in combattimento nel febbraio del ’93!

Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

Nuclei Comunisti Combattenti per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

Pubblicato in «Controinformazione internazionale» n. 12.

Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana. Sviluppo della Prima posizione del settembre 1984

Opuscolo, Madrid, Novembre 1984

“…Ma al tempo stesso proprio la grande sconfitta è per i partiti rivoluzionari e per la classe rivoluzionaria una lezione effettiva e molto utile, una lezione di dialettica storica, una lezione che fa loro capire ed apprendere l’arte di condurre la lotta politica”.

A due anni e mezzo dalla sconfitta dell’82, si dà non più solo come necessario ma anche possibile un bilancio autocritico della nostra esperienza al fine di rilanciare una teoria-prassi rivoluzionaria che, nel vivo dello scontro, è maturata grazie anche agli errori commessi. Una spietata riflessione su questi errori è richiesta non solo dalla portata della sconfitta ma dalla consapevolezza che una seconda prova d’appello ci è preclusa, perché non sarebbe altro che la riproposizione farsesca di quella esperienza. Per questo, nel definire i termini dell’autocritica, vanno evitati due errori: 1) riproporre sotto altre forme la sostanza di un impianto già verificatosi fallimentare; 2) ricercare un impianto corretto sotto forma di esercizio di purismo teorico astratto, non vincolato all’adeguatezza di una verifica storica. In questo senso, stanare gli errori e i vizi di ragionamenti antidialettici, antimaterialisti, quindi idealisti, va perseguito col massimo rigore a partire dai principi del marxismo leninismo e dall’esperienza storica teorico-pratica fin qui acquisita dal marxismo rivoluzionario.

Le Brigate Rosse nascono in Italia dopo 20 anni di relativa pace sociale caratterizzati dal ciclo espansivo del capitale dopo il secondo conflitto mondiale e dalla gestione revisionista dell’antagonismo proletario, tesa a perpetuare una condizione di conciliabilità tra interessi di classe che gli permettesse la legittimazione della sua stessa collocazione quale forza politica “democratica” progressivamente inseribile nell’arco delle forze di governo. Al di là di pure enunciazioni propagandistiche, la “via nazionale al socialismo” costituisce l’elaborazione teorica del tentativo storico del revisionismo di smantellare una volta per tutte ogni “velleità” di trasformazione rivoluzionaria della società. La rivoluzione proletaria per i partiti revisionisti che avevano rotto col marxismo rivoluzionario e portato a degenerazione reazionaria le contraddizioni della politica dei “due tempi” della Terza Internazionale, non solo non era più possibile, ma neanche necessaria. Le “acute” riflessioni di Berlinguer all’indomani del colpo di stato in Cile e l’accelerazione della politica di alleanza con la DC, sono degne figlie della rottura operata dal Pci sotto la guida di Togliatti, in cui inizia un processo di sproletarizzazione di questo partito che costituisce la base materiale di tutta la successiva maturazione e collocazione in termini filoccidentali e socialdemocratici.

Alla fine degli anni ’60 si vive una situazione politico-sociale di grande trasformazione, una composizione di classe drasticamente mutata, un relativo benessere, una notevole stratificazione di classe. Ma si assiste anche al coagularsi di diverse contraddizioni: uno scenario internazionale violentemente scosso da conflitti locali che assumevano il carattere di liberazione nazionale antimperialista; il consolidamento della dittatura del proletariato in Cina con la “rivoluzione culturale”; la ricerca conflittuale di un nuovo equilibrio nella spartizione del mondo tra i due blocchi imperialisti principali e la entrata in crisi della “coesistenza pacifica”; la fine dell’ondata espansiva del ciclo capitalistico; il congiungersi di un’ondata di antagonismo operaio e proletario nelle metropoli occidentali con i preesistenti conflitti che caratterizzavano il difficile rapporto centro imperialista – periferia. Nei paesi capitalisti un modello di sviluppo comincia ad entrare in crisi e si apre una congiuntura favorevole alla lotta di classe alle cui caratteristiche anticapitalistiche si aggiunge un profondo “sentimento” antiamericano, suscitato soprattutto dall’eroica guerra di liberazione del Vietnam.

Nel nostro paese, l’estensione, la maturità, la durata e il carattere fortemente proletario espressi in quel ciclo di lotte, costituiscono la condizione per il costituirsi di un ampio movimento rivoluzionario. La sostanza politica della mobilitazione del fronte proletario in quegli anni, affermava la profonda consapevolezza della critica al modo di produzione capitalistico e al revisionismo, dando prova concreta di una riaffermata capacità di espressione di autentica autonomia di classe. Tra le avanguardie più coscienti, il dibattito verte intorno alla questione dell’organizzazione rivoluzionaria e di una teoria-prassi della rivoluzione proletaria nei paesi imperialisti. L’antiparlamentarismo ne costituisce il comune denominatore; il marxismo leninismo rivoluzionario la discriminante di fondo.

In questa situazione le Br compiono l’effettiva rottura storica tanto col pacifismo quanto con il velleitarismo gruppettaro che coll’”emmellismo” impotente, mettendo in pratica la sostanza dell’alternativa proletaria rivoluzionaria al sistema politico borghese dei partiti sul piano del marxismo leninismo, pur negli evidenti limiti di un’esperienza neonata. E lo fanno con la proposta strategica della Lotta Armata per il Comunismo come unica condizione per fare politica rivoluzionaria in quest’epoca storica e dare prospettiva e sbocco alla lotta delle masse. Le Br propongono quindi uno sviluppo del processo rivoluzionario proletario, necessariamente originale, dato che ritengono possibile e necessario, in una situazione non rivoluzionaria, dare inizio a un processo di “guerra di lunga durata” caratterizzata dalla lotta armata nella forma della guerriglia metropolitana. Le Br, cioè, non solo rompono con la concezione insurrezionale terzointernazionalista, ma ritengono impossibile in ogni caso la riproposizione di un lavoro di accumulo di coscienza e di organizzazione rivoluzionaria prima, per impiegarla poi anche in termini militari in un ristretto arco di tempo.

La lotta armata viene concepita come una strategia rivoluzionaria perché la sola che mette in grado di muoversi sul terreno rivoluzionario, di potere, sfruttando le contraddizioni che apre nei confronti dello Stato, costringendolo a liberarsi di ogni velo di neutralità e a materializzare la sua natura di classe; a rompere il gioco paralizzante (per il proletariato) dell’altalena repressione-riforme, funzionale al rafforzamento del potere della borghesia. L’agire politico-militare dei comunisti apre la fase rivoluzionaria a partire da una progettualità rivolta, inizialmente, alle avanguardie in stretta dialettica con i contenuti di potere espressi dalle lotte oggettivamente e dai settori più avanzati della classe anche soggettivamente, per rappresentarne gli interessi generali e dare prospettiva concreta all’interesse storico di alternativa rivoluzionaria di potere. In questo senso le Br applicano uno dei presupposti fondamentali del marxismo rivoluzionario, consapevoli che “il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate ma al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione potente, serrata, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.

Il problema centrale per dei marxisti non è dunque la propaganda del carattere borghese e di classe dello Stato, bensì l’attrezzarsi teoricamente-organizzativamente e militarmente a dirigere lo scontro col nemico di classe, in condizioni favorevoli affinché questo scontro possa essere iniziato e sostenuto. Ossia che si dia un livello tale della lotta di classe che generi avanguardie comuniste rivoluzionarie organizzate che si rendano disponibili ad agire come rivoluzionari di professione, come reparti d’avanguardia del proletariato. Per quanto ci è dato constatare dalla nostra stessa esperienza, l’estensione e il radicamento della lotta armata per il comunismo sono dati dal livello di coscienza complessiva espressa dal proletariato metropolitano che rende possibile e sostiene una forza rivoluzionaria clandestina, che pratica il combattimento contro lo Stato. E questo sia in presenza che in assenza di forti movimenti di massa, perché una strategia rivoluzionaria trova legittimità, non come prolungamento naturale della lotta spontanea, ma come risoluzione teorico-pratica della questione del potere, come sedimentazione organizzativa del livello di coscienza di classe che punta alla trasformazione rivoluzionaria dello stato di cose presenti. E’ ovvio che questo è un processo che si svolge secondo tappe precise, che determinano i compiti congiunturali dei comunisti nel perseguimento del primo obiettivo del processo rivoluzionario: la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato. In questo senso il grado d’incidenza dell’agire del partito nella dinamica dello scontro di classe vive dentro condizioni oggettive e soggettive molto precise da cui è impossibile sfuggire, pena il cadere nel pantano del soggettivismo e quindi nella sconfitta.

E’ necessario chiarire dunque che le Br non concepiscono la lotta armata come “uso delle armi” in termini propagandistici come strumento politico dell’educazione delle masse circa la necessità della rivoluzione violenta, come strumento più efficace di alcuni perché è impossibile che lo si ignori, sia da parte dello Stato che da parte del proletariato. E questo perché se si pensa ad uno scontro militare ristretto nel tempo in condizioni eccezionali, non ha nessuna legittimità e senso politico iniziare a combattere quando queste condizioni non ci sono. Sia chiaro che qui non si sta parlando dello scontro, ma della strategia politico militare che può permettere di conquistare rapporti di forza generali favorevoli, tali da mettere il proletariato rivoluzionario in posizione dominante rispetto alla borghesia e allo Stato. L’offensiva finale, presumibilmente, è necessariamente ristretta nel tempo, perché questa può essere sferrata solo in condizioni di particolare debolezza e di crisi economica, politica e militare dello Stato molto acuta, nonché di una congiuntura internazionale favorevole. E tutto questo non si presenta certo tutti i giorni.

Ma se la lotta armata acquista valore di strumento propagandistico o dobbiamo dire che essa deve essere praticata esclusivamente a “legittima difesa” in particolarissime condizioni o bisogna pensare possibile attaccare lo Stato, facendo finta di non attaccarlo, evitando “furbescamente” ogni rispetto delle leggi che una guerra ha, per quanto “particolare” essa sia. Perché se si ritiene che la conquista del potere politico possa avvenire in una versione, se pur aggiornata, dell’insurrezione, non si tiene conto di condizioni mutate che la rendono oggi improponibile. E questo per una serie di motivi:

  1. Il sistema democratico borghese giunto a livello maturo di consolidamento (forma istituzionale adeguata alla estensione e penetrazione raggiunta dal modo di produzione capitalistico a livello sociale e mondiale) è in grado di assorbire le spinte più antagoniste della lotta di classe in un ambito complesso e sofisticato di mediazioni politiche-economiche e militari da cui risulta la capacità della classe al potere di “istituzionalizzare” il conflitto di classe, pur tra lacerazioni e sussulti di un equilibrio sempre precario.
  1. La controrivoluzione preventiva come politica costante, come dato strutturale tesa a impedire ogni convergenza tra interessi proletari e progetto rivoluzionario. Questa non è materializzabile semplicemente nell’agire della magistratura o nella repressione poliziesca, ma è capacità da parte dello Stato di dosare mediazione e annientamento, distruggendo sul nascere, in forma politica-ideologica-militare, la legittimità stessa della rivoluzione proletaria.
  1. L’integrazione a tutti i livelli, pur nelle reciproche autonomie e interessi che la rendono sempre contraddittoria e sempre alla ricerca di nuovi equilibri, della catena imperialista in cui il nostro paese è collocato ed il carattere stesso dell’imperialismo che considera vitale per la sua sopravvivenza ogni angolo del mondo. Questa integrazione, per le caratteristiche strutturali dello stadio raggiunto dal capitale monopolistico multinazionale, fa sì che ogni Stato-membro ne interiorizza gli interessi comuni, o meglio colloca i suoi all’interno del rafforzamento di tutta la catena; e non ultimi sono quelli della difesa comune contro il proletariato e contro i popoli dei paesi dipendenti.

Queste caratteristiche fanno sì che il problema principale non sia tanto quello di propagandare nelle masse il carattere classista della società ed educarle alla necessità della rivoluzione violenta quanto quello di dimostrare la validità e la praticabilità di un progetto rivoluzionario che punta ad una alternativa di potere, mettendo al centro gli interessi del proletariato metropolitano e di quello internazionale. E questo principalmente perché, nonostante l’uso della mediazione politica, del relativo benessere, e della democraticità delle libertà costituzionali, i contrattacchi dello Stato sono comunque indirizzati all’annientamento di ogni tentativo proletario di trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario per il potere.

Pensare che queste condizioni si possano creare di un colpo, senza uno scontro prolungato nel tempo con lo Stato, contraddistinto da una dinamica “a salti” rispetto al mutare delle condizioni soggettive ed oggettive, significa credere possibile che la borghesia possa convivere con una pratica d’avanguardia sul terreno della politica d’avanguardia che incida sempre più profondamente nella dinamica dello scontro tra le classi, senza che le lacerazioni prodotte da questo stato di cose non la costringa ad attaccare direttamente tutte quelle lotte e quegli organismi organizzati della classe che, volenti o nolenti, coscienti o meno, per essere autenticamente fondati sugli interessi proletari, trovano nella politica rivoluzionaria dei comunisti la sola ed unica direzione e prospettiva. E allora se il combattimento dei comunisti non assume la funzione di strategia politica per il processo rivoluzionario del proletariato, le lotte e le mobilitazioni spontanee non possono che arretrare e subire l’inevitabile contrattacco nemico, private della direzione e degli obiettivi necessari. E questo la classe l’ha già sperimentato tutte le volte che ha conosciuto la faccia vera della dittatura democratica della borghesia, sotto forma di carcere, bombe terroristiche di Stato, repressione violenta di manifestazioni di piazza, licenziamenti politici di massa, smantellamento di intere strutture organizzate “d’opposizione”. Tutte queste cose sono servite a sancire nella pratica le regole del gioco per cui gli interessi dello Stato democratico e le conquiste e i “valori” della civiltà occidentale sono la base di un patto sociale che non può essere messo in discussione e con esso nemmeno la legittimità del potere della borghesia. E questo non è stato determinato da una sorta di imposizione ideologica dello Stato e dei revisionisti che hanno reso il proletariato indisponibile alla comprensione e alla accettazione di un livello di scontro “che vada fino in fondo”, per cui basta propagandare la necessità per liberare forze proletarie dal contenimento coatto che ne fanno la borghesia e il revisionismo. Bensì occorre dimostrare che nell’aggravarsi della crisi economica e politica della borghesia, esiste un’alternativa rivoluzionaria e proletaria alla crisi dell’imperialismo che può trasformare i progetti antiproletari e guerrafondai del nemico di classe in processi rivoluzionari per la distruzione dello Stato e la conquista del potere politico. Lo stato di pacificazione che la borghesia s’è assicurata nei paesi più forti della catena è la dimostrazione più chiara di come la risoluzione delle ondate antagoniste e cicli di lotte, anche violenti, sul terreno economico sia possibile dentro un quadro di compatibilità con le esigenze capitalistiche e gli interessi borghesi. E questo nonostante fatti concreti che dimostrano quale futuro l’imperialismo offra al proletariato internazionale: una nuova guerra mondiale. In questo quadro la lotta armata per il comunismo non è lo strumento propagandistico per poi poterla fare, non è l’ultima forma di lotta propria della fase conclusiva dello scontro, ma la strategia che guida dall’inizio alla fine lo scontro necessariamente prolungato con l’apparato statale borghese.

In questo la lotta armata praticata dalle Br si colloca all’interno dell’esperienza del proletariato internazionale e soprattutto del marxismo rivoluzionario che, coll’evolvere delle forme di dominio dello Stato e dell’imperialismo ha trovato e trova all’interno dello scontro di classe le ipotesi rivoluzionarie più adeguate per il raggiungimento dei propri obiettivi.

A questo punto del dibattito è necessario sciogliere un nodo centrale per il futuro della nostra organizzazione. Da più parti si invita a una riflessione critica circa la concezione di “guerra di lunga durata” che l’organizzazione ha assunto all’atto della sua costituzione. Ossia che la sostanza degli errori successivi vada ricercata nell’impianto iniziale di proporsi come Partito Comunista Combattente che sulla lotta armata fonda una strategia per organizzare il proletariato rivoluzionario contro lo Stato. Si dice che la guerriglia sia improponibile in un paese del centro imperialista e che la lotta armata sia uno degli strumenti che il Partito Comunista Combattente usa per educare le masse alla necessità dello scontro militare con lo Stato in condizioni eccezionali. Questo mentre nei paesi più arretrati il condizionamento oggettivo di traumi profondi (quali una guerra imperialista) è meno vincolante, data la condizione di miseria diffusa in cui le classi subalterne sono costrette in ogni caso. A parte lo schematismo facilone con cui la storia dello scontro rivoluzionario viene letta (tanto per dirne una la conquista del potere politico in Cina è avvenuta nel ’49 – ossia nell’immediato dopoguerra – e Mao ha sottolineato e quantificato i risultati della “stupidità” della borghesia imperialista che aiuta oggettivamente con le sue guerre mondiali le rotture rivoluzionarie dove se ne creano le condizioni), va piuttosto incentrata l’attenzione e la critica alle concezioni idealistiche che hanno dominato nella nostra esperienza.

Tutte le esperienze rivoluzionarie basate sul marxismo leninismo concepiscono il problema dell’organizzazione dell’avanguardia come condizione insostituibile per ogni discorso di direzione su milioni di persone. E questo tanto nei paesi industrializzati a forte componente operaia che nei paesi terzi. Tutte le esperienze rivoluzionarie si rivelano possibili perché le condizioni dello scontro generano delle avanguardie rivoluzionarie che operano come reparto d’avanguardia e come rappresentanti dell’interesse generale del proletariato nel rapporto classe-Stato. E non perché la lotta teorica dei comunisti libera avanguardie antirevisioniste. Tutte le esperienze rivoluzionarie si sono trovate di fronte a un passaggio dalla cui risoluzione positiva o meno è derivato il successo stesso del processo rivoluzionario. Questo passaggio è quel delicato salto da propagandisti di una necessità storica (la rivoluzione proletaria) a dirigenti del processo rivoluzionario per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato. Per quanto ci riguarda è il passaggio dalla propaganda armata al costituirsi di un Partito rivoluzionario sulla base di una strategia e una tattica adeguate alla trasformazione della lotta di potere. Ossia dalla lotta politica rivoluzionaria contro lo Stato, per il suo abbattimento. Per dirla con Lenin, il dovere della costruzione del partito “…ci è imposto dal movimento, perché la lotta spontanea del proletariato diventerà una vera lotta di classe solo quando sarà diretta da una forte organizzazione di rivoluzionari”.

Agli inizi degli anni ’70 non c’erano certo le condizioni oggettive e soggettive per la conquista proletaria del potere politico. C’erano però le condizioni per l’apertura della fase rivoluzionaria nel nostro paese, materializzata dalle avanguardie comuniste e rivoluzionarie e legittimata storicamente e politicamente dalla natura dell’antagonismo di classe e del dominio della borghesia. Le contromosse dello Stato alla maturità e “pericolosità” espressa da quel ciclo di lotte, preparavano ancora una volta una risposta durissima dello Stato in termini di repressione e riforme con cui decapitare il movimento e riconquistare rapporti di forza differenti. Le Br lanciano al proletariato una proposta: o accettare lo scontro imposto dalle condizioni nuove sorte in quella particolare congiuntura o subire l’inevitabile massacro politico-militare del contrattacco borghese. Ossia attrezzarsi a consolidare l’offensiva proletaria e i rapporti di forza conseguiti in una prospettiva certa di scontro più avanzato. A questo punto bisogna chiedersi se dobbiamo o no considerare che è stata una strategia politico-militare che ha dato risposta e prospettiva allo scontro di classe nel nostro paese; che ha contribuito alla “tenuta” del fronte proletario agli attacchi terroristici dello Stato; che ha messo lo Stato sulla difensiva inceppando, più o meno sempre felicemente, i suoi progetti di pacificazione forzata sulla pelle del proletariato; che ha ottenuto tante vittorie da costringere lo Stato democratico al ricorso della tortura e delle innumerevoli “eccezionalità” contro la classe e, in particolar modo contro le avanguardie. Questi fatti sono innegabili e solo un’improvvisa e grave amnesia può imputare la portata della sconfitta, all’esserci, nella teoria e nella pratica, fatti riconoscere come l’unica organizzazione in grado di dare soluzione e prospettiva al processo rivoluzionario nel nostro paese, secondo una strategia politico militare a tutt’oggi non ancora superata da altre. Perché su un punto occorre essere molto chiari: in Italia non è stata sconfitta la lotta armata per il comunismo, bensì le sue concezioni idealiste e immediatiste che hanno prevalso nel movimento rivoluzionario e nelle stesse Br.

Un dato portato a riprova delle tesi della inconsistenza della nostra proposta strategica, è, secondo alcuni compagni, rappresentato dalla scarsa o nulla tenuta di molti ex rivoluzionari, che hanno rinnegato alla prima ondata di vento contrario. E’ innegabile il peso che concezioni idealiste, antimarxiste hanno avuto nel contribuire al fallimento della progettualità rivoluzionaria. E’ altrettanto innegabile che proprio i massimi sostenitori di teorie ultrarivoluzionarie stanno oggi dimostrando la loro reale collocazione di classe a fianco della borghesia e contro il proletariato. Né va sottovalutata la carenza dell’Organizzazione nella battaglia teorica contro le ideologie piccolo-borghesi presenti nel movimento rivoluzionario e al suo stesso interno. Ma tutto ciò non deve portarci a considerazioni liquidazionistiche del tipo: tutto ciò che si è espresso non deve più riproporsi, una mobilitazione di simile portata su una strategia politico-militare è sbagliata e va combattuta. In questo modo non si attaccano gli errori, non si isolano proposte sbagliate che nella pratica vengono sconfitte e smascherate, ma si liquida la sostanza stessa della strategia della lotta armata. Inoltre si dimentica che simili rovesci, a fronte di simili errori, sono una costante nella storia del movimento rivoluzionario, a cui si può e si deve porre solo rimedio, e non già comodamente esorcizzarli, mettendosene al riparo col purismo dell’ortodossia. Questo perché l’economicismo, l’operaismo, il terrorismo, l’idealismo, non nascono per incanto a disturbare l’affermazione di una corretta linea proletaria e rivoluzionaria già data, ma trovano legittimità e consenso nel percorso affatto lineare del processo rivoluzionario, anche se la pratica si incarica puntualmente di rivelarne il carattere piccolo-borghese e controrivoluzionario. Sono proprio questi momenti che permettono più di altri l’affermazione di una linea proletaria che si forgia nella lotta contro le idee errate tanto nel proletariato quanto nelle organizzazioni rivoluzionarie. E questa lotta è caratterizzata dalla contraddizione tra unità di opposti e non tra concezioni reciprocamente escludentesi in quanto appartenenti a mondi completamente separati. Ciò non vuol dire lasciare sguarnito il campo della teoria perché sappiamo che così facendo esso non potrà che essere occupato dalla borghesia. Al contrario vuol dire che l’adeguatezza di un impianto strategico e della stessa costruzione dei quadri del Partito, non può essere misurata sulla purezza teorica astratta, bensì sulla saldezza dei principi marxisti leninisti verificati e verificabili nella pratica concreta del processo rivoluzionario, nella comprensione e capacità di applicazione del criterio proletario e rivoluzionario di critica-autocritica-trasformazione. In questo senso l’eclettismo e il dogmatismo sono concezioni entrambe incapaci d’imparare dagli errori, quindi inesorabilmente votate alla sconfitta.

La concezione leninista del ruolo del Partito non va confusa con la pratica politica o col “modello” adottato dal partito bolscevico per la conquista del potere politico nel ’17.Lo stesso Lenin è stato in grado di sintetizzare solo dopo la rivoluzione gli insegnamenti teorico pratici dell’agire rivoluzionario, in particolare il rapporto masse-partito-masse, sottolineandone gli errori, le ritirate e le controffensive. Il processo rivoluzionario non è però neanche cieco e frutto di improvvisazioni, ma trova nel marxismo leninismo e nella esperienza del proletariato internazionale la sua guida insostituibile. Va altresì capito che gli aspetti concreti e storici dell’esperienza bolscevica (lavoro nei sindacati, partecipazione ai parlamenti borghesi, ecc.) non solo non costituiscono teoria rivoluzionaria, ma sono del tutto secondari rispetto alla concezioni fondamentali e sempre valide, che hanno fatto del Partito bolscevico la direzione del processo rivoluzionario in Russia: ossia il lavoro dell’organizzazione rivoluzionaria di classe contro lo Stato e la concezione autenticamente internazionalista della rivoluzione proletaria. Dirsi leninisti vuol dire capire fino in fondo la sostanza della critica rivoluzionaria all’economicismo e al culto della spontaneità; vuol dire applicazione dei principi del marxismo rivoluzionario secondo un’analisi materialistica della situazione concreta; vuol dire…”subordinare la lotta per le riforme alla lotta per la libertà e il socialismo, come la parte è subordinata al tutto”.

In questo senso rifiutare la concezione dei “due tempi” (deviazione revisionista) per sostenere la praticabilità di una concezione originale dell’insurrezione continua a non rispondere ai problemi posti da questo dibattito e dalle ragioni che, al loro costituirsi, hanno portato le Br a concepire la lotta armata come necessaria allo sviluppo della rivoluzione proletaria, a questo stadio della lotta di classe e delle politiche di oppressione della borghesia.

Va anche detto che il rigore dei principi se non è misurato dentro l’esperienza concreta dello scontro di classe, non ha salvato e non salva tutta l’esperienza dell’”emmellismo” eternamente risorgente esattamente perché, contando molto poco nello scontro rivoluzionario, non è mai costretto a fare i conti con lo scontro stesso e, in questo modo, si assicura una sopravvivenza ai margini della lotta di classe, riproponendo noiosamente le sue “eterne verità” e di fatto, chiamandosi sempre fuori e contro i problemi spinosi che la rivoluzione proletaria ha posto e pone.

La storia e l’esperienza di questo secolo di rivoluzioni proletarie e di guerre di liberazione nazionali, hanno chiarito il carattere generale che lo scontro rivoluzionario ha assunto relativamente alle forme di dominio dello Stato e dell’imperialismo. Questo carattere è sintetizzabile nella concezione della guerra rivoluzionaria necessariamente prolungata, di lunga durata, contro lo Stato. Le leggi e le forme di questa guerra, dipendono strettamente dalle caratteristiche socio-politico-economiche delle varie Formazioni Economico Sociali nonché dalla forma Stato. E’ infatti molto differente ragionare a seconda se ci ritrovi in un paese del centro imperialista a democrazia parlamentare o in uno del terzo mondo. All’interno degli stessi paesi imperialisti, lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalista determina condizioni diverse di carattere oggettivo. E questo non è che la riprova storica della validità della concezione leninista degli anelli deboli della catena imperialista. Solo in questi punti è possibile materialisticamente pensare si creino le condizioni oggettive e soggettive più favorevoli alla rivoluzione. Il nostro paese è fuori di dubbio uno di questi.

…la guerra rivoluzionaria di classe si differenzia da quelle di conquiste, per le finalità sociali che persegue e per il carattere proletario che assume. E’ quindi sempre e comunque una guerra che è fortemente dominata dalla politica rivoluzionaria perché pronta alla conquista dei suoi obiettivi tramite la partecipazione cosciente del proletariato rivoluzionario organizzato allo scontro con lo Stato. Questo rapporto di guerra vive mettendo la politica al primo posto (anche se con leggi diverse nelle diverse fasi dello scontro) sia nella fase della conquista del potere politico, che in quella della dittatura del proletariato e il successivo rivoluzionamento della società fino al comunismo. Il passaggio dalla fase iniziale della guerra di classe, condotta dalle avanguardie, a quella del dispiegamento della guerra di classe portata avanti dalle masse organizzate e dirette dal Partito, non è schematizzabile in un passaggio improvviso in cui da azioni di propaganda armata si passa alla distruzione delle forze del nemico in un’ipotetica “ora X” in cui vengono a concentrarsi criticamente tutte le contraddizioni del sistema di potere della borghesia. La guerra di classe non è un processo di accumulo lineare di forza e di organizzazione, fino al punto di poter decidere di sferrare l’ultimo attacco. Le sue tappe sono scandite da condizioni oggettive (prima fra tutte l’aggravarsi della crisi economica e politica della borghesia) e soggettive (il costituirsi di un Partito rivoluzionario che sappia dirigere e favorire la trasformazione del movimento antagonista della classe in movimento rivoluzionario contro lo Stato). Questo significa capacità di elaborazione di strategia e tattica adeguate ad affrontare lo scontro le cui caratteristiche sono date dalle necessità imposte alla borghesia dalla sua crisi e dalla capacità dei comunisti di proporre alla classe alternative chiare e praticabili.

Il costituirsi di un movimento rivoluzionario non coincide con la conquista di tutto il proletariato alle ragioni della guerra di classe. Questo semmai è obiettivo della fase di dittatura del proletariato e del consolidarsi dello Stato proletario nel coinvolgimento delle masse, di tutto il proletariato, al perdurare della lotta di classe. Questo perché il movimento proletario si presenta non come un tutt’uno, ma come una risultanza di diversi livelli di coscienza che non vanno appiattiti l’uno sull’altro, né sostituiti l’uno con l’altro. Il criterio generale è che il Partito deve avere una profonda influenza nelle dinamiche della lotta di classe, quindi all’interno di tutto il proletariato, ma rappresentandone l’elemento cosciente e organizzato, non appiattisce le sue proposte alla medierà del livello raggiunto dalle “masse in lotta”, ma pone il livello più maturo come la base reale su cui è necessario e possibile lo sviluppo del processo rivoluzionario della classe. Ossia fa in modo che “la massa operaia non solo avanzi le rivendicazioni concrete, ma generi anche dei rivoluzionari di professione in numero sempre più grande”. E questo perché la coscienza della necessità della rivoluzione sorge accanto e non dalle lotte delle masse, come suo prolungamento naturale tutto dipendente da condizioni oggettive; si costruisce cioè a partire da una dialettica precisa tra attività d’avanguardia e movimento spontaneo; si costruisce come salto dialettico che non trova nello stesso momento disponibili milioni di proletari.

Dall’altro lato l’esistenza di frange, di spezzoni rivoluzionari della classe vanno valutati per la reale incidenza che essi hanno nel più generale conflitto di classe. E questo dipende dalla capacità del Partito di dirigere questo processo a partire non da un punto qualsiasi della realtà di classe, ma dai nodi politici principali tra classe e Stato. E questo perché solo questi possono sintetizzare il livello più maturo dello scontro e la prospettiva di potere delle diverse situazioni di lotte proletarie, all’interno del cui interesse generale sta l’interesse di ogni singolo settore di classe. All’infuori di questa ottica esiste solo il minoritarismo e l’estraneità politica delle avanguardie della classe, oltre alla conseguente confusione tra punto più alto di lotta tra avanguardie e Stato, con il reale e concreto rapporto di forza tra le classi. Le tappe in cui la guerra rivoluzionaria nelle metropoli è scandita dipendono quindi dal complesso delle necessità politiche determinate dalla dinamica attività d’avanguardia – lotta di massa – controrivoluzione dello Stato, e non dalla possibile “potenza di fuoco” esercitatile dalle avanguardie e dalla violenza esercitata dalle masse.

Proprio perché la lotta armata non è uno strumento, è la necessità del raggiungimento di obiettivi generali per tutta la classe che “calibra” e regola l’attività combattente. E questo, nei paesi imperialisti, a causa di caratteristiche strutturali in cui lo scontro di classe si esprime, è ancora più vero. Comunque va detto che anche in situazioni di guerra aperta e dispiegata le leggi militari, pur assumendo un’importanza decisiva, sono sempre regolate dalla strategia politico-militare di un Partito rivoluzionario che elabora programmi ed obiettivi.

Da questo punto di vista la discussione deve vertere sugli errori che la lotta armata per il comunismo ha commesso, che gli ha impedito di capire le caratteristiche strutturali del suo agire, la connotazione tattica su cui incentrare i programmi: perché l’unica cosa ineludibile è il fatto che l’assunzione del terreno della guerra, come terreno strategico, non può in ogni caso essere rimandata a quando “le masse saranno pronte”, perché è chiaro che non lo saranno mai.

Un’altra caratteristica vincolante della guerra di classe nei paesi imperialisti è che essa vive e si sviluppa nel cuore del dominio borghese, cioè nelle metropoli. Essa quindi non si avvale di percorsi politico-militari di accerchiamento del nemico, a partire da “retrovie” da cui parte per portare attacchi e poi retrocedere, fino all’attacco finale. Nelle metropoli cioè non sono possibili “basi rosse”, territori liberati in cui le Forze Rivoluzionarie esercitano, in condizioni di rapporti di forza favorevoli, un contropotere effettivo. La lotta armata nelle metropoli, vivendo continuamente “a stretto contatto” con la controrivoluzione, non può contemplare “suoi territori”, perché date le forze preponderanti del nemico, sarebbe distrutta in men che non si dica. Per le identiche ragioni, non può dirigersi e mettersi alla testa delle lotte proletarie, ma fonda nella clandestinità d’organizzazione e nell’agire politico militare la capacità reale di non mediare sui propri contenuti e di essere offensiva nei confronti dello Stato.

Nell’analisi retrospettiva e necessariamente critica della nostra esperienza, vanno individuati chiaramente gli errori principali. Questo si può fare solo se si distingue il percorso delle Br dal più generale “combattentismo” degli anni ’70, perché le Br sono state nel nostro paese l’unica Organizzazione Comunista Combattente che ha fondato la sua teoria-prassi su concezioni marxiste leniniste. Occorre però anche capire l’ambito politico-ideologico in cui l’Organizzazione si è sviluppata, per cogliere, accanto alle inadeguatezze, anche tutta la ricchezza e il patrimonio di esperienza che stanno alla base del fatto che solo le Br non solo vogliono, ma possono oggi dare soluzione ai problemi di riadeguamento dell’impianto generale. E questa non è autocelebrazione, ma semplice constatazione della realtà.

Se è sbagliato dividere la storia dell’organizzazione in periodi buoni e cattivi, è incontrovertibile che la concentrazione delle contraddizioni politiche e teoriche presenti al suo interno, esplodono nel momento in cui, soprattutto grazie alla “campagna di primavera”, l’Organizzazione acquista nello scontro di classe un peso notevole. Da Organizzazione Comunista Combattente che propaganda un’idea forza (la lotta armata per il comunismo) l’Organizzazione si trova ad essere forza politica rivoluzionaria riconosciuta, asse strategico per la costruzione del Partito e l’elaborazione di una linea politica di direzione del processo rivoluzionario. A questo punto le imprecisioni, le deviazioni e la debolezza complessiva dell’impianto teorico-pratico, unite all’inesperienza e giovinezza politica del suo stesso percorso, impediscono all’organizzazione di superare la sua natura di “forza rivoluzionaria combattente” per conquistare quella di Partito di tutta la classe. Per questo (e solo per comodità di esposizione) si può dire che il concentrarsi critico di tutte le contraddizioni irrisolte dell’Organizzazione, sono esplose nel momento in cui essa ha dimostrato tutta la validità e la maturità di un’esperienza costruita in anni di lotta, che hanno permesso l’ideazione e il successo dell’attacco alla “solidarietà nazionale”. E questo perché le responsabilità complessive determinate dal risultato di quella campagna, avevano di fatto messo l’Organizzazione nella condizione di dover necessariamente dare risposte adeguate al salto di qualità dello scontro che essa stessa aveva perseguito e diretto, che gli aveva permesso di distruggere il progetto cardine con cui la borghesia si attrezzava alla gestione antiproletaria della sua crisi, in modo da evitare eccessivi traumi politici e sociali. Ciò non vuol dire che prima del ’78 il percorso dell’Organizzazione fosse stato esente da contraddizioni, ma che queste materialisticamente, potevano esplodere con tale evidenza solo in quel momento. Di fronte ad esse c’è stata l’incapacità dell’Organizzazione di governarle in senso positivo, o meglio, all’interno del tentativo di farlo, ha dimostrato tutta la sua debolezza, permettendo in una dura battaglia politica il prevalere di una concezione idealista e soggettivista. L’Organizzazione ha dato risposte sbagliate a problemi reali e ineludibili, cioè quelli inerenti all’elaborazione di una strategia rivoluzionaria che ovviamente attiene al problema dell’organizzazione del proletariato rivoluzionario sul terreno dello scontro con lo Stato. Vogliamo dire che in un percorso autocritico come questo, non va eluso il problema di dover comunque rispondere a quella domanda a cui l’Organizzazione ha risposto tanto maldestramente. Dire che l’Organizzazione non poteva che sbagliare vista la sua origine “guerrigliera”, è pura metafisica e porta dritti dritti alla revisione totale della nostra esperienza.

Non vogliamo qui riprendere tutte le implicazioni delle concezioni analitiche e programmatiche dell’”Ape”, perché esse sono già state oggetto di critica serrata in questi due anni e mezzo, fino alle sue estremizzazioni della “guerra sociale totale” e di “Gocce di sole”. Vogliamo sintetizzare alcuni punti su cui si è concentrata la progressiva perdita di scientificità dell’analisi dell’organizzazione. Va detto che l’impianto complessivo su cui l’Organizzazione ha fondato la sua pratica dall’80 in poi è pesantemente caratterizzato dall’abbandono delle concezioni materialistiche e delle categorie d’analisi marxiste leniniste. Ossia che quell’impianto era assolutamente incapace di individuare il movimento della contraddizione come dominante in ogni aspetto della materia sociale, aprendo la strada a una concezione meccanicistica ed antidialettica della realtà in cui ogni analisi di tendenza diviene realizzazione in atto, dominanza; in cui l’equilibrio idealista sovrasta sullo squilibrio reale. A partire da una simile concezione metafisica, la proposta dell’Organizzazione scade inevitabilmente nell’immediatismo e nel soggettivismo. Al problema del rapporto Partito-masse si risponde coll’economicismo dei programmi immediati settoriali e con l’ideologismo da quattro soldi delle “allusioni” al Comunismo dei programmi generali. Nonostante pure enunciazioni di principio, cadono le discriminanti di fondo che avevano permesso all’Organizzazione di costituire l’unico serio baluardo contro l’operaismo e l’antimarxismo “militante” della progettualità più u meno armata di gran parte del movimento rivoluzionario degli anni ’70. All’analisi corretta di crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale si sostituisce quella idealistica di “crisi irreversibile”; a quella della guerra interimperialista quella tra borghesia imperialista e proletariato internazionale; al concetto di concorrenza monopolistica quello della pianificazione concertata dal “superimperialismo”, dal “capitale unico”. E si potrebbe andare avanti…quello che qui ci interessa sottolineare è la perdita di sostanza di tre discriminanti di fondo: 1) la questione dello Stato; 2) la questione del Partito; 3)la questione della centralità operaia. Queste tre questioni hanno vacillato fino alla loro completa negazione da parte dell’”anima” dell’Organizzazione che maggiormente incarnava queste deviazioni, cioè il Partito Guerriglia, che ha in parte rinvigorito le teorie tanto care a Prima Linea e Company e alle elucubrazioni del professore padovano, e in parte le ha portate alle estreme conseguenze fino alla esaltazione pura e semplice dell’emarginazione sociale e della guerra sociale su tutti i rapporti sociali. Sottolineiamo però che questo processo degenerativo è avvenuto dentro una durissima battaglia politica che si è polarizzata in diversa maniera e dando origine alle spaccature dell’80 (W.Alasia) e dell’81 (Napoli e Fronte Carceri) e alla ridefinizione non ancora conclusa delle Br per la costruzione del Pcc.

La concezione dello Stato

La concezione marxista leninista (e quella delle Br) ha sempre concepito impossibile la trasformazione rivoluzionaria della società, prima di aver distrutto l’apparato di potere statale, conquistato il potere politico e instaurata la dittatura del proletariato. Lo Stato è il regolatore del conflitto di classe, è il prodotto e la manifestazione dell’antagonismo inconciliabile fra le classi, è “organo di oppressione di una classe ai danni di un’altra; è la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi”. Per far sì che la questione del significato e della funzione dello Stato si ponga come “un problema di azione immediata e, per di più di azione di massa”, è necessario che il partito ne faccia il centro della sua azione politica; perché un Partito Comunista rivoluzionario si distingue proprio dal fatto che rappresenta gli interessi del proletariato nel suo rapporto con lo Stato, cioè col rappresentante complessivo degli interessi della borghesia.

Il fatto che una rivoluzione proletaria sia una rivoluzione sociale, ossia tenda ad un ordinamento sociale diverso basato sul principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno”, nulla toglie al carattere necessariamente politico che essa assume nel compiere il primo atto di tutto il processo rivoluzionario, ossia la distruzione dello Stato borghese e l’instaurazione dello Stato proletario, cioè del “proletariato organizzato classe dominante”. Questo perché pensare ad un rivoluzionamento della società, delle forze produttive sociali, alla distruzione dei rapporti sociali capitalistici senza prima distruggere la macchina preposta al mantenimento della divisione subordinata fra le classi, è come iniziare a costruire una casa cominciando dal tetto, ossia…impossibile. Tutte le teorizzazioni sul “contropotere”, sulle tematiche “sociali”, sui bisogni realizzabili, fino alla lotta contro tutti i rapporti sociali contemporaneamente, sulla fine della politica, sono nate come “aggiornamento” raffazzonato che, curiosamente, accomuna l’estremismo soggettivista alla concezione revisionista del primato delle forze produttive. Negli anni ’70 le concezioni che negavano la necessità dell’abbattimento dello Stato e della dittatura del proletariato rivendicavano il proprio antimarxismo, in nome delle “assolute” novità di questa fase storica. In termini molto concreti queste concezioni non hanno nulla di nuovo in quanto questa determinante battaglia politica ha caratterizzato lo scontro del marxismo rivoluzionario con il revisionismo da sempre, trovando nello scontro di classe le varianti “aggiornate” del culto della spontaneità e dell’economicismo e una base “militante” nella piccola borghesia rivoluzionaria e in frange di aristocrazia operaia. All’interno dello stesso movimento proletario queste concezioni trovano spazio data la non linearità del rapporto spontaneità-coscienza e, a volte, non impediscono l’organizzazione e la lotta su di esse di autentiche avanguardie proletarie e rivoluzionarie che, a parole, dicono di lavorare per l’abbattimento dello Stato e, nei fatti, fondano la propria attività sull’economicismo più sfrenato, fino al sindacalismo armato.

Nella riproposizione intransigente del marxismo leninismo, le Br proprio con la concezione dell’attacco al cuore dello Stato hanno, nei fatti, vinto un’importante battaglia politica contro lo spontaneismo armato e determinato l’accelerazione dello smascheramento del revisionismo. E questo per due importanti motivi.

  1. La campagna di primavera, soprattutto, ha colto uno dei suoi obiettivi, costringendo il “combattentismo” a fare i conti con una situazione politica mutata che lasciava poco spazio ad una pericolosa endemicità della lotta armata, tutto sommato compatibile con l’assetto di dominio della borghesia. Tutto sommato compatibile perché non è certo la violenza in sé che preoccupa la classe al potere, specie se questa violenza è poco interessata a togliergli tutto il potere, ma si accontenta di “dare soluzione” immediata al campo fantasioso dei cosiddetti bisogni proletari. Dentro questa logica è possibile pensare che la cattura di un servo più o meno importante della borghesia, possa costituire un ricatto così potente da costringere lo Stato a distribuire case, bistecche o posti di lavoro. La differente impostazione e serietà dei protagonisti di questa logica e anche le differenti dichiarazioni di intenti, non bastano per non inchiodare queste pratiche al terreno melmoso dell’eclettismo e dell’antimarxismo, come l’esperienza del movimento rivoluzionario anche in Italia ha ampiamente dimostrato. Con l’attacco allo Stato le Br hanno determinato nei fatti un salto dialettico decisivo del movimento rivoluzionario, con cui tutti hanno dovuto fare i conti, perché ribadiva nella pratica la necessità di antagonizzare, sulla base di una strategia politico-militare, il movimento di massa, non contro questo o quell’aspetto della società borghese, ma contro la borghesia tutta intera e contro il suo Stato.
  2. Il secondo motivo importante è quello di aver costretto il Pci, a velocizzare la sproletarizzazione definitiva della sua politica e liberarsi di un colpo di tutte le demistificazioni e gli ammiccamenti circa la rivoluzione che un giorno si farà, visto il tremendo pericolo del costituirsi di una forza politica rivoluzionaria si simile portata, alla sua sinistra. E’ stata principalmente la politica delle Br (in stretta dialettica con i contenuti antirevisionisti dell’autonomia di classe) a determinare questo passaggio necessario per il proletariato italiano, ossia lo smascheramento nei fatti dei reali interessi che il Pci difende e la sua connotazione politica sia nei confronti del proletariato metropolitano in Italia che del proletariato internazionale. Fiumi di parole e di inchiostro versato dai gruppi e dai partitini m-l circa il problema di “spiegare alle masse” il “tradimento” dei figli e nipoti di Togliatti, non potevano costituire alcun pericolo serio per il Pci, semplicemente perché queste organizzazioni non hanno mai rischiato di diventare un Partito rivoluzionario di tutto il proletariato e quindi non hanno mai contato granché nella dinamica politica dello scontro di classe.

Nella successiva impostazione politica della linea delle Br, vengono accolte tesi che, nella sostanza, ripropongono la stessa deviazione immediatista tanto combattuta nel passato. La concezione dell’attacco allo Stato, come attacco al progetto dominante della borghesia nella congiuntura, si svilisce a causa dell’analisi dello Stato come corpo elettromagnetico, corto circuitabile, composto di varie “funzioni” (le forze politiche, quelle economiche, la controguerriglia, ecc…) ognuna delle quali concorrenti allo stesso disegno controrivoluzionario e antiproletario pianificato e pensato dallo Stato. Lo Stato si dilata così in ogni aspetto della vita sociale, per cui è possibile attaccarlo in ogni dove, basta che esista un proletario organizzato e un bisogno “irriducibilmente” contrapposto alla ristrutturazione imperialista. In questa visione metafisica scompaiono sia le contraddizioni interborghesi sia la necessità di dialettizzarsi con i contenuti politici (contro il governo, contro la guerra) delle mobilitazioni di massa, perché tutto viene ridotto ed appiattito all’allargamento dell’organizzazione di avanguardia che sulla base di programmi economicismi, spianava la strada alle masse “sul punto di armarsi”. Il risultato è stato il ricompattamento delle forze borghesi contro il movimento rivoluzionario e proletario, perché la lotta armata aveva perso ogni capacità di disarticolazione e la progressiva perdita di capacità di influenza e direzione dello scontro di classe, perché non più in grado di rappresentarne gli interessi generali e la prospettiva reale.

Una concezione dello Stato come sommatoria di apparati, ha indotto una ancora più grave deviazione. Quella della non più necessaria periodizzazione delle tappe del processo rivoluzionario. Ossia la concezione idealista della transizione al comunismo, come materializzazione delle cosiddette allusioni del movimento spontaneo. La conquista del potere politico e la dittatura del proletariato, diventano pure enunciazioni di principio, in quanto non più obiettivi perseguiti, ma reminiscenze inoffensive di un passato da mettere nelle anticaglie in modo meno traumatico possibile.

Tutto ciò non è stato un processo privo di contraddizioni, anche se ha indubbiamente egemonizzato la linea politica delle Br dall’80 in poi. Tutto ciò ha trovato nell’Organizzazione degli ostacoli molto seri tanto da caratterizzarne la battaglia politica fino alle scissioni.

Le Br per il Pcc, iniziano proprio con l’attacco alla Nato, con la cattura di Dozier, la risalita della china in cui erano sprofondate, pur non potendo evitare di pagarne per intero lo scotto, visto il ritardo, le ambiguità e la debolezza con cui intendevano rilanciare un progetto di attacco allo Stato.

La questione del Partito

La coscienza politica di classe non è risultato spontaneo del conflitto di interessi tra proletariato e borghesia ma, “può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi”. Questa necessità politica comporta quindi il costituirsi di una organizzazione d’avanguardia, di un Partito che sulla base di cognizioni scientifiche generali sia in grado di dirigere lo scontro di classe verso un obiettivo prefissato.

Privata di questa guida, la lotta di classe non potrebbe spontaneamente trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario che punti alla risoluzione storica degli interessi del proletariato e questo a prescindere dalla radicalità con cui lo stesso movimento lotta e pone i suoi obiettivi. Il costituirsi del partito rivoluzionario è quindi una condizione insostituibile, affinché si possa pensare allo sviluppo positivo di un processo rivoluzionario. Tra Partito e masse, tra coscienza e spontaneità, vive una contraddizione e non una identità. La necessità dell’esistenza del Partito è data dall’esistenza stessa della lotta di classe e scomparirà col venir meno delle classi stesse. Per questo gli obiettivi del Partito non sono la sintesi dei contenuti delle mobilitazioni di massa, ma ne costituiscono il carattere politico generale, ossia le trasformazioni necessarie e possibili misurate dal rapporto di scontro tra il proletariato e lo Stato. La classe organizzata nel Partito, non si dà come prolungamento spontaneo dei comportamenti delle masse in lotta, ma è un salto dialettico che trova nella lotta di classe la legittimità della sua necessità e nella soggettività rivoluzionaria la reale possibilità d’esistenza. Il costituirsi del Partito è una delle condizioni che determinano il carattere rivoluzionario di una situazione. E questo, nonostante gli sforzi del soggettivismo idealista, è una verifica storica di difficile confutazione. Il costituirsi di un Partito non è dunque la celebrazione del riconoscimento di massa alla politica delle avanguardie rivoluzionarie organizzate; ossia non è un processo che avviene parallelamente alla crescita di coscienza e di organizzazione rivoluzionaria delle masse; al contrario ne è una condizione ineliminabile. Non esaurisce la sua funzione di direzione col consolidarsi di un forte movimento rivoluzionario; non si scioglie col riflusso di quest’ultimo; è comunque portatore di un programma (il comunismo) che non è bisogno espresso o esprimibile dalle masse, ma concezione di una necessità storica, scientificamente basata sulla possibilità del superamento dei limiti strutturali di un modo di produzione e di sue contraddizioni che non possono che portare all’abolizione delle classi e alla fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’utopia non c’entra. I rapporti di produzione basati sul profitto, l’impossibilità per la borghesia di sviluppare le forze produttive dentro questi rapporti di produzione sono la condizione oggettiva, materiale della possibilità e necessità del comunismo come soluzione storica e trasformazione evolutiva di un modo di produzione che ha ormai cessato di avere la funzione progressista che ha avuto in origine, trasformandosi nel suo opposto. Per dirla con Lenin… “Marx non inventa, non immagina una società nuova. No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che esce dall’antica, le forme di transizione dall’una all’altra. Egli si basa sui fatti, sull’esperienza del movimento proletario di massa e cerca di trarne gli insegnamenti pratici”.

Per questo gli interessi dei comunisti sono gli stessi di tutto il proletariato, ma questo dato oggettivo, non è immediatamente appiattibile con l’identico livello di coscienza e di determinazione.

L’attività di un partito è storicamente determinata dagli obiettivi necessari e possibili che esso stesso si pone. Necessari e possibili rispetto al grado di intensità della lotta tra le classi. Al superamento della propaganda armata, le Br concepiscono matura la necessità della costruzione di una tattica rivoluzionaria rivolta alle masse. Nella proposta di “conquistare le masse sul terreno della Lotta Armata” nasce l’assioma idealista “non si dà Partito senza Organismi di Massa Rivoluzionari, non si danno Organismi di Massa Rivoluzionari senza Partito”. La costituzione del Partito si trasforma nella necessità dell’organizzazione contemporanea delle masse sul terreno politico, militare ed organizzativo proprio dell’avanguardia; finendo così per scambiare per organizzazione rivoluzionaria delle masse, quei nuclei di avanguardie più direttamente legati alle Br, che si mobilitavano sulle stesse parole d’ordine e costituivano nelle situazioni operaie e proletarie la tragica sostituzione di compiti tra avanguardie rivoluzionarie e masse organizzate.

Le Br, o perlomeno queste Br, concepivano centrale per ogni discorso rivoluzionario la partecipazione cosciente delle masse nello scontro rivoluzionario; non intendevano cioè sostituire la guerriglia praticata dai comunisti con le lotte e il combattimento proletario. L’essersi sottratti ad ogni tentazione di “sindacalismo armato” non ha però impedito un errore clamoroso: le uniche lotte valide erano quelle che assumevano un carattere armato. Tutta la logica del sabotaggio in fabbrica e il perseguimento degli obiettivi politici immediati, hanno finito per negare impietosamente ogni corretta concezione del rapporto Partito-masse, in una logica lineare e di aumento progressivo di organizzazione rivoluzionaria delle masse, e di perdita di ruoli e funzioni propri di un Partito. Il processo rivoluzionario cessa di avere un andamento a salti e rotture, cessa di essere condizionato da fattori oggettivi ineludibili, solo i quali porteranno le masse ad individuare nella Lotta Armata un’alternativa praticabile, per diventare progressiva e lineare accumulazione di organizzazione rivoluzionaria, basata non su una strategia e tattica che stabilisce rapporti diversi rispetto ai diversi livelli di coscienza del proletariato, che esercita orientamento e direzione sulla classe, ma esclusivamente sulle “appendici” armate del Partito in costruzione.

La centralità operaia

Il modo di produzione capitalista stabilisce il rapporto subordinato tra le classi a partire dalla struttura economica. In ultima istanza è il momento della produzione del plusvalore che determina la collocazione delle classi e la divisione tra la borghesia e il proletariato. La borghesia non trae la sua posizione dominante nella sfera extraeconomica (religiosa, militare, ideologica, …) ma dal fatto che detiene i mezzi e le condizioni della produzione. E’ questo rapporto particolare che nasce nel momento dello scambio tra forza-lavoro e capitale, che dà origine alla (…) nel suo sviluppo, il modo di produzione capitalistico non ha allargato e approfondito questo rapporto originario, conformando alle sue leggi oggettive tutta la società e distruggendo tutte le forme di produzione preesistenti. Questo determina, nella composizione di classe, un ruolo oggettivo delle varie classi e frazioni di classe, che è dato dalla collocazione di ciascuna di queste rispetto ai rapporti di produzione e non dalle determinazioni più o meno soggettive. Non tutti sono nella condizione di distruggere come classe lo stato di cose presenti, solo la classe operaia, per la particolare collocazione che garantisce l’esistenza stessa dei rapporti di produzione capitalistici, può modificare la sua condizione di sfruttamento solo distruggendo la borghesia e con essa la stessa divisione in classi. Solo gli interessi della classe operaia possono rappresentare gli interessi di tutto il proletariato metropolitano. Per questa sua funzione storica la classe operaia è centrale dentro la stratificazione della classe proletaria.

Confermando in pieno le previsioni di Marx, oggi il proletariato comprende la maggioranza degli abitanti della metropoli. Il termine Proletariato Metropolitano indica tutte le figure sociali sfruttate ed emarginate dal capitale ma, tra tutti questi gruppi sociali, la classe operaia, in quanto l’unica a produrre plusvalore è la sola indispensabile per la sopravvivenza e la riproduzione allargata nel modo di produzione capitalistico.

Rispetto alle modificazioni operate dallo sviluppo capitalistico si può affermare la “centralità del proletariato metropolitano a dominanza operaia”. A questa analisi scientifica la stragrande maggioranza del movimento rivoluzionario degli anni ’70 ha contrapposto tesi movimentiste, inventandosi varie “centralità” a seconda della combattività di questa o quella componente più o meno proletaria (le donne, gli studenti, i lavoratori dei servizi, gli extralegali, …) oppure ha teorizzato la “univocità” operaia assolutizzando la lotta di fabbrica, con l’illusione di poter rivoluzionare le forze produttive dentro il movimento produttivo prima della conquista del potere politico. Dentro le fumose e fascinose teorizzazioni del post industriale, della fine della vigenza della legge del valore-lavoro, dell’operaio sociale, riposa tutta l’ideologia soggettivista del rifiuto della funzione storica del proletariato metropolitano di dirigere il processo rivoluzionario per la distruzione dello Stato e del modo di produzione capitalistico, sognando possibili trasformazioni ultrarivoluzionarie all’interno dei vigenti rapporti di produzione, dando per scontata la loro obsolescenza in virtù della trasgressione violenta delle varie componenti o soggettività. In questa logica il modo di produzione capitalistico semplicemente… si estingue e con esso tutto il marciume dei rapporti sociali che ha determinato. Il rapporto tra struttura e sovrastruttura si capovolge e con esso scompare anche la periodizzazione necessaria del processo rivoluzionario. In una parola d’un colpo, basta volerlo, dentro una presunta obsolescenza del modo di produzione capitalistico, nasce per incanto il comunismo, che più di un nuovo ordine sociale basato sulla distruzione della divisione tra le classi, che nasce da trasformazioni storicamente determinate, assomiglia molto a un paradiso terrestre variamente dipinto ed immaginato. L’ultima produzione allucinata dei padri spirituali del defunto Partito Guerriglia si spinge fino a descrivere processi rivoluzionari nella sfera delle rappresentazioni sceniche e dei rapporti interpersonali, mettendo definitivamente fine ai tentativi di mascheramento di posizioni reazionarie e intimiste.

Per centralità operaia si deve intendere la sostanza della parola d’ordine “dentro e contro i rapporti di produzione, fuori e contro lo Stato” contro ogni velleitarismo libertario di sottrarsi soggettivisticamente alle leggi che regolano il modo di produzione capitalistico, alla concezione materialistica che é l’essere sociale che crea la coscienza e non il contrario, per finire nel culto piccolo-borghese dell’emarginazione sociale ed elitario di una minoranza di trasgressivi “rifiutanti”.

Anche nelle Br, queste deviazioni riescono a prendere il sopravvento, nella forma dei programmi immediati per settori di classe. La dominanza della classe operaia cede il posto alla dominanza di quei settori che in virtù della radicalità delle proprie lotte, determinano il punto più alto di coscienza di tutto il proletariato metropolitano, le cui indicazioni, forme di lotta, strumenti organizzativi ed obiettivi andavano generalizzati e resi possibili in tutta la classe fino ad identificare nei comunisti imprigionati la componente principale del processo rivoluzionario. Alla fin fine, visto che non di rivoluzione proletaria si trattava ma di rivoluzione comunista; non di conquista del potere politico ma di comunismo qui e subito, la centralità nel processo rivoluzionario… l’assegnavamo a noi stessi! L’estremizzazione della centralità delle componenti extralegali e del carcere, delle frange (…) ideologico fosse penetrato nell’Organizzazione, e allo stesso tempo della risolutezza, pur nei profondi limiti con cui l’Organizzazione l’ha combattuto e sulla cui critica-autocritica ha ricostruito la capacità di mantenere la propria identità politica rivoluzionaria, basata sul marxismo leninismo.

Congiuntura politica e programma

Abbiamo più volte definito con “ristrutturazione per la guerra imperialista” il complesso attuale delle politiche con cui la borghesia imperialista risponde alla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali che caratterizza tutto il mondo occidentale, con una gravità mai raggiunta dalla fine del secondo conflitto mondiale. Questa definizione può peccare di meccanicismo, se venisse interpretata come progetto di risoluzione della crisi, soggettivamente pianificato e “pensato” dall’inizio alla fine.

Va quindi precisato che le misure di ristrutturazione produttiva e le varie politiche economiche tendono nell’immediato a rendere più concorrenziali alcuni capitali nel complesso dei capitali operanti. Le scelte recessive, la riduzione dei tassi d’inflazione, manovre finanziarie e monetarie, in una situazione di ricorso a nuove tecnologie tanto da parlare di terza rivoluzione industriale, sono gli aspetti più eclatanti, le misure economiche più incisive adottate da tutti gli Stati capitalistici avanzati per contenere gli effetti di una crisi che per anni li ha condannati a tassi di crescita intorno allo zero.

La sovrapposizione di capitali é una costante nel modo di produzione capitalistico, data dal carattere concorrenziale dei capitali operanti, che spinge il singolo capitalista ad aumentare la quota di macchinari, tecnologie, ecc., rendendo più produttivo un ciclo con minor forza-lavoro occupata; cioè abbassando i costi di produzione per unità di prodotto. Fino a che la forza-lavoro occupata, unica in grado di valorizzare il capitale anticipato, é troppo ristretta per poter valorizzare l’intera quota di capitale esistente, ad un tasso di profitto che permetta la riproduzione allargata e l’ulteriore salto di composizione organica. I capitali eccedenti devono trovare “impiego” altrove, in altri settori produttivi o fuori dai confini nazionali. Quando tutti i settori produttivi non sono più in grado di rispondere positivamente a richieste espansive, la crisi da ciclica diviene strutturale. A questa situazione per il capitale occidentale, si é aggiunta la rottura della “valvola” dei paesi terzi, in cui la quota dei capitali esportati aveva determinato dei profitti colossali grazie al meccanismo dello scambio ineguale e la detenzione delle tecnologie, saldamente in mano ai paesi imperialisti. Il meccanismo si é rotto e le economie e le risorse dei paesi dipendenti non sono più sfruttabili come nel passato; anzi i problemi di insolvibilità stanno minacciando la stabilità della finanza internazionale.

In queste condizioni le misure ristrutturative di ogni singola impresa, non fanno che produrre ulteriori contraddizioni perché le quote di mercato conquistato grazie alla maggior concorrenzialità dell’una non sono altro che quelle sottratte all’altra; ossia non c’è allargamento dei mercati, ma maggiore concorrenza tra capitali e spinta maggiore alla concentrazione e centralizzazione in mano ai colossi economici e finanziari multinazionali. La tendenza alla guerra si pone quindi come necessità oggettiva, come controtendenza principale alla crisi di sovrapproduzione; perché solo la distruzione di capitali, forza-lavoro, merci e forze produttive sovraprodotte, può permettere ai vincitori una ripresa “in grande stile”; può garantire quote di mercato; accesso alle materie prime; in definitiva una nuova divisione dei mercati e del lavoro sulla base di un nuovo ordine economico mondiale nettamente più favorevole ai capitali più forti. Questo tipo di analisi fa giustizia di ogni idiozia circa il carattere di crisi “irreversibile”, “ultima” del capitale; va detto che la tendenza a zero del valore, la tendenza al crollo, come ragionamento astratto per definire come limite del capitale sia il capitale stesso, serve solo a dimostrare il carattere storico “transeunte” del modo di produzione capitalista, non certo la sua distruzione ed estinzione per morte naturale.

La definizione “ristrutturazione per la guerra imperialista” va quindi immessa in un complesso di analisi per cui oggettivamente i movimenti ristrutturativi non fanno che determinare ulteriori contraddizioni laceranti e il susseguirsi delle crisi in modo sempre più ravvicinato, che necessariamente spingono alla guerra mondiale. E questo deve servire per smascherare ogni impostazione pacifista e revisionista, basate su improponibili richieste di “ragionevolezza” soggettiva dei concorrenti, sostenendo quella parte di borghesia nazionale per il momento poco interessata al conflitto. Il movimento oggettivo verso la guerra é ovviamente sostenuto da ben più individuabili forze economiche politiche e militari che trovano in esso soluzione al potenziamento e rafforzamento del proprio potere e che costituiscono il personale imperialista maggiormente legato alle scelte degli Usa, componente fondamentale delle politiche guerrafondaie.

Nel nostro paese gli aspetti della crisi sono tutti di maggior gravità, sia perché l’Italia occupa un posto gerarchicamente basso nella catena imperialistica occidentale, sia per il carattere dell’antagonismo proletario e delle potenzialità rivoluzionarie che fanno dell’Italia il paese in cui il ventaglio possibile delle scelte é per la borghesia maggiormente ristretto e, contemporaneamente, quello in cui queste scelte trovano più che altrove maggiori ostacoli politici e sociali. Pur adottando politiche recessive di abbassamento dei costi di produzione, di contenimento delle spese sociali, l’Italia non riesce comunque ad entrare in concorrenza con i paesi più forti in settori qualitativamente avanzati in campo tecnologico. Non é un caso l’attenzione ancora più forte che la classe politica e le forze economiche nel nostro paese, rivolgono verso i paesi del terzo mondo e verso i paesi dell'”Est”, a cui é destinata la gran parte delle “nostre” esportazioni sia di capitali che di merci; e soprattutto di una merce particolare, ossia i prodotti dell’industria bellica che fanno assegnare all’Italia il quarto posto nella graduatoria del settore. Il frenetico lavorio dei vari “messaggeri di pace” italiani nei paesi arabi e nel centro e sud America, ha anche questo carattere di mediazione di grossi affari, in cui cannoni, elicotteri e carri armati fanno la parte del leone. La sostanza della crisi economica dell’Italia, nonostante le politiche adottate in campo economico e sociale e le brutte intenzioni per l’immediato futuro, é racchiusa in pochi e significativi dati: la ripresa tanto decantata fa prevedere ai tromboni di Stato una crescita intorno al 2% ossia molto semplicemente… stagnazione.

A lato del proletariato, i costi sociali a tutt’oggi sono molto salati. Attacco ai salari reali e riduzione delle spese sociali; maggior sfruttamento per gli occupati, mobilità e nessuna garanzia della stabilità del posto di lavoro. Forse per la prima volta i politici, gli industriali, gli esperti, i sindacalisti annunciano con candore che la ripresa c’è, si consolida…accanto e insieme al dilagare della disoccupazione per i prossimi dieci anni. Tutti uniti ci dicono che bisogna superare la logica degli anni ’70: assistenzialismo, egualitarismo, automatismi e rigidità allo sfruttamento. Per bocca dell’illustre professore Giugni apprendiamo che é finita l’era dei contratti collettivi: ogni operaio, ogni proletario dovrà vendere la propria forza-lavoro in concorrenza con tutti gli altri, quindi alle condizioni migliori per l’acquirente. Per bocca dell’illustre signor Garavini, apprendiamo che tutte le colpe del disastro economico vanno attribuite all’egualitarismo e agli automatismi; secondo lui quindi la riforma strutturale del salario deve soprattutto significare premio alla produttività, alla professionalità, alla presenza, all’attaccamento al lavoro.

Il governo sostiene che la ripresa economica non grava sulle spalle e sulle tasche dei lavoratori, mentre bastano poche cifre (di fonte Istat quindi “insospettabili”!) per sbugiardare questo novello grassatore: in tre anni la forza lavoro nella grande industria é diminuita del 15% mentre la CIG é raddoppiata, come dire che essa funziona realmente come “anticamera” del licenziamento. I livelli occupazionali non calano parallelamente alla riduzione produttiva. Come dire che chi resta occupato produce di più… All’Italia spetta inoltre il primato della disoccupazione effettiva rispetto agli altri paesi della Comunità Economica Europea; le spese sociali per la previdenza (dati dell’81) sono pari al 24,7% del prodotto interno lordo contro il 27,1% della media Cee; il costo medio orario del lavoro nell’industria manifatturiera (sempre nell’81) era pari al 7,34%, il più basso dell’Europa comunitaria.

L’affannarsi delle forze borghesi in campo per contribuire al massimo alla ristrutturazione, é sicuramente caratterizzato dalla contraddittorietà degli interessi diversi che ognuno difende, e le politiche adottate sono il risultato dell’equilibrio possibile dello scontro tra questi interessi. Grande borghesia, piccola borghesia, “ceti medi”, “quadri”, intellettuali, parassiti e speculatori, mafiosi e faccendieri, tutti trovano rappresentati i loro interessi nelle varie forze politiche che si scontrano, “si sgambettano” con scandali e scandaletti, tornano ad incontrarsi su equilibri di forza diversi… Solo il proletariato non ha propri rappresentanti data la debolezza delle forze rivoluzionarie e dell’autonomia di classe, dopo le sconfitte subite in questi anni. La borghesia, per attaccare politicamente ed economicamente il proletariato ha dovuto prima fare i conti con ogni espressione di organizzazione autonoma della classe e, soprattutto con le Organizzazioni Comuniste Combattenti. I successi riportati sono solo una prima tappa di un lungo cammino in cui per la borghesia, per lo Stato, l’ostacolo più grosso alla ripresa “in tempo utile” é costituito dalla capacità del proletariato di rintuzzare l’attacco subito ed imporre rapporti di forza generali tali da pesare sulle determinazioni delle scelte capitalistiche, fino al loro rovesciamento. La sconfitta politica della classe é uno dei principali obiettivi della borghesia in questa congiuntura e ad essa lavorano e concorrono tutte le forze politiche borghesi in campo. Questo obiettivo é perseguito cercando di ottenere in pari tempo, il massimo di pace sociale conseguibile, il massimo di divisione e accettazione del proletariato metropolitano del patto sociale e neocorporativo proposto ed imposto. É attacco frontale e diretto, teso alla ridefinizione dei ruoli delle stesse rappresentanze istituzionali del proletariato i cui interessi debbono piegarsi a quelli della grande borghesia imperialista, ritagliandovi all’interno lo spazio di potere possibile.

L’attacco politico e materiale al proletariato metropolitano, fa prevedere scontri sociali di notevole portata. La classe si trova sulla difensiva, schierata spontaneamente a difesa dei propri interessi. Il ciclo che si é appena concluso dimostra, accanto alla enorme volontà e determinazione alla lotta della stragrande maggioranza del proletariato, anche tutta la relativa debolezza di un antagonismo che non riesce a riconquistare la propria autonomia d’interessi da quelli revisionisti e borghesi. La mobilitazione di massa espressa negli ultimi mesi contro il governo e il nuovo protagonismo imperialista dell’Italia, non é riuscita né a costringere il sindacato, o meglio la Cgil, né il Pci a indire uno sciopero generale, né a difendere l’organizzazione delle lotte dall’egemonia sindacale ed opportunistica, né a far cadere il governo e il suo programma. Diciamo questo non perché valutiamo la forza del movimento sulla base degli obiettivi raggiunti, ma per porre l’attenzione sui problemi reali che vivono nel movimento antagonista. Che sono problemi riconducibili alla debolezza politica delle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie che hanno lasciato nelle mani del Pci e degli opportunisti vecchi e nuovi, la gestione politica della forza di un antagonismo che, spontaneamente, decine di migliaia di proletari hanno manifestato in tutte le strade d’Italia, in ogni assemblea, in ogni singolo momento di lotta.

L’attenzione con cui il “galantuomo” Scalfaro ha seguito gli avvenimenti; le riunioni in prefettura tra responsabili dell'”ordine pubblico” e i vari Lama; le espressioni di “preoccupazione” con cui il governo ha guardato il montare delle mobilitazioni, stanno a dimostrare una sola cosa: le varie “emergenze” a cui siamo abituati da molti anni a questa parte non sono la risposta “proporzionata” dello Stato ad avvenimenti concreti; sono l’esigenza di reprimere e contenere preventivamente l’esplosione di un conflitto sociale provocato dalle politiche necessarie alla borghesia per far fronte alla crisi. É la ristrettezza delle scelte che la borghesia si trova di fronte che gli impone, pur nelle oscillazioni, di imboccare la strada di dover governare senza consenso. Il problema é solo quello di limitarne i danni. Per questo la classe deve essere necessariamente sconfitta, perché alla crisi economica non se ne aggiunga anche una politica, questa sì di difficile superamento. E allora la logica delle “emergenze” coniata per il “terrorismo” con buona pace di tutti gli opportunisti, si rivela per quella che é: ridefinizione complessiva dei rapporti di mediazione politica tra classe e Stato, tale da consolidare a favore della borghesia i rapporti di forza e sancire la sconfitta della classe. L’antagonismo proletario si trova ancora una volta di fronte a un bivio: o trasformare la resistenza in offensiva o subire per intero i costi di una politica che, a passi accelerati, sta costruendo le condizioni politiche e militari per una nuova guerra imperialista. Ai comunisti si impone il compito di serrare le fila di un difficile dibattito e programmare un’attività politico militare adeguata ad affrontare i compiti di direzione dello scontro e a proporre l’alternativa proletaria e rivoluzionaria alla crisi e alla guerra. Su un’analisi materialistica dell’attuale fase di scontro, occorre porre mano al problema del rapporto Partito-Masse, ossia del programma. Una concezione fondamentale del nostro patrimonio é già stata riacquistata nel dibattito e nella pratica, ossia quella dell’attacco allo Stato, come attacco al progetto dominante della borghesia nella congiuntura, materializzato nelle forze che concorrono alla sua ideazione e direzione. Questo non può mettere l’Organizzazione in grado di concepire correttamente la tattica, ossia le tappe per il raggiungimento del “programma massimo”: la conquista del potere politico. Per programma politico si deve intendere il complesso di obiettivi politici che riguardano, nella sostanza, il rapporto di forza tra le classi. O meglio i nodi politici intorno ai quali questo rapporto si determina. Il programma vive cioè dentro e contro i rapporti di forza congiunturali. Il superamento positivo o meno delle singole tappe deve essere misurabile dall’arretramento, consolidamento o avanzamento delle posizioni del proletariato metropolitano nei confronti della borghesia. L’antagonismo di classe non assume di per sé carattere rivoluzionario, ma può svilupparsi attorno a parole d’ordine generali e unificanti. Ossia tende, sotto l’attacco della borghesia, a muoversi spontaneamente verso obiettivi che, in quanto realizzabili solo con la modificazione dei rapporti di forza e la conquista del potere politico, esprimono “bisogno di potere”. Sta al Partito concretizzare i vari “No a …” in programma per tutta la classe. Sintetizzare senza alcuna discriminante politica l’attività generale delle masse e i contenuti delle mobilitazioni non é operazione da Partito. Oltre ad appiattire la battaglia politica che nel movimento vive attorno a contenuti diversi, determinati dalla diversità dei livelli di coscienza esistenti; oltre a condannare l’avanguardia a funzioni di megafonaggio dell’esistente alla coda degli stessi movimenti; oltre a confondere i problemi dell’unità di classe (su contenuti ed obiettivi di classe) con la mobilitazione spontanea delle masse, a prescindere dalla direzione politica che si stabilisce di volta in volta e dell’interesse prevalente. L’unica cosa chiara é il perché e contro chi i movimenti di lotta sorgono. Le funzioni politiche di un Partito non sono di “didattica” politica, bensì quelle di fornire al proletariato, dichiarando chiaramente gli obiettivi dell’agire politico-militare, un quadro d’analisi che tenga conto della prospettiva dello scontro all’interno della quale dare soluzione alternativa al sistema di potere dei partiti e dello Stato. Quindi é un problema di direzione rivoluzionaria che dà soluzione agli obiettivi storici e strategici di tutto il proletariato, che dà sbocco possibile e necessario alla crisi e alla guerra. Altro da questo è pensare di dirigere la lotta delle masse, proponendo obiettivi forme di lotta e d’organizzazione di per sé già dati, esaltando piattamente l’esistente e, in definitiva, proponendo di continuare a lottare. In questo senso la Lotta Armata non può che diventare mero strumento di propaganda e di sostegno alle lotte, fino a scoprirne l’intima inutilità. Il Partito, al contrario, non sintetizza i contenuti e gli obiettivi della lotta spontanea, ma li analizza, li discrimina, li elabora. Pur essendo tattico, il carattere del programma é necessariamente generale, ossia si costruisce sulla contraddizione politica dominante che il Partito seleziona nella molteplicità di obiettivi e parole d’ordine che caratterizzano la mobilitazione spontanea.

L’attività di un Partito rivoluzionario deve proporsi lo spostamento dei rapporti di forza, la disarticolazione dei progetti dominanti della borghesia, l’organizzazione delle avanguardie rivoluzionarie sulla strategia del Partito, la conquista dell’antagonismo al programma rivoluzionario; questo attraverso una pratica che si misuri in successi concreti, che tenda a creare rapporti di forza momentaneamente favorevoli che consentano di vincere e assestarsi su posizioni più avanzate.

L’attacco alla classe, costringe l’antagonismo a superare il settorialismo e produce spontaneamente cicli di lotte contro le politiche governative. Questi cicli sono gli unici in grado di esprimere unità di classe, critica alla gestione sindacale e riformista, incidenza sulle scelte della borghesia. Questa tendenza alla crescita della coscienza di classe non é però un fatto scontato e lineare. Al contrario la portata dell’attacco, le difficoltà crescenti per organizzarsi e lottare autonomamente, le sconfitte, la mancanza di credibili alternative, possono far arretrare il movimento, dividerlo e porlo sempre di più sulla difensiva. Si tratta di impedire questo, consolidare e rafforzare l’autonomia e l’unità di classe, su contenuti proletari e rivoluzionari, in un contesto di crisi economica e politica della borghesia che mai come oggi e sempre di più, costituisce la condizione oggettiva favorevole alla ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria e dell’offensiva di classe.

Da leninisti dobbiamo combattere ogni tendenza a considerare il lavoro di organizzazione nei movimenti di massa come “un fattore che ci esime dall’attività rivoluzionaria e non come un fattore destinato a incoraggiare e a stimolare tale attività”. In questo senso combattere l’economicismo e ogni tentazione del culto della spontaneità, significa che il nostro obiettivo non é la ricerca del consenso tramite parole d’ordine tangibili e immediate su cui il movimento sia mobilitato, ma la direzione effettiva sul terreno rivoluzionario dello strato di avanguardie del Proletariato Metropolitano e la crescita di influenza e orientamento sulle dinamiche della lotta delle masse. Le avanguardie che si organizzano sulla strategia del Partito non sono il punto più alto che piano piano le masse (…), ma frutto di un lavoro preciso che il Partito fa sul piano di massa; al contrario il modo d’organizzarsi delle lotte é comunque frutto del movimento spontaneo e solo una logica pacifista e codista può far credere che esso, per condizioni oggettive, compia il salto necessario. Questo perché, al di là della rappresentazione fenomenica del presente, nel movimento antagonista si scontrano politiche contrapposte ed escludentesi: quelle borghesi e quelle rivoluzionarie. Il nostro compito é un’attività di direzione e orientamento per far prevalere l’interesse generale di tutto il proletariato, secondo uno scopo da raggiungere, nella varietà di obiettivi e contenuti delle “masse in lotta”. L’antagonismo va conquistato al programma rivoluzionario e non al contrario, il programma rivoluzionario e generalizzazione e sostegno a quanto nel proletariato é già generalizzato e praticato. Questo perché la lotta per il miglioramento delle condizioni di vita, pur diventando nei fatti politica, non é ancora rivoluzionaria e non é detto che lo diventi. Rafforzare le forze rivoluzionarie e renderle sempre più capaci di affrontare lo scontro é l’unica possibilità di conquistare autorevolezza nel proletariato, costruendo nella lotta rivoluzionaria l’alternativa di massa alla crisi e alla guerra. Capendo che un Partito rivoluzionario non può essere “maggioritario” in una situazione rivoluzionaria tramite proposte di masse accettabili ed immediate, pena lo scadere, coscienti o no, a variante dell’arco delle forze politiche borghesi che tentano di accaparrarsi consenso e riconoscimento.

Internazionalismo proletario e Internazionale Comunista

La sostanza dell’imperialismo, dalla definizione data da Lenin, non é mutata. L’imperialismo é “lo stadio monopolistico del capitale, l’epoca delle guerre tra le grandi potenze per l’intensificazione e lo sfruttamento dei popoli e delle nazioni”. Anche il rapporto concorrenziale fra capitali, continua a costruirne la fondamentale legge di mercato, pur se si tratta di concorrenza intermonopolistica e questo, di per sé, esclude ogni possibile definizione di imperialismo unico, in quanto il capitale unico non esiste. Le forme con cui oggi l’imperialismo attua le sue funzioni, non sono altro che lo sviluppo storico del dominio del capitale finanziario, dell’esportazione di capitali come esportazione di un modo di produzione; nonché della ripartizione mondiale tra le più grandi potenze capitalistiche, dei monopoli multiproduttivi multinazionali. Queste forme non sono affatto indifferenti per un’analisi concreta di una situazione concreta che, passando dal campo speculativo teorico a quello politico e storico, ci metta in grado di comprendere i compiti dell’avanguardia rivoluzionaria. Ci riferiamo in particolare alla costituzione dei blocchi o catene imperialiste (occidentale a dominanza Usa, e orientale a dominanza Urss); al rapporto gerarchico e di interdipendenza tra i paesi appartenenti allo stesso blocco; alla dominanza delle imprese multinazionali e multiproduttive (espressione del concentrarsi del capitale finanziario); nonché quella del capitalismo monopolistico di Stato teso ad assicurare l’ambiente adatto alla riproduzione capitalistica di fronte alla crisi. Le scelte di politica economica e monetaria operate dai singoli paesi, pur essendo omogenee con gli indirizzi generali e le prospettive di fondo, sviluppano grosse contraddizioni tra i paesi dello stesso blocco. Da questo punto di vista l’esigenza del rafforzamento dei vincoli politici-militari, non é riconducibile ad esigenze specifiche dei singoli paesi, ma alla necessità del sistema imperialista nel suo complesso di superare la crisi avviandosi al confronto col blocco avversario. Il capitalismo, allo stadio dell’imperialismo delle multinazionali, ha creato un sistema di rapporti talmente integrato che il suo sviluppo può avvenire solo accrescendo tanto le dimensioni, quanto la forza di coesione dell’interdipendenza.

Questo sistema di relazioni, non elimina certo le contraddizioni e i motivi conflittuali, ma impedisce ad ogni Stato-membro una sua collocazione all’esterno della catena d’appartenenza, e una diversa politica di alleanze. E questo perché il carattere unitario della catena non riposa su accordi politici o diplomatici, ma su caratteristiche strutturali e su una divisione internazionale del lavoro e dei mercati determinate dallo sviluppo che il capitale ha raggiunto. Basti vedere come in sede Cee sono state risolte questioni di assegnazione di quote di produzione e di mercato di siderurgia con la piena accettazione di capitalisti italiani, pur se penalizzati; basti vedere come la Germania che non é certo una repubblica delle banane, affronta il problema della guerra dollaro marco in cui agli svantaggi per la propria economia si affiancano motivi di convenienza visto che un’uscita “morbida” dalla recessione la garantisce dalla ripresa inflazionistica. Questi esempi servono per capire che gli interessi contraddittori dei singoli partners, non arrivano al punto di rottura in quanto la possibilità di continuare ad esistere come paesi a capitalismo avanzato riposa dentro il rafforzamento politico-economico-militare di tutta la catena, pur se le regole di un rapporto subordinato contribuiscono allo sviluppo di sempre maggiori e più profondi motivi di conflittualità. Ne esce fuori un quadro perennemente instabile e alla ricerca di un difficile equilibrio interno, che i margini della crisi corrode costantemente, riproponendo più acute contraddizioni e squilibri. Altro che superimperialismo! Si deve parlare di un sistema di relazioni ad interdipendenza gerarchica, a dominanza Usa.

É la crisi che acuisce e chiarisce in questa fase la crescente difficoltà per il modo di produzione capitalistico di dominare le sue stesse contraddizioni e che, contemporaneamente, spinge verso vincoli politico-militari di “difesa” comune, perfezionati dopo il secondo conflitto mondiale e indirizzati contro il proletariato internazionale e contro i popoli in lotta contro l’imperialismo. Gli interventi diretti Usa in Europa (per es. Grecia e Turchia); la proposta dell’entrata del Giappone nella Nato; il riarmo e il protagonismo atlantico di europei e americani insieme, con le forze di intervento in ogni zona “calda”; la messa in discussione americana delle ripartizione Est-Ovest delle zone d’influenza dopo la seconda guerra mondiale, sono solo degli esempi di come l’imperialismo occidentale, Usa in testa, ritenga vitale per la sua “sicurezza”, tutto il mondo e soprattutto di come si prepari a modificare i rapporti di forza col blocco avversario in modo diretto, tramite una nuova guerra mondiale.

Il sistema imperialista orientale a dominanza Urss

La sconfitta della dittatura del proletariato e la riconquista del potere da parte della borghesia in Urss, non é avvenuta in campo sovrastrutturale. La borghesia, per definizione, é quella classe che detiene i mezzi e le condizioni della produzione; quindi se di borghesia va parlato, non ha alcun senso aggiungere delle aggettivazioni fuorvianti quali “burocratica” o “socialista” perché queste non determinano collocazione alcuna in termini d’analisi marxista delle classi, ma spostano il discorso in termini sociologici o politici. La riconquista del potere della borghesia in Urss é avvenuta nell’ambito strutturale, produttivo riproduttivo, che ha poi sancito anche in termini politici con la vittoria al XX Congresso. Il socialimperialismo é un sistema di relazioni imperialiste antagonista al sistema occidentale. Non considerarlo tale, significa concepire l’imperialismo mondiale come un imperialismo unico, permeato da contraddizioni tra singoli paesi imperialisti, anziché da quella dominante tra due sistemi di relazioni. Il termine socialimperialismo, usato da Mao per indicare il comportamento sovietico di “socialismo a parole e imperialismo nei fatti” é inadeguato almeno per due aspetti: 1) questa definizione lascia intendere che l’imperialismo sia una politica, un comportamento. Non é un caso che la critica al modello sovietico abbia finito per diventare una critica alla politica estera dell’Urss e alla sua aggressività. 2) Inoltre indica come contraddizione principale della formazione sovietica, quella tra struttura economica capitalistica e una sovrastruttura ideologica socialista, contribuendo alla propaganda revisionista della transizione al comunismo tramite la definitiva rivoluzione tecnico-scientifica e l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Le cose in realtà sono molto più complesse. Lo sviluppo capitalistico in Urss ha dovuto fare i conti con l’assetto economico-produttivo ereditato dal periodo rivoluzionario che, essendo basato sulla statalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione, ha impedito il raggiungimento, come negli altri paesi capitalistici e quindi dal punto di vista capitalistico, il livello produttivo e tecnologico dei paesi occidentali. Questo, da un certo punto di vista condanna le masse proletarie russe e dei paesi “satelliti” ad un tenore di vita relativamente basso e, da un altro, sviluppa contraddizioni e livelli di crisi meno acute, sia di carattere politico-sociale, sia di carattere economico. Il sistema economico sovietico é dunque basato sulla concentrazione statale di tutte le attività economiche e commerciali. Questo vuol dire che non esistono proprietà privata e libero mercato (sia dei capitali che della forza-lavoro), si potrebbe dire che non esiste più la divisione in classi. Questo se considerassimo i rapporti di produzione riducendoli a rapporti di proprietà e di scambio. Se prendessimo in considerazione cioè un modo di produzione a partire dalla circolazione e non dalla produzione. In Urss la produzione di plusvalore avviene e quindi anche la subordinazione della forza-lavoro al processo di valorizzazione, e questo nonostante le enunciazioni del revisionismo che fa coincidere il socialismo con la proprietà dello Stato associata alla pianificazione. Il carattere capitalista della produzione (produzione di valori di scambio, estrazione di plusvalore, ecc.) mostra che nella realtà, quella sovietica é un’economia capitalistica con un livello ancora “basso” qualitativamente e quantitativamente della produzione a causa di uno sviluppo “sui generis” del capitale sottoposta a periodiche crisi di sovrapproduzione. A livello politico ed economico queste crisi hanno trovato in parte terreno di risoluzione nel rapporto preferenziale con i paesi del terzo mondo, rapporto che fa di determinate aree, territorio di penetrazione dell’imperialismo sovietico, data la natura di questo modello più confacente alle esigenze dei paesi “in via di sviluppo”, rispetto a quello occidentale; pur condannandoli al sottosviluppo e alla dipendenza economica-politica.

Anche la politica sociale interna, subisce le stesse logiche restrittive dei paesi occidentali e la ristrutturazione dell’apparato produttivo non può che seguire le logiche di massimizzazione del profitto e della produttività, nonché la riconversione privatistica ed efficientistica dell’intera economia. I riflessi di queste “misure” sono più evidenti nei paesi “satelliti” e nonostante in alcuni di questi le manovre destabilizzanti dell’occidente siano altrettanto evidenti, ciò non può esimerci da un giudizio molto chiaro circa il modo in cui l’Urss applica le sue politiche di dominio sui paesi del Patto di Varsavia. I fatti di Polonia e i segnali evidenti di sfilacciamento dell’alleanza in Europa orientale non possono essere visti semplicemente ributtando all’esterno della formazione sovietica le contraddizioni politiche e sociali, pur tenendo in estremo conto il ruolo che vi gioca l’altro blocco.

Nella definizione di socialimperialismo dobbiamo tener conto di una questione principale: tutto ciò avviene all’interno di una formazione che nulla ha a che fare con la dittatura del proletariato, in quanto la lotta di classe in Urss non é più il motore per il rivoluzionamento delle forze produttive e dell’intera società. Lo “Stato socialista” con la “destalinizzazione” di Krusciov é lo Stato di tutto il popolo sovietico e non più il non-Stato operaio e proletario che lavora alla sua estinzione con l’avvenuta distruzione delle classi tramite la lotta di classe. Il non riconoscimento del carattere classista della società sovietica é il supporto teorico dell’ultrarevisionismo, che sposta la contraddizione insanabile tra le classi all’esterno della società, che identifica i nemici del socialismo esclusivamente nell’imperialismo occidentale e nella sua aggressività e la difesa delle “conquiste della rivoluzione bolscevica” nell’aumento dell’area di influenza e della coesione degli alleati.

Il ruolo dell’Urss in campo mondiale e la sua politica di alleanze non possono in nessun modo essere scambiati per una sorta di Internazionalismo proletario imperfetto a causa delle minacce dell’occidente; rinunciano in tal modo a lavorare per il rafforzamento e l’unità delle forze antimperialiste e rivoluzionarie e rassegnandosi a perpetuare la logica dei blocchi.

Pur nel rispetto del principio della diversità delle contraddizioni, l’Internazionalismo é problema di unità e di alleanze in campo proletario e rivoluzionario e non va confuso con la politica estera dell’Urss.

In questa sede non possiamo occuparci dei complessi problemi teorici e di speculazione rivoluzionaria marxista leninista, circa la mancata transizione al Comunismo in Urss, come in Cina.

Problemi questi, che se da un lato rafforzano il principio “il comunismo o é per tutti o per nessuno”, dall’altro sono una severa lezione storica circa idealistiche esaltazioni e opportunistici purismi di maniera, su cui il revisionismo e l’ultracriticismo piccolo-borghese trovano sempre spazio materiale per sofisticate discettazioni controrivoluzionarie.

Per quanto ci riguarda, rimandando in altra sede l’opportuno approfondimento, dobbiamo difendere e rafforzare il principio marxista che solo la concezione della necessità della dittatura del proletariato distingue realmente una politica proletaria, dalle mistificatorie e contorte elucubrazioni della borghesia e dei suoi alleati.

Il mondo é diviso in due grandi sistemi di relazioni imperialiste, che la crisi spinge al confronto diretto. La tendenza alla guerra imperialista é oggi la contraddizione dominante. E proprio la presenza di questi fattori pone all’ordine del giorno la possibilità della rivoluzione proletaria e il rinsaldarsi dei motivi di alleanza del proletariato internazionale con i popoli in lotta contro la schiavitù imperialista.

Lo sviluppo ineguale del modo di produzione capitalista, condiziona il carattere e la natura dei processi rivoluzionari. Nel senso che l’avvenuta esportazione in tutto il mondo del modo di produzione capitalistico, non conferisce di per sé carattere proletario dominante a tutti i processi rivoluzionari esistenti. Vogliamo dire, schematizzando, che la forma che essi assumono nei paesi industrializzati a forte componente proletaria e operaia é quella della rivoluzione per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato; nei paesi dipendenti, la lotta rivoluzionaria si esprime soprattutto come rivoluzione democratica antimperialista, interessando anche componenti di borghesia progressista.

Generalizzazioni astratte, nel passato ci avevano portato ad affermare una già avvenuta polarizzazione dello scontro proletariato borghesia in tutto il pianeta come contraddizione dominante. Che questo in linea teorica sia già vero, dalla Comune di Parigi in poi, nulla toglie alla diversità di periodizzazione che, nelle diverse condizioni economiche e sociali, rendono ancora necessari, in gran parte del mondo, percorsi rivoluzionari che come prima tappa hanno la liberazione nazionale e la rivoluzione democratica.

L’ideologismo soggettivista, impedisce sia un’analisi corretta dell’imperialismo che un approfondimento delle tematiche dell’internazionalismo proletario; e questo ha portato la nostra Organizzazione a proposte politiche che finivano per rivolgersi esclusivamente a quelle forze combattenti che, in virtù del loro collocarsi nei paesi del centro imperialista, costituivano il nostro referente privilegiato. I principi di unità e di alleanza non debbono essere determinati geograficamente bensì su discriminanti politiche, che fanno di un progetto di fronte antimperialista cosa diversa dalla concezione dell’Internazionale Comunista.

Le Br per il Pcc lavorano oggi per contribuire a rinsaldare quel tessuto di solidarietà militante, confronto politico, unità e alleanza, contando sul fatto che la crisi della borghesia e la tendenza alla guerra, favoriscono come non mai la convergenza di interessi e l’alleanza del proletariato internazionale con i popoli, e le forze progressiste che in tutto il mondo lottano contro l’imperialismo.

Nel rispetto delle diversità ideologiche e nell’appoggio incondizionato a tutte le lotte progressiste d’emancipazione dei popoli, le Br puntano all’unità internazionale dei comunisti, componente d’avanguardia sia nei paesi del centro che in quelli della periferia, privilegiando, ovunque esistano, le forze rivoluzionarie organizzate sulla base del marxismo leninismo e che combattono per il socialismo.

La rivoluzione proletaria ha necessariamente carattere internazionalista. Ciò vuol dire che, se il dovere principale di ogni rivoluzionario é “fare la rivoluzione nel proprio paese” e “contare sulle proprie forze”, é altrettanto vero che la condizione per poter fare una rivoluzione é legata allo stato generale dei rapporti di forza tra borghesia imperialista e proletariato internazionale; all’acutizzarsi della crisi economica e politica dell’imperialismo dominante; nonché alle modificazioni che questo subisce in campo mondiale.

In questo senso va detto che, per l’acutezza delle sue contraddizioni e della crisi di sovrapproduzione della catena occidentale a dominanza Usa, é il nemico principale del proletariato internazionale e dei popoli del terzo mondo, perché più “vitali” sono i motivi che lo spingono al riarmo e ad una politica aggressiva in ogni parte del mondo. Ciò non deve portare a sottovalutare né il carattere né la natura del suo avversario, pensando di poter in qualche modo, furbescamente “usarlo” ai fini degli interessi della rivoluzione proletaria. La flessibilità dei comportamenti tattici o, per dirla con Lenin, dei compromessi, deve essere garantita dalla rigidità dei principi strategici, come unica garanzia per il raggiungimento dei nostri obiettivi. In politica le posizioni astratte di principio e le pregiudiziali ideologiche vanno bene per chi si accontenta dell’autogratificazione e sono tanto ridicole quanto inutili. In politica é necessario porsi degli obiettivi, perseguirli al massimo delle possibilità, tenendo conto “l’analisi concreta della situazione concreta” e i compiti strategici che quegli obiettivi rendono possibili.

Proponiamo una traccia di lavoro e di dibattito basato su:

1. Collocazione autenticamente internazionalista dell’attività dell’Organizzazione, costruita sull’alleanza e la solidarietà militante con tutti i popoli e le forze progressiste che nel mondo combattono contro l’imperialismo.

2. Lavorare alla costruzione dell’Internazionale Comunista sulla base di precise discriminanti:

  1. formazione marxista leninista della base ideologica e teorica;
  2. riconoscimento del carattere strategico della lotta armata per il comunismo, nella diversità di applicazione nelle diverse condizioni socio-politico-ideologiche;

c) ridefinizione, in base alle trasformazioni avvenute, del campo dei Partiti comunisti rivoluzionari, sia al potere che no.

Fonti: “Le parole scritte”

Campagna D’Urso – Comunicato n. 4

Organizzare la liberazione dei proletari prigionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costruire e rafforzare i comitati di lotta. Chiudere immediatamente l’Asinara.

1)L’interrogatorio del prigioniero D’Urso continua. La sua collaborazione ci permette di confermare, attraverso la denuncia di fatti specifici e la segnalazione di nomi dei suoi degni collaboratori, l’infame politica di annientamento che viene adottata da questo regime nei confronti dei Proletari prigionieri.

Questa comincia col black-out totale posto sul movimento di lotta sviluppatosi nelle carceri, con la censura più completa nei confronti di ogni informazione sui programmi che i Comitati di Lotta dei Proletari Prigionieri stanno praticando. ‘Negare l’informazione all’origine’ è la tecnica per negare la realtà politica costituita da quanto i Proletari Prigionieri e i loro Organismi di Massa stanno facendo nella costruzione del Potere Proletario. È questa la premessa per il genocidio politico di un intero strato di classe, è il presupposto perché migliaia di proletari in lotta nelle galere vengono ridotti alla condizione di veri e propri sepolti vivi. D’Urso ben conosce questa politica infame, ne era uno dei principali esecutori. La divisione fra le avanguardie comuniste e l’insieme dei Proletari Prigionieri attraverso la differenziazione dei Kampi, l’isolamento verso l’esterno, la dura repressione dell’organizzazione proletaria dentro le carceri, portavano fino al 12 dicembre la sua firma. Non è certamente il solo responsabile, ma, non dubitino, anche gli altri, che D’Urso ci aiuta a conoscere, arriverà il momento di renderne conto.

In sintonia con gli obiettivi di lotta del Programma dei Proletari Prigionieri dei Comitati di Lotta, non permetteremo che il sistema della morte lenta e silenziosa che i kampi vorrebbero realizzare per i Proletari Prigionieri continui impunemente. L’evidente esistenza di un movimento di lotta dentro le carceri che ha nei Comitati di Lotta i suoi organismi di Potere Proletario, non può essere negata. I momenti di iniziativa proletaria che si sviluppano nelle galere (l’ultimo in ordine quello dei proletari imprigionati a Fossombrone) non devono essere soffocati nella repressione e nel silenzio.

La pervicacia con cui il Governo, la magistratura e i lacchè della stampa di regime continuano sulla strada della tortura, della repressione, della censura dell’informazione, rafforzano la nostra convinzione che questo regime è tanto feroce quanto ottuso. Noi non abbiamo alcun dubbio quindi che D’Urso, aguzzino ai vertici di questa banda di delinquenti, stia bene dove sta: in un carcere del popolo. Ma noi siamo contrari alle carceri, alle carceri di ogni tipo. Non prolungheremo la sua detenzione oltre il tempo necessario a valutare le sue responsabilità, che per altro sono fin troppo chiare. La giustizia proletaria avrà quindi rapidamente il suo corso senza esitazioni. Chi pensa che D’Urso possa essere rimesso in libertà perdurando la politica di annientamento dei Proletari Prigionieri e di censura sulla loro lotta, non ha capito niente della Giustizia Proletaria.

2) Sull’Asinara si è alzato un gran polverone dove ogni sciacallo si scopre democratico, dove perfino che fino al 12 dicembre ha costantemente utilizzato quest’arma micidiale contro i Proletari Prigionieri, ha improvvisamente scoperto di non essere entusiasta. A noi non interessano le ipocrisie e le spudorate menzogne della propaganda di regime. Interessa la sostanza del problema. Anche in questo caso una sola cosa è chiara: si vuol dividere le avanguardie comuniste dai Proletari Prigionieri, si vorrebbe far credere che l’Asinara riguardi alcuni politici e non migliaia di proletari. Due anni di lotte che i Proletari Prigionieri hanno posto al centro degli obiettivi da perseguire nelle carceri, lo smantellamento definitivo di questo lager.

L’Asinara non deve più esistere per nessun proletario.

Quest’arma di ricatto e di tortura deve essere cancellata una volta per tutte e senza discriminazioni per nessuno. Le chiacchiere mistificatorie che vorrebbero cambiare questi termini del problema, le consideriamo delle inutili provocazioni. Nessuno si illuda che combatteremo per qualcosa di meno della chiusura immediata e definitiva dell’Asinara.

3) Il regime della galera e dei kampi di concentramento ha ammazzato un altro compagno: Alberto Buonoconto, militante dei Nap. Per ammazzarlo non hanno usato come al solito le pallottole dei loro sgherri in divisa, ma anni e anni di carcere speciale, che lo hanno massacrato fisicamente e psichicamente. Altri compagni, altri proletari vengono uccisi in questa maniera dalla galera, dalle sevizie, dalle torture e dalla mancanza di cure. Questo omicidio ci fa odiare ancora di più gli aguzzini che lo hanno scientificamente pianificato e sadicamente realizzato. Rendiamo onore al compagno Buonoconto, come si deve ad ogni compagno che cade sul fronte della guerra di classe per una società comunista. Siamo convinti che il regime del massacro, lo stato dei padroni, nonostante gli omicidi, non può vincere. Non può sperare di frenare l’avanzata di milioni di proletari verso una società di uomini liberi, riempiendo le galere, arrestando e torturando centinaia di compagni, come sta facendo. Per quel che ci riguarda al momento, non tollereremo che i compagni catturati ultimamente vengano torturati e sapremo agire di conseguenza. Quando un regime per sopravvivere ha solo questi metodi per quanto sia potente, è destinato a sparire. Il prezzo che il proletariato sta pagando è alto, molto alto; ma non così alto da farci accettare la barbarie dello sfruttamento capitalistico, la schiavitù del lavoro salariato, un sistema di vita costruito per piegare milioni di proletari agli interessi di un pugno di parassiti. La lotta per il Comunismo, la Rivoluzione Proletaria seppellirà questa società che muore e cancellerà il ricordo della sua infamia.

Per il Comunismo.

Brigate Rosse

Roma, 23 -12- 80.

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. .

Campagna D’Urso, Comunicato N.1

Venerdì 12 dicembre, un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo il boia, aguzzino di migliaia di proletari, Giovanni D’Urso, magistrato di Cassazione, direttore dell’ufficio III della Direzione generale degli Istituti di prevenzione e di pena del ministero di Grazia e Giustizia. Ciò significa che questo porco è il massimo responsabile per tutto ciò che concerne il trattamento di tutti i proletari prigionieri sia nei carceri normali sia nei carceri speciali. Tutto ciò che, in esecuzione delle direttive impartite dalle centrali imperialiste, riguarda il trattamento generale e particolare dei prigionieri, la differenziazione fra le carceri, i trasferimenti, le pratiche di tortura e di annientamento politico-psichico-fisico passa per le sue mani.

O meglio passava, perché ora è in un carcere del popolo e verrà sottoposto al giudizio del proletariato, che il porco credeva di poter massacrare impunemente.

Chiariamo subito che il processo a cui verrà sottoposto non ha nulla a che spartire con i riti ed i codici della giustizia borghese, ma ha i suoi ferrei riferimenti nel profondo senso di giustizia, che nelle sue lotte il proletariato non manca mai di manifestare con puntuale ed inesorabile fermezza. Ai criteri della giustizia proletaria ci atterremo nell’emettere il giudizio.

Compagni, la crisi strutturale in cui lo Stato imperialista delle multinazionali si dibatte si fa di giorno in giorno più profonda e lacerante. Essa nasce e si nutre nel meccanismo stesso dell’accumulazione capitalistica e investe inesorabilmente alle radici il modo di produzione. A nulla valgono le ricette miracolose ed i piani economici che la borghesia inventa per risolvere problemi che trovano la loro vera origine nel carattere superato dei rapporti sociali di produzione. Solo producendo per distruggere, distruggendo per poter produrre il capitale multinazionale può sperare di ritardare la sua fine. La crisi del modo di produzione capitalistico si traduce così in offensiva generalizzata della borghesia imperialista contro il proletariato metropolitano. Questa offensiva nel suo divenire assume sempre più i caratteri della controrivoluzione preventiva, di una strategia il cui aspetto dominante è la tendenza alla guerra imperialista ed alla ristrutturazione sul piano interno. Ciò significa che su ogni strato proletario si abbatte la repressione, che le conquiste di un decennio di lotte operaie vengono rimangiate ad una ad una. Il “nuovo modo di produrre” oggi, non può essere altro che quello che Agnelli ha prepotentemente indicato a tutti: la ristrutturazione in Fiat è passata, in un anno, dalla decimazione delle avanguardie iniziata con i licenziamenti alla espulsione in massa dalla fabbrica nel tentativo di far pagare tutti interi gli enormi costi della crisi alla classe operaia e di distruggere ogni sua capacità di lotta e di organizzazione.

Licenziamenti, mobilità, nocività e militarizzazione sono le medicine del padrone per la fabbrica ammalata. Il progetto padronale è all’interno di una strategia complessiva della borghesia imperialista, che trova nell’annientamento di ogni antagonismo di classe l’unica politica valida che, nell’attuale situazione, gli permetta di tenere in piedi il suo sistema di potere. Ma se per i capitalisti crisi significa guerra imperialista e controrivoluzione preventiva per i proletari vuol dire rivoluzione proletaria!!!

Al progetto della borghesia imperialista si oppone infatti un vasto movimento di resistenza proletaria che vive e combatte per una società comunista.

Nelle fabbriche, nei quartieri, nelle carceri questo movimento si esprime in mille forme di lotta e dimostra la sua reale maturità costruendo i livelli di mobilitazione e riorganizzazione sotterranea in grado di estendersi continuamente anche in presenza di un’offensiva controrivoluzionaria sempre più feroce. Lo scontro affrontato questo autunno dalla classe operaia Fiat non lascia dubbi in proposito per quanto ha saputo realizzare in termini di mobilitazione autonoma, di chiarezza e coscienza dei suoi nemici, e per questo ha saputo sedimentare nella prospettiva vincente di riorganizzarsi in modo nuovo. Anche la borghesia non si fa illusione ed è evidente il suo tentativo di arginare questa crescita adottando l’unica soluzione possibile: la strategia di guerra in mano ai militari. Cioè la guerra al proletariato su tutti i fronti e con tutti i mezzi a partire dai punti più alti dello scontro di classe: la Fiat e le carceri.

Compagni, il carcere è al centro della strategia di guerra dell’imperialismo. Il carcere non è un bubbone di questa società ma la risposta della borghesia all’attuale livello della lotta di classe. La strategia differenziata non è svincolata dalla ristrutturazione nelle fabbriche ma parte integrante di essa: il momento più alto di annientamento delle forze rivoluzionarie.

Ma il carcere non è solo l’altra faccia della fabbrica per chi lotta e combatte, è anche il luogo “abituale” di vita del proletariato extralegale, cioè di quello strato di classe che vive come determinazione degli strati disgregati del proletariato metropolitano che subiscono fino in fondo il costo della crisi e il peso della ristrutturazione produttiva. Nel movimento dei proletari prigionieri si sono storicamente incontrate e si incontrano queste due determinazioni del proletariato metropolitano in un programma di lotta rivoluzionaria e di costruzione del potere proletario.

La strategia differenziata nel carcere è il mezzo attraverso cui il potere tenta di contrastare, ad un tempo, la guerriglia all’esterno e il movimento dei proletari prigionieri all’interno. Essa deve isolare le avanguardie e seppellire nei campi per annientarle e, inoltre, reprimere ogni forma di lotta ed organizzazione del proletariato prigioniero. La differenziazione è lo strumento scientifico per separare, dividere ed analizzare i singoli prigionieri e i diversi strati per distruggere preventivamente la loro forza politica.

L’imperialismo ha affinato da tempo le sue tecniche di distruzione, le ha già sperimentate in Germania e in altri Paesi contro le forze rivoluzionarie, oggi le perfeziona in Italia a livello di massa tentando di costruire un’immensa rete di lager – che vorrebbe inespugnabile – per rinchiudervi migliaia di prigionieri e parallelamente edificare un circuito di differenziazione in grado di spezzare la resistenza dei prigionieri e di spegnere la loro capacità e volontà di lotta.

Ma l’ambizioso progetto del nemico, nonostante l’apparente efficienza e solidità, non può riuscire, sta già fallendo perché si scontra con la realtà di uno strato di classe (il proletario prigioniero) che è inserito a pieno titolo all’interno del proletariato metropolitano e con la realtà di un possente movimento di lotta che nel carcerario è venuto organizzandosi e rafforzandosi negli ultimi dieci anni. Alla classe operaia, vero centro motore e dirigente di tutto il processo rivoluzionario, si affianca così una componente possente e combattiva ed ineliminabile del proletariato metropolitano, che rivendica a pieno titolo il ruolo che gli spetta nella rivoluzione comunista e che la lotta di cui è protagonista ha ampiamente legittimato.

Gli alti livelli di mobilitazione, di lotta e di organizzazione di tutto il proletariato prigioniero stanno facendo franare fin dalle fondamenta il progetto imperialista e, contemporaneamente, dimostrano nella pratica di lotta l’oggettività rivoluzionaria di questo strato di classe. I livelli di coscienza che ha raggiunto nascono da un movimento reale suscitato da profonde cause oggettive, che fanno del proletariato prigioniero una delle componenti più maciullate dalla ristrutturazione imperialistica, e nello stesso tempo proprio per le lotte che ha saputo condurre rappresenta un riferimento concreto per tutto il movimento rivoluzionario e un punto di forza politica a favore del proletariato. La nascita dei Cdl in molte carceri è il risultato della maturità di questo movimento di lotta che ha saputo individuare, a partire dai bisogni di questo strato di classe, un programma immediato teso a contrastare l’offensiva del nemico ed a costruire il potere proletario armato. Nelle lotte del proletariato prigioniero non c’è nessun aspetto rivendicazionista, per abbellire le carceri e viverci meglio, ma esse sono il modo concreto di combattere oggi per abolire tutte le carceri e costruire una società di uomini liberi. Una società dominata dai proletari, che possa produrre senza sfruttare, essere giusta senza le galere e i campi di concentramento. Per questo si battono i proletari prigionieri ed in questo vive, pur nella sua parzialità che solo il rafforzamento del ruolo del Pcc può superare, il programma generale di transizione al comunismo di cui il Pcc stesso si fa portatore.

Proprio il carcere dove lo Stato imperialista ha portato fino in fondo la sua ristrutturazione e dove ha stabilito il suo punto di massima forza militare, si è trasformato attraverso le lotte di questi anni in un terreno decisivo tra rivoluzione e controrivoluzione. La battaglia del 2 ottobre all’Asinara, le lotte di Volterra, di Fossombrone, di Firenze e di altre carceri hanno dimostrato nei fatti la forza e l’unità dei Pp e la possibilità di costruire il potere proletario armato anche nelle carceri. La distruzione del campo di Nuoro – dell’infame giocattolo costruito dai Cc e dal boia Massidda sulla divisione scientifica dei proletari prigionieri – e l’esecuzione delle spie e degli infiltrati hanno indicato a tutto il movimento proletario la strada da percorrere a chiarire i termini attuali del programma immediato del proletariato prigioniero:

ORGANIZZARE LA LIBERAZIONE DEI PROLETARI PRIGIONIERI

SMANTELLARE IL CIRCUITO DELLA DIFFERENZIAZIONE

COSTRUIRE E RAFFORZARE I COMITATI DI LOTTA

CHIUDERE IMMEDIATAMENTE L’ASINARA.

Questi sono gli obiettivi principali del programma immediato dei Pp. In completa sintonia con i bisogni e le aspirazioni dei PP, facendosene carico in modo concreto, le Br da tempo lavorano, dentro e fuori le carceri in questa direzione; senza sovrapposizione né confusione di ruoli fra le due determinazioni del potere proletario: gli organismi di massa e il Pcc. E’ per questo che occorre sviluppare una linea di combattimento che sia incentrata sul raggiungimento degli obiettivi dei programmi immediati. Ma non solo questo. Lo Stato imperialista va attaccato e distrutto in una strategia di lungo periodo, disarticolato ed incalzato con l’azione guerrigliera, scardinato delle rotelle che lo fanno funzionare. Ecco il duplice compito che spetta all’organizzazione oggi:

ORGANIZZARE LE MASSE SUL TERRENO DELLA LOTTA ARMATA, ATTACCARE E DISARTICOLARE LO STATO IMPERIALISTA.

Questi due momenti non sono separati ma l’uno è conseguenza e prodotto dell’altro. La battaglia che stiamo combattendo con la cattura ed il processo al porco Giovanni D’Urso è in questa strategia che si colloca. Processare questo servo del potere preposto alla gestione del più infame strumento di annientamento usato dall’imperialismo, vuol dire oggi processare l’intera borghesia imperialista e combattere perché i rapporti di forzare nelle carceri si ribaltino a favore dei proletari.

Compagni, oggi il compito dell’Organizzazione è quello di agire da partito per costruire il partito e dimostrare nella realtà dello scontro di classe la capacità di essere la punta più avanzata dell’intero movimento rivoluzionario, la sua avanguardia comunista. La linea politica espressa dalla Risoluzione della Direzione Strategica ottobre 80, è sintetizzata nella parola d’ordine: “DOBBIAMO ACCETTARE LA GUERRA E ATTACCARE IL CUORE DELLO STATO, FACENDO VIVERE I CONTENUTI DI DISTRUZIONE E DISARTICOLAZIONE DENTRO UNA LINEA DI MASSA CHE DIALETTIZZI I PROGRAMMI IMMEDIATI CON IL PROGRAMMA GENERALE DI TRANSIZIONE AL COMUNISMO”.

Chi non fa questo oggi è un opportunista, perché non collega l’azione di partito ai programmi immediati dei vari strati di classe, non costruisce il potere proletario armato ma svincola dal compito storico che spetta alle OC. Chi crede che il problema sia sparare o eliminare qualche nemico del popolo, costruisce nel vuoto. Lo abbiamo detto ma lo ripetiamo all’infinito: IMPUGNARE LE ARMI NON BASTA!!! Chi si limita a questo dimostra di non aver capito nulla del percorso fin qui compiuto dalla lotta armata e il suo avventurismo non ha giustificazioni di sorta. Gli opportunisti, come i soggettivisti più sfrenati non vedono il peso storico che oggi spetta alle forze rivoluzionarie, e di fronte allo scontato fallimento dei loro programmi mostrano tutta la miseria della loro linea e delle loro scelte: la loro sconfitta viene interpretata come la liquidazione della rivoluzione proletaria.

L’incapacità di capire che la lotta armata è una strategia rivoluzionaria radicata nell’interno della classe operaia e non l’espressione delle loro tensioni e frustrazioni piccolo-borghesi, li trasforma in facili prede della controguerriglia che troppo spesso su di loro costruisce le sue brillanti operazioni. Non ci sono scorciatoie nel processo rivoluzionario. Compito della guerriglia oggi è la conquista delle masse alla lotta armata per il comunismo, costruendo il Pcc e gli Omr. Compito del partito è farsi carico di tutte le esigenze e dei bisogni politici e materiali che il proletariato in tutte le sue componenti pone sul tappeto. Non far questo, che si impugnino delle armi o no, vuol dire scadere nel peggiore e velleitario opportunismo. L’unità di tutti i comunisti a costruirla a partire da questa chiarezza e da questa scelta, ben coscienti che ciò potrà avvenire solo combattendo le concezioni errate e le pratiche sbagliate. Le Brigate Rosse lavorano per l’unità nella chiarezza, unico metodo per costruire il partito.

Roma, 13 dicembre 1980

PER IL COMUNISMO BRIGATE ROSSE

ONORE AI COMPAGNI ROBERTO SERAFINI E WALTER PEZZOLI TRUCIDATI DAI CARABINIERI A MILANO.

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. .

Volantino in ricordo dei compagni uccisi a via Fracchia: Lorenzo Betassa (Antonio), Riccardo Dura (Roberto), Annamaria Ludmann (Cecilia), Piero Panciarelli (Pasquale)

Venerdì 28 marzo 1980 quattro compagni delle Brigate Rosse sono stati uccisi dai mercenari di Dalla Chiesa. Dopo aver combattuto, e trovandosi nell’impossibilità di rompere l’accerchiamento, dopo essersi arresi, sono stati trucidati. Sono caduti sotto le raffiche di mitra della sbirraglia prezzolata di regime i compagni:

Roberto: operaio marittimo, militante rivoluzionario praticamente da sempre, membro della direzione strategica della nostra organizzazione. Impareggiabile è stato il suo contributo nella guerra di classe che i proletari in questi anni hanno sviluppato a Genova. Dirigente dell’organizzazione dall’inizio della costruzione della colonna che oggi è intitolata alla memoria di Francesco Berardi, con generosità e dedizione totale ha saputo fornire a tutti i compagni che hanno avuto il privilegio di averlo accanto nella lotta un esempio di militanza rivoluzionaria fatta di intelligenza politica, sensibilità, solidarietà, vera umanità, che le vigliacche pallottole dei carabinieri non potranno distruggere.

Cecilia: si guadagnava da vivere facendo la segretaria. Come a tutte le donne proletarie la borghesia aveva destinato una vita doppiamente sfruttata, doppiamente subalterna e meschina. Non ha accettato questo ruolo aderendo e militando nella nostra organizzazione, dando con tutte le sue forze un enorme contributo per costruire una società diversa, dove la parola donna e la parola proletario non significano sfruttamento.

Pasquale: operaio della Lancia di Chivasso.

Antonio: operaio Fiat e dirigente della nostra organizzazione.

Sempre alla testa delle lotte della fabbrica e dei quartieri nei quali vivevano. Li hanno conosciuti tutti quegli operai e proletari che non si sono piegati all’attacco scatenato dalla multinazionale di Agnelli e dal suo Stato. Proprio perché vere avanguardie avevano capito che lottare per uscire dalla miseria, dalla cassa integrazione, dai ritmi, dai cottimi, dal lavoro salariato, vuol dire imbracciare il fucile e organizzare il potere proletario che sappia liberare le forze per una società comunista. Imbracciare il fucile e combattere. Questi compagni erano consapevoli che decidendo di combattere avrebbero affrontato la furia omicida della borghesia e che avrebbero potuto essere uccisi. Ma la certezza per combattere per la vita, per la libertà in una posizione d’avanguardia, in prima fila, è un compito che i figli migliori, più consapevoli, del popolo devono assumere su di sé per poter rompere gli argini da cui il movimento proletario spezzerà via la società voluta dai padroni. Per loro, come per molti altri operai, la scelta è stata precisa: combattere e vincere con la possibilità di morire; anziché subire e morire a poco a poco da servi e da strumenti usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. Oggi Roberto, Pasquale, Cecilia, Antonio, sono caduti combattendo. E’ grande il dolore per la loro morte, non riusciamo ad esprimere come vorremmo quel che sentiamo perché li hanno uccisi e non li avremo più tra noi. Ma nessuno di noi ha pianto, come sempre quando ammazzano dei nostri fratelli, e la ragione è una sola: altri hanno già occupato il loro posto nella battaglia. Proprio mentre ci tocca lo strazio della loro scomparsa e onoriamo la loro memoria, si rinsalda in noi la convinzione che non sono caduti invano come non sono morti invano tutti i compagni che per il comunismo hanno dato la vita.

Alla fine niente resterà impunito.

Brigate Rosse

29 Marzo 1980

Comunicato in ricordo di Margherita Cagol – Mara

Ai compagni dell’organizzazione, alle forze sinceramente rivoluzionarie, a tutti i proletari. E’ caduta combattendo MARGHERITA CAGOL, “MARA,” dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà più dimenticare. Fondatrice della nostra organizzazione, “MARA” ha dato un inestimabile contributo di intelligenza, di abnegazione e di umanità alla nascita e alla crescita dell’autonomia operaia e della lotta armata per il comunismo. Comandante politico-militare di colonna, “MARA” ha saputo guidare vittoriosamente alcune tra le più importanti operazioni dell’organizzazione.

Valga per tutte la liberazione di un nostro compagno dal carcere di Casale Monferrato. Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo impararne la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo!

E’ la guerra che decide in ultima analisi, della questione del potere: la guerra di classe rivoluzionaria. E questa guerra ha un prezzo: un prezzo alto certamente, ma non così alto da farci preferire la schiavitù del lavoro salariato, la dittatura della borghesia nelle sue varianti fasciste o socialdemocratiche. Non è il voto che decide la questione del potere; non è con una scheda che si conquista la libertà. Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di “MARA” meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con il suo lavoro, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi, come ultimo saluto le diciamo: “Mara” un fiore è sbocciato, e questo fiore di libertà le Brigate Rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria!

LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO

5 giugno 1975

BRIGATE ROSSE

Molti compagni o gruppi della sinistra rivoluzionaria

Milano, aprile 1971

Molti compagni o gruppi della sinistra rivoluzionaria, sono intervenuti su differenti questioni sollevate dal nostro lavoro. Non sempre però ci è sembrato che il riferimento al nostro reale discorso fosse sufficientemente preciso. Per facilitarne quindi la comprensione e per evitare ‘interpretazioni’ più ispirate all’immagine che il potere ha tentato di fornire di noi che alla nostra reale e modesta statura, rispondiamo ad alcune domande dominanti.

1) Le Brigate Rosse sono o non sono ‘l’embrione del futuro esercito rivoluzionario?

Che lo siamo noi non lo abbiamo mai affermato, anche perché nella nostra prospettiva politica non riusciamo a distinguere con sufficiente chiarezza, come forse capita ad altri, la formazione di un ‘futuro esercito rivoluzionario’. Ci sembra che la linea di tendenza porti piuttosto alla formazione di un’organizzazione politica armata, che risolve in se i vecchi termini della eterna questione, il partito e l’esercito rivoluzionario, il partito e la guerriglia. Ma ancora non ci sembra che si possa dire che le Brigate Rosse siano gli ’embrioni’ del ‘futuro partito guerriglia’.

2) Le Brigate Rosse sono o non sono ‘organismi militari’?

Non sono ‘organismi militari’ ed è completamente estraneo al nostro lavoro quello di ‘dividere’ gli ‘organismi politici’ dagli ‘organismi militari’. Il principio da altri formulato, che deve essere la politica a guidare il fucile, è da noi inteso e praticato in un senso preciso e cioè sollecitando in ogni compagno ed in ogni nucleo di compagni un approfondito chiarimento politico a guida, fondamento e scelta del proprio comportamento rivoluzionario, all’occorrenza anche ‘militare’.

3) Sono le Brigate Rosse un inizio burocratico e minoritario di una fase della lotta di classe in cui l’offensiva avrebbe dovuto esprimersi anzitutto sul piano della violenza clandestina’?

Che la lotta rivoluzionaria assuma spesso la forma dell’azione diretta organizzata clandestinamente è un fatto che non dipende tanto da noi quanto dall’organizzazione repressiva dei padroni. Che l’offensiva proletaria si esprima anche sul piano dell’azione diretta organizzata clandestinamente è una ovvietà che non abbiamo inventato noi ma che chiunque segua un po’ d’appresso lo scontro di classe non fatica a scoprire. Noi pensiamo -questo sì – che l’offensiva proletaria sia oggi estremamente ricca e che tra le molte forme della sua espressione vi sia anche quella dell’azione diretta organizzata clandestinamente. E di questo non ci scandalizziamo.

4) “C’è stata una valutazione completamente errata dei rapporti di forza esistenti tra proletariato e borghesia, e cioè della fase di lotta che stiamo attraversando, che è sì è in una fase di offensiva proletaria, ma non certo sul piano militare”.

Diversa è qui evidentemente la nostra sensibilità politica da quella di chi ci ha mosso questo appunto. La fase che lo scontro tra le classi oggi attraversa, noi riteniamo sia quella della conquista degli strumenti d’organizzazione e di accumulazione delle forze rivoluzionarie capaci di reggere lo scontro e preparare l’offensiva di fronte al progredire di un movimento di reazione articolato sino al limite della controrivoluzione armata. E cioè del passaggio necessario dalla risposta spontanea e di massa anche se violenta, all’attacco organizzato, che sceglie i suoi tempi, calcola la sua intensità, decide il terreno, impone il suo potere.

5) Cosa sono dunque le Brigate Rosse?

Sono gruppi di proletari che hanno capito che per non farsi fregare bisogna agire con intelligenza, prudenza e segretezza, cioè in modo organizzato. Hanno capito che non serve a niente minacciare a parole e di tanto in tanto esplodere durante uno sciopero. Ma hanno capito anche che i padroni sono vulnerabili nelle loro persone, nelle loro case, nella loro organizzazione; che gruppi clandestini di proletari organizzati e collegati con la fabbrica, il rione, la scuola e le lotte, possono rendere la vita impossibile a questi signori.

Progetto Memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 34-35.

Comunicato N.7

«La macchina che produce nocività non deve funzionare. Per noi produce morte e va messa fuori uso. La salute non si contratta, la nocività si elimina.»

NUOVE FORME DI LOTTA

I padroni e i suoi servi ci hanno tolto le nostre forme di lotta più incisive: riduzione dei punti, blocco delle merci, sciopero articolato (Pirelli, Sit-Siemens, Autobianchi, Alfa…).

OBIETTIVO: minor spesa-maggior incisività.

Il sabotaggio, vecchia arma operaia che sfugge alla repressione, raggiunge il massimo di incisività senza spesa (impegna solo il cervello). Alla Bicocca già da un po’di tempo c’è subbuglio in direzione e fra i servi vari. Pirelli ha attaccato la riduzione dei punti con il taglio del salario. Cosa è successo? ­- Sabotaggio con chiodi al fascio centrale dei cavi del telefono (per un giorno i contatti telefonici all’interno della Bicocca e tra la Bicocca e il Pirellone sono rimasti interrotti). – Sabotaggio cavi OF (trecento-trecentocinquantamila lire al metro). – Sabotate valvole distribuzione centrale termica. – Rotta trafila gruppo 4.a (fasci battistrada – ingranaggio in tramoggia). – Danneggiata calandra Ross. – Acqua nella mescola della plastica per cavi. – Spranghe di ferro in ingranaggi del mescolatore a Segnanino. – Manomissione apparecchiature elettriche di diverse macchine. E tanti altri sabotaggi di minore entità. Per rendere però il sabotaggio una forma di lotta di massa bisogna tener presente: il sabotaggio va fatto in modo che non vengano colpite quelle macchine che potrebbero danneggiare noi operai e dare dei falsi pretesti al padrone per serrare la fabbrica, mettere in cassa integrazione gruppi di operai ecc. – Il sabotaggio va fatto con intelligenza in modo che ci permetta di marcare fermo macchina, non perdere il salario e non farti beccare. – Contro l’aumento dei ritmi: creare guasti alla macchina che ci permettano pause per piccole riparazioni in modo che si possa segnare in tabella “fermo macchina”. – Sabotaggio come risposta al padrone che ci sabota i salari (taglio della paga ecc.); sabotaggio della produzione: acqua, terra, ferro ecc., nelle mescole per romperle. Non ci mancherà il lavoro. – La macchina che ci produce infortuni deve rompersi continuamente. – La macchina che produce nocività non deve funzionare. Per noi produce morte e va messa fuori uso. La salute non si contratta, la nocività si elimina.

GIA’ ALLA IGNIS DI TRENTO GLI OPERAI PRATICANO IL SABOTAGGIO DA DIVERSI MESI COME FORMA DI LOTTA DI MASSA.

CHE COSA SONO LE BRIGATE ROSSE?

Le Brigate Rosse sono le prime formazioni di propaganda armata, il cui compito fondamentale é quello di propagandare con la loro esistenza e con la loro azione i contenuti di organizzazione e di strategia della guerra di classe.

Le Brigate Rosse hanno dunque sempre come riferimento gli obiettivi propri del movimento di massa e il loro compito fondamentale é guadagnare l’appoggio e la simpatia delle masse proletarie.

Marzo 1971

BRIGATE ROSSE.

Pubblicato in Soccorso Rosso, Brigate Rosse, Feltrinelli, Milano 1976.

Comunicato n.6. Rivendicazione dell’attacco alla Pirelli di Lainate

5 Febbraio 1971

Piazza Fontana, Pinelli, poliziotti che sparano, compagni in galera, Della Torre e tanti altri licenziati, squadracce fasciste protette dalla polizia, giudici-politicanti-governanti, servi dei padroni…

Questi sono gli strumenti della violenza che i padroni riversano contro la classe operaia per spremerla sempre di più.

Chiederci di lottare rispettando le leggi dei padroni é come chiederci di tagliarci i coglioni!

Ma una cosa é certa: indietro non si torna! Continueremo con forme di lotta più avanzate sulla strada già intrapresa: attacco alla produzione, molto danno per il padrone, poca spesa per noi.

E su questa strada abbiamo già cominciato a muovere i primi passi.

Lunedì notte 26 Gennaio, sulla pista prova-pneumatici di Lainate, tre camion di Pirelli sono bruciati. 20 milioni andati in fumo!

Da un punto di vista “tecnico”, questa azione non é stata eccellente e altri 5 camion sono rimasti indenni. Ma sbagliando si impara e la prossima volta sapremo far meglio…

I padroni hanno fatto male i loro conti. L’intensificarsi della loro violenza, non può che far crescere l’intensità del nostro attacco. Finché non ritireranno il provvedimento e ci restituiranno i soldi che ci hanno rubato, i loro conti certamente non torneranno…

A Milano, A Roma, a Trento, a Reggio Calabria i padroni adoperano polizia e fascisti armati.

Cortei, ordini del giorno, solidarietà e petizioni varie, possono solo portarci alla sconfitta.

Abbiamo iniziato a colpire persone e “cose”. Un porco del padrone, Pellegrini, lo abbiamo costretto a licenziarsi. Qualche altro porco giustamente si caga addosso.

Deve essere ben chiaro: continueremo su questa strada!

Perché anche Mac Mahon?

Il padrone che ci spreme in fabbrica é lo stesso padrone che ci aumenta il costo della vita, che non ci permette di avere una casa decente se non rubandoci quei pochi soldi che gli strappiamo con dure lotte.

Quelle famiglie costrette a occupare le case in via Mac Mahon, già pagate con i loro contributi, lo hanno fatto per togliere loro ed i loro figli dalle baracche malsane dei famigerati “centri sfrattati”.

Il padrone gli ha risposto trattandoli con la violenza dei manganelli e dei lacrimogeni della polizia.

A Lainate é stato colpito lo stesso padrone che ci sfrutta in fabbrica e ci rende la vita insopportabile fuori.

Chi sono i provocatori?

Provocatori sono sempre i padroni.

Provocatore é Leopoldo Pirelli, via Borgonuovo n.18, tel. 651.421 – Milano, il quale illudendosi di stroncare il movimento di lotta che colpisce con sempre maggiore forza il suo potere ha dato fuoco ai magazzini di Bicocca e Settimo Torinese.

Egli spera così di prendere due piccioni con una fava: stroncare il movimento di lotta addossandogli responsabilità che non ha e farsi ripagare dall’assicurazione nuovi capannoni.

La provocazione é un’arma che i padroni non smetteranno mai di usare.

Ma non si illudano i padroni e i loro “utili idioti”, perché la classe operaia sa ormai distinguere chiaramente tra la giusta violenza del proletariato in lotta e la ottusa violenza criminale dei padroni!

Per la rivoluzione comunista.

BRIGATA ROSSA