Nuclei Armati Proletari, Autonomia Proletaria, Nucleo Esterno Movimento dei Detenuti

Compagni detenuti il volantino qui allegato è la trascrizione del testo megafonato la notte del 1° ottobre 1974 davanti ai carceri di Milano, Roma e Napoli e seguita da un’esplosione che aveva lo scopo di distruggere le apparecchiature trasmittenti. L’isterica reazione della stampa borghese e revisionista ha prodotto un unico tentativo di falsare la realtà ed i contenuti della nostra azione ed un ridicolo tentativo di collocarla politicamente a destra. Brucia al culo dei padroni e del potere repressivo che ex-detenuti si siano organizzati all’esterno dei carceri con il preciso scopo di sostenere e proseguire, all’esterno, la nostra lotta comune contro il fascismo di Stato. Ora compagni sta a voi dare la giusta risposta di lotta per il conseguimento degli obbiettivi espressi nelle piattaforme, lottando.

Il testo del comunicato trasmesso a Rebibbia, Poggioreale e San Vittore: «Attenzione, state lontani, questa apparecchiatura e questo luogo sono minati ed esploderanno al minimo tentativo di interrompere questo messaggio. Compagni e compagne detenuti nel carcere, questo messaggio è rivolto a tutti voi dai Nuclei Armati Proletari che si sono costituiti in clandestinità all’esterno dei carceri per continuare la lotta dei detenuti contro i lager dello Stato borghese e la sua giustizia; il nostro è un appello alla ripresa delle lotte per il conseguimento degli obbiettivi espressi nelle piattaforme dal ’69 in poi. Una ripresa delle lotte nei carceri che ci vede uniti, ora come dal ’69 in poi, al proletariato; contro il capitalismo violento dei padroni, contro lo Stato dei padroni ed il suo governo.

La risposta dello Stato borghese a cinque anni di lotta dura è stata una crescente repressione ed una serie di provvedimenti fascisti tra i quali il raddoppio della carcerazione preventiva, ed il definitivo affossamento del progetto di riforme penali decantato dalla pubblicità governativa. Raddoppio dei termini passato con il concorso attivo dei revisionisti sulla pelle del nostro strato proletario. Ora è giunto il momento di dimostrare che non siamo disposti a permettere che vi sia il silenzio: di dimostrare che la nostra volontà e capacità di lotta non è spenta, nonostante tutto, e che ha prodotto all’esterno dei carceri dei Nuclei Armati Proletari per affiancare e sostenere la lotta dei detenuti, per rispondere agli omicidi ed alle stragi ed alle repressioni di Stato. Compagni proletari detenuti, per i nostri diritti, contro la violenza di stato nelle carceri, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole e nelle caserme, contro il rafforzamento della repressione, rivolta generale nelle carceri. Rifiutiamo il modo di vivere impostoci dalla classe borghese con lo sfruttamento, la miseria e l’oppressione; rifiutiamo di continuare ad essere l’alibi delle strutture poliziesche ed antiproletarie dello Stato. Compagni, la repressione su di noi affianca e perfeziona il fascismo delle leggi di Stato, conferma che il potere calpesta il diritto del proletariato più debole preparandosi a calpestare la libertà di tutto il proletariato. Noi non abbiamo scelta: o ribellarsi e lottare o morire lentamente nei carceri, nei ghetti, nei manicomi dove ci costringe la società borghese e nei modi che la sua violenza ci impone.

Contro lo Stato borghese, per il suo abbattimento, per la nostra autoliberazione di classe, per il nostro contributo al processo rivoluzionario del proletariato, per il comunismo: rivolta generale nei carceri e lotta armata dei nuclei all’esterno. Rivolta e lotta armata come rifiuto di accettare passivamente la repressione che si aggiunge al genocidio sociale permanente del nostro strato proletario. Rivolta e lotta armata come risposta contro l’esistenza dei carceri; ai decenni di torture, alle centinaia di omicidi consumati senza timore di punizione dai boia del sistema nei carceri, nei manicomi giudiziari, nei riformatori minorili. I Nuclei Armati Proletari contano alloro interno compagni ex-detenuti che hanno sofferto il carcere lottando e maturando politicamente, 10 hanno sofferto come voi, compagni, sui letti di contenzione, nelle celle di isolamento, subendo le sevizie degli aguzzini e le torture dei manicomi giudiziari e che non hanno dimenticato..

Compagni detenuti, i crimini degli aguzzini di Stato non rimarranno più impuniti; i boia fascisti esecutori della repressione nei carceri e nei manicomi, saranno da noi processati e condannati secondo la giustizia proletaria. Contro tutte le violenze subite dai proletari detenuti dobbiamo rispondere con la sola parola d’ordine di classe valida in tutte le situazioni di sfruttamento e di oppressione del proletariato: la ripresa della nostra lotta di massa. Via i fascisti dai carceri in lotta per il comunismo, per loro le fogne possono bastare. Contro il fascismo di Stato violenza organizzata del proletariato detenuto. Compagni non dimenticate che i fascisti sono quegli stessi porci che chiedono con insistenza il ripristino della pena di morte, un aumento generale delle pene del loro infame Codice penale, una maggiore durezza di trattamento nei carceri e sempre i primi a proporre le più reazionarie proposte liberticide. Compagni non dimenticatelo per quelli che avete lì sottomano, isolate e picchiate i fascisti e ricordate che sono nostri boia al pari degli aguzzini, della polizia della custodia e dei padroni.

Compagni detenuti, in questa fase di lotta tutto il proletariato contrapposto al potere borghese che tenta di realizzare il suo più alto tentativo reazionario ed antiproletario, all’interno di una crisi politica ed economica dell’imperialismo mondiale, portando un attacco a fondo alle condizioni di vita e alle libertà del proletariato nelle fabbriche e nei quartieri, aumentando di conseguenza il numero di proletari detenuti. In questo quadro la nostra lotta assume il significato di unità con la lotta di tutto il proletariato proponendo la ricerca di un rapporto di forza vincente e di una strategia che veda la classe operaia alla guida dello scontro di classe di tutti gli strati del proletariato in lotta.

La nostra piattaforma deve perseguire questi obbiettivi:

1) Lotta contro i codici fascisti come momento di unità politica del proletariato contro uno strumento basilare del condizionamento oppressivo del potere.

2) Lotta per la democratizzazione interna dei carceri e per la relativa attuazione di riforme radicali che contemplino sistemi non detentivi, effettiva e reale possibilità di esercitare gli inalienabili diritti umani e politici espressi nelle piattaforme di questi ultimi anni.

Autogoverno, democraticizzazione come sbocco evolutivo delle nostre lotte per le masse detenute che soltanto attraverso una prassi di lotta possono trasformarsi da masse amorfe e strumentalizzate a masse coscienti dei propri diritti e dei compiti di classe rispetto al processo rivoluzionario generale.

I nostri obbiettivi immediati sono:

a) Abolizione dei manicomi giudiziari, veri lager nazisti e strumento di ricatto e di terrorismo per i proletari detenuti.

b) Abolizione dei riformatori minorili, luoghi di violenza originaria sul giovane proletario, atti e programmati per assicurare al potere borghese la continuità di quella delinquenza di cui ha disperatamente bisogno per giustificare gli apparati polizieschi e giudiziari dello Stato. c) Amnistia generale e incondizionata, salvo che per i reati di mafia e per la sbirraglia nera, a parziale rimedio del danno subito dalle leggi fasciste.

d) Abolizione immediata della recidiva.

e) Inchiesta da parte di una commissione non parlamentare, ma composta da compagni, avanguardie di lotta delle fabbriche e dei quartieri sulle torture, sugli abusi e sugli omicidi che sono stati commessi e continuano a commettersi attualmente nei carceri.

t) La verità sul compagno fucilato a Firenze e sulla strage ordinata dal potere ai suoi servi ad Alessandria.

Compagni, al conseguimento di questi obbiettivi i Nuclei Armati Proletari concorreranno all’esterno con le azioni che di volta in volta si renderanno necessarie. Questa azione di propaganda alle lotte è stata condotta dal nucleo esterno del movimento dei detenuti.

Viva il comunismo, viva la lotta dei detenuti».

Ottobre 1974.

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp.232-234.

Nuclei Armati Proletari, Autonomia Operaia, Nucleo Esterno Movimento dei Detenuti

Questo volantino vuole essere la spiegazione politica maggiormente articolata rispetto al testo megafonato della nostra azione di propaganda effettuata contemporaneamente nelle carceri di Milano, Firenze, Roma e Napoli con lo scopo di rilanciare le lotte dei proletari detenuti sugli obbiettivi maturati a partire dal ’69 ad oggi, e stroncate con le armi nel momento in cui, rispetto alle scelte opportuniste e deviazioniste della sinistra ufficiale, avevano espresso nei loro contenuti e urto di massa un reale irreversibile significato di scontro di classe.

La nostra lotta in questa fase di attacco criminale da parte delle classi privilegiate alle condizioni di vita dei lavoratori e delle classi socialmente più deboli e precarie, acquista un significato di unità di lotta di tutto il proletariato, promuovendo la ricerca di un rapporto di forza vincente all’interno di una strategia che veda la classe operaia nell’estensione del fronte delle sue alleanze alla guida di tutti gli strati sfruttati e oppressi in lotta per un’alternativa comunista. Noi sappiamo che a queste nostre prime azioni di avanguardia, lo Stato borghese e fascista cercherà di screditarci presso il proletariato denunciandoci come provocatori, ribellisti, delinquenti e chi sa cos’altro, ma a costoro noi risponderemo con il solo argomento vero, reale, marxista e non mistificatorio: cioè con la ripresa della lotta di massa su obbiettivi progressisti, rivoluzionari.

I partiti e le organizzazioni della sinistra legale con la tanto declamata parola d’ordine “Fuorilegge il MSI” ancora una volta hanno tradito la coscienza e gli interessi del proletariato deviandone lo scontro di classe; perchè questa parola d’ordine, di delega al governo, cioè alle strutture corporative fasciste della giustizia borghese, ha permesso alla Dc, dopo la clamorosa e reale sconfitta subita con il referendum, di fortificare di fatto il suo potere sulle strutture interne dello Stato, e di ricrearsi quella credibilità democratica, riconoscendo nella parola d’ordine di “Fuorilegge il MSI” un suggerimento amico -tanto da sdebitarsi verso le forze della sinistra rinunciando in allegria alla vecchia linea degli opposti estremismi ormai inutile e infantile per il suo potere riconquistato -che le permetteva, come in realtà è avvenuto, di far approvare dietro il paravento di un disegno golpista (invenzione originale della sinistra che ha fatto della lotta di classe una politica di classe, e quindi non come necessario scontro armato a cui bisogna contrapporre un proletariato illegale nella sua intellettualità, ma come prassi scorretta (criminale!) e quindi vincente rispetto a un proletariato da loro stessi tenuto nell’ignoranza tecnica delle cose illegali, represso, educato alla legalità più ottusa per fini opportunistici di partito o di organizzazione prestrutturati) inesistente nella sua attualità e attuabilità come colpo di stato fascista, un numero indefinito di leggi antiproletarie, di prevaricazioni poliziesche e stati d’assedio (questi sì reali) applicati dalla DC con la stupida acquiescenza dei partiti di sinistra, di cancellare dalla storia rivoluzionaria il movimento di lotta dei detenuti e farlo regredire dalla sua volontà di darsi strutture e strumenti, acquisita nel corso e con la vittoria del referendum la coscienza di un proletariato vittorioso sul piano politico, su posizioni di scoraggiamento e di impotenza il movimento di classe in generale.

Il tutto per ciò che riguarda il PCI all’insegna di un compromesso storico storicamente delinquenziale per le masse proletarie occupate e precarie. La nostra lotta nel perseguire gli obbiettivi delle piattaforme maturate nei carceri negli ultimi cinque anni tende necessariamente e dialetticamente all’unità del proletariato contro lo Stato borghese dell’interclassismo: così è la lotta contro i codici fascisti che sono lo strumento basilare del condizionamento oppressivo del potere, quale espressione dell’unità politica di tutto il proletariato contro le strutture del potere; così è la democratizzazione valida per le masse proletarie detenute quale sbocco evolutivo delle nostre lotte e la lotta di massa quale passaggio necessario da condizione parassitaria e strumentalizzata a stato cosciente dei propri diritti e compiti di classe rispetto al processo rivoluzionario generale; così è la lotta per la liberalizzazione della vita interna dei carceri, cioè per l’attuazione di riforme radicali per sistemi non detentivi, per la possibilità di esercitare gli inalienabili diritti umani e politici espressi nelle piattaforme di questi ultimi anni che sono:

l) Abolizione dei manicomi giudiziari, veri lager nazisti e strumento di terrorismo e di ricatto per i proletari detenuti;

2) Abolizione dei riformatori minorili, luoghi di violenza originaria sul giovane proletario, atti e programmati per assicurare al potere borghese la continuità della violenza di cui ha disperatamente bisogno per giustificare gli apparati giudiziari e polizieschi dello Stato;

3) Amnistia generale e incondizionata, salvo che per i reati di mafia e per la sbirraglia nera a parziale rimedio del danno subito dalle leggi fasciste;

4) Inchiesta di una commissione non parlamentare, composta da compagni, avanguardie di lotta nelle fabbriche e nei quartieri, sulle torture, sugli abusi e sugli omicidi che sono stati commessi e che hanno continuità nelle carceri;

5) La verità sul compagno fucilato a Firenze e sulla strage ordinata dal potere ai suoi servi e mercenari di Alessandria;

6) Riforma del codice penale e di procedura penale che contempli: a) Pene non detentive e che ne riduca i minimi e i massimi attualmente previsti (salvo che per mafia e fascisti). b) Che riduca a un quarto i termini dell’attuale carcerazione preventiva. c) Per una difesa gratuita e reale per tutti e per il contraddittorio processuale; per il diritto a fare politica -cioè a discutere sulle proprie cose -per lo studio libero, il voto, la giusta retribuzione del lavoro, il rapporto sessuale, per l’autogoverno.

Alla furbizia della DC di screditare i grandi quartieri giudiziari (carceri) in lotta per il comunismo relegandovi, occasionalmente, i suoi complici politicamente compromessi e i mercenari neri legati a questi, noi rispondiamo con la sola parola d’ordine di classe valida in tutte le situazioni di sfruttamento e precarietà sociale: via i fascisti dai grandi quartieri giudiziari in lotta per il comunismo; contro le carogne nere giustizia immediata; contro il fascismo di Stato, violenza organizzata e armata del proletariato. Questa è la volontà che arma tutti i proletari detenuti nei carceri del mondo capitalista e imperialista dall’America alla Francia, da Rebibbia a Firenze e che va sviluppando una sola lotta condotta da un unico proletariato contro gli Stati del privilegio borghese, per il comunismo, per un’alternativa rivoluzionaria in Italia e nel mondo.

Viva la lotta dei proletari detenuti di tutto il mondo.

SETTEMBRE 1974.

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 230-232.

Nuclei Armati Proletari – Nucleo Armato 29 Ottobre, Azione Di Gennaro. Volantino

Oggi venerdì 6 maggio è stata attuata un’azione che tendeva all’esproprio di tre compagni proletari da tempo sequestrati dalla giustizia borghese. All’azione hanno partecipato attivamente due nuclei armati: uno all’interno ed uno all’esterno con funzioni di appoggio. Un altro nucleo di compagni esterni ha preventivamente fatto prigioniero Giuseppe Di Gennaro, un reazionario che da anni è al servizio della repressione di Stato in funzione antiproletaria; attualmente egli viene custodito, interrogato, e processato in una prigione del popolo. Il non raggiungimento dell’obbiettivo inteso nella liberazione di tre compagni, avanguardie reali delle lotte dei detenuti in questi ultimi anni non significa il fallimento dell’azione, ma attesa e certifica il grado di efficienza organizzativa politico-militare raggiunto; imponderabili eventi fortuiti hanno costretto il nucleo armato interno a ripiegare su posizione di stallo ed attualmente si trova barricato all’interno della prigione di Viterbo con alcuni uomini della repressione in ostaggio. L’incolumità fisica degli stessi, l’incolumità fisica di Di Gennaro è subordinata all’incolumità fisica del nucleo interno che intende rivendicare la responsabilità politica dell’arresto di Di Gennaro e di tutte le azioni odiernamente collegate, oltreché motivarle pubblicamente a mezzo stampa Rai-Tv. Soltanto con l’adempimento di questa richiesta e dopo la divulgazione del presente messaggio gli ostaggi saranno rilasciati, il gruppo armato dichiarerà la resa e Di Gennaro sarà posto in provvisoria libertà. Coscienti che l’attuale sottogoverno Fanfani, che ben interpreta la costituzionale vocazione antiproletaria padronale, come i passati governi Tambroni e Andreotti, avrebbe bisogno oggi di nuovo sangue proletario in suffragio alla ragion d’essere della sua linea politica di cui non ultima espressione è il varo di leggi speciali, ufficialmente approvate in questi giorni, coscienti di questo nucleo interno non baratterà la propria libertà né provocherà scontri a fuoco ma risponderà a qualsiasi tipo di aggressione con le armi di cui è in possesso: compreso l’esplosivo. La scelta del settore d’intervento da parte dei Nap è determinata dalla importanza che riveste il settore stesso, nel quale si trova la maggiore concentrazione controrivoluzionaria che si traduce nell’apparato repressivo: colonna portante dell’organizzazione egemonica sulla quale si basa la perpetuazione dello sfruttamento ed asservimento al capitale. Consideriamo giuste e rivoluzionarie le lotte dei detenuti francesi, inglesi, tedeschi, statunitensi, etc. e più da vicino degli italiani (le nostre), non solo perché esse tendono alla reale abolizione dei Codici-banditi fascisti ed alla acquisizione di quegli elementari diritti umani e sociali sinora negati, ma proprio perché vanno a collocarsi nella più vasta strategia della giusta lotta di classe portata avanti dal proletariato provvisoriamente libero solo se sfruttato, del quale i detenuti sono parte integrante, pur declassati, che non si può né si deve, per giustizia politica e coerenza, ignorare. I prigionieri della politica capitalista hanno preso coscienza, pagandola sulla carta e con la propria pelle, della scienza Marxiana alla quale e non poco e non ultimo ha contribuito Bruce Franklin e perciò si organizzano, lottano e lotteranno, pur ignorati volutamente dai comunisti revisionisti, pur gettati a mare dal cosimo extra-parlamentare, pur massacrati, alienati, assassinati, violentati nella loro umanità dal potere democristiano, nei modi, tempi e luoghi che di volta in volta si renderanno necessari. I detenuti, i sottoproletari, i cosiddetti “delinquenti”, prima ancora di essere tali sono proletari: proletari investiti dalla violenza della disoccupazione, dell’ignoranza, dello sfruttamento, della fame, della miseria, della cultura, dell’organizzazione sociale della dittatura borghese. Ed è a questa violenza che i Nap oppongono la loro organizzazione rivoluzionaria posta in essere quale unico evolutivo sbocco di lotta che non presenti le caratteristiche compro missionarie dei revisionisti, quelle opportunistiche extra-parlamentari, entrambe politiche fallimentari ormai del tutto funzionali alla complessiva stabilità del potere borghese. Lotta armata per il comunismo. Creare e organizzare 10, 100, 1000 NAP.

Roma, 6-5-1975.

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 234-235.

Rivendicazione del ferimento di Antonino Mundo

Martedi, 1 dicembre 1981, il ‘nucleo 11 Aprile’ dell’organizzazione ‘Fronte Comunista per il Contropotere’ ha colpito il boia Antonino Mundo che svolgeva fino ad oggi la ‘professione’ di medico del carcere di Vicenza. Il ruolo istituzionale di Antonino Mundo e di tutti i suoi pari è fin troppo conosciuto all’interno del Proletariato Prigioniero e dei Proletari più in generale: i medici dei carceri occupano un ruolo molto importante all’interno del progetto di annientamento dei Comunisti e di ‘rieducazione’ del Proletariato Prigioniero. Sono loro sotto il comando dei carabinieri e degli aguzzini del carcere, a stabilire le condizioni di salute dei Proletari Prigionieri nei lager di Stato, loro, che dopo i pestaggi, le torture, le infinite violenze fisiche e soprattutto psicologiche a cui sono costantemente sottoposti i Proletari Prigionieri, decidono se il ‘detenuto’ è trasferibile o meno, se le condizioni psicologiche sono compatibili con lo stato di isolamento continuato, loro che redigono i referti medici da cui deve risultare che non di pestaggi si tratta, che non vi sono segni di tortura, ecc. E’ così che il Compagno Lorenzo Bortoli veniva scientificamente ‘suicidato’ in carcere pochi mesi dopo il suo arresto. Fu proprio il referto del boia Antonino Mundo a stabilire che il Compagno Bortoli poteva rimanere tranquillamente in isolamento nonostante avesse tentato altre due volte di trovare la morte. I Comunisti non dimenticano; come non hanno dimenticato i Compagni Antonietta, Alberto, Angelo, caduti combattendo per il Comunismo (l’11 aprile 1979 a Thiene) per un futuro senza galere, senza carceri, senza aguzzini, senza torturatori e senza sfruttamento, cosi non devono dimenticare quanti hanno fattivamente collaborato con gli apparati della guerra antiproletaria.

Nella fase che la lotta di classe sta attraversando risulta con sempre maggiore evidenza che il terreno della lotta armata, pur restando un elemento discriminante per i Rivoluzionari, non può essere sicuramente l’unico e non può essere sostitutivo del vuoto di iniziativa di massa antagonista e della capacita di legare questa ad una effettiva costruzione del Contropotere del Proletariato. Certo, oggi, gli stati maggiori delle neocorporazioni dell’industria e del lavoro stanno lavorando a ritmi serrati per liquidare dieci anni di rigidità operaia, dieci anni in cui il Proletariato non si è fatto abbindolare da nessuna chimerica promessa. I piani padronale-governativi si sono puntualmente infranti contro l’indisponibilità Proletaria a farsi coinvolgere nella pratica dei sacrifici per uscire dalla crisi. Ma, oggi, a partire dalla Fiat, padroni privati e pubblici stanno ottenendo qualche parziale vittoria, anche se sono ben lungi dall’aver raggiunto l’obiettivo della pace sociale mediante un patto scellerato con il sindacato. Compito dei comunisti in questa fase non è tanto e solo quello di creare consenso ad azioni armate più o meno disarticolanti, quanto piuttosto di essere in prima fila nella costruzione di movimenti antagonisti che sappiano intrecciare le lotte di resistenza con lotte di attacco, in altre parole, far vivere elementi del programma Comunista all’interno di singole lotte e lavorare per costruire un più maturo movimento Comunista che sia elemento centrale per la ricomposizione Proletaria e per la edificazione del Contropotere Proletario Armato. Non è l’oggettività dello scontro di classe che determina di per sé la nascita del Movimento Comunista, non è la presunta irreversibilità del declino della società del capitale che può far nascere movimenti di massa che si muovano verso una prospettiva rivoluzionaria, ma è l’agire quotidiano dei Comunisti che può ricondurre i movimenti Proletari, che nascono all’interno della crisi, ad una progettualità rivoluzionaria. E’ un dato di fatto che la nuova forma di sviluppo del capitale si può dare solo in termini di appesantimento delle condizioni di vita dei Proletari, con attacco al reddito, disoccupazione, cassa integrazione e progressiva militarizzazione della Società, per annientare ogni forma di antagonismo e di soggettività comunista, in uno scenario internazionale di guerra e dunque di distruzione di immense risorse umane e materiali. Ma, credere che, per queste ragioni, la fine del capitale sia prossima è una pia illusione e lo è altrettanto il ritenere che l’unico elemento in grado di creare le premesse per uno sbocco rivoluzionario alla crisi, sia la lotta armata e la costruzione di una rete Proletaria clandestina, come è altrettanto opportunista e sbagliato puntare tutto sulla costruzione dei movimenti di massa antagonisti, escludendo la pratica del radicamento del contropotere proletario armato.

E allora, il problema centrale oggi per i comunisti è quello di saper legittimare l’uso della forza all’interno della costruzione degli organismi di massa per l’esautoramento di tutte le forme di controllo istituzionale sulla classe, impostando campagne di combattimento all’interno di questo percorso in quanto espressione del punto più alto di costruzione del contropotere proletario, campagne che si devono basare prima di tutto su battaglie politiche vinte sul terreno di massa. Non vi è dubbio che condizione indispensabile per conquistare il Proletariato al programma comunista è innanzi tutto quella di liquidare definitivamente ogni infiltrazione del nemico tra le fila proletarie, prima fra tutte quella della dissociazione che non deve avere alcuna legittimità politica nel movimento di classe: chi ha assunto la dissociazione dalla lotta armata, è dunque l’abbandono di qualsiasi aggancio con le migliaia di Comunisti imprigionati dallo Stato, come la ‘nuova piattaforma’ per i ‘nuovi movimenti’ deve essere definitivamente bandito dal movimento comunista. Non solo ma siamo convinti che il terreno del carcere debba diventare un momento unificante per il movimento comunista e per le organizzazioni comuniste. I Comunisti, pur nelle profonde differenze con cui oggi si caratterizzano, devono essere sempre dalla parte di chi è ostaggio dello Stato perché ha praticato la lotta armata per il Comunismo, e devono avere come obiettivi unificanti la liberazione di tutti i proletari prigionieri e la distruzione delle carceri. E’ su questo terreno che si può andare a costruire i passaggi concreti per l’unità dei comunisti in un fronte di lotte che via via si allarghi agli altri settori di classe. Certo, oggi, non ci sono ancora le premesse perché questo progetto abbia gambe concrete su cui marciare, ma è con questo orizzonte che bisogna procedere. Lo Stato vuole oggi processare la lotta di classe e i Comunisti che in essa maggiormente si sono esposti: ciò che emerge con sempre maggiore chiarezza è che non esiste più alcuno spazio di gestione ‘tecnica’ dei processi. Gli unici legittimati a parlare sono i ‘pentiti’ e i ‘dissociati’ , ovvero, le nuove istituzioni della repubblica, che dovrebbero servire a sconfiggere politicamente il patrimonio storico della lotta armata nel nostro paese. Chiunque si illuda oggi di poter trovare spazi nelle farse dei processi di regime, per ottenere qualche assoluzione o qualche sconto è semplicemente uno sciocco. Lo Stato si è organizzato anche nel settore della magistratura, con la logica della guerra antiproletaria, in conformità con la riorganizzazione più generale dell’intera società. E così come in fabbrica, non vi è più alcuno spazio per mediazioni sugli interessi di classe, mentre lo scontro va assumendo sempre più i connotati della frontalità, così l’apparato giudiziario, che dovrebbe assolvere al compito istituzionale di giudicare gli imputati sulla base del dettato costituzionale che ‘i cittadini sono uguali davanti alla legge’ , si è trasformato in un organo speciale per l’annientamento dei comunisti. E allora bisogna prendere atto di questo stato di guerra liquidando ogni tatticismo che mira a ottenere sconti o circostanze attenuanti, tradurre la parola d’ordine “la rivoluzione e lotta di classe non si lasciano processare” rivendicando fino in fondo il percorso collettivo di militanza rivoluzionaria, per la distruzione di questa società, sottraendosi alle fin troppo umilianti farse del doversi giustificare di fronte ai maiali intogati, per avere lottato contro la barbarie di questo sistema di sfruttamento. I comunisti non si fanno processare da nessuno!!! Lo stato si gestisca le sue rivoltanti messe in scena; i rivoluzionari trovino le forme più appropriate per dialettizzarsi con il movimento comunista e con la forza che esso sa esprimere.

Rendiamo onore a tutti i compagni caduti per il comunismo!

Niente resterà impunito! Il boia Mundo e tutti i suoi pari devono cambiare mestiere!

Unità dei comunisti nella lotta contro i carceri speciali, contro la differenziazione e per la libertà del proletariato prigioniero! Costruire gli organismi di massa e il contropotere proletario armato!

VICENZA, 1-12-81

FRONTE COMUNISTA PER IL CONTROPOTERE

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996, pp. 308-311.

Rivendicazione dell’iniziativa contro Licio Giorgieri

No all’adesione italiana alle guerre stellari. Fuori l’Italia dalla Nato!! No alla politica gendarme dell’Italia nel Mediterraneo. Costruiamo l’unità dal basso di tutte le forze contrarie al neo-autoritarismo dei governi borghesi.

Onore alla compagna Wilma Monaco ‘Roberta’.

Venerdì 20-3-1987 un nucleo armato della nostra organizzazione ha colpito il generale Giorgieri Licio, Direttore Generale delle Costruzioni delle Armi e degli Armamenti Aerospaziali.

Il Generale è stato colpito esclusivamente per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle ‘guerre stellari’. Il progetto delle ‘guerre stellari’ per la massa di risorse finanziarie che mobilita e per la particolare collaborazione che richiede tra alta burocrazia statale, vertici militari e vertici della grande industria rafforza quell’intreccio di interessi, complicità e connivenze espresso dal complesso miltare-industriale. Il fenomeno investe l’insieme dei paesi partecipanti al progetto, quindi anche il nostro paese, e ciò spiega la creazione di organismi con la partecipazione di alti burocrati, generali ed industriali, la rinforzata presenza di militari nei Consigli di Amministrazione delle imprese con interessi nel settore bellico, e lo sviluppo di tutti quei fenomeni economici, politici ed istituzionali tipici dei paesi capitalisti in una fase caratterizzata da una loro accresciuta aggressività sul piano internazionale.

La nostra organizzazione intende sottolineare che le finalità di questa iniziativa militare sono eminentemente politiche. Colpendo il Generale Giorgieri non abbiamo voluto condurre una generica guerra agli apparati dello Stato, ma attraverso questa iniziativa militare abbiamo voluto esprimere la nostra opposizione risoluta all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari ed in generale al corso reazionario della politica estera italiana, innanzitutto nel Mediterraneo. Le ambizioni della grande borghesia italiana hanno trovato espressione nelle scelte dei successivi governi del Pentapartito, ed in particolare nel decaduto governo Craxi, anche sul piano della politica estera e della difesa, conducendo a quel protagonismo che caratterizza l’iniziativa del nostro paese nel Mediterraneo ed in Medio Oriente. Le velleità autonomistiche che hanno alimentato alcune delle prese di posizione dei successivi governi del Pentapartito riguardo alle questioni di carattere internazionale non sfociano assolutamente nella messa in discussione della collocazione internazionale del nostro paese, ma in una politica che vuol fare in misura maggiore gli interessi della borghesia italiana nel quadro delle alleanze occidentali, in primo luogo per quanto riguarda il Mediterraneo. L’installazione degli euromissili e l’adesione allo Sdi mostrano che la partecipazione italiana alla Nato ancora il nostro paese al campo della reazione mondiale guidato dagli Usa, nemico della pace, della distensione e della volontà d’indipendenza dei paesi liberi. Con l’insieme della nostra iniziativa politico-militare perseguiamo fondamentalmente due obbiettivi:

  1. Pesare sugli equilibri tra i vari partiti politici borghesi che presiedono alla formazione dei governi, ai loro programmi e metodi d’azione. Combattere il tentativo dei partiti borghesi di trovare un equilibrio al loro interno che gli permetta di approfondire la svolta reazionaria.
  2. Rappresentare su scala nazionale il soggetto politico rivoluzionario che dà ‘voce politica’ e riferimento all’insieme delle forze sociali, a cominciare dalla classe operaia, duramente colpiti dalla svolta reazionaria voluta dalla grande borghesia e realizzata dai governi del Pentapartito.

Il neo-globalismo reazionario della presidenza Reagan e la militarizzazione dello spazio.

  1. Lo Sdi è un colossale programma di riarmo che implica un drenaggio di risorse sconosciuto dai tempi del kennediano progetto Apollo. Voluto dall’amministrazione Reagan, lo Sdi ne riassume aspetti essenziali dell’impostazione ideologica e politica, nonché in materia di relazioni internazionali. Lo scandalo dell’Irangate ha messo dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale quel sottobosco melmoso di associazioni private o semi-pubbliche a cui aderiscono miliardari, marcanti d’armi, mercenari e veterani del Vietnam che costituiscono i circoli più aggressivi della Nuova Destra americana, i quali hanno esercitato un’influenza decisiva sulle scelte di fondo dell’amministrazione Reagan. Del resto, in gran parte il personale politico del gruppo dirigente reaganiano proviene da quegli ambienti ultrareazionari, da cui il Presidente ha mutuato l’anticomunismo viscerale e la retorica sciovinista. Dal giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, Reagan ha espresso in modo chiaro l’obbiettivo primo della sua politica estera e di difesa: ristabilire il primato politico e militare dell’imperialismo americano nel mondo. E’ stata così impressa una brusca svolta in senso reazionario e militarista alla politica estera americana, giustificando le tendenze yankee in ogni angolo del mondo con la pretesa di difendere gli interessi vitali americani nei punti strategici del globo. Le relazioni internazionali sono state congelate in una nuova guerra fredda, caratterizzata dall’aggressività imperialista e dalla sua insofferenza ad ogni vincolo e ostacolo. E’ stata rilanciata la diplomazia delle cannoniere con il bombardamento di Libia e Libano, il minaggio dei porti del Nicaragua, l’occupazione militare con conseguente abbattimento del regime rivoluzionario di Grenada. Si è rafforzata l’opera di destabilizzazione aperta ed occulta di governi legittimi e democratici di paesi liberi, ricorrendo a forme di ricatto e sabotaggio economico ed al sostegno ad organizzazioni mercenarie come l’Unita in Angola o i Contras in Nicaragua. Si è accresciuto in misura notevole il sostegno ai regimi più reazionari della terra come: Sud Africa, Israele e Turchia. Un disegno globale quindi, teso a ricostruire il predominio americano attraverso il ridimensionamento dei Paesi dell’Est e la mortificazione della volontà d’indipendenza politica ed economica dei paesi liberi o in lotta per la loro liberazione. Anche agli alleati europei si è cercato di imporre un ritorno ad una situazione di (…) quale quella patita nel ventennio successivo al Piano Marshall. E’ evidente che una parte della retorica violentemente reazionaria e bellicista di Reagan si è lievemente stemperata. E’ che le conseguenze dello scandalo dell’Irangate lo obbligano ad atteggiamento più cauto. Ma l’obbiettivo di riaffermare in modo netto la supremazia yankee e di impiegare ogni mezzo a tal fine rimangono inalterati.
  2. Lo Sdi costituisce una parte essenziale delle scelte reazionarie e belliciste realizzate dall’Amministrazione Reagan. Di esso sono sostenitori i settori più oltranzisti della Nuova Destra americana, quelli animati dall’isteria anticomunista e da un radicalismo ideologico che fa della riconquista del primato militare americano sull’Unione Sovietica un obbiettivo irrinunciabile.

Malgrado la retorica pacifista con cui il Presidente Reagan propose nel suo discorso iniziale lo Sdi, l’obbiettivo reale che l’imperialismo persegue attraverso la militarizzazione dello spazio è così riassumibile: rompere l’equilibrio strategico nucleare con l’Unione Sovietica, riconquistare il diritto del ‘primo colpo’ senza il pericolo di vedere il territorio americano sottoposto ad una rappresaglia devastante. Ecco la sostanza del fantascientifico progetto reaganiano: rendere la guerra termonucleare possibile, mettendo gli Usa in condizioni di scatenarla e vincerla ad un costo in termini economici ed umani accettabile. La realizzazione dell’ombrello spaziale, quindi, creerebbe una situazione di squilibrio sul piano internazionale gravida di pericoli per la pace, in cui le tentazioni belliciste dell’imperialismo americano troverebbero un terreno favorevole. Lo Sdi è una minaccia per la pace, è lo strumento centrale attraverso il quale l’imperialismo vuole riconquistare il primato politico-militare ristabilendo la sua supremazia sul mondo. Nell’attuale situazione, il progetto americano di guerre stellari rilancia la corsa agli armamenti, estendendola allo spazio. Ciò implica una straordinaria mobilitazione di risorse fisiche ed umane nel settore bellico, ed evidente appare il tentativo yankee di obbligare l’Unione Sovietica ad una folle ed inutile rincorsa nello spazio, sfiancandone l’economia, soggetta in questa fase ad un delicato processo di modernizzazione ed incapace di far fronte in modo adeguato alla sfida americana. Il rilancio della corsa agli armamenti è, in sé, un ulteriore fattore di instabilità per la pace mondiale.

 

Il complesso militare industriale alla base della politica aggressiva americana.
All’accrescimento delle spese militari sono interessate forze decisive dell’imperialismo americano, in particolare quel ristretto numero di grandi compagnie multinazionali che si spartiscono la maggior parte dei finanziamenti che attualmente il budget statale americano destina alla Difesa. Occorre tener presente che il mercato delle armi presenta un grado di stabilità della domanda e possibilità di profitto più elevate rispetto al settore civile, ed in tempo di crisi ed accentuata concorrenza sui mercati è di fondamentale importanza per i monopoli premere sull’apparato statale affinché accresca le dimensioni dei finanziamenti alla Difesa. I monopoli con interessi nel settore bellico sono di conseguenza, accesi sostenitori di una politica estera aggressiva, presupposto essenziale per un modello di sviluppo economico centrato in gran parte su un enorme settore bellico. Ai vertici delle multinazionali si affianca il Pentagono ed importanti settori della burocrazia statale americana, completando il quadro del cosiddetto militare-industriale alla base della svolta reazionaria che ha contraddistinto la politica americana dall’ascesa di Reagan ad oggi. Riguardo al Pentagono occorre rilevare che sebbene esso sia un partigiano tradizionale e naturale di una politica estera aggressiva, lo Sdi rappresenta per i militari americani qualcosa di più. Per la massa di risorse che esso mobilita, per il ruolo che attribuisce ad organismi scientificamente militari, per il tipo di controllo che assicura loro sul mondo accademico e la comunità scientifica, dato il peso che la ricerca tecnico-scientifica ha nella progettazione ed esecuzione dell’ombrello nucleare, con lo Sdi in Pentagono riacquista un peso nella società e nell’apparato statale americano perso e mai più riacquistato dopo la lezione del Vietnam.

E’ da sottolineare che la crescente influenza del complesso militare-industriale sulla formazione e la gestione del corso politico generale dei paesi occidentali e degli Usa in particolare, costituisce una delle cause principali della crescente tensione internazionale e della diretta minaccia alla pace nel mondo. E’ proprio a questo intreccio di interessi economici e di potere raccolti nel complesso militare-industriale che l’Amministrazione Reagan ha dato piena rappresentanza politica. La relativa perdita d’iniziativa politica seguita allo scandalo dell’Irangate non ha scalfito la determinazione spavalda con cui gli uomini di Reagan difendono lo Sdi. Nelle principali capitali europee arrivano inviati del Presidente americano con il compito di vincere eventuali resistenze o tentennamenti da parte degli alleati nel seguire gli Usa nella militarizzazione dello spazio. Il ‘principe nero’ Richard Pearle, il criminale della guerra del Vietnam Vernon Walters, il generale Abrahamson, responsabile di tutto il progetto Sdi, sono gli emissari più celebri, e danno un’idea di quali siano i settori della classe dirigente americana che hanno scommesso sullo Sdi. L’Amministrazione Reagan ha poi deciso di accelerare i tempi della ricerca, al fine di trasformare l’ombrello nucleare in un dato di fatto che alleati ed avversari devono accettare. Proprio questa irrinunciabilità dello Sdi da parte americana ha costituito per lungo tempo un ostacolo enorme alla realizzazione di accordi improntati a realismo e moderazione in tema di controllo degli armamenti. Inoltre in nome dello Sdi vogliono dare un’interpretazione estensiva del trattato ABM con un’autentica violazione dei principi del Diritto Internazionale, creando un clima di generale sfiducia e sospetto che renderebbe impossibile ogni politica di distensione internazionale. Insomma, lo Sdi è una minaccia immediata per la pace e la distensione. Qualsiasi accordo parziale sugli euromissili e le armi convenzionali avrebbe un effetto estremamente ridotto, anche se positivo, fino a quando gli americani concentreranno risorse per la costruzione di un ombrello nucleare che altera in modo profondo l’equilibrio strategico alla base di sistema di relazioni internazionali del dopo guerra.
La lotta per la pace e la distensione, la lotta ai rinnovati progetti di supremazia imperialista hanno punto irrinunciabile nella lotta allo Sdi. No al progetto americano di militarizzazione dello spazio.
Il neo-autoritarismo dei governi borghesi, i monopoli e la crisi della democrazia italiana.

Il protocollo d’intesa firmato a Washington il 26-9-1986 consente alle industrie italiane di partecipare alla fase di progettazione dello Sdi. In sostanza il governo, allora presieduto da Bettino Craxi, ha deciso l’adesione dell’Italia al progetto delle ‘guerre stellari’, assumendosi così una responsabilità politica gravissima. La decisione di aderire allo Sdi è stata presa senza che si svolgesse alcun dibattito parlamentare e gli esponenti del vecchio governo si sono sforzati di minimizzare la portata dell’accordo facendo calare il silenzio sulla questione. Insomma una decisione fondamentale riguardo al futuro del nostro paese è stata presa in modo rapido in circoli ristretti del potere, tenendone all’oscuro le grandi masse.

Da tutto il procedimento che ha condotto alla decisione di aderire allo Sdi emerge con forza quella filosofia di fondo che ha animato il metodo d’azione del passato governo Craxi: il neo-autoritarismo. Questo è un atteggiamento di insofferenza verso istituti e prassi consolidate della stessa democrazia borghese italiana che è sfociato un un’accelerazione ‘di fatto’ dei meccanismi decisionali. Nella struttura istituzionale il governo ha visto il suo peso specifico accrescersi in misura notevole, mentre il Parlamento è stato nettamente ridimensionato, ridotto a luogo di ratificazione di decisioni prese altrove o, addirittura, in luogo esibizione del presidente del Consiglio. La svolta reazionaria portata avanti dal Pentapartito ha pesantemente trasformato il sistema democratico borghese dandogli un volto autoritario, e preparando il terreno politico e culturale a modificazioni della struttura istituzionale in grado di approfondire la svolta reazionaria stessa, concedendo maggiore libertà di movimento alla classe dominante. Lo stesso meccanismo che ha condotto alla crisi del governo Craxi e che presiede alle consultazioni sulla formazione di un eventuale nuovo governo prova ulteriormente che i partiti al potere hanno un atteggiamento di insofferenza verso i procedimenti democratici tradizionali ed assumono modi di azione impregnati di autoritarismo. L’eredità principale del Pentapartito, che sarà senz’altro raccolta dal nuovo governo, è proprio questo incremento sostanziale del ‘tasso di autoritarismo’ che porta ristrette oligarchie a prendere decisioni fondamentali riguardo alla vita del nostro paese.

Non saremo certo noi a piangere sulla nuova piega che assume la democrazia borghese, ma le tentazioni autoritarie ormai evidenti nei gruppi dirigenti borghesi saranno da noi costantemente denunciate e combattute in modo durissimo. Conosciamo, inoltre quella retorica sull’occupazione dello Stato e della società civile da parte dei partiti che è la diagnosi sulla crisi della democrazia borghese che mette tutti d’accordo, dagli ultrareazionari ai riformisti. Noi, da marxisti-leninisti inguaribili, riteniamo che scelte politico istituzionali autoritarie siano il frutto della dura lotta combattutasi nei primi anni ’80, che ha visto il ridimensionamento delle forze del proletariato. E’ stata la grande borghesia a guidare il ‘fronte della reazione’, ristabilendo l’ordine nelle fabbriche, eliminando la resistenza operaia ed il potere sindacale che si basava su essa. I vertici dei grandi monopoli sono poi passati a premere sulla classe politica, spingendola a modernizzarsi e ad assumere atteggiamenti e scelte ‘all’altezza dei tempi’. L’insorgere degli uomini forti come Craxi, De Mita e Spadolini, l’emergere di un certo ‘cesarismo’ nell’ambito dei principali partiti borghesi, il ricorso a metodi di governo autoritari, l’insolito protagonismo in politica estera, sono altrettanti segnali di un autentico fiancheggiamento che la classe politica, pur con tutte le sue particolarità, ha realizzato nei confronti della grande borghesia finanziaria, prendendo decisioni che hanno contribuito a creare un quadro economico e sociale estremamente favorevole agli interessi dei grandi monopoli. Il neo-autoritarismo vuol dire anche e soprattutto una enorme capacità da parte dei monopoli di incidere sul corso politico generale del nostro paese. Gli indirizzi fondamentali di politica economica e sociale e di politica estera sono stati ritagliati sulla centralità degli interessi del monopolio, a danno delle aspirazioni e delle richieste della stragrande maggioranza della popolazione.
Industriali e militari paladini dell’adesione italiana allo Sdi

L’adesione allo Sdi era per la grande borghesia assolutamente irrinunciabile, non tanto per l’entità dei contratti attualmente stipulati, quanto per il timore di rimanere fuori dal grande giro delle commesse militari, la cui importanza in tempo di crisi diventa enorme. La massa di risorse destinate allo Sdi non farebbe che accrescere le dimensioni del settore bellico e proprio ora che l’aggressività finanziaria e la competitività industriale della grande borghesia italiana è lodata sulle riviste di tutto il mondo sarebbe stato un suicidio precludersi un mercato così vasto quale quello che la militarizzazione dello spazio apre. Di qui la necessità assoluta per la grande borghesia di superare qualsiasi tentazione attendista riguardo all’adesione italiana, premendo sulla classe politica perché decidesse in tutta fretta l’adesione italiana alla fase di progettazione. Il ‘protocollo d’intesa’ ha soddisfatto i monopoli, ed ha contemporaneamente dimostrato qual è il grado d’influenza di queste ristrette oligarchie al momento delle decisioni che contano. Il fronte dei favorevoli allo Sdi (…) settori di piccola e media imprenditoria impegnati nella produzione di beni tecnologicamente avanzati e suscettibili di impieghi militari. Quindi è possibile affermare che la parte decisiva del padronato ha spinto perché l’Italia aderisse allo Sdi.

A questo settore sociale si affiancano i vertici delle Forze Armate italiane, che dimostrano di avere un atteggiamento nettamente diverso rispetto ai propri predecessori. Finito il tempo del servilismo e delle umiliazioni di fronte alla classe politica, per contare di più nel mondo e, in primis nel Mediterraneo, l’Italia ha bisogno di un esercito solido ed efficiente. Generali e colonnelli educati alla scuola dell’ufficiale manager lo sanno e chiedono di più. Non solo più soldi per sé e per la modernizzazione dell’esercito, ma più considerazione che gli permetta di esprimere e far pesare il proprio punto di vista sulle questioni che li riguardano direttamente o indirettamente. L’attivismo italiano in politica estera ne ha accresciuto il peso specifico, e così dalle questioni strettamente attinenti l’esercito, i vertici militari estendono i loro consigli alle questioni di politica estera, rinforzando le tendenze scioviniste e reazionarie. Dietro alla decisione di aderire allo Sdi ci sono gli interessi di quelle oligarchie che sono state alla base della svolta reazionaria realizzata dal Pentapartito.
La politica estera italiana tra atlantismo e nuova vocazione imperialista nel mediterraneo

  1. L’intreccio di interessi delle ristrette oligarchie ha trovato piena rappresentanza nella classe politica borghese del nostro paese e nelle scelte di politica estera attuate dai governi che si sono succeduti in carica a partire dalla fine degli anni 70. L’attività italiana sullo scenario internazionale è stata caratterizzata da un crescente protagonismo, che ha esaltato il ruolo del nostro paese quale potenza regionale nel mediterraneo e che contrasta in modo stridente con l’abulia che ha contraddistinto la politica estera italiana nel trentennio precedente. Sulle forme di questo nuovo ruolo italiano esiste un consenso diffuso nei gruppi dirigenti borghesi riguardo agli aspetti centrali, ed un contrasto a volte aspro, su aspetti che pure hanno una loro importanza. Il consenso riguarda l’incrollabilità della fedeltà atlantica del nostro paese, la dimensione regionale della potenza italiana la cui ‘giurisdizione’ è limitata al mediterraneo ed al Medio Oriente, la necessità di creare tutte le strutture militari necessarie all’Italia per assolvere al suo nuovo ruolo. Quindi le tendenze di fondo della politica estera del nostro paese sono chiaramente tracciate e questa classe dirigente non le rimetterà certo in discussione: atlantismo, accrescimento delle spese militari e ‘gendarmeria’ del mediterraneo.
  2. Ai settori più reazioni e sciovinisti della borghesia italiana hanno dato voce politica il senatore Giovanni Spadolini e la sua cricca. E’ lui il fautore più acceso del ‘nuovo corso’ del ‘militarismo tricolore’ all’interno del Palazzo. Del resto il Pri di cui è segretario, è un partito tradizionalmente sensibile agli interessi della grande borghesia italiana, animato da un filo-americanismo esasperato. Nel passato governo, come ministro della difesa ha spinto per un cospicuo accrescimento delle spese militari e per un rilancio in grande stile del ruolo dell’esercito, con toni fortemente bellicisti. Il suo attivismo sul piano internazionale ha trasformato il Ministero della Difesa in un secondo Ministero degli Esteri, di cui ha portato avanti una linea di politica estera centrata sul ruolo imperialista dell’Italia sul mediterraneo e sul sostegno del nostro paese a tutte le iniziative militari e avventuriste dell’Amministrazione Reagan. E’ lui, quindi che incarna una politica estera marcatamente reazionaria, che ha reso il nostro paese disponibile ad avventure militari in nome della ‘crociata contro il terrorismo internazionale’, e che ha premuto per una politica medio-orientale filo-israeliana. La stessa battaglia per l’adesione allo Sdi è stata un’occasione in cui il senatore ha mostrato di voler dare una piega nettamente più reazionaria alla politica estera, più vicina almeno a quella dei circoli imperialisti che dello Sdi sono i ‘padrini’. Il senatore è ambizioso e ambiziose sono le forze politiche e sociali che su di lui fanno affidamento. Mettere Spadolini, i suoi uomini e la politica estera da lui patrocinata sul ‘banco degli accusati’ è un obbiettivo essenziale di ogni mobilitazione coerente contro il ‘bellicismo’ della classe dominante.
  3. Con il decaduto governo Craxi si è fatta spazio una linea politica estera che pur condividendo gli assunti comuni all’insieme dei gruppi dominanti, si distingue da quella esasperatamente filo-americana di Spadolini. E’ la linea della ‘autonomia mediterranea’ di Andreotti e soprattutto, del ‘sussulto Sigonella’ di Craxi. A questa linea di politica estera noi prestiamo grande attenzione e la combattiamo con determinazione per varie ragioni tutte estremamente rilevanti. In primo luogo perché è fonte di una pericolosa illusione che il Pci vorrebbe alimentare nelle masse italiane, ossia: sulla base dell’episodio di Sigonella si vuol far credere alle masse che esistono settori della classe dirigente borghese i quali, animati da una diversa concezione della sovranità nazionale potrebbero riconsiderare la collocazione internazionale del nostro paese e in particolare i rapporti con gli Usa, facendo dell’Italia la promotrice di una politica pace e distensione. E’ una maledetta illusione da sradicare con forza prima che consolidi le proprie radici. L’atlantismo dei craxiani e dei settori della Dc è incrollabile quanto quello di Spadolini, cementato da un anticomunismo gretto in cui Craxi e la Dc non prendono lezioni da nessuno, e da un profondo disprezzo per i popoli liberi. La seconda ragione della pericolosità di questa linea di politica estera, che si vuole più vicina agli interessi nazionali, è legata alla sua genesi, ai motivi del suo successo nei gruppi dirigenti borghesi del nostro paese ed agli obbiettivi reali che persegue. L’attivismo italiano nel mediterraneo deriva dalla convergenza di diversi fattori: l’Italia è un paese imperialista in ascesa le cui ambizioni si riflettono all’estero, il deteriorarsi della situazione internazionale per effetto dell’aggressività imperialista ha spinto tutti i paesi dell’alleanza atlantica su un diverso (…). La collocazione geografica a ridosso di una zona strategica altamente infiammabile come il Medio Oriente, ed altri motivi ancora hanno concorso a spingere verso un nuovo ruolo italiano. La linea di Craxi riflette le ambizioni di una borghesia rampante che all’interno del quadro di alleanze occidentali vuole giocare un ruolo di maggior rilievo, e pretende si tenga conto in misura maggiore dei suoi interessi e del suo prestigio soprattutto nell’elaborazione delle linee di intervento occidentale nel Mediterraneo. E’ di fondamentale importanza tenere presente la relazione tra atlantismo, che rimane il caposaldo della collocazione internazionale, e le rinnovate ambizioni nazionali che spingono a ricercare una qualificazione più autonoma dell’intervento italiano, pur nel rispetto dei vincoli imposti dall’alleanza atlantica. Il parere favorevole all’installazione degli Euro-missili, malgrado la massiccia mobilitazione popolare, l’adesione allo Sdi, mostrano che il nostro paese non ha nulla da guadagnare da una simile linea di politica estera. Dietro la sua retorica che riecheggia il tono ‘dell’interventismo democratico’ e riaccende i miti di un certo nazionalismo, spuntano le ambizioni di una borghesia alla ricerca di un ampio riconoscimento internazionale della sua nuova forza, e preme sulla classe politica affinché nella regione mediterranea faccia giocare all’Italia un ruolo politico-militare all’altezza delle sue possibilità attuali. Nessuna frazione dei gruppi dirigenti borghesi potrà fare del nostro paese un attivo fattore di pace nel mediterraneo e nel Medio Oriente. Le loro scelte ancorano il nostro paese al ‘fronte della reazione’ mondiale guidato dagli Usa, e fanno del nostro paese un gendarme imperialista. Sulla base delle nuove ambizioni della borghesia italiana si è innescata una pericolosa rincorsa nella classe politica a mostrare chi è in grado di interpretare nel miglior modo la novità del ‘protagonismo italiano’ nel Mediterraneo. Si è creato un clima politico e culturale che rende la classe politica disponibile ad impegni ed avventure di chiara marca bellicista e reazionaria.

Il Pci: crisi ed ambiguità del riformismo nazionale

Il Pci è stato incapace di opporsi in modo efficace alla svolta reazionaria voluta dalla grande borghesia e realizzata dal Pentapartito, e la questione dell’adesione italiana allo Sdi ha mostrato ancora una volta la totale inconsistenza dell’opposizione riformista. Il Pci ha rinunciato a fare dello Sdi l’oggetto di una massiccia mobilitazione di massa, limitandosi a protestare (…) di fronte al modo autoritario con cui la decisione è stata presa. La ragione fondamentale del suo atteggiamento rinunciatario sul piano della mobilitazione di massa è da ricercare nell’ambiguità di fondo della sua posizione riguardo alla collocazione internazionale ed alla politica estera del nostro paese. In particolare il Pci considera l’appartenenza alla Nato come rispettosa degli interessi nazionali. E allora come può opporsi in modo risoluto allo scudo stellare un partito che non fa dell’uscita dalla Nato da parte dell’Italia un punto irrinunciabile del suo programma? Com’è possibile combattere il nuovo corso militarista senza combattere i monopoli che ne sono i principali ispiratori? In realtà, l’immobilismo sostanziale del Pci e la sua incapacità di opporsi efficacemente alle tentazioni autoritarie e reazionarie del blocco dei partiti borghesi, è la forma italiana della più generale crisi del riformismo in occidente. Di fronte all’ondata reazionaria di Reagan, della Thatcher e degli altri leaders conservatori, tutto il riformismo, socialdemocratico e revisionista, è stato incapace di fare argine. Al neo-liberismo in politica economica ed all’aggressività in politica estera, le forze riformiste non hanno saputo opporre alcuna prospettiva alternativa, poiché una volta accettate le priorità della crisi, quindi riconosciuta la centralità degli interessi della grande borghesia le soluzioni sono in una certa misura obbligate. Analogamente in politica estera, accettando la partecipazione alla Nato e rinunciando alla lotta aperta alle forze del monopolio, il Pci si trova completamente disarmato di fronte alle scelte reazionarie delle varie coalizioni di governo. E con lui disarma le masse.
Il documento sulla sicurezza:bibbia delle illusioni inutili

Il Documento sulla sicurezza recentemente elaborato dalla direzione del Pci è un capolavoro di quell’ambiguità che rende il Pci un ‘pachiderma immobile’ e mostra il carattere illusorio delle ipotesi politiche su cui il Pci punta e vorrebbe e vorrebbe far puntare le masse. Stabilita la necessità di restare nella Nato per il nostro paese, il Pci sembra avere l’obbiettivo di ‘umanizzare’ questa alleanza reazionaria attraverso l’accrescimento ‘dell’autonomia europea’ rispetto agli Usa. E’ questa un’illusione tipica di un certo pacifismo includente: attribuire alle borghesie europee uno spirito di pace più alto di quello yankee. E’ la stessa illusione che spinge il Pci a sostenere quel residuo della ‘grandeur’ francese che è il progetto Eureka e l’ipotesi di uno scudo spaziale europeo. In realtà occorre considerare che le borghesie europee non sono ‘colonizzate’ ma hanno una convergenza di interessi economico-finanziari con gli usa tali da dare un fondamento strutturale all’alleanza politico-diplomatica e militare. L’esistenza dello stesso sistema sociale capitalista sulle due sponde dell’atlantico crea un vincolo che nessuna ventata pacifista può spezzare, senza prima mettere in discussione il dominio delle singole borghesie all’interno dei rispettivi paesi. Nella difesa dei sacri valori occidentali, a cominciare dalla proprietà privata, le borghesie europee sono impegnate con lo stesso accanimento di quella americana. Considerazioni umanitarie non peseranno sulla coscienza delle borghesie europee più della materialità dei loro interessi che le pone strategicamente al fianco del materialismo yankee. Portavoci autorevoli dei partiti borghesi hanno sbeffeggiato il Documento del Pci mettendo in luce tutta la sua inconsistenza proprio riguardo ai rapporti tra Italia ed Europa da un lato, e Stati Uniti dall’altro. Quali che siano le velleità di dare un carattere nazionale ed europeo alla difesa, la difesa del capitalismo in occidente, alla fin fine richiede la copertura nucleare americana. Il tono caramelloso del documento del Pci deve inchinarsi a questa realtà che nessun gioco di parole può nascondere. Del resto persino il Pci ne prende atto riconoscendo l’intangibilità della partecipazione italiana alla Nato. Le contraddizioni del Pci e i lori riflessi sui temi e l’intensità delle mobilitazioni di massa rappresentano un aspetto essenziale della situazione politica italiana. L’atteggiamento rinunciatario, compromissorio ed immobilista del Pci negli ultimi anni è il riflesso dell’assenza di un coerente disegno di rinnovamento profondo della realtà sociale e politica italiana. Malgrado ala sua storia il Pci non è più il gruppo dirigente della classe operaia, da lui la borghesia non teme più di essere scalzata dalla sua posizione dominante. Privato del riferimento di un più alto progetto di trasformazione della società italiana, l’opposizione del Pci alla svolta reazionaria diviene necessariamente frammentaria, piena di ambiguità e contraddizioni negli obiettivi, timorosa e rinunciataria nei confronti delle mobilitazioni di massa. Sulle questioni di politica estera ciò appare evidente. L’installazione dei missili a Comiso, il nuovo ruolo imperialista italiano nel mediterraneo, e l’adesione allo studio stellare sono tutte decisioni di una gravità enorme, contraria agli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, volute da quelle ristrette oligarchie economiche e militari che detengono il potere reale nel nostro paese. A tutto ciò cos’ha opposto il Pci? Niente di efficace. In realtà, siamo in presenza di una autentica crisi di progettualità politica del riformismo, di una sua subordinazione alle tesi politiche e culturali della Nuova Destra.

Fondare il Pcc: gruppo dirigente della rivoluzione proletaria in Italia

L’incapacità del Pci di rappresentare in modo adeguato gli interessi della classe operaia e dei settori sociali colpiti dalla svolta reazionaria, crea un ‘vuoto politico’ che rende la classe operaia la ‘grande assente’ della sfera della politica nazionale. Solo il Pcc è in grado di riempire questo vuoto politico. La nostra Organizzazione lavora alla fondazione del Pcc; soggetto politico che solo può guidare quello schieramento di forze sociali, con al centro la classe operaia, in grado di operare una trasformazione profonda della società italiana, partendo dalla conquista rivoluzionaria del potere politico. Il Pcc si pone di fronte allo Stato e alla classe dominante quale forza politica rappresentativa di un’alternativa rivoluzionaria basata sulla conquista del potere politico, l’instaurazione della dittatura proletaria e la trasformazione socialista del nostro paese. Il Pcc deve rappresentare la capacità dirigente nazionale della classe operaia. Quindi, è portatore di un coerente disegno di trasformazione rivoluzionaria che si basa sulle questioni centrali della società italiana, e raccogliendo le aspirazioni delle grandi masse propone un’organizzazione della società italiana che permette di affrontare e risolvere squilibri e contraddizioni che il modello di sviluppo capitalista, ritagliato sugli interessi delle classi dominanti nel nostro paese, ha creato e approfondito. Le questioni dell’occupazione, della collocazione internazionale del nostro paese e della pace, la questione della democrazia, assumono nel contesto della lotta politica e sociale tra le classi un ruolo di ‘banco di prova’ di ogni opzione politica.

Le scelte di fondo dei gruppi dirigenti reazionari legati alla grande borghesia monopolista costringono il nostro paese ad un modello di sviluppo economico che penalizza le grandi masse e le stesse potenzialità dell’economia nazionale, ad una collocazione internazionale nel campo della reazione mondiale e ad un sistema politico che limita l’esercizio della democrazia da parte delle masse, attribuendo il privilegio delle scelte fondamentali a ristrette oligarchie economiche e politiche. Il Pcc fa leva sulle grandi questioni per promuovere l’unità di tutti gli interessi colpiti dalle scelte del capitale monopolista intorno alla classe operaia. Una soluzione ai problemi delle grandi masse ed alle contraddizioni di fondo del nostro paese può avvenire solo attraverso un cambiamento radicale dell’organizzazione sociale e politica italiana che abbia quale protagonista primo la classe operaia. Il Pcc ricerca le strade concrete perché ciò avvenga, date le condizioni economiche, sociali politiche e culturali che caratterizzano il nostro paese. Tutta l’attività della nostra organizzazione mira a dare vita a questa alternativa rivoluzionaria attraverso la fondazione della forza politica centrale: il Partito Comunista Combattente, dotandolo di una progettualità politica che gli permette di assolvere al ruolo di ‘gruppo dirigente’ della rivoluzione proletaria nel nostro paese.

Portare l’attacco al cuore dello Stato

La lotta armata costituisce per la nostra organizzazione il metodo di lotta fondamentale che contribuisce con tutto il suo peso al raggiungimento degli obiettivi politici da noi perseguiti. Con l’attività combattente la nostra Organizzazione acquista di ‘forza’ un posto nello schieramento politico nazionale, facendosi il portavoce della opposizione intransigente e risolutiva alle scelte politiche essenziali della classe dominante. La lotta armata, quindi, è assolutamente irrinunciabile per la nostra O., poiché ci permette di rompere lo stato di emarginazione politica, conquistando lo spazio necessario per rappresentare l’interesse generale della classe operaia di fronte alle altre classi ed allo Stato, nelle concrete battaglie politiche nazionali. Chi nel movimento rivoluzionario mette in discussione la necessità della lotta armata si prenota un posto in quel circo pittoresco ed inconcludente che è una certa sinistra extraparlamentare italiana. Ma noi non ci limitiamo alla semplice propaganda, abbiamo la ferma volontà di pesare sugli equilibri politici che si installano tra i vari partiti, e che presiedono alla formazione dei governi in carica, alla elaborazione dei programmi e dei metodi d’azione che li contraddistinguono. La sostanza dell’attacco al cuore dello Stato è per noi data dalla nostra decisione di premere sul quadro politico nazionale; e sui rapporti di forza che si instaurano tra le stesse forze politiche borghesi e quelle riformiste, colpendo certe forze e le linee politiche di cui esse sono portatrici, concentrando su esse e sulla loro politica il peso della nostra opposizione e dei settori sociali a cui diamo ‘voce politica’ nell’obiettivo di ridimensionarle e neutralizzarle. Vogliamo partecipare alla lotta politica nazionale, imponendo in modo duraturo l’esistenza di un soggetto politico rivoluzionario, nemico intransigente di governi e programmi reazionari, che metta in luce l’ambiguità di fondo e l’inettitudine del riformismo nazionale e dia voce e riferimento politico nazionale all’interesse dei settori sociali penalizzati dalle scelte reazionarie. L’attacco al cuore dello stato non è indirizzato verso astratti ed improbabili progetti di ristrutturazione, ma è la ‘punta’ della politica rivoluzionaria che mette l’attività combattente al servizio di precisi obiettivi politici, che creano un quadro più favorevole all’attività rivoluzionaria nelle concrete battaglie della lotta tra le classi nel nostro paese. Qualsiasi uso scriteriato della lotta armata, finisce col ‘depoliticizzarla’, impedendole di contribuire al raggiungimento di obiettivi politici favorevoli alle forze rivoluzionarie. La nostra O. ribadisce l’irrinunciabilità dello strumento della lotta armata e la necessità di portare l’attacco al cuore dello Stato favorendo il ridimensionamento e la disgregazione di quelle forze politiche reazionarie la cui alleanza è stata alla base dei governi del Pentapartito e della conseguente svolta reazionaria. Nelle attuali condizioni la nostra iniziativa politico militare mira ad impedire, ritardare, rendere più difficile il coagulo dei partiti borghesi intorno ad accordi e programmi che approfondiscano la svolta reazionaria, in particolare con alterazioni della struttura istituzionale tali da liberare le mani in misura ancora maggiore ai gruppi dirigenti reazionari che tengono in pugno lo Stato italiano.

La nostra posizione

I comunisti combattenti sono assolutamente contrari alla militarizzazione dello spazio e all’adesione italiana allo Sdi. La decisione italiana di estendere gli armamenti allo spazio è una minaccia immediata per la pace e la distensione nel mondo. L’avventurismo dell’amministrazione Regan ed il suo obiettivo di riconquista del primato politico militare devono trovare un’opposizione decisa in ogni angolo del mondo. I comunisti combattenti sono parte di quello schieramento di forze che su scala mondiale si oppongono al riarmo ed alle tentazioni belliciste dell’imperialismo americano. L’imperialismo genera la guerra, è la verità che noi comunisti combattenti ben conosciamo, ed in presenza di un conflitto in cui la borghesia trascini il nostro paese non esiteremmo a combattere sulla parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Ma nelle attuali condizioni che fanno da sfondo alla lotta di classe sul piano interno ed internazionale, non abbiamo intenzione alcuna di limitarci alla ‘educazione ideologica’ delle masse, la lotta alle minacce imperialiste alla pace ed alla pretesa imperialista di supremazia ci vede in prima fila. Lo Sdi è la strada concreta scelta dall’imperialismo per ristabilire il suo primato: questa è la ragione prima per combatterlo. Le forze militariste ricercano costantemente un sostegno di massa alle loro tesi attraverso una violenta pressione ideologica, realizzata in modo principale dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Così i sostenitori dell’adesione italiana allo Sdi ed in genere al riarmo, ricercano un appoggio popolare con la divulgazione di tesi propagandistiche che mirano a mostrare il riarmo come fattore positivo per gli interessi delle masse. Due sono le tesi che hanno maggior corso e che devono esser duramente combattute:

    1. La prima argomentazione fa delle spese militari il motore dello sviluppo tecnico scientifico con conseguenti vantaggi in ogni settore. È una tesi falsa e da respingere. La rivoluzione tecnico scientifica apre grandi possibilità per un impegno razionale delle risorse naturali a vantaggio della maggioranza dell’umanità. Piegarla alla logica del profitto la rende appendice dello sviluppo del settore bellico, provocando guasti che riguardano non solo l’impiego delle innovazioni tecnico scientifiche, ma la logica stessa che presiede a tale sviluppo. Aver fatto della scienza il luogo di creazione di armi distruttive è l’esempio più immediato della relazione tra la logica del profitto e rivoluzione tecnico scientifica.
    2. La seconda argomentazione si dimostra estremamente pericolosa poiché fondata sul ricatto dell’occupazione. Il settore degli armamenti ha un peso crescente nella struttura occupazionale e l’adesione italiana allo Sdi, con gli investimenti che implica, accrescerà in misura notevole questo tale peso. Rifiutare questo ricatto vuol dire proporre un modello di sviluppo economico ‘diverso’ da quello concentrato sui monopoli e sulla massimizzazione del profitto. Occorre dare come riferimento concreto un’organizzazione economica e sociale in cui lo sviluppo del settore bellico non sia più una necessità irrinunciabile. Un generico moralismo anti-militarista, per quanto lodevole, non offre un’alternativa solida a quella parte del mondo del lavoro che è sottoposta al ricatto dell’occupazione nel settore bellico. La lotta al militarismo deve ancorarsi ad un coerente disegno di rinnovamento della società, che contrasti i monopoli e le forze reazionarie.

I comunisti combattenti e la collocazione internazionale del nostro paese

L’adesione italiana allo Sdi pone una questione di carattere nazionale. Al momento decisivo, la borghesia e i suoi gruppi dirigenti, hanno dimostrato di non potersi sottrarre ai loro ‘doveri imperialisti’. E noi aggiungiamo che era nel pieno interesse della classe dominante del nostro paese la scelta di allinearsi. I compiti che l’alleanza atlantica attribuisce ai vari membri sono un vincolo ineludibile, quali che siano le singole tentazioni autonomistiche. È evidente che gli interessi delle oligarchie ai vertici della società italiana, condannano il nostro paese nel campo della reazione mondiale costringendolo ad allinearsi alle scelte strategiche dell’imperialismo americano. E sono gli interessi e le scelte delle classi dirigenti del dopoguerra a portare la responsabilità storica della collocazione internazionale del nostro paese, quindi di tutte le conseguenze di ciò nella situazione attuale a cominciare dal sostegno, più o meno deciso, alla politica avventurista di Regan. Lo status di paese imperialista in ascesa che si riflette nella richiesta di una più forte identità nell’alleanza, non risparmia l’Italia del ruolo di paese subordinato riguardo alle scelte fondamentali. È per questo che la lotta alla grande borghesia ed alle sue ambizioni imperialiste ha un punto irrinunciabile nella rimessa in discussione dell’attuale collocazione internazionale del nostro paese. L’uscita dalla Nato è il presupposto ineludibile per un ruolo autenticamente autonomo dell’Italia sul palcoscenico internazionale, che faccia del nostro paese un fattore attivo di promozione della pace nel mediterraneo e nel medio oriente. I comunisti combattenti sono alla testa di tutte le forze che lottano per un diverso ruolo del nostro paese, basato su rapporti di cooperazione e reciproco vantaggio con tutti i paesi liberi dal giogo imperialista, a cominciare da quelli che si affacciano nel bacino del mediterraneo. Fuori l’Italia dalla Nato. Via le basi yankee dal nostro paese. Contro la politica di gendarmeria nel mediterraneo per un’autentica politica di pace e cooperazione.

Le nostre proposte

La nostra O. lavora alla costruzione di un’ampia e massiccia opposizione alla adesione italiana allo scudo stellare. Occorre fare della lotta allo Sdi l’oggetto di una mobilitazione di massa in cui confluiscano l’insieme dei settori sociali colpiti e penalizzati. Sono le tentazioni imperialiste e belliciste della borghesia italiana a dover trovare nella lotta delle masse una barriera insormontabile. In tale lavoro di massa siamo scevri da pregiudiziali ideologiche di qualsiasi genere. La posta in gioco è altissima. Attraverso l’adesione allo Sdi la grande borghesia pone una seria ipoteca sul futuro economico e politico del nostro paese e impedirlo con ogni mezzo è un obiettivo politico essenziale. L’unità di tutti coloro che non si riconoscono in una politica estera sciovinista e filo-americana è una precondizione importante del successo della opposizione. Ci rivolgiamo alla grande massa dei lavoratori che pagano il prezzo economico e politico delle scelte belliciste e della più generale svolta reazionaria. Agli intellettuali ed ai ricercatori scientifici onesti, i quali non possono non vedere quali effetti deleteri abbia la subordinazione della ricerca scientifica a progetti militari avventuristi. Con lo Sdi ciò raggiunge livelli altissimi. La ricerca scientifica viene vincolata a finanziamenti dell’amministrazione militare, con le inevitabili conseguenze riguardo alle finalità della ricerca scientifica stessa. Vengono introdotti i ‘vincoli di segretezza’ per ragioni di sicurezza che impediscono la libera circolazione dell’informazione sulle ricerche scientifiche. Insomma, ogni ricercatore onesto può rilevare che la borghesia vuole ridurre la comunità scientifica ad un insieme di cherubini al servizio di politiche reazionarie e a avventuriste. Una comunità di Edward Teller. Voci autorevoli della comunità scientifica internazionale hanno già detto no a questo progetto, ed anche da noi timide voci si sono sollevate. Occorre dargli un eco all’interno di un fronte di massa più ampio. Così per tutti coloro i quali non accettano di vedere il nostro paese ancorato al fronte mondiale della reazione, in seguito alle scelte della classe dominante. Se non si vuole condividere la responsabilità della militarizzazione dello spazio e del sostegno alle rinnovate ambizioni di supremazia da parte dell’imperialismo americano, occorre combattere decisamente le scelte di politica estera dei gruppi dominanti del nostro paese. Alla convergenza di diversi settori contrari alla svolta in politica estera occorre si accompagni l’incisività dell’opposizione. In questo senso i comunisti mettono avanti obiettivi politici generali che saldino il fronte di massa antigovernativo. L’opposizione al ruolo dell’Italia nella Nato ed all’intero corso militarista e sciovinista della politica estera italiana devono diventare un nuovo spartiacque tra i nemici sinceri delle tentazioni belliciste della borghesia italiana e coloro che tentennano o vi si accodano. Costruiamo una nuova unità dal basso su questi temi, favorendone la base per premere sul quadro politico nazionale. Mettere i partiti politici che hanno avuto responsabilità di governo e che hanno realizzato la svolta reazionaria sul banco degli imputati. La lotta alle alleanze dei cinque partiti borghesi deve divenire una costante dei temi politici delle mobilitazioni di massa. Occorre poi costringere il Pci a prendere posizione facendolo uscire da quella situazione in cui può dire tutto e il contrario di tutto, senza far nulla di concreto per opporsi alla politica reazionaria. La pressione di una nuova unità dal basso contro la svolta reazionaria permetterà di far esplodere l’ambiguità di fondo della posizione dei vertici delle Botteghe Oscure riguardo alla collocazione internazionale del nostro paese. La scissione tra classe politica e società civile è l’altra faccia del distacco tra gli interessi della maggioranza della popolazione. Ma il disinteresse delle masse per i ‘giochetti di potere’ della classe borghese deve trasformarsi in una opposizione attiva, in una pressione dal basso che faccia muro sulle questioni centrali di politica estera e di politica economica, impedendo alle forze borghesi di ricercare con tranquillità un equilibrio al loro interno, che gli permetta di rafforzare il proprio potere impegnando il nostro paese in pericolose avventure. Noi vogliamo rappresentare la forza politico nazionale a tutti quei settori sociali, a cominciare dalla classe operaia, che devono opporsi alle ambizioni imperialiste della borghesia italiana.

No all’adesione italiana allo Sdi. No alla politica di gendarmeria nel mediterraneo. Fuori l’Italia dalla Nato. Costruiamo l’unità dal basso intorno alla classe operaia di tutte le forze contrarie al neo-autoritarismo dei governi borghesi.

UNIONE DEI COMUNISTI COMBATTENTI

Roma 20-3-87

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996 pp. 559-572

Autointervista

  1. Un’organizzazione comunista combattente che nasce a quindici anni di distanza da quando, nel 1970, le Brigate Rosse iniziarono la lotta armata in Italia: volete spiegare sinteticamente i motivi che vi hanno indotto a fondare l’Unione dei Comunisti Combattenti?

Come tutti sanno dall’inizio degli anni ’80 la lotta armata ha conosciuto in Italia non poche difficoltà. Specialmente dal 1982 le circostanze si sono fatte innegabilmente critiche; ai molti arresti si sono assommate le dissociazioni ed i cosiddetti “pentimenti”; anche esperienze politiche del tutto negative,come quella del Partito Guerriglia, hanno contribuito a deteriorare la situazione. Insomma, si è delineata sempre più chiaramente la realtà della crisi politica del movimento rivoluzionario. Ad un brusco ridimensionamento della forza politica ed organizzativa della lotta armata ha corrisposto, ad un dato momento, una diffusa consapevolezza dell’insostenibilità delle tesi politiche difese fino a quella data dalle organizzazioni rivoluzionarie. In questo contesto si è resa necessaria per evidenti motivi una riflessione complessiva sul significato, sui limiti e sui meriti dell’attività svolta negli anni trascorsi.

Orbene, per un verso noi riteniamo che questa crisi sia, per cosi dire, una crisi di “crescita” della rivoluzione italiana, una crisi che non mette assolutamente in discussione la lotta armata come scelta fondamentale da compiere per i rivoluzionari oggigiorno; per l’altro, tuttavia, siamo persuasi che per rilanciare veramente questa lotta, per mettere a frutto il cospicuo patrimonio di esperienze accumulate nel corso di questi anni, sia necessaria una visione organica e solida dei compiti dell’avanguardia comunista nella nostra rivoluzione, una visione che superi definitivamente le deficienze dell’impostazione politica passata. In sostanza, noi pensiamo che l’esigenza prioritaria sia oggi quella di una lotta d’avanguardia, di una lotta armata, fondata veramente sul socialismo scientifico. E questo, in breve, è il motivo che ci ha condotto a costituirci in Unione dei Comunisti Combattenti.

 

  1. Molti però, e non si tratta sempre di “dissociati” ritengono definitivamente chiusa l’esperienza della lotta armata, molti considerano impraticabile questo terreno di lotta stanti gli errori commessi e le attuali condizioni generali presenti nel nostro paese. Cosa dite a questo riguardo?

Conosciamo queste posizioni, naturalmente, non siamo affatto d’accordo. Ciò nondimeno non ci stupiamo della loro esistenza: si tratta di tendenze che riflettono in modo del tutto speculare lo stato di disorientamento e l’assenza di prospettive pesanti oggigiorno in svariati ambienti che si dicono rivoluzionari: la lotta armata viene rifiutata più per il timore d’incorrere nuovamente nelle difficoltà del passato, che per effettivi motivi politici. A ben guardare, infatti, queste posizioni si basano su una equazione stabilita in modo affrettato nonché arbitrario: gli errori passati, si sostiene, sarebbero connaturali alla scelta stessa della lotta armata, l’opzione del combattimento condurrebbe, cioè, necessariamente ad un’azione politica velleitaria e controproducente. Sono punti di vista palesemente deboli, palesemente opportunisti. Non soltanto è assente da tali considerazioni ogni elemento di propensione dialettica nei confronti della storia che viene vista come successione di fasi tra loro giustapposte, incomunicanti ed autoescludentesi reciprocamente; ma molto più significativamente, si tace sul fatto che nessuna rivoluzione è mai progredita veramente se non attraverso esperienze difficili, esperienze costellate talvolta anche da errori. Eppoi, a nostro parere, il bilancio dell’ultimo quindicennio di lotta è largamente positivo; pur tra mille ostacoli un dato fondamentale è comunque emerso: la lotta armata costituisce il metodo decisivo della lotta comunista contemporanea, mediante essa è possibile rappresentare gli interessi generali del proletariato di fronte allo Stato e realizzare una chiara indicazione politica, un’ indicazione rivoluzionaria, nei confronti delle più vaste masse. Ci sembra che, in rapporto a ciò, gli errori innegabilmente commessi dai comunisti nel corso degli ultimi anni si presentino tutto sommato come un dato inevitabile, a suo modo necessario, per un’esperienza politica giovane ed anche originale come quella della lotta armata nei nostri paesi.

Vogliamo poi aggiungere che, nel campo di quanti titubano verso la lotta armata, va operata attualmente una distinzione; un conto sono le perplessità esistenti nei settori più giovani e inesperti del movimento di massa, un altro conto sono le ben precise posizioni politiche sostenute da altrettanto precisi gruppi politici, da sempre contrari all’azione combattente. Se i primi sicuramente si convinceranno col tempo e con l’esperienza della giustezza della lotta armata e vedranno i loro migliori elementi organizzarsi nei ranghi comunisti combattenti; sui secondi ha già indubbiamente giudicato la storia. Sull’autonomia operaia organizzata, sui vari gruppi cosiddetti “emmelle” si confermano una volta di più valutazioni già consolidate tra i rivoluzionari: trasformati dalla storia in piccole corporazioni, in sette assolutamente incapaci di un’azione realmente politica, essi si ostinano a condurre, nel movimento una campagna di demoralizzazione e d’inquinamento.

A sentir costoro, gli anni ’70 avrebbero confermato la giustezza del loro “nullismo”, del loro codismo, della loro estraneità (questa sì “strutturale”) alla vicenda italiana! Nei loro confronti noi non possiamo che ribadire il netto giudizio negativo espresso dalle BR già nel primissimo periodo della loro attività: la scelta della lotta armata divide i rivoluzionari dagli opportunisti; questi gruppetti, arroccandosi su posizioni dogmatiche ed opportuniste, non rappresentano l’interesse storico del movimento proletario: pertanto sono e saranno sorpassati dallo sviluppo inevitabile degli eventi.

 

  1. Potete chiarire meglio cosa intendete quando parlate della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito?

È importante far precedere, per discutere il problema, la considerazione di almeno due fondamentali caratteristiche attualmente presenti nelle società capitalistiche avanzate. La prima è sicuramente costituita dal fenomeno del revisionismo moderno, quello dei partiti comunisti provenienti dal Komitern. In breve, a questo proposito ci sembra che la parabola compiuta dai partiti citati abbia inequivocabilmente provato che, nelle attuali condizioni storiche la presenza nei parlamenti, l’accettazione dei vincoli istituzionali propri della società borghese, conducono in modo ineluttabile a recedere dalla lotta per la dittatura del proletariato.

D’altra parte, ed è la seconda caratteristica che volevamo rilevare, questo significativo fatto, ha evidenti ed intimi legami con un processo ben più generale, ben più complicato, consistente in definitiva nel massimo sviluppo e consolidamento, avvenuto, ormai da tempo nei nostri paesi, del contenuto reazionario della democrazia borghese. E’ un processo difficile da schematizzare e che non si presta a facili o ideologizzanti generalizzazioni, ciò nondimeno esiste e vive evolvendo in forma via via più precisa. E’ cosa innegabile, per esempio, che il centro di gravità della vita politica si è spostato nei nostri paesi in modo definitivo oltre i confini del parlamento, nelle lotte e negli accordi tra le oligarchie dei partiti e nei mille vincoli e sollecitazioni che provengono dagli esponenti del grande capitale monopolistico e finanziario. Risulta incontestabile che non è più nell’assemblea elettiva che le singole volontà particolari – riflesso dei diversi interessi di classe – si mediano nella cosiddetta “volontà generale” rappresentata dall’esecutivo, dal governo borghese. E’ facile arguire allora che il parlamento viene sempre più relegato alla funzione meramente reazionaria di vincolo alla legalità ed agli istituti borghesi, di ratifica dell’impossibilità di superare gli angusti limiti della produzione capitalistica. Per un verso questo fatto rende ragione della bancarotta del pacifismo parlamentare del PCI, conferma dell’ inutilizzabilità del parlamento in quanto terreno di possibile svolgimento di una lotta comunista; per l’altro tutto ciò getta nuova luce sull’esigenza – venuta a creare in un determinato momento storico – di metodi di lotta atti ad affermare il socialismo nei nostri paesi e nelle attuali condizioni.

Ed è proprio in questo contesto che si spiega la nostra scelta della lotta armata come metodo decisivo dell’azione di partito.

La lotta per la dittatura del proletariato, in ogni tempo ed in qualsiasi luogo, non può che fondarsi sull’avanguardia politicamente riconosciuta, sull’attività di un’avanguardia capace di lottare per il potere statale e di influire nondimeno sull’andamento politico dei rapporti tra le classi. E ai nostri giorni, nel momento in cui il revisionismo si è trasformato in un’appendice vischiosa della vita politica borghese, quest’attività non può che essere fondata sulla scelta della lotta armata, sulla scelta di contrapporsi a tutti i partiti borghesi e principalmente allo Stato attraverso il combattimento.

Siamo fermamente convinti che solo cosi la classe operaia possa recuperare la sua indipendenza politica, che solo in questa maniera si possano rappresentare in ogni circostanza ed in ogni svolta del conflitto tra le classi gli interessi generali e storici del proletariato di fronte a tutta la società.

Tra l’altro, un dato indicativo a sostegno delle nostre tesi ci sembra proprio quello dell’inconsistenza politica ripetutamente dimostrata dall’opzione “extra-parlamentare”. La storia ha infatti confermato che tutti i gruppi i quali, rifiutata correttamente l’azione parlamentare, non si sono posti il problema della lotta armata, sono rimasti in realtà delle sette impotenti oppure sono stati riassorbiti dai partiti della sinistra borghese. Le BR, al contrario, attraverso la lotta armata sistematicamente condotta giunsero in breve tempo a rappresentare l’unica valida alternativa al sistema politico borghese, non solo di fronte al movimento rivoluzionario ma anche nella coscienza istintiva delle più vaste masse proletarie.

Intendiamoci però bene: dire che la lotta armata costituisce un metodo decisivo dell’azione di partito non significa certo esaurire i compiti d’avanguardia nella sola azione militare. Per quanto essenziale ed in grado di orientare le masse verso il compito della dittatura, senza una visione adeguata alla reale dinamica della lotta di classe nei nostri paesi, senza una linea di massa capace di una direttiva comunista su tutte le grandi questioni politiche al centro della vita del paese, senza una presenza costante nella battaglia che si sviluppa anche sul fronte teorico, la lotta armata rimane un po’ come la testa staccata dal corpo.

Gli anni che ci sono alle spalle ci hanno certamente consegnato questa inestimabile indicazione pratica, la lotta armata come arma della politica rivoluzionaria, ora è bensì necessario perfezionare l’insegnamento, è necessario inserirlo in un concetto di azione rivoluzionaria realmente comunista, realmente marxista.

 

  1. Avete ripetutamente citato le BR: che genere di rapporti intercorrono tra l’Unione dei Comunisti Combattenti e questa organizzazione?

Molti dei nostri militanti sono stati membri delle BR e quasi tutti hanno partecipato alla lotta armata degli anni trascorsi sotto la loro direzione. La stessa costituzione dell’ “Unione” si è resa possibile per mezzo dell’iniziativa e dell’impulso politico impresso da alcuni ex militanti delle BR, fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alla loro battaglia per l’adozione delle tesi politiche enunciate della cosiddetta “seconda” posizione. Sicché, va almeno preliminarmente distinto il nostro rapporto con la tradizione delle BR dalle nostre relazioni con le BR attuali, quelle, per così dire, della “prima” posizione.

Si deve infatti subito dire che il nostro rapporto con la tradizione delle BR è estremamente forte ed intenso. Semplicemente, noi giudichiamo l’opera svolta storicamente da questa organizzazione né più né meno alla stessa stregua dei compagni che attualmente militano nelle BR: si tratta di un’opera giusta, di un’azione necessaria ed indispensabile sul piano storico nonché di inestimabile e duraturo significato politico. Forse alcuni potrebbero pensare che essere d’accordo con la «seconda» posizione significhi bene o male rifiutare quanto fatto negli anni passati, «criticare» il lavoro svolto dalle BR. Niente di più sbagliato, niente di più opportunista. Chiunque può constatare che le BR, nella Italia degli anni ’70, concretizzarono in massima misura la storica aspirazione all’indipendenza politica propria del proletariato rivoluzionario; è facile osservare come, in teoria ed in pratica, si riferirono ai cardini, ai principi del marxismo leninismo. L’idea del partito, della lotta politica al governo ed allo stato, della centralità operaia, dell’importanza della centralizzazione e della disciplina nel conflitto di classe, sono tutte cose che nel nostro paese furono riaffermate, come ognuno sa, proprio dalle BR. Ancora loro, nel corso di significative battaglie politiche, difesero la giusta linea da deviazioni movimentistiche ed estremiste, non di rado particolarmente pericolose ed ambigue come quella rappresentata dal tristo «Partito Guerriglia». Infine, la sostanza della formula politico organizzativa atta a condurre la lotta per la dittatura del proletariato nelle attuali condizioni storiche, l’idea del Partito Comunista Combattente che fa politica con le armi, si delineò per merito dell’azione svolta dalle BR. È possibile, diciamo noi, aspirare a dirigere il proletariato verso il socialismo prescindendo da questi fatti incontestabili? Si può far politica oggi senza un preciso riferimento all’organizzazione che fu in grado di organizzare la campagna di primavera nel 1978, che fu in grado di assestare il più duro colpo politico all’insieme della classe dominante italiana dal secondo dopoguerra in poi? L’ «Unione», se cosi si può dire, proviene, «scaturisce» dalle BR ed è senz’altro orgogliosa di questo rapporto di diretta continuità con la maggiore organizzazione comunista italiana degli ultimi anni; nostro dichiarato obbiettivo è proprio quello di valorizzare compiutamente gli insegnamenti politici che derivano dalla lunga lotta e dalla tradizione di militanza delle BR.

 

  1. E per quanto concerne le attuali BR?

Ecco, noi crediamo che il punto consista proprio nel come si intenda la questione della valorizzazione dell’esperienza passata.

Ad un dato momento, nelle BR, si sono evidenziate due posizioni differenti sotto questo rispetto: da un lato è emersa una decisa riluttanza a mettere in discussione la validità di certe tesi di fondo (la «strategia» della lotta armata, la «guerra di lunga durata», il ruolo «guerrigliero del partito nella rivoluzione proletaria», ecc..) sorte insieme alla lotta armata, dall’altro si è configurata distintamente l’esigenza di una svolta politica sostanziale, di una vera e propria rifondazione teorica dei presupposti generali posti alla base dell’azione politico militare del nostro paese. Com’è noto, il contrasto è sfociato in una divisione organizzativa: le BR restano così oggi un gruppo che sostiene, per altro con argomenti piuttosto deboli ed inefficaci, la validità di alcuni schemi politici invero logori, assolutamente inadatti a rilanciare il combattimento nelle attuali condizioni. Noi, per parte nostra, non possiamo che trarre le conseguenze dell’accaduto: la nostra battaglia per un concetto marxista di politica rivoluzionaria, per un PCC fermo nei principi e deciso nella politica, realmente in grado di guidare le masse proletarie italiane alla presa del potere, continua altrove, nell’Unione dei Comunisti Combattenti, e non certo con minore determinazione.

 

  1. Cosa intendete quando parlate di rifondazione teorica dei presupposti generali della lotta armata?

Intendiamo una concezione dell’attività politica contemporanea che si basi, sommariamente, sui seguenti assunti di fondo:

  1. a) il partito comunista dei giorni nostri deve essere un partito combattente: tutta l’esperienza storica degli ultimi anni sta a dimostrare che solo attraverso l’azione dell’avanguardia armata il proletariato può riaccedere all’indipendenza politica, affermando al contempo la sua vocazione storica alla conquista del potere statale.
  2. b) il partito comunista combattente, per quanto impegnato nella lotta armata contro lo stato, anche in condizioni non rivoluzionarie, per quanto incontestabilmente «originale» rispetto ai PC del passato, differisce da questi ultimi solo in relazione alla forma che il suo modo di operare prende storicamente: il suo ruolo è e rimane quindi un ruolo politico, un ruolo caratterizzato dal compito di rappresentare gli interessi generali e storici della classe operaia in ogni circostanza del conflitto di classe, nonché di guidare le masse appoggiandosi sulla loro esperienza, tenendo conto della situazione nazionale ed internazionale, non perdendo occasione per affrettare la crisi politica delle classi dominanti – all’abbattimento violento dello stato borghese ed all’instaurazione della dittatura del proletariato.
  3. c) nella sua azione politica, nella sua costante opera di opposizione armata al governo della classe capitalistica, il PCC non può prescindere dal fatto che la nostra rivoluzione, che ha luogo in un paese imperialista, attraversa necessariamente una lunga fase nella quale i rapporti generali tra le classi si svolgono in forma essenzialmente «pacifica», essenzialmente mediata dalla realtà operante negli istituti politici borghesi. Questa fase, per quanto lunga e complicata si presenti, genererà ineluttabilmente, come sua «continuazione», la guerra civile tra proletariato e borghesia: proprio qui diverrà attuale e passerà all’ordine del giorno la parola d’ordine dell’insurrezione armata contro lo stato borghese.

In sintesi, noi consideriamo necessario un PCC realmente capace di far politica con le armi: un partito cioè che avendo presente la reale dinamica ed il reale contesto nei quali si sviluppa il conflitto di classe nel nostro paese, sappia nondimeno esercitare un’effettiva influenza nell’andamento politico del rapporto tra proletariato e borghesia ed una guida energica sul movimento di massa.

Giova allora notare come queste pur scheletriche notazioni implichino rilevanti conseguenze almeno in un duplice senso: per un verso esse conducono ad un’aperta, ragionevole ed inevitabile critica degli ormai logori schemi della «guerra di lunga durata» e della «strategia della lotta armata», costituendone anzi un superamento in positivo. Per l’altro, rimandano all’esigenza di una «resa dei conti» ben più vasta, ben più profonda, con l’intero arco delle suggestioni non materialistiche provenienti dal variegato arcipelago teorico del marxismo «occidentale» e, per meglio dire, del marxismo sedicente «critico»; suggestioni che hanno influenzato più di quanto si voglia generalmente ammettere la «vena» soggettivistica delle stesse BR, e che continuano tutt’oggi ad ipotecare negativamente lo sviluppo di un’azione coscientemente comunista.

In ogni caso, resta fermo che la nostra è una battaglia per la fondazione del PCC: è ognor più chiaro che la dimensione del partito, ad oltre quindici anni di distanza dall’inizio della lotta armata, si palesa nitidamente come l’esigenza prioritaria per tutto il movimento rivoluzionario. Ed un PCC che credesse di poter prescindere da quanto sommariamente accennato poco fa, incontrerebbe sicuramente serie difficoltà nell’adempimento dei suoi già complessi doveri politici. Noi riteniamo che si debba iniziare un confronto serio e serrato su questi temi tra tutte le forze e le correnti che riconoscono nella lotta armata il carattere distintivo ed obbligatorio dell’azione comunista contemporanea; l’«Unione», pur basandosi sulle proprie precise posizioni, pur conducendo un’intransigente battaglia per l’adozione di un punto di vista coerentemente marxista, opera nel senso dell’unità dei comunisti in un unico partito combattente in uno spirito alieno da qualsiasi settarismo o interesse di campanile, tenendo presenti sempre e soltanto gli interessi complessivi del movimento.

 

  1. Una delle questioni più scottanti nell’attuale momento sembra essere quella del rapporto tra l’avanguardia combattente e le masse; si sostiene in effetti da più parti che proprio questo sarebbe il punto ove le BR dimostrarono nel passato i maggiori limiti. Potete chiarire la vostra posizione a questo riguardo?

Non nascondiamo di nutrire una certa diffidenza nei confronti di quanti, con tragica insistenza, intonano il ritornello del «ci siamo staccati dalle masse», credendo così di fornire una risposta a problemi che, invero, si pongono in forma estremamente più complessa. Non di rado, infatti, dietro simili affermazioni si celano, nemmeno troppo nascoste, precise tendenze il cui contrassegno consiste proprio nel voler l’avanguardia al medesimo livello di coscienza e di organizzazione delle masse, nel voler annullare la funzione specifica dei comunisti, in altri termini: nel rifiuto della lotta armata. No, questo modo di ragionare ci vede profondamente distanti almeno per due motivi: in primo luogo, in questo caso il problema del «rapporto con le masse» viene chiaramente trattato in termini capziosi e strumentali, con l’unico e deliberato fine di azzerare quindici anni di politica rivoluzionaria, di lotta armata, nel nostro paese. Si vuole qui furbescamente dimenticare che ogni partito riconosciuto come tale deve essere, in un certo senso «staccato» dalle masse, capace cioè di condurre la sua lotta in indipendenza dal sostegno mutevole del movimento di massa e dalle più svariate sollecitazioni che provengono dal corso, sovente estremamente fluido, degli eventi immediati e contingenti.

Ci si scorda volontariamente che spesso la storia ha richiesto ai comunisti di andare controcorrente e di assumere posizioni che li isolavano dai sentimenti prevalenti nella classe operaia. Che partito sarebbe quello disposto a mutare i propri orientamenti di fondo alla prima soffiata di vento contraria? E quanto dimostrerebbe di valere la lotta armata se alla prima vera prova del nove, laddove la storia concede davvero di far intravedere la «meccanica» della rivoluzione, gettasse vigliaccamente la spugna? Gli eserciti sconfitti imparano molto, si è detto. Bisogna aggiungere: a patto che non sciolgano i propri ranghi.

In secondo luogo, chiunque abbia partecipato alla lotta degli anni trascorsi sa bene che le BR «staccate» dalle masse non lo sono state mai: al contrario, esse hanno incontestabilmente dimostrato che si può condurre la lotta armata per lunghi anni anche in un paese come il nostro, senza per questo rinunciare ad estendere costantemente il numero dei militanti e dei simpatizzanti, senza per questo impedire la penetrazione nella classe operaia e nei settori più combattivi del proletariato urbano, senza per questo precludersi il radicamento nelle maggiori città e nei principali poli industriali. Citeremo a nostro sostegno soltanto due esempi: il numero, elevatissimo, di prigionieri politici esistenti attualmente in Italia, la loro composizione sociale prevalentemente operaia e proletaria, il fatto che provengano praticamente da tutte le regioni del nostro paese, non stanno forse a dimostrare palesemente il carattere di massa, la rilevante diffusione sociale dell’azione iniziata e diretta dalle BR? E per quale motivo la stampa di regime, i grandi giornali borghesi, filistei, “opinion-makers” ma anche qualche retorico identificano ormai correntemente gli anni ’70 ( due lustri interi, si noti) con i cosiddetti “anni di piombo”? Forse perché, alla distanza, si può cominciare a dire pudicamente la verità? A dire che la lotta armata in Italia è stata il fatto politico più rilevante e gravido di conseguenze dell’ultimo periodo storico? Persino la borghesia, nelle aule dei suoi tribunali e sulle colonne dei suoi prezzolati giornali, è costretta ad ammettere la verità: le BR non erano “staccate” dalle masse … dovremo noi batterla sul terreno della codardia?

 

  1. Dunque, per voi la questione non riveste interesse alcuno?

Tutt’al contrario. Ma si tratta di discuterla correttamente, da marxisti leninisti coerenti.

Gli è che nelle BR, intorno al ’79-80, quando ormai il periodo della propaganda armata si era giustamente dichiarato concluso ed il combattimento si era bensì imposto nel movimento come la discriminante essenziale fra rivoluzionari ed opportunisti, prevalse una visione del possibile sviluppo della lotta improntata ad una sorta di illusione “gradualista”. Credemmo cioè che il ritmo, sufficientemente rapido, con il quale le avanguardie proletarie, gli elementi avanzati, si erano stretti intorno alla lotta armata organizzandosi in cellule clandestine disposte al combattimento, potesse valere tale e quale anche per le grandi masse. Non si capiva allora, influenzati dalla cospicua e progressiva diffusione della azioni militari un po’ ovunque, che gli strati massicci del proletariato, i milioni di persone, ancorché disposti a giudicare positivamente l’azione delle BR, non erano per questo in grado di seguirla sul terreno dello scontro diretto per il potere. È noto che la parola d’ordine della “conquista delle masse sul terreno della lotta armata” si dimostrò in breve tempo inconsistente ed anzi, foriera di numerose ambiguità, di suggestioni movimentistiche, di speranze e di progetti ingannevoli molti dei quali ritortisi amaramente contro coloro che improvvidamente li adombravano.

È d’uopo allora rilevare come le BR, lungi dall’essere “staccate” dalla classe operaia, lungi dall’aver difettato di addentellati con i settori determinanti del proletariato urbano, il rapporto con le masse l’avevano eccome: ma sbagliarono ad un dato momento nell’impostarne lo sviluppo. Non già quindi, mancanza di contatto con le masse in quanto organizzazione clandestina, ma contatto sbagliato, impostato su valutazioni affrettate e tragicamente ideologizzanti!

Allo stato attuale, nel momento in cui gli eventi citati acquistano – col passar del tempo – una dimensione ed un significato via via più nitidi, è possibile a nostro parere arrischiare qualche elementare considerazione. La prima è che si trattò di errori gravi e lordi di implicazioni negative: molte delle ragioni che conducono alla sonora battuta d’arresto dell’82 si originano inequivocabilmente dalla visione politica alquanto miope invalsa nelle BR intorno al ’79-80 e compendiata nello slogan della conquista delle masse alla lotta armata. Tuttavia, ciò detto, va sensatamente aggiunto che questi errori si collocano chiaramente in un contesto teorico pratico di superficie più vasto, ben illustrato dal libro “l’Ape e il comunista” e le cui fondamenta vanno rintracciate molto innanzi il 1979; per l’altro gravi che siano stati, simili sbagli, non costituiscono certo novità nella storia del movimento comunista. È ben noto che la tendenza a sopravalutare il grado di disponibilità delle masse alla proposta rivoluzionaria si è presentata non di rado, ad esempio, nella storia del Komintern: si pensi alle polemiche suscitate nell’Internazionale fra il ’20 e il ’21 dalla cosiddetta “teoria dell’offensiva”, oppure al fatto che il partito comunista tedesco, ancora negli ultimi mesi del 1932 (a poche settimane dall’avvento del nazismo) si conduceva come se la rivoluzione fosse imminente in Germania. Esiste o meno una relazione tra certe vicende tutt’affatto interne alla storia del movimento comunista internazionale e la linea sostenuta tra il ’79 e l’82 dalla BR? E si può dimenticare che i marxisti leninisti hanno sempre preso atto dei loro errori in uno spirito costruttivo, senza mai rinnegare il significato e l’importanza di esperienze che comunque si andavano ad assommare, come altrettanti tasselli, al patrimonio di conoscenza e di lotta del movimento proletario? Non è dunque il caso di impressionarsi più di tanto: i comunisti, che si appoggiano sul socialismo scientifico, non per questo possono limitarsi ad una semplicistica applicazione di qualche principio pedissequamente mandato a memoria poiché la pratica, per definizione, contiene nel suo svolgersi un elemento di originalità irriducibile anche alla più precisa formula teorica. E proprio sulla comprensione dell’esperienza pratica secondo un metodo scientifico si basa la politica marxista, che non a caso oggi ci consente di considerare le difficoltà incontrate dalle BR nel loro rapporto con le grandi masse a mò di elemento istruttivo per una più matura concezione dei compiti politici del partito combattente.

In ogni caso, pare a noi assodato che una visione del rapporto da stabilirsi tra l’avanguardia combattente ed il proletariato nel suo insieme, non possa oramai prescindere dalle seguenti considerazioni:

  1. a) tutta l’esperienza storica della lotta di classe svoltasi nei paesi imperialisti, ed anche la nostra di BR, attesta inequivocabilmente che l’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata è un compito storico obbiettivamente assolvibile solo in condizioni insurrezionali. Prima di quel momento, la lotta di massa del proletariato, i conflitti che necessariamente scaturiscono dalle contraddizioni economiche presenti nella società borghese, non si presentano, salvo rare occasioni e spazi molto brevi di tempo, sotto la forma risolutiva della lotta armata.
  2. b) il partito rivoluzionario, che è un partito combattente e che non fa dipendere punto la sua scelta di combattere dal fatto che le masse siano già armate o in procinto di farlo, non può comunque limitarsi alla sola propaganda nella presa del potere o lotta per il socialismo. Esso deve bensì collegare quest’opera costante, che si esprime attraverso il combattimento contro il governo e lo Stato, con la partecipazione ai movimenti generali del proletariato, con la loro guida secondo una direttiva comunista. Ponendosi alla testa di tali movimenti, combattendo e prendendo posizione su questioni non già astratte ma realmente centrali e perciò stesso comprensibili da ogni singolo lavoratore, indirizzando puntualmente la lotta contro il governo, mettendo sempre in rilievo l’elemento che lega l’aspetto e il tema parziale alla questione del potere politico (che è e rimane in ogni caso la questione centrale e distintiva per il partito), l’avanguardia combattente saprà dunque collegarsi alla vita politica ed alle esigenze reali delle masse senza per questo recedere dal proprio compito specifico, che è quello di elevarle alla coscienza comunista, di guidarle all’abbattimento dello stato borghese.
  3. c) eccezionalmente importante si presenta allora la consapevolezza della distinzione che esiste tra il lavoro del partito verso le avanguardie politiche e la sua linea di massa. Se il primo ha per obbiettivo l’organizzazione degli elementi avanzati del proletariato nei ranghi disciplinati e clandestini del partito combattente, e non può che basarsi perciò sulla piena accettazione del programma del partito e del suo metodo di lotta distintivo, la lotta armata; la seconda si prefigge lo scopo di conquistare (tendenzialmente – si capisce) un’influenza predominante del partito nelle masse, di farlo da loro riconoscere come l’unico reale difensore degli interessi vitali nonché storici del proletariato. Di conseguenza, entro il secondo contesto si dovrà tener conto di numerosi e molteplici fattori sinora alquanto negletti, primi dei quali la pesante influenza revisionistica ed il carattere, pubblico e “legale”, che le forme di organizzazione politica e sindacale delle masse prendono nella fase che precede la conquista del potere.

In conclusione è nostra profonda convinzione che un rapporto proficuo tra partito combattente e masse proletarie non solo non si presenti a priori impossibile, ma sia anzi doverosamente costruibile proprio partendo dalle numerose indicazioni che ci provengono dall’esperienza e dalla storia delle BR. In questo lavoro, che trova la sua prima ragion d’essere nella persuasione, propria dei marxisti, dell’impossibilità della rivoluzione proletaria senza un’adeguata opera di conquista delle masse alla linea comunista, sarà sempre comunque necessario guardarsi da un duplice pericolo: da un lato bisognerà evitare ogni schematismo superfluo, ogni tentazione precostituita nell’esame dell’andamento della lotta proletaria (troppo spesso, infatti, si è creduto di poter giudicare in questo campo partendo dal grossolano criterio “clandestino e combattente uguale positivo, pubblico e legale uguale negativo”); dall’altro non si dovrà con ciò, per la errata preoccupazione di stare “attaccati alle masse”, rinunciare a svolgere il proprio ruolo specifico: quello di avanguardia politico militare che agita i propri temi, consolida ed estende i propri ranghi in ogni realtà sociale e con la propria azione spinge avanti la situazione politica generale, modificandone gli equilibri a favore della rivoluzione e rappresentando l’interesse storico del proletariato alla dittatura in ogni circostanza del conflitto di classe.

 

  1. Come vedete la situazione politica?

La situazione politica attuale ci sembra caratterizzata dal prevalere di una spiccata tendenza reazionaria e conservatrice nella classe politica governativa, nelle oligarchie dei partiti della maggioranza e, in generale, in tutta la grande borghesia monopolista e finanziaria. Il fatto saliente degli ultimi anni consiste certamente nel progressivo profilarsi di un indirizzo conservatore ed autoritario via via più netto sia in materia di politica economica che nel campo della politica estera. Due anni e mezzo di governo Craxi hanno ben illustrato quali siano gli interessi e le esigenze attuali della grande borghesia italiana: compressione del salario operaio e taglio dell’occupazione in economia, rafforzamento dell’esecutivo sul parlamento e degli apparati dirigenti dei partiti sull’insieme dei corpi sociali in politica interna, filo atlantismo esasperato e servile in politica estera.

Naturalmente, si tratta di un quadro niente affatto isolato dal contesto generale dei paesi capitalistici avanzati; ormai da parecchi anni, infatti, si è delineata la “via capitalistica” all’uscita della recessione: licenziamenti di massa, taglio delle spese sociali, accentuata competizione tra grandi monopoli, aggressività e sciovinismo su scala internazionale, sono solo i principali ingredienti della ricetta reaganiana, accolta febbrilmente un po’ ovunque come il nuovo vangelo del capitalismo. Gli è che non sono percorribili altre strade: la crisi economica spinge per una sua soluzione, i grandi gruppi finanziari e monopolistici, bisognosi di nuovi mercati ove esportare capitali e merci, divengono i migliori alleati della reazione e delle caste militari, sicché la realtà della produzione mondiale, lo sviluppo del conflitto di classe, si inseriscono in un quadro generale più caratterizzato da un’accentuata aggressività dei paesi imperialisti. L’eventualità di una terza guerra mondiale, di un immenso macello di energie umane causato ancora una volta da un sistema sociale anarchico e classista, dal gruppo delle ipotesi passa a quello delle probabilità reali. Ecco fuori da ogni catastrofismo, distanti da qualsiasi indebita visione che vorrebbe gli eventi attuali altrettanti momenti di un disegno complesso premente in modo cosciente e predeterminato verso la guerra, pare a noi chiaro che la posta in gioco sia comunque alta, sostanziale. Pur nella specificità nel nostro paese, pur entro i defatiganti giuochi di partito ineliminabilmente propri della classe politica italiana, in questo scorcio di secolo una tendenza di fondo, un orientamento segnatamente reazionario si va ormai delineando: si è diffusa in numerosi ed influenti ambienti capitalistici l’idea che l’Italia, al pari di altri paesi, vada “bonificata” dalla lotta di classe; in campo politico nonché economico, nelle opzioni cruciali di governo e di “management” (come si dice), le posizioni conservatrici hanno l’ultima parola; nelle relazioni internazionali il nostro paese viene sistematicamente coinvolto nelle scelte scopertamente guerrafondaie ed imperialistiche del “grande fratello americano”. No, non si tratta di fatti incidentali, di vicende prive di un nesso reciproco, ma di un movimento che, quantunque di natura impersonale ed obbiettiva, prende forma generale, di un attacco su tutti i fronti, da quello ideologico (ove i più vieti luoghi comuni reazionari trionfano con clamore certamente inopinato sino a poco tempo addietro) a quello economico (con l’infatuazione collettiva per la “deregulation” e per il “vento del Lingotto”), da quello politico (riforma istituzionale) a quello militare (ove si sta preparando in sordina la sporca adesione alle “guerre stellari” di Reagan). Si dovrà continuare a chiudere gli occhi? O si preferirà riporre le speranze nel “governo di programma” untuosamente proposto dagli eterni orfani del compromesso storico? Noi dell’“Unione” intendiamo lottare con intransigenza contro questa vera e propria ridefinizione reazionaria della società italiana, noi intendiamo organizzare la mobilitazione d’avanguardia e di massa contro il governo della borghesia. In questa critica situazione, nel momento in cui si preparano battaglie decisive, la lotta armata dimostrerà con dovuta chiarezza quale sia la forza politica in grado di opporsi fermamente alla mene della classe dominante e con la sua giusta azione diverrà un chiaro punto di riferimento per le più vaste masse italiane.

 

  1. Il 21 di questo mese, la vostra organizzazione è apparsa pubblicamente con l’azione da Empoli, ma nel corso dell’operazione la vostra militante Wilma Monaco è rimasta uccisa. Considerate ciò come un fallimento?

Abbiamo già dichiarato che il nostro nucleo armato in Via della Farnesina aveva consegne precise: invalidare, e non già uccidere Da Empoli, lasciare in vita l’agente di scorta. Questa decisione derivava da una precisa e consapevole valutazione politica: tenuto conto della carica occupata dal Da Empoli e del momento politico generale, si trattava di dimostrare la necessità di saper diversificare il grado di intervento militare a seconda delle circostanze. “Far politica con le armi”, infatti, significava anche calcolare precisamente le forze e gli elementi in campo: significava tener conto dell’andamento generale dei rapporti politici tra le classi, dello stato del movimento operaio, del grado di prestigio conseguito dall’avanguardia nelle masse. Un partito combattente che afferma la sua linea politica, tramite il combattimento contro lo stato, nella sua azione non può prescindere da tali valutazioni, pena il decadere in un orientamento indistinto, inefficace, strutturalmente incapace di “dosare” l’iniziativa in modo proficuo per l’avanzamento della causa. E in questo senso s’inseriva l’azione Da Empoli. Ma questa nostra scelta è stata pagata ad un duro prezzo: Wilma è rimasta uccisa, mentre quasi inutile è il sottolineare che l’annientamento del Da Empoli e del lurido sbirro sarebbe stato, al confronto, un gioco da ragazzi. È proprio in questi momenti che va fatto il massimo sforzo di razionalità: nonostante il peso immenso della morte di Wilma, dirigente della nostra organizzazione e comunista impegnata da anni nella lotta armata, nonostante la rabbia per l’indegna sceneggiata di regime orchestrata dal suo sacrificio, sull’azione Da Empoli s’impongono, a nostro parere, almeno tre considerazioni. In primo luogo, la diversificazione dell’intervento, la capacità di scegliere diverse forme di attacco militare a seconda dell’obbiettivo e delle condizioni generali, non è per noi criterio revocabile in dubbio a causa della morte di Wilma. Tutto il corso degli ultimi anni dimostra inequivocabilmente la necessità politica di questo atteggiamento: il partito combattente non può banalizzare l’annientamento, gravi conseguenze sono derivate dal passato e deriveranno dal futuro da una mancanza di sensibilità verso questo problema. Quel che è certo, però, è che tale volontà di “diversificare” l’intervento non potrà non appoggiarsi nel futuro su una più ferma determinazione ad eliminare eventuali resistenze: il bilancio dell’azione del 21 Febbraio è per noi chiaro, per gli agenti di scorta che vorranno reagire non vi sarà esitazione alcuna: verranno annientati.

In secondo luogo, l’azione non può non considerarsi “fallita” proprio poiché il suo significato politico è risultato oltremodo chiaro. L’attacco a Palazzo Chigi, al governo ed alla sua politica economica, è questione quanto mai attuale nell’odierna realtà italiana; inoltre, ci sembra che il problema del giusto indirizzo da dare alla lotta armata – la lotta armata come lotta politica comunista contro il governo borghese – sia stato ben evocato dall’azione Da Empoli. Invero, si può parlare di fallimento quando un’ iniziativa non corrisponde ai fini prefissati: l’azione di Via della Farnesina ha invece corrisposto esattamente alle esigenze poste sia dal contesto politico generale, che dalla situazione interna al movimento rivoluzionario. È il prezzo pagato che è immenso, non l’azione che è “fallita”.

In terzo luogo noi non abbiamo paura di riconoscere che facendo la lotta armata si può morire. È importante ricordare questo a quanti si avvicinano oggi alla militanza comunista combattente. La lotta armata implica numerosi sacrifici: tra questi vi è sovente quello estremo, quello della vita. Non si tratta qui di conclamare fatalmente inevitabile la morte dei compagni; si tratta di mettere in guardia il movimento dall’illusione di poter non pagare un costo che invece è e rimarrà salato, altissimo sul piano umano e politico. La lotta si farà sempre più dura, molti altri di noi morranno con le armi in pugno lottando per la libertà; ma quale vera impresa, quale lotta per l’emancipazione, son realmente progredite senza pesanti sacrifici? Noi pensiamo che il sacrificio di Wilma Monaco “Roberta” debba servire a tutto il movimento rivoluzionario per rinsaldare le fila e avanzare più speditamente sulla via di una lotta armata realmente marxista. Questo sacrificio serve innanzitutto a noi, della “Unione” che, nel ricordo dell’indimenticabile figura di “Roberta” della sua umanità e della sua determinazione, procederemo senza esitazione pel nostro cammino.

 

  1. Se non sbagliamo avete citato il PCI: vi sembra che negli ultimi anni la posizione generale di questo partito sia in qualche modo cambiata?

È mutabile a livello sostanziale un orientamento di fondo che riconosce esplicitamente l’insuperabilità degli angusti confini della società borghese? È mutabile una politica che da anni persegue sistematicamente la conciliazione di interessi tra lavoro salariato e capitale? No, la posizione del PCI non è cambiata e non è bensì cambiato il giudizio dei veri comunisti su questo partito: si tratta dell’ala sinistra della borghesia, di una componente ormai organica del sistema politico che si erge sui rapporti sociali capitalistici. Piuttosto, proprio le ultime vicende che hanno coinvolto il partito di Natta ci paiono quanto mai indicative della totale subordinazione di questi uomini alla logica dell’attuale sistema sociale: dalla rinunciataria e remissiva gestione del referendum sul Decreto di San Valentino alle ineffabili discussioni precongressuali su “migliorismo” e dintorni, dalla servile proposta del “governo di programma” alla orgogliosa rivendicazione di internità al campo puzzolente delle socialdemocrazie europee, è tutto un susseguirsi di “iniziative” che mettono scopertamente a nudo l’anima profondamente “occidentale” e borghese degli eredi di Berlinguer. Con la sua ferma determinazione a distruggere quanto rimasto al suo interno delle tradizioni di lotta della classe operaia italiana, con il suo cadaverico pacifismo parlamentare, il PCI contribuisce oggi in modo determinante ad illudere le masse sulla reale natura della democrazia borghese e costituisce in definitiva uno dei principali puntelli del sistema capitalistico. È vero, infatti, che l’influenza del revisionismo sulla classe proletaria rimane pesante. A tutt’oggi gli uomini di Botteghe Oscure detengono forti posizioni nel movimento operaio e con i loro potenti apparati politici e sindacali, rigidamente in mano ad una filistea burocrazia di partito, sono in grado di decidere tempi e modi della mobilitazione di massa. Certamente in questa circostanza pesa la realtà dei paesi imperialisti, ove cospicui settori di proletariato possono beneficiare in una minima ma non sottovalutabile misura dei sovraprofitti che il monopolio multinazionale realizza nel mercato mondiale; ma pesano anche i nostri ritardi, ritardi del movimento rivoluzionario italiano che troppo spesso ha creduto di surrogare la necessità della battaglia antirevisionista con l’esaltazione acritica di un ipotetico “altro” movimento operaio, ponendosi con ciò fuori dai reali dibattiti e dagli effettivi problemi vissuti dai settori massicci e determinanti della classe operaia.

Ciononostante, nonostante si debba registrare un certo ritardo in quell’importante capitolo del lavoro comunista costituito dalla battaglia antirevisionista, esistono a nostro parere ragionevoli motivi per essere ottimisti. Nemmeno due anni fa in effetti, con l’esplosione della lotta di massa contro il decreto “truffa” del governo Craxi, si è avuto un chiaro sintomo del potenziale di autonomia dal revisionismo insito nella classe operaia. Senza cedere a facili quanto errati trionfalismi, sembra comunque a noi innegabile che nel corso di quella massiccia e prolungata mobilitazione, lo strapotere delle burocrazie politiche e sindacali ha forse incontrato per la prima volta da svariati anni serie difficoltà nell’imporsi sulla determinazione alla lotta dei lavoratori. L’esperienza dei cosiddetti “autoconvocati”, per quanto apparentemente sopita, ha lasciato significative tracce nella coscienza collettiva dell’odierno movimento operaio: sicuramente si tratta di indicazioni che la lotta di massa saprà nel futuro sviluppare. D’altra parte, man mano che cresce ed evolve nel movimento rivoluzionario una più precisa consapevolezza dei compiti politici del partito combattente, non può non presentarsi in primo piano la questione del revisionismo e dei modi più adatti a contrastarne l’influenza da un’angolatura realmente maggioritaria, realmente rivolta alle esigenze di milioni di lavoratori. Intendiamoci: si tratta soltanto di sintomi, di fatti che, per quanto significativi, rimangono tuttavia ancora allo stato di indizi di una possibile piega delle cose; ma è quanto basta per far intravedere distintamente un’ampia direzione di lavoro che a nostro parere, se affrontata con la sistematicità e la preparazione adeguata, si rivelerà certamente gravida di implicazioni positive in quanto faciliterà la penetrazione dei temi rivoluzionari nella coscienza della classe operaia.

Insomma, la lotta contro i traditori della classe operaia, contro coloro che hanno insozzato la bandiera del proletariato, rimane per noi una condizione primaria ed essenziale del lavoro rivoluzionario: l’“Unione” ribadisce che l’indifferenza sotto questo rispetto non soltanto arreca grave nocumento alla causa comunista, ma è oltre a ciò chiaro indice di infantilismo politico, di una mentalità minoritaria, settaria ed in ultima analisi perdente.

 

  1. Potete sinteticamente indicare i compiti fondamentali che secondo voi si pongono attualmente per i comunisti italiani?

Abbiamo già parlato della questione partito. Quando si discute dei compiti fondamentali all’ordine del giorno per i rivoluzionari italiani non si può menzionare innanzitutto questo problema, che si staglia all’orizzonte come il principale e più importante fra i numerosi doveri del momento. Per parte nostra, sottolineiamo ancora una volta l’importanza del fatto che l’unità dei comunisti nel partito si basi sulla chiarezza di vedute: da questo punto di vista, per quanto sia giustamente avvertita l’esigenza di un unico centro politico militare realmente in grado di dirigere il lavoro rivoluzionario su scala nazionale, alcune fasi non potranno essere artificialmente saltate. Si tratta cioè di aprire fra le forze realmente rivoluzionarie un serio dibattito intorno alle questioni principali che l’esperienza pratica degli ultimi anni ha posto all’ordine del giorno nel nostro paese; si tratta altresì di alimentare il confronto con l’iniziativa pratica, con un contributo politico organizzativo quanto mai prezioso in questo momento di obiettive difficoltà per la lotta armata. In definitiva, noi siamo convinti che quanto più la tendenza realmente marxista, non soggettivista, rafforzerà i suoi ranghi organizzati e la sua autorità politico militare, tanto più la questione del PCC sarà realmente accostabile in guisa non effimera.

Detto questo, per determinare esattamente i compiti principali del momento bisogna almeno aver presente la situazione generale in cui ci troviamo: da un lato non siamo in una situazione rivoluzionaria, né se ne intravedono i sintomi a breve scadenza e le forze comuniste sono deboli, ancora sotto il peso della battuta d’arresto dell’ 82; dall’altro, le numerose e diverse contraddizioni presenti nell’odierna realtà italiana, la disponibilità alla lotta esistente in consistenti settori operai e proletari costituiscono altrettanti favorevoli punti di partenza per il rilancio di una lotta armata che abbia imparato quel che doveva dall’esperienza passata. Ecco noi pensiamo che da questo pur schematico quadro, si possano far discendere con esattezza, e ragionevolmente, aggiungiamo, i doveri dell’oggi. Il primo ed il più importante è quello di ricostituire quel tessuto di solidarietà, di sostegno e di organizzazione militante che è stato indubbiamente lacerato dalla crisi politica che la lotta armata ha conosciuto. Non si sfugge a questo compito rifugiandosi “nelle masse” , non si può fare orecchie da mercante di fronte al fatto, noto a chiunque si dichiari comunista, che l’esistenza di una forte e solida lotta d’avanguardia è il primo presupposto di qualsiasi rivoluzione. Sì, si tratta di riorganizzare la lotta armata e si tratta di farlo concentrandovi tutte le energie possibili proprio perché la fase che viviamo (che non è rivoluzionaria) impone innanzitutto di rafforzare l’avanguardia, di dotarla di prestigio e di simpatia nelle masse, di inserirla come forza politica riconosciuta nella vita sociale del paese.

Secondariamente, bisogna far si che questa avanguardia sia realmente in grado di prendere posizione costantemente, lottando intransigentemente per affermarla contro il governo ed i partiti borghesi, su tutte le questioni centrali che di volta in volta interessano la nazione nel suo insieme. È tempo infatti di finirla con l’idea che la rivoluzione si compie “ai margini” della società, per l’iniziativa di quei soliti accesi “ribelli” che in tanto si oppongono ad ogni cosa, in quanto sono poi disposti ad accomodarsi in un ghetto dorato, magari “di sinistra”, sapientemente disposto all’uopo dalla borghesia stessa. Un partito politico, un centro dirigente della rivoluzione, dovrà davvero guidare milioni di persone, dovrà davvero saper interpretare le loro più vitali aspirazioni, concrete epperò generali, fuori da ogni schematismo precostituito. Bisogna perciò impostare il lavoro fin da subito cosicché la lotta armata divenga realmente “un modo di far politica”; bisogna sfruttare tutte le opportunità di intervento e di lotta salvaguardando al contempo la natura combattente, politico militare di ogni struttura del partito; bisogna infine saper opporre alla borghesia in tutti i campi fondamentali della società, posizioni nette e precise, posizioni capaci di fornire un orientamento sicuro per il movimento di massa e di interpretarne bensì da un punto di vista rivoluzionario le reali aspirazioni.

In terzo ed ultimo luogo, compito dell’oggi è quello di iniziare a gettare le basi per il lungo e nondimeno irrinunciabile lavoro politico che condurrà il partito rivoluzionario su posizioni di forza nel movimento operaio e proletario; compito dell’oggi è proprio quello di creare le condizioni per la futura guida comunista dei settori determinanti del proletariato italiano. È questo un dovere incondizionato, un incarico storico che pur quanto complicato si presenti, non può certo esser disatteso da quanti si vogliano richiamare coerentemente al marxismo leninismo. Abbiamo appena parlato dell’importanza fondamentale di intervenire su tutte le più rilevanti questioni politiche del paese; bisogna ora aggiungere che, questo essendo il primo presupposto di una reale linea di massa, il secondo è costituito senz’altro dalla realizzazione di una costante presenza politica nelle più significative realtà produttive e proletarie della nazione. Inutile eludere il problema: bisogna esser la dove le masse sono, dove vivono e lottano e dove quotidianamente subiscono la mortificante tutela del revisionismo. È certo un compito difficile, poiché si tratta di far progredire la coscienza di massa, di far riconoscere i nostri militanti come vere avanguardie della lotta comune all’insieme della classe, e si tratta di farlo, beninteso, senza poter proclamare la propria appartenenza al partito combattente nelle ostiche condizioni che il militante legale incontra ogni giorno nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri. Cionondimeno è un dovere incondizionato. E già da oggi, con il senso delle proporzioni e delle priorità, in uno spirito comunista che non cada alle lusinghe del codismo e dell’economismo, è un lavoro che a nostro parere va avviato e sul quale le forze rivoluzionarie dovranno compiere la propria esperienza.

Tre compiti dunque per le avanguardie comuniste: riorganizzare la lotta armata anzitutto, riorganizzarla come fattore politico reale della vita del paese ed iniziare a stabilire solidi legami con le realtà più significative del movimento operaio e proletariato italiano. Questi, in sintesi, ci sembrano i doveri del momento.

  1. In conclusione: quali per voi le prospettive della rivoluzione italiana?

Nella storia di questo paese, il proletariato ha saputo affermare numerose e difficili prove: ha saputo reagire energicamente alla tutela del riformismo socialista fondando nel 1921 un forte e compatto partito comunista, e ha saputo affrontare con coraggio la sfida del fascismo nella durezza dell’illegalità e della lotta clandestina; è stata la forza dirigente della lotta di liberazione nazionale dal nazi-fascismo, e si è opposto alla violenta volontà di restaurazione “bianca” della borghesia negli anni ’50 e ‘ 60. Nel 1970 di fronte all’ormai scoperto tradimento del PCI, il proletariato italiano (di nuovo come nel ’21) ha saputo riconquistare la propria indipendenza politica attraverso la lotta armata. Le BR lo fecero intendere bene a tutta la società. Oggi si profila una nuova sfida: le classi dominanti sono animate di rinnovata protervia, i grandi capitalismi premono su già ben disposti ambienti politici, su oligarchie di partito autoritarie e tracotanti, per una svolta apertamente conservatrice: la direzione è già stata presa e, come si vuol dire, l’appetito vien mangiando. D’altra parte, la lotta armata è sensibilmente indebolita, numerosi problemi la investono dall’interno, si avverte chiaramente l’esigenza di un suo rinnovamento, oltreché nei presupposti politici anche nell’azione pratica. Saprà allora il proletariato italiano, sapranno le sue avanguardie politiche, affrontare l’ennesima battaglia trasformandola a favore delle classi oppresse? Noi diciamo di si. E a ragion veduta. Le riserve di energie nelle classi sfruttate sono davvero molto profonde, perché sono continuamente alimentate dalle contraddizioni che inevitabilmente scuotono la società borghese. Ed inoltre il nostro movimento sta velocemente mettendosi al passo: gli eserciti sconfitti, bisogna ricordare, imparano molto. Il parere dell’Unione dei Comunisti Combattenti, all’indomani della morte eroica della sua dirigente Wilma Monaco-“Roberta” è dunque assai preciso: le prospettive della rivoluzione italiana, nonostante le numerose difficoltà attuali e gli immensi sacrifici che si dovranno compiere, restano eccellenti.

Febbraio 1986

Rivendicazione del ferimento di Antonio Da Empoli e ricordo di Wilma Monaco

Venerdì 21 Febbraio, un nucleo armato della nostra organizzazione ha attaccato ed invalidato Antonio Da Empoli, responsabile e dirigente dell’ufficio “affari economici” di Palazzo Chigi. Antonio da Empoli, nella sua veste di coordinatore dello staff di esperti economici di Craxi, ha svolto un ruolo essenziale nella formulazione della legge finanziaria, legge che costituisce uno dei più importanti strumenti della politica economica del governo borghese.

Il nostro nucleo armato aveva consegne precise: invalidare, e non già uccidere, Antonio Da Empoli (ciò è stato fatto); lasciare in vita il lurido sbirro che lo scortava (ciò è confermato dall’aver colpito alle gomme e non l’autista). Nel corso dell’operazione, a causa della reazione dell’agente dei servizi speciali, è rimasta uccisa Wilma Monaco “Roberta”, dirigente della nostra organizzazione, comunista impegnata da anni nella lotta armata del movimento di classe italiano.

L’Unione dei Comunisti Combattenti rende innanzitutto onore e rispetto alla sua militante caduta combattendo per il comunismo ed invita tutto il proletariato rivoluzionario a meditare sul significato del sacrificio di “Roberta”.

Ciò detto, si procede con ordine.

Urla, strepiti e schiamazzi.

Le classi subalterne in Italia sono avvezze da tempo agli spettacoli indecorosi: il ceto politico dei partiti borghesi inscena infatti ogni giorno una nuova pagliacciata. Soltanto negli ultimi mesi, litigate o parapiglia si sono susseguite un po’ ovunque: dalla politica estera alla paternità della bandiera, dall’ora di religione alle scelte economiche, dal Consiglio superiore della Magistratura alla Rai TV , non c’è evidentemente requie per questi uomini abituati alla zuffa, allo sgambetto reciproco, alla lotta intestina. Craxi ferisce De Mita e questi a sua volta lo pugnala alle spalle; Spadolini sgomita ingombrante per sottolineare la sua pingue presenza e di tanto in tanto si leva persino qualche pudico latrato in casa liberale e socialdemocratica.

Esiste un governo in Italia? Al cospetto di tanta sovrana irresponsabilità, di fronte alla generalizzata incompetenza degli uomini politici che occupano posizioni di potere, vien fatto talvolta di domandarselo. Ed è vero, comunque, che la politica borghese nel nostro paese si riduce il più delle volte a scorribande di palazzo, è cosa nota che le classi lavoratrici non si raccapezzano punto in questa bolgia infernale, in questo eterno carosello, e ne rimangono sovente disgustate.

La sensazione prevalente è di essere alle prese con un gran baccano inutile, con un tramestio irritante ed irriducibile ad un qualsiasi ordine: urla, strepiti e schiamazzi, per l’appunto…

I fatti.

Non si può negare che, alla fin fine, sia veramente difficile orientarsi nel panorama dei partiti italiani: mutano così spesso posizione, litigano e fanno pace con tanta velocità, sono talmente privi di qualsiasi dirittura, da lasciar sconcertato anche il più consumato osservatore politico, il più sperimentato addetto ai lavori. Per il proletariato converrà allora attenersi ai fatti, ai fatti nudi e crudi, a fatti testardi che sempre dicon di più di ogni proclama, di qualsiasi dichiarazione d’intenti venduta per buona dall’oratore di turno. Ed i fatti, invero parlano chiaro: parlan talmente chiaro da dissipare in un baleno l’immagine di prevalente frastuono così propria del sistema politico borghese italiano. Inetti e cialtroni, sì: ma al potere. Ignoranti e ruffiani senz’altro: ma con le idee chiare sul da farsi.

Un governo esiste: due anni e mezzo di governo Craxi, due anni e mezzo di “stabilità” garantita dallo “strong man”, hanno regalato alla classe operaia tre leggi finanziarie una peggio dell’altra, un “decreto truffa” (quello del febbraio 1984) decurtante d’autorità il salario operaio, varie svalutazioni decise “ad hoc” per favorire i grandi gruppi industriali e penalizzare il potere d’acquisto dei lavoratori, una politica industriale che, quantunque priva di ogni coerenza, ha certo privilegiato il taglio dell’occupazione e la chiusura degli stabilimenti (il nostro Da Empoli ne sa qualcosa), missili americani sul nostro territorio, acquiescenza sistematica nei confronti delle scelte guerrafondaie di Reagan e rafforzamento del ruolo reazionario dell’Italia nel Mediterraneo. Ma non basta: “dulcis in fundo”, Craxi e soci stanno preparando l’adesione in sordina alle “Guerre stellari” degli Stranamore americani. Non è necessario essere profeti per prevedere che, dopo Sigonella, coi “ragazzi” del Pentagono ci saranno ben pochi screzi: il nostro Foster Dulles in sedicesimo, l’asino Spadolini, veglia all’erta sulla solida collocazione “atlantica” del Bel Paese.

Per risibile ed incompetente che sia, la classe politica italiana ha dunque sposato in blocco un indirizzo di governo assai preciso, un orientamento segnatamente reazionario, sia in materia di politica economica che nel campo della politica estera. Sicché, quel che si evidenzia nettamente è proprio il profilarsi di una sorda opera di restaurazione autoritaria e conservatrice che fatalmente porrà in questione molte delle conquiste consolidate del movimento operaio, coinvolgerà vieppiù l’Italia in una politica estera aggressiva ed imperialista, restringerà sostanzialmente i già non copiosi spazi di opposizione sociale.

Il perché.

Il perché è a suo modo semplice. Il capitalismo è in crisi ed alla ricerca di una nuova “identità”: ormai da tempo, si sono irrimediabilmente lacerate le condizioni entro le quali l’accumulazione aveva celebrato i suoi fasti maggiori nel secondo dopoguerra; “riprese” e “ripresine”, per ammissione massima, non hanno menomamente intaccato la sostanziale omogeneità di un pericolo storico profondamente caratterizzato dalla recessione, dalle difficoltà di mercato e dal sovraccumulo di capitale.

Oggi si cerca una soluzione. Ma la soluzione del capitalismo è basata sull’aggressività, sull’accentuazione della competizione fra monopoli, sulla messa a punto di un enorme salto di composizione organica, di una generale riconfigurazione dell’assetto produttivo, il cui costo è rappresentato da migliaia e migliaia di licenziamenti.

Oggi si negoziano gli equilibri mondiali. Ma la contrattazione dei paesi imperialisti avviene sulla base dello sciovinismo, della politica di potenza, di un’aggressione continuata e sistematica a danno delle giovani nazioni impegnate in vie di sviluppo non capitalistiche. Gli USA di Reagan marciano alla testa, ma non si creda che nazioni quali Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia giochino il ruolo di semplice comparsa: dal Libano al Ciad, dalle Falkland al Corno d’Africa, la natura imperialistica della politica estera europea è ben evidente anche al più sprovveduto osservatore.

Tale è la realtà della crisi del capitalismo: i grandi gruppi finanziari e monopolistici, bisognosi di commesse e di mercati, divengono i migliori alleati delle caste militari; le classi politiche si fanno progressivamente sensibili al richiamo dell’autorità, accarezzano disegni conservatori. In generale, si diffonde un sintomatico clima di restaurazione, nel quale valori precedentemente squalificati irrompono con rinnovata protervia nel linguaggio corrente e nelle scelte quotidiane dei ceti dominanti. La società borghese è sempre la stessa: la logica del profitto fa premio sul restante. E nella crisi, in Italia e nel mondo, per far profitto si ha bisogno di governi aggressivi, di spedizioni “punitive” contro paesi e popoli che non si piegano alla logica dell’imperialismo, di bilanci militari più alti ed addirittura delle “guerre stellari”.

Qualcuno ci vorrà convincere che è l’era del post-industriale? L’epoca dell’obsolescenza delle classi? Suvvia, non siamo così ingenui. Dal Nicaragua al Salvador, dalle Filippine al Sud Africa, dalla Palestina occupata al Sud Libano, la lotta di classe arde impetuosa nel mondo; e nel nostro paese nemmeno due anni fa tutta la classe operaia è scesa in lotta per sconfiggere l’autoritarismo governativo e padronale. Davvero la società borghese, l’imperialismo sono sempre gli stessi: il capitalismo, così come produce merci, produce la lotta di classe; l’imperialismo, così come esporta capitali ed oppressione, risveglia la coscienza dei popoli.

Cosa fare.

Innanzitutto cosa non fare. Non fidarsi del PCI, diffidare di questo partito che non soltanto è incapace di difendere gli interessi immediati e primari dei lavoratori, ma, molto di più, per sua esplicita ammissione non ha intenzione alcuna di modificare realmente la società odierna. Cosa ha fatto il PCI di Natta per bloccare la legge finanziaria? Ha premuto i bottoni di Montecitorio ed ha assicurato l’opposizione “costruttiva”. Cosa propone Botteghe Oscure per la situazione italiana? Il governo “di programma” da costituirsi coi gaglioffi della DC, cogli “amerikani” del PRI e con la banda di grassatori che abita in via del Corso. Il PCI è l’ala sinistra della borghesia, la carta di riserva per tener sotto controllo gli operai: sono ormai quarant’anni che questo partito scalda i banchi del parlamento e più passa il tempo, più è evidente agli occhi delle masse che nulla è mutabile rimanendo in quelle fetide stanze. Mobilitarsi allora. Mobilitarsi in ogni posto di lavoro, in ogni fabbrica e in ogni quartiere, contro il governo della borghesia, contro i suoi decreti e le sue leggi, contro la sua politica conservatrice ed antiautoritaria sia in campo economico che internazionale. Tra le classi dominanti, negli ambienti che contano del grande capitale, nei circoli dirigenti dei partiti politici, spira un vento di reazione, è diffusa una volontà di rivincita. I disegni di riforma istituzionale sono parte organica di questa tendenza, proprio in quanto sono rivolti a rafforzare l’autorità, il potere e la libertà di opinione dell’esecutivo sul parlamento. L’approvazione di questa legge finanziaria non è poi che l’ultimo atto, in ordine di tempo, di una lunga sequela di frodi perpetrate da un governo e un patronato ognor più determinati a umiliare gli interessi e le aspirazioni del proletariato.

E’ necessario mobilitarsi, in ogni luogo contro questa tendenza, è necessario opporsi con decisione a questa vera e propria ridefinizione reazionaria della società italiana. Con scioperi, manifestazioni, propaganda ed agitazione di massa bisogna unificare l’intero movimento proletario e mettere con le spalle al muro la burocrazia sindacale e i pompieri di Natta; con tutte le forme di lotta possibili bisogna contrastare le mene della borghesia, far fallire le sue autoritarie ambizioni e colare a picco il suo reazionario governo.

La lotta armata

Ma questa lotta richiede una direzione, il movimento di massa ha bisogno di una guida energica. Tutto il corso politico ed economico degli ultimi anni attesta con straordinaria coerenza quale sia il carattere della svolta che avviene odiernamente in Italia: le classi dominanti slittano man mano su posizioni vieppiù reazionarie. Grandi movimenti di massa sono sorti spontaneamente per contrastare questa tendenza, dimostrando a più riprese il potenziale di lotta insito nel proletariato italiano; ma essi hanno bisogno di una direzione, di una guida capace di orientare la mobilitazione verso obbiettivi generali.

Questa guida è la lotta armata, la lotta armata dei veri comunisti che si oppongono strenuamente al governo della borghesia. In prima fila nella lotta contro la politica economica ed estera del governo; in prima fila nella difesa degli interessi vitali dei lavoratori, nel sostegno d’avanguardia al movimento di massa, i comunisti combattenti non si fermano con ciò alle esigenze immediate del proletariato: con la loro energica e coerente azione, essi indicano la strada per la soluzione reale dei problemi e combattono con i giusti mezzi per coglierla effettivamente. La lotta armata comunista non si limita a “parlare” di come le non cose non vanno; essa attacca lo stato ed i padroni per indebolirne la compagine, incide nell’andamento politico dei rapporti tra le classi, dimostra concretamente alle più vaste masse proletarie che esiste un’alternativa di fondo al marciume parlamentare, allo sfruttamento quotidiano, alla politica aggressiva nei confronti dei popoli oppressi nel mondo e delle giovani nazioni realmente indipendenti dall’imperialismo.

Tale alternativa è il socialismo, la dittatura del proletariato. Per quanto impegno il PCI possa profondere al fine di distogliere le masse da questa imperitura aspirazione, il corso stesso delle cose opera in modo che la classe operaia prenda coscienza del suo ruolo storico. La borghesia imperialista, con tutta la sua arroganza, non ha altro da promettere a milioni di uomini che anarchia nella produzione, insicurezza, sottosviluppo, guerra e morte; il proletariato, guidato dal suo partito combattente, porrà fine a questo indecente scempio di energia umana.

Compagni, proletari:

ormai da molti anni nel nostro paese si svolge una lotta armata contro la borghesia ed i suoi prezzolati governi. Essa è un lotta per il socialismo, una lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Numerose esperienze sono state compiute, significativi insegnamenti si sono evidenziati. Oggi bisogna rilanciare questa lotta e bisogna farlo in una prospettiva giusta: bisogna consolidare il suo ruolo dirigente sul movimento di massa e lavorare nondimeno all’estensione dei ranghi disciplinanti e clandestini dei comunisti combattenti in ogni realtà produttiva e sociale.

Ogni elemento avanzato, ogni avanguardia proletaria lottando quotidianamente nelle masse, difendendo coerentemente i loro interessi immediati nonché generali, guidando la mobilitazione in quelle forme avanzate di lotta praticabili dall’intero movimento, non deve con ciò scordare i suoi doveri di comunista: bisogna lottare per il potere politico, per la dittatura del proletariato! Bisogna organizzare innanzitutto la lotta armata, indebolire la compagine del nemico! In ogni fabbrica, in ogni quartiere in ogni posto di lavoro e realtà proletaria, compito dei comunisti è innanzitutto quello di organizzarsi per la lotta d’avanguardia e non già di attestarsi sul livello della massa. La nostra organizzazione chiama risolutamente a raccolta sotto le sue fila organizzate ed illuminate da un punto di vista realmente marxista, tutte le avanguardie proletarie ed operaie, tutti gli elementi avanzati, tutti i rivoluzionari che, nelle attuali condizioni, si pongono il problema di una coerente lotta per il socialismo. Rilanciare la lotta armata imponendone l’indirizzo marxista: ecco il compito attuale per i veri comunisti!

La morte della compagna Wilma Monaco – “Roberta”

Wilma Monaco – “Roberta”, dirigente della nostra organizzazione, proveniva dai grandi quartieri popolari che il proletariato romano ben conosce: Testaccio e Primavalle sono i luoghi che hanno conosciuto la sua infanzia ed accompagnato la sua maturità. Giovanissima, era già in prima fila nelle lotte popolari e proletarie: nelle lotte per la casa, contro la disoccupazione, nella lotta per una migliore condizione di vita da quella che il capitalismo può riservare alle classi subalterne alberganti la metropoli. Queste esperienze rimasero sempre una costante della militanza di Wilma: era vivissimo in lei il problema della classe operaia, della necessità di sapere interpretare le reali aspirazioni di milioni di lavoratori.

Ma Wilma non fu soltanto un’avanguardia di massa: ella fu innanzitutto una comunista combattente. Sin dal 1977, soltanto diciannovenne, s’impegnò nella lotta armata: dal 1979 si legò alle BR operando sotto la loro direzione. Come quella di molti altri militanti, la sua storia personale coincide da allora con quella del movimento rivoluzionario italiano, delle BR.

Di questo movimento, dell’esperienza delle BR, Wilma comprese sempre la fondamentale importanza: giammai, anche nei momenti più cupi, ella mise in forse la scelta della lotta armata; giammai predicò conciliazione con quanti abbandonavano la lotta. Ma nello stesso tempo, Wilma fu una coerente marxista: ella comprese a fondo il rilievo che il socialismo scientifico riveste nella lotta di classe, s’impegnò totalmente nel rilancio della lotta armata in una giusta prospettiva generale. Alla fondazione dell’Unione dei Comunisti Combattenti Wilma portò un contributo essenziale: un contributo fatto di ragionevolezza e determinazione; d’umanità e d’intransigenza; dei nostri ranghi divenne presto una dirigente.

Oggi, nel momento in cui l’informazione borghese specula sfrontatamente sul suo sacrificio, nel momento in cui si tenta di negare addirittura che sono pallottole di stato ad averla uccisa, tutto il movimento rivoluzionario deve meditare a fondo il significato della morte di questa comunista: col suo estremo contributo, Wilma ha indicato una strada, la strada di una lotta armata coerente e marxista. Questa indicazione va raccolta ovunque: che il suo sacrificio serva da esempio per le nuove generazioni rivoluzionarie, che la sua integrità di rivoluzionaria e di combattente possa illuminare quanti si risvegliano oggi alla coscienza di classe!

Compagni proletari:

chi muore lottando per la libertà non muore mai invano, perché verso la libertà si dirige ineluttabilmente la storia. Ma un comunista che muore nell’adempimento del proprio dovere è certo di sacrificarsi ancor meno vanamente, perché il suo partito continuerà la lotta illuminato dagli stessi principi, con la stessa determinazione, con la medesima sistematicità che egli aveva fatto propri.

Gioiscano pure le classi dominanti di questa morte, essa non fa che rinforzare la nostra volontà di lotta e le nostre convinzioni: il ricordo e l’esempio di Wilma Monaco – “Roberta” vivranno imperituri negli anni a venire, si tributi ad ella l’onore ed il rispetto di tutto il proletariato rivoluzionario italiano!

NO ALLA LEGGE FINANZIARIA!

VIA IL GOVERNO CRAXI!

ONORE ALLA COMPAGNA WILMA MONACO – “ROBERTA”

CADUTA COMBATTENDO PER IL COMUNISMO

AVANTI CON LA LOTTA ARMATA PER IL SOCIALISMO!

Febbraio 1986

Unione dei Comunisti Combattenti

Campagna D’Urso – comunicato n. 3

Organizzare la liberazione dei proletari prigionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costruire e rafforzare i comitati di lotta. Chiudere immediatamente l’Asinara.

1. Combattere la censura di regime sui Comitati di Lotta (CdL) e la repressione sul programma dei Proletari Prigionieri (Pp).

I CdL sono le strutture di massa del potere proletario armato dentro le carceri.

Il programma di lotta sui bisogni dei Pp lanciato da questi organismi di massa, ha realizzato in questi anni la compatta mobilitazione di un vasto movimento. Innumerevoli ed incisivi sono stati i momenti di scontro realizzati per sconfiggere la criminale strategia della differenziazione.

Contrastare l’isolamento, impedire il genocidio politico di questa componente essenziale del proletariato metropolitano è parte integrante e irrinunciabile del Programma delle Br che punta alla riunificazione politica delle esperienze di lotta rivoluzionaria di tutto il proletariato. D’Urso e gli aguzzini come lui sono diretti responsabili della politica carceraria.

La gestione differenziata del trattamento, la capillare opera di distruzione dei livelli di organizzazione proletaria attraverso i trasferimenti, il regime del terrore con i pestaggi e la tortura, la distruzione dell’identità politica del prigioniero con l’isolamento, sono i cardini della filosofia imperialista dentro le carceri. Essi hanno trovato in D’Urso un macabro ed efficiente esecutore. Questo “buon padre di famiglia” era al vertice degli infami aguzzini preposti al genocidio delle centinaia di migliaia di proletari condannati da questo regime all’unico sistema di vita che sa offrirgli: la galera.

Combattere perché non esistano più le galere, perché non ci siano più proletari in catene vuol dire combattere oggi perché si estenda il potere proletario, si rafforzino i Comitati di Lotta, si esprima il Programma immediato dei Proletari Prigionieri.

Coloro che chiedono la liberazione del capo degli aguzzini D’Urso sappiano che non rinunceremo mai a sostenere il perseguimento del Programma del Proletariato Prigioniero. Sappiano che la censura e la repressione dei Comitati di Lotta del Proletariato Prigioniero deve immediatamente finire!!!

Questa esperienza appartiene all’intero movimento rivoluzionario e la sua legalità l’ha conquistata nella lotta; e quindi l’arroganza con cui questo regime si ostina a voler censurare, mistificare i Comitati di Lotta e il loro Programma è solo prova di ottusità che non ci è possibile tollerare.

2. Dopo la cattura di D’Urso stiamo scoprendo che l’Asinara non è di gradimento a nessuno. Non riusciamo a capire perché fino a venerdì 12 dicembre questo campo era invece quello prediletto. Ha sempre funzionato a pieno ritmo! A tal punto che vi hanno concentrato i più sadici carcerieri, vi hanno messo direttore quella specie di belva di nome Massidda che si è fatto un’esperienza di torturatore a Nuoro.

Le ridicole messinscene dei democratici da baraccone al servizio del regime Dc non ci riguardano; noi su questo piano non abbiamo che da ripetere ciò che il movimento dei Proletari Prigionieri da anni dice nella sua lotta: chiudere immediatamente e definitivamente l’Asinara!!!

3. Viene propagandato dalla stampa di regime un piano segreto, formidabile che i CC starebbero attuando. Questo piano non è affatto segreto. Ed ha anche un nome: tortura dei prigionieri comunisti. Gli sgherri dei Corpi Speciali stanno organizzando in grande stile l’applicazione di quello che hanno sperimentato sulla pelle di molti compagni nell’ultimo anno.

I “democratici” possono chiudere gli occhi di fronte agli assassini e alle sevizie di ogni genere subite dai compagni prigionieri, i rivoluzionari no. Ai tentativi di provocazione criminale, alle torture, risponderemo con la rappresaglia.

Per il comunismo. Brigate rosse

ROMA, 18-12-1980

Campagna D’Urso, comunicato n. 2

Organizzare la liberazione dei proletari prigionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costruire e rafforzare i Comitati di lotta. Chiudere immediatamente l’Asinara.

Ogni operaio, ogni proletario che non si arrende, che continua a combattere contro i padroni, per una società senza sfruttamento, pone la lotta per la distruzione delle carceri imperialiste al centro degli interessi della sua classe. Lo Stato borghese e il suo regime per sperare di sopravvivere deve assolutamente annientare qualunque espressione della lotta di classe. Dalla fabbrica, dai quartieri proletari deve essere cancellata ogni volontà di lotta, ogni presenza antagonista, ogni traccia di organizzazione proletaria. All’interno di questa strategia di controrivoluzione preventiva la borghesia assegna al carcere un ruolo fondamentale: annientare politicamente e fisicamente l’avanguardia del proletariato metropolitano, neutralizzare e rendere impotente una intera fascia di proletariato emarginato dalla produzione. Le contraddizioni di classe provocate dalla politica dei licenziamenti, della disoccupazione, della cassa integrazione, della miseria e mancanza di qualunque reddito per milioni di persone, trovano nella borghesia imperialista un’unica soluzione: rendere “scientifico” e sistematico l’imprigionamento e la deportazione di migliaia di proletari. Quando la borghesia vuota le fabbriche, riempie le galere. Quando vuole terrorizzare i proletari che si oppongono ai suoi piani, affida questo messaggio all’infame sistema dei campi di concentramento. Per far funzionare le sue fabbriche e mantenere il suo dominio, la borghesia deve fare funzionare a pieno ritmo le sue prigioni.

Il ritmo quindi con cui si realizzano i piani di Agnelli e dei suoi soci è scandito dalle ondate di proletari sbattuti in galera. I livelli di sfruttamento che riescono a realizzare sono misurabili con quanti compagni vengono arrestati. E’ chiaro quindi che è anche su questo fronte centrale della guerra di classe, il carcere imperialista, che la classe operaia deve combattere.

Una parte essenziale del proletariato metropolitano, il proletariato extralegale, su questo terreno negli ultimi anni ha sviluppato un grande movimento di lotta, che in ogni fase dell’attuazione del piano controrivoluzionario ha inceppato il meccanismo di annientamento carcerario. I Comitati di Lotta, organismi i massa proletari prigionieri, hanno elaborato un programma immediato su cui hanno realizzato il massimo della mobilitazione e del combattimento, con l’obiettivo di far fallire la strategia della differenziazione concentrando l’iniziativa nel distruggere il circuito dei campi speciali. Nei carceri speciali infatti, il potere crea di realizzare il massimo dell’isolamento e il massimo della deterrenza.

Due nomi per tutti: Palmi e l’Asinara.

Palmi è la gabbia completamente isolata dal mondo. E’ lì che il potere ha deciso di eliminare ogni possibile legame politico e fisico tra l’avanguardia comunista e il proletariato. E’ lì che si dovrebbe compiere il genocidio dei comunisti.

L’Asinara è il più infame dei campi speciali. E’ lo specchio fedele della barbarie imperialista. Esso rappresenta infatti il massimo della repressione e della disumana volontà di massacro di questo regime. Questo mostruoso luogo di tortura è il ricatto costante, la minaccia sempre presente, coi quali sperano di piegare la lotta dei proletari prigionieri. Ma la strategia differenziata, proprio per l’iniziativa di lotta dei proletari prigionieri non ha avuto successo. Al contrario sono sorti e si stanno rafforzando gli organismi di massa, che nella specificità delle carceri hanno assunto la forma dei Comitati di Lotta.

La reazione della borghesia di fronte a questo fatto di enorme importanza politica per tutto il proletariato, si può chiamare con un solo nome: paura. Paura che si è tradotta nella censura più completa sull’esistenza dei Comitati di Lotta, sulla loro elaborazione politica, nella repressione più feroce del loro programma di lotta. La realtà è che i Comitati di Lotta hanno guidato le lotte e le rivolte per la distruzione delle carceri in questi ultimi mesi esprimendo così uno dei punti più alti della lotta rivoluzionaria e realizzando nei fatti quella saldatura politica con le altre componenti del movimento rivoluzionario che tanto spaventa gli aguzzini imperialisti. Le Brigate Rosse nell’agire da partito, nell’azione di disarticolazione dello stato imperialista, catturando il capo degli aguzzini delle carceri, non perdono di vista neppure per un istante il movimento dei proletari prigionieri, e sapranno farsi carico del programma su cui è mobilitato. Nell’iniziativa di partito, costruire il Potere Armato vuol dire conquistare progressivi terreni di legalità rivoluzionari, dalla fabbrica alla galera, nel raggiungimento degli obiettivi del loro programma immediato, contribuendo in ogni modo a rompere la vile cappa di omertà e repressione con cui il nemico vuol coprire la loro voce. Un nostro compagno, Michele Galati è stato catturato a Mestre, sequestrato per giorni e giorni e sottoposto a torture così come è accaduto al compagno Maurizio Jannelli e a tutti gli altri militanti delle Organizzazioni Combattenti recentemente catturati. E’ chiaro a questo punto che la pratica delle sevizie e della tortura è il metodo prediletto generalizzato da questo regime. La responsabilità di tutto questo non è solo dei sadici massacratori in divisa, ma dei loro mandanti, dalle forze politiche alla stampa di regime. La lotta delle organizzazioni rivoluzionarie saprà rispondere agli uni e agli altri in modo esemplare. Questi luridi vermi si riempiono la bocca di formulette propagandistiche sui “diritti dell’uomo” che sono un insulto a quanto di più elementare attiene alla dignità dell’uomo. Stiano comunque tranquilli; noi siamo diversi da loro, molto diversi. Il prigioniero Giovanni D’Urso sta bene, ed ha modo di scoprire per esperienza diretta l’abisso che separa i comunisti dai torturatori di cui fa parte. L’interrogatorio a cui è sottoposto avviene con la sua piena collaborazione e sta mettendo in chiara luce le sue dirette responsabilità. Il ruolo da lui sin qui svolto nelle carceri non lascia dubbi, tutti i proletari prigionieri lo conoscono bene: boia ed aguzzino.

Onore a tutti i compagni caduti per il comunismo.

Brigate Rosse

Roma, 13-12-1980

Rivendicazione azione contro Marco Biagi

Il giorno 19 marzo 2002 a Bologna, un nucleo armato della nostra Organizzazione, ha giustiziato Marco Biagi consulente del ministro del lavoro Maroni, ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato, e di ridefinizione tanto delle relazioni neocorporative tra Esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, quanto della funzione della negoziazione neocorporativa in rapporto al nuovo modello di democrazia rappresentativa. Una democrazia “governante” che già accentrante nell’ultimo decennio i poteri nell’Esecutivo e nella maggioranza di governo ora con la riforma dell’articolo V della Costituzione (detta “federale”) vedrà ripartite competenze e funzioni agli organi politici locali entro i vincoli di indirizzo e di bilancio centralizzati e legati all’integrazione monetaria europea, con il fine di stabilizzare l’avviata alternanza tra coalizioni politiche incentrate sugli interessi della borghesia imperialista, sfruttando il restringimento della base produttiva nazionale non solo come vantaggio competitivo nei livelli di sfruttamento della forza-lavoro rispetto ai sistemi economici di altri paesi, ma come condizione per riadeguare il dominio della borghesia imperialista e rafforzarlo nei confronti delle istanze proletarie e delle tendenze al loro sviluppo in autonomia politica antistatuale e antistituzionale che nascono da queste condizioni strutturali.
Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana per la quale l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo, il neocorporativismo, l’alternanza tra coalizioni di governo incentrate sugli interessi della borghesia imperialista e il “federalismo” costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista.
Una progettualità politica che si costruisce e si sviluppa attraverso entrambi gli schieramenti politico-istituzionali e che misurandosi con i nodi generati dalle risposte di politica economica, di riforme strutturali e di rifunzionalizzazione dello Stato che sono state date negli anni passati per governare la crisi e il conflitto di classe, deve affrontare ora il contemporaneo maturarsi di questi processi per cui diventa decisiva la capacità di integrare organicamente i passaggi di questa duplice priorità che ha caratterizzato in generale le legislature degli anni ’90, pena l’indebolimento della capacità di governare le contraddizioni generate dall’approfondimento della crisi del capitalismo. Compito di una forza rivoluzionaria come le Brigate Rosse è attaccare questa progettualità e così incidere nello scontro politico tra le classi, in funzione di una linea di combattimento che in questa fase della guerra di classe deve riferirsi a obiettivi rivolti a produrre disarticolazione politica dello Stato e in cui si sostanzia l’agire da partito per costruire il Partito.
Con questo attacco le Brigate Rosse operano per spostare in avanti lo scontro tra le classi e collocano su un punto di forza la posizione degli interessi politici autonomi del proletariato, facendo così avanzare la linea politica sulla quale indirizzare lo scontro prolungato con lo Stato e l’imperialismo, che propongono alle avanguardie e al proletariato rivoluzionario e a tutta la classe.
L’azione riformatrice di Marco Biagi, esperto giuslavorista e delle relazioni industriali, rappresentante delle istanze e persino dei sogni della Confindustria, si è espressa nell’Esecutivo Berlusconi nelle responsabilità primarie ricoperte nell’elaborazione del “Libro Bianco”, nell’aver sostenuto le misure di abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e nell’essere promotore e conseguentemente incaricato del compito di guidare l’ apposita commissione governativa, che ne dovrà realizzare il definitivo superamento con lo “Statuto dei lavori” che adeguerebbe la regolazione dei rapporti di lavoro alle nuove condizioni di mercato, e cioè costituirebbe uno strumento normativo che, alludendo alla tutela dei nuovi lavoratori precarizzati, in realtà definisce le garanzie per i padroni nelle diverse forme di sfruttamento del lavoro salariato.

A dimostrazione del fatto che nelle nuove forme di democrazia governante le coalizioni politiche sono incentrate intorno agli interessi generali della borghesia imperialista, l’azione riformatrice di Marco Biagi si è espressa negli Esecutivi lungo tutto l’arco degli anni ’90. Già nel ’93 collaborava con il Ministro del Lavoro Giugni nel governo Ciampi per riformare la normativa sull’orario di lavoro, mentre nel ’96 nel governo Prodi come consigliere al medesimo ministero con Tiziano Treu, elabora il famigerato “pacchetto Treu” base dell’accordo neocorporativo tra Governo, Confindustria e Sindacato confederale con cui fu fatto il salto di qualità nelle varie forme di precarizzazione del lavoro salariato che hanno così violentemente inciso nelle condizioni materiali della classe operaia e del proletariato. Con lo stesso Esecutivo diventa consigliere del Presidente del Consiglio Prodi, mentre nel successivo Esecutivo D’Alema segue Treu al ministero dei Trasporti, e nel contempo è consigliere di Bassolino per gli affari internazionali e comunitari, veste nella quale presentò il Piano nazionale per l’occupazione in sede Ue e consulente anche alla Funzione pubblica con il ministro Piazza.
Non meno degna di nota è la sua responsabilità nel Patto di Milano, anticipazione del modello di mercato del lavoro e sociale che avrebbe voluto oggi generalizzare e con cui si è tentato di ritagliare il prezzo e le condizioni di impiego della forza-lavoro sulla base nuda e cruda della ricattibilità di condizioni sociali di dipendenza particolarmente svantaggiate, a prescindere e persino in contrasto con le condizioni di mercato locali della forza-lavoro, con cui veniva dimostrato in modo inequivoco come gli intenti odierni della borghesia non siano affatto riferibili alla ideologia liberista che segnò lo sviluppo del capitalismo, non sono rivolti a lasciare al “libero mercato” il rapporto tra capitale e lavoro, sciogliendolo da vincoli politici, ma sono tesi a disporne altri a proprio favore e a garanzia della subordinazione politica del proletariato.
Le responsabilità di Marco Biagi non si sono fermate a un piano nazionale, ma sono state assunte anche a livello internazionale. Ad esempio in sede Ue, dove è stato consigliere di Prodi alla Commissione europea, e membro di comitati ad hoc come il “Gruppo di alta riflessione sulle relazioni industriali” incaricati dalla Commissione stessa, per la riforma del mercato del lavoro e delle relazioni industriali e l’istituzione del “dialogo sociale”. Oppure in sede Onu, dove l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) per la quale è stato anche consulente per l’est europeo, con conseguenze che tutti possono immaginare per i livelli di sfruttamento raggiungibili in questi paesi dal capitale, l’ha incaricato di collaborare alla riforma del mercato del lavoro…per la Bosnia! Ciò segnala come la sua iniziativa corrisponda agli interessi del padronato italiano non solo nell’ambito nazionale, ma anche nei paesi recentemente integrati nella catena imperialista anche forzosamente con l’occupazione militare.
L’azione dell’Esecutivo con il Libro Bianco, le deleghe e lo Statuto dei lavori è tesa a realizzare un progetto di riforma a carattere complessivo che collegata a quella sulla previdenza, e alla prevista attribuzione del tfr dei nuovi assunti alla previdenza integrativa, realizza quello “scambio” tra tfr e competitività da tempo richiesto dai padroni.
Il Libro Bianco non interviene solo sul mercato del lavoro, sul collocamento, sulle tipologie contrattuali, ma anche sul diritto di sciopero proponendo l’indizione di referendum per deciderne l’attuazione, sull’azionariato dei dipendenti, sui comitati aziendali europei, sugli ammortizzatori sociali, sulle controversie di lavoro. Una riforma che avrebbe dovuto riguardare l’intera legislatura e avere, nelle intenzioni dell’Esecutivo, come meta la scrittura di uno “Statuto dei lavori” in sostituzione dello Statuto dei lavoratori, passaggio che invece, a causa delle dinamiche dello scontro, è stato successivamente anticipato.
Il modello sociale prefigurato da Marco Biagi era quello di una “società attiva”, in cui ogni giovane lavoratore attraverso il percorso a ostacoli dell’apprendistato, del contratto a termine, dei vari tipi di contratto precario, delle politiche attive del lavoro e della formazione nei periodi di disoccupazione, del contratto a tempo indeterminato ma senza la tutela dell’art. 18, realizzi una “carriera educativa” nella quale si forma in piena “autonomia”, quella generabile dalla spinta del bisogno dei mezzi per vivere, spinto quindi dal ricatto dell’assenza di alternative insito nella “natura delle cose” ossia i rapporti sociali capitalistici, secondo i voleri e i desideri del capitale, o se si vuole in funzione della propria sfruttabilità o “occupabilità” da parte del padrone, abbandonando ovviamente ogni velleità di conflitto e ogni pratica antagonista, appoggiato in ciò da “tutori” come le agenzie interinali, il collocamento privato e pubblico, le agenzie di formazione, i collegi di conciliazione e arbitrato etc., e nel quadro dei vari patti territoriali, andando a costituire così la principale garanzia per la competitività del capitale investito in Italia, in quanto ciò che risulta essere “filtrato” da questo processo e procedura è la forza-lavoro più “adattabile” alle esigenze di valorizzazione del capitale, senza rischi di autoritarismi inutili e dannosi.
Il progetto del Libro bianco, insieme alla riforma della previdenza, al nuovo ruolo delle Regioni e degli enti locali, alla privatizzazione del collocamento e dell’assistenza, fa fare un salto alle relazioni politiche tra le classi, approfondendone e complessivizzandone il contenuto corporativo. Il “dialogo sociale” supera l’aspetto della “concertazione” come dialettica non conflittuale tra le parti tesa a comuni obiettivi programmatici perseguiti in funzione della competizione, e organizza un sistema di relazioni sociali che lega forzosamente la condizione del lavoro salariato alla competitività del capitale, un dato che spiega in parte la resistenza sindacale a fronte della maggioranza di governo che assume tale iniziativa politica, che non garantisce come avrebbe potuto fare il centro-sinistra che ha un legame elettorale con parte del sindacato confederale, la preservazione di un peso politico.
In sostanza ciò a cui si relazionano tanto il Libro Bianco che lo Statuto dei Lavori è il livello di crisi a cui è pervenuto il capitale che obbliga la borghesia imperialista, e ciò gli è consentito dai rapporti politici determinatisi in Italia negli ultimi 20 anni tra le classi, a ridefinire i termini dello sfruttamento e di governo del conflitto di classe, in modo tale da recuperare margini di profitto e prevenire l’esplosione del conflitto tra interessi che si polarizzano sempre di più, a fronte di una base produttiva che invece si contrae, processo che come hanno dimostrato i trent’anni trascorsi, non c’è politica economica che possa invertire.
In questo quadro per un’economia come quella italiana debole e sottoposta tanto alla concorrenza dei monopoli più forti europei e americani quanto a quella dei “paesi emergenti”, diventa necessario riorganizzare le relazioni sociali nelle quali gli interessi antagonisti delle classi si contrappongono.
Una riorganizzazione che deve essere operata in funzione:
1) dell’obiettivo della competitività del capitale, attraverso politiche rivolte non solo alla regolazione al ribasso del costo del lavoro, ma anche all’organizzazione del mercato del lavoro rivolta a rendere l’esercito industriale di riserva non solo un fattore di pressione sul prezzo della forza-lavoro ma un fattore forzoso (le politiche “attive”) di capacità competitiva del sistema economico sociale.
2) della strutturazione di forme di rapporto sociale idonee non solo a rendere “flessibili” i fattori produttivi “umani”, cioè la forza-lavoro, ma anche a rimodellare il conflitto per prevenirne la caratterizzazione di classe, tramite le nuove condizioni contrattuali e normative tese a costituire un terreno di selettività progressiva e individualizzata dell’accesso al lavoro salariato. Le diverse posizioni e i diversi percorsi contrattuali compresenti nello stesso ambito lavorativo, dovrebbero costituire una garanzia per schierare intorno agli interessi padronali alla competitività quelli operai e dei lavoratori, d’altra parte proprio queste differenze e l’arretramento che costituiscono per le condizioni della classe inducono all’indirizzamento delle rivendicazioni economico-sociali verso obiettivi generali, e il sindacato confederale a recuperare un equilibrio attraverso battaglie sui “diritti”, apparentemente universali in quanto diritti, in realtà nella loro “esigibilità” correlati alle differenti condizioni di competitività aziendale o territoriale nonostante lo sfoggio di posizioni egualitariste professate oggi da Cofferati. Esempio palese è il superamento della condizione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’attuale legittimazione e integrazione stabile nei rapporti di lavoro di quello a tempo determinato, che ha indotto la definizione da parte sindacale di una battaglia sui diritti differenziata per i lavoratori a termine che contribuisce a stabilizzare questa forma di sfruttamento e a subordinare le istanze di classe a quelle del padronato, dal momento che ottenere delle tutele relative alle forme attuali della valorizzazione capitalistica è coerente con la costruzione di un sistema economico competitivo, mentre porre al centro istanze di classe e gli obiettivi che le rappresentano, richiederebbe di instaurare un rapporto di forza generale con cui imporre l’autonomia di classe rispetto alle istanze del capitale.
3) della rimodellazione, su queste basi sociali, della rappresentanza politica e sociale correlativamente ai processi di esecutivizzazione oggi necessari nel governo della crisi e del conflitto articolandola in dimensioni localizzate e tra loro, a loro volta competitive (col supporto dei necessari strumenti di coercizione e repressione), presupposto questo tanto della riforma dello Stato in senso “federale” che della tenuta del fronte interno rispetto all’impegno bellico costante dello Stato.
La compenetrazione tra pubblico e privato nei settori della istruzione, della sanità, dell’assistenza etc. con un maggior ruolo delle fondazioni, del terzo settore…, dà una base economica e sociale concreta a questo disegno politico, come pure gliela dà l’ulteriore trasformazione del sindacato confederale in associazione di iscritti, ai quali fornisce essenzialmente “servizi”, e non più ruolo di organizzatore del conflitto con il capitale. In questa direzione va anche la normativa sui comitati aziendali delle multinazionali europee definita al vertice di Nizza, e che prevede almeno il “diritto di informazione” per le rappresentanze dei lavoratori di queste aziende, come livello minimo di cooptazione cogestionaria, come pure l’azionariato aziendale come modo di remunerazione dei dipendenti delle fasce alte, e l’impiego del tfr per la previdenza integrativa privata, tutti elementi che tendono a ridefinire il ruolo del sindacato su basi materiali di corresponsabilizzazione nei profitti aziendali, a farne un soggetto economico che “vende” contrattazione, e a legare più organicamente alle aziende la componente di forza-lavoro maggiormente qualificata, un aspetto questo che va a modificare i caratteri dell’aristocrazia operaia.

Il governo Berlusconi ha in generale impostato e gestito il suo indirizzo programmatico qualificando come aspetto prioritario l’approfondimento del processo di complessiva ristrutturazione e riforma del sistema economico sociale articolando su tempi necessariamente lunghi i passaggi rivolti a dare attuazione alla riforma del titolo V della Costituzione. Rispetto a questo punto la coalizione di governo ha una sua base programmatica che ha come terreno di unità politica l’attuazione di una riforma della forma dello Stato e del governo da combinare con l’avanzamento del processo di ristrutturazione economico-sociale. La capacità di realizzare queste riforme avrebbe costituito un punto di forza per consolidare il sostegno di tutti i settori confindustriali e contenere la vulnerabilità di una maggioranza coesa dalla figura del capo del governo Berlusconi caratterizzata dall’anomalia di concentrare interessi capitalistici e politici, vulnerabile perciò all’iniziativa della concorrenza e dell’opposizione, anche attraverso le molte occasioni offerte all’iniziativa giudiziaria.
Rispetto alla negoziazione neocorporativa in specifico, l’equilibrio di governo aveva trovato nel Patto di Milano e nel Patto della Lombardia le sue sperimentazioni. Già il governatore della Banca d’Italia Fazio e in parte anche la Cisl avevano espresso, nei primi mesi della legislatura, i contenuti politici di una linea di aggiornamento della negoziazione neocorporativa: i cardini riguardavano l’accentuazione del livello aziendale e territoriale della contrattazione, la partecipazione azionaria dei dipendenti, le modifiche rispetto al mercato del lavoro in direzione di una maggiore flessibilità, la diversificazione delle regole del mercato del lavoro in relazione alle diverse condizioni soggettive e territoriali e l’estensione della gestione privata del mercato del lavoro (estensione delle competenze delle agenzie interinali per fargli assumere il ruolo di agenzie di collocamento etc..).
Ciò non ha impedito che l’avvio di queste riforme fosse attraversato da contraddizioni e illinearità data la forzatura che costituiscono nei rapporti con la classe e anche per la contingenza delle scadenze politiche ravvicinate delle elezioni amministrative per le quali la coalizione di opposizione sta impostando un’alternativa progettuale imperniata sulla difesa dei diritti e della legalità, che la riproponga come polo credibile di alternanza alla guida del governo; contraddizioni e illinearità che segnalano la vulnerabilità dello Stato nell’azione rivolta a costruire la sua capacità di governo degli antagonismi tra le classi e la delicatezza del passaggio politico in atto.
L’azione di governo si è prefissa di superare la concertazione come “metodo per governare” che appariva ricercare l’accordo tra tutte le parti, che vedeva la negoziazione neocorporativa aggregare il sindacato confederale nelle decisioni di politica economica e costituire l’alternativa al conflitto escludendolo e marginalizzandolo, relativamente, come rapporto tra padronato e lavoratori e tra Stato e classe nelle materie prerogativa dello Stato riguardanti la regolazione del mercato del lavoro, dei rapporti contrattuali e le erogazioni sociali. Questo accompagnava la fase di passaggio dalla prima alla seconda repubblica ed era funzionale a destrutturare la democrazia parlamentare e il modo in cui si era realizzata la rappresentanza politica nei decenni passati, per costruire l’alternanza e una democrazia governante; ciò necessitava infatti il depotenziamento delle istanze antagoniste presenti nel conflitto di classe e il loro sradicamento dallo scontro politico in modo che questo ne fosse sterilizzato consentendo agli schieramenti politici contrapposti di misurarsi per la capacità di rappresentare gli interessi della borghesia imperialista aggregando interessi sociali particolari intorno al programma di governo. La “concertazione” entra in crisi manifesta con il governo D’Alema, per la resistenza che suscitavano nella classe le misure antiproletarie che ne giustificavano il ruolo politico, e per la particolare difficoltà a produrre le ulteriori trasformazioni per le quali premeva la Confindustria. In questo quadro era inserita l’iniziativa del 20 maggio contro Massimo D’Antona della nostra organizzazione che incideva nello scontro politico indebolendo l’azione dell’Esecutivo, che dovette riadeguarsi non solo perché non poteva più contare sul contributo antiproletario qualificato dell’elaboratore di quel passaggio, ma anche perché doveva trovare il calibramento politico giusto, che evitasse di alimentare saldature tra il conflitto di classe e un’opzione rivoluzionaria considerata solo un’amaro ricordo. La borghesia imperialista non abbandona i suoi obiettivi, ma solo la coalizione di centro-sinistra dimostratasi incapace nonostante tutti i buoni propositi di realizzare il suo programma, e il nuovo governo Berlusconi sperimenta il superamento della concertazione su un piano nazionale, all’inizio della legislatura, con l’avviso comune di Cisl Uil e Confindustria sulla direttiva comunitaria sui contratti a termine, avviando quel dialogo sociale che diventa il modello di relazioni neocorporative da realizzare per questo governo, con cui normalizzare e funzionalizzare anche questo piano di relazioni politiche all’alternanza, costruendo un rapporto tra questa maggioranza e parte dei sindacati confederali, e nel contempo ottenendo anche il ridimensionamento del peso politico della Cgil e l’indebolimento del centro-sinistra e in particolare dei Ds a cui è legata. Ciò che si è dimostrato è che le istanze di competizione delle componenti confindustriali nel quadro dei livelli di crisi presenti e rispetto alle prospettive di allargamento europeo, hanno premuto affinchè fossero realizzate da subito delle forzature che rompessero i vincoli preesistenti come garanzia che in tempi politici programmabili si pervenisse alla indispensabile rimodellazione delle relazioni sociali coronamento di anni di logoramenti e destrutturazioni delle posizioni del proletariato; un’istanza che almeno in parte si è saldata con gli interessi politici di questo governo, ma che ha alimentato un conflitto senza riuscire a conseguire linearmente nè l’istituzione del dialogo sociale nè lo stringimento del rapporto politico da parte di questa maggioranza con parte del sindacato confederale. La rinnovata determinazione del governo a fronte delle scadenze della mobilitazione e della catalizzazione delle posizioni sindacali intorno ad esse, segnala il livello raggiunto dallo scontro, il problema di come incidervi per parte del proletariato, e l’importanza della posta in gioco che non risiede nelle deroghe all’articolo 18, ma nella modificazione dei rapporti di forza con la classe proletaria che può consentire di avviare la rimodellazione sociale e politica.
In relazione a questo quadro l’attacco portato dalle Br, nella figura di Marco Biagi, alla progettualità politica della borghesia imperialista, si colloca nella contraddizione dominante tra classe e Stato e sull’asse programmatico dell’attacco allo Stato e si dialettizza con le istanze di potere espresse dalla lotta di classe per l’affermazione dei suoi interessi generali contro quelli della borghesia imperialista, sancendo nella pratica la necessità e realizzabilità di una prospettiva rivoluzionaria politica e sociale.
Il proletariato e la classe operaia in questa fase politica non sono disposti nello scontro perseguendo autonome finalità rivoluzionarie, né sono quindi organizzati in strutture adeguate a praticare e sostenere la guerra necessaria. Il proletariato si misura con le forzature della classe dominante, con l’obiettivo di resistervi e con l’aspirazione a conquistare posizioni sociali e politiche più avanzate e utilizza per mobilitarsi gli strumenti organizzativi che trova a disposizione, essenzialmente gli apparati sindacali. Fa i conti quindi con la capacità che ha lo Stato di sostenere la sua lotta, e di assumere le decisioni volute pur a fronte di ampie e determinate mobilitazioni; in questo misura i rapporti di potere e di forza che ci sono tra sé e lo Stato, tra gli strumenti che usa lo Stato e quelli che trova a disposizione per sè, misura la mancanza di potere e la realtà del potere contro i suoi interessi generali, oggi rivolta a erodere gli ultimi baluardi di un rapporto politico e di forza ottenuto in un secolo di dura e sanguinosa lotta e a rimodellare le relazioni sociali e politiche per consolidare un rapporto di subalternità.

E’ la posta in gioco di questo scontro che rinvia al nodo di un’alternativa complessiva, di un’alternativa rivoluzionaria, nella quale l’emancipazione politica apra la strada al progresso sociale, ed è l’attacco delle Br portato oggi alla figura politica di Marco Biagi, in continuità con la prassi rivoluzionaria espressa in 30 anni di attività e in grado di misurarsi con le trasformazioni subite dalla mediazione politica tra le classi, che fornisce l’orientamento politico e strategico in cui questa prospettiva è realizzabile e può essere fatta avanzare. Una prospettiva in cui il combattimento contro lo Stato e la sua progettualità antiproletaria e controrivoluzionaria è modalità generale della prassi rivoluzionaria d’avanguardia per trasformare lo scontro di classe in guerra di classe necessariamente prolungata contro lo Stato e l’imperialismo e non ha una funzione tattica più o meno decisiva in supporto a una azione politica sviluppata separatamente dal piano militare, ma è carattere generale della prassi rivoluzionaria che qualifica la proposta della Br come Strategia della Lotta Armata che avanzano a tutta la classe per conquistare il potere e instaurare la dittatura del proletariato.
Il contesto politico complessivo e internazionale in cui l’attacco è inserito, è connotato dal livello più profondo raggiunto dalla crisi e dalla tendenza alla guerra, fattori che costituiscono il motore strutturale dei processi di trasformazione rispetto ai quali deve definirsi ogni progettualità politica e i cui passaggi odierni sono l’approdo di un processo che origina dalla crisi subentrata alla ricostruzione post-bellica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 e che portò al progressivo superamento del sistema di produzione fordista che, nato a cavallo tra le due guerre mondiali ed estesosi in Italia nel dopoguerra, era sostenuto da una politica economica statale, nella quale peraltro prese piede il welfare state e termini specifici di governo del conflitto di classe oggi materia di riforme economico-sociali.
Negli anni ’80 a seguito di una vasta controrivoluzione imperialista avviata dagli Stati Uniti, la catena si è andata compattando intorno al riarmo in atto nel polo dominante che per primo e più degli altri paesi, investito dalla crisi a causa dei più alti livelli di concentrazione e centralizzazione capitalistica che ne caratterizzano l’economia, necessitava di una politica economica che facesse da volano che potesse produrre un salto nel modello produttivo e della sua capacità di estrazione di plusvalore relativo, che riavviasse l’accumulazione capitalistica, e su un piano più militare operasse una pressione sul blocco contrapposto e mettesse in grado di forzare l’assetto degli equilibri internazionali attraverso il rinnovato attivismo politico-militare, la cui posta in gioco finale per la catena imperialista a dominanza Usa era ridisegnare la divisione internazionale del lavoro capitalistica a proprio vantaggio.

Gli Usa finanziarono il riarmo con una politica di alti tassi di interesse e dollaro forte, con la quale attrassero capitali da tutto il mondo e incrementarono oltremodo il loro livello di indebitamento. Indebitamento che oggi, che è stata abbandonata la politica di attivo di bilancio per una spesa volta a creare una domanda aggiuntiva per l’economia in recessione e per alimentare il riarmo con cui sostenere Enduring Freedom e riattrezzare l’apparato militare alle nuove necessità determinate dallo stadio raggiunto dalla guerra imperialista, mostra le sue implicazioni, coniugandosi con la crisi delle banche giapponesi e con la possibilità che queste per ripianare i bilanci realizzino fondi vendendo obbligazioni pubbliche Usa generando una pressione ribassista sul dollaro o una necessità di rialzare i tassi di interesse, gravando così sugli squilibri dell’economia internazionale e sulle prospettive della recessione mondiale.
Il crollo politico del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica e il generale arretramento dei processi rivoluzionari e delle lotte di liberazione hanno portato al mutamento degli equilibri internazionali a favore della catena imperialista e hanno rafforzato la dominanza in essa del polo statunitense; ciò avviene però senza una guerra generalizzata e prolungata come la prima e la seconda guerra mondiale, che distruggendo masse ingenti di capitale e di forze produttive sovrapprodotte rispetto ai livelli di crisi raggiunti dal capitale stesso, facesse ripartire un ciclo espansivo a partire dal grado di concentrazione e centralizzazione capitalistica presente ma da un livello di accumulazione complessiva adeguatamente ridotto. Si è invece sviluppato un processo di penetrazione capitalistica e di integrazione economica relativa degli ambiti con economie socialiste pianificate, sostenuto dagli Stati dominanti della catena imperialista, nel quale è stato instaurato un rapporto di dipendenza di tipo peculiare, essendo queste economie industrializzate, non assimilabili a quelle del sud del mondo ma nemmeno a quelle capitalisticamente avanzate, e che ha portato alla loro destrutturazione e spoliazione economica e al crollo verticale delle condizioni di vita della popolazione ampiamente al di sotto dei livelli di sussistenza storicamente determinatisi, condizione che ha spinto migliaia di persone all’emigrazione in occidente, ed entro cui ha trovato spazio persino l’intervento politico europeo-occidentale volto a definire le linee di riforma del mercato del lavoro in quei paesi, più confacenti a realizzare livelli di sfruttamento profittevoli.
In generale questo esito ha indotto l’ulteriore e crescente drenaggio di risorse dai paesi dipendenti mentre il rafforzamento ottenuto negli equilibri internazionali dalla catena imperialista e dal suo polo dominante, hanno aperto la strada a una maggiore proiezione ed intervento bellico degli Usa e dei suoi alleati con cui l’imperialismo ha potuto sostenere i propri interessi militarmente o con la propria capacità di ricatto economico-politico e militare.
L’ulteriore concentrazione e centralizzazione capitalistica, l’incremento dello sfruttamento del lavoro salariato, le risposte di politica economica ristrutturatrici e riformatrici o anticicliche date alla crisi, e le posizioni di vantaggio negli equilibri internazionali della catena, non hanno affatto annullato la crisi e le sue cause, ma anzi proprio i livelli più elevati di accumulazione e l’ulteriore internazionalizzazione del capitale le ha potenziate, in quanto queste sono intrinseche al meccanismo di esistenza del capitale, al meccanismo dell’accumulazione, alla sua propria natura, non sono cause esterne.
Questo dato strutturale è ciò che con il finire degli anni ’90 fa arretrare l’economia in un nuovo ciclo recessivo nel quale sono messe a nudo le contraddizioni in cui si muove il capitale monopolistico e la borghesia imperialista. Tutte le principali aree capitalistiche sono in crisi contemporaneamente manifestando fenomeni diversi e che possono alimentarsi a vicenda: gli Usa che hanno fatto da locomotiva mondiale per dieci anni sono esposti agli alti livelli di indebitamento e di capacità produttiva inutilizzata, il Giappone che è la seconda economia al mondo è in recessione da anni (solo nel 2001 ha avuto un calo del pil del 4,5%), subisce una deflazione galoppante e dovrà arginare il crack delle sue banche, in Germania la recessione va a premere sulla produzione industriale provocandone cadute verticali e sminuendone il peso nella coesione europea proprio mentre l’imminente allargamento ad est avrebbe dovuto vedere una sua solida funzione di perno, un paese come l’Argentina che ha osservato alla lettera i dettami impostigli dal Fmi, si è avvitato in una crisi economico-finanziaria senza vie di uscita prevedibili. Persino un paese come l’Arabia Saudita che ha avuto una funzione centrale nel sostenere le spese di guerra degli Usa, le vendite delle sue industrie militari e le necessità strategiche dell’imperialismo, ha subito il crollo verticale del reddito pro-capite ed è scosso da crisi politica, a causa della presenza delle truppe Usa e delle trasformazioni sociali imposte dalle riforme economiche indirizzate alla privatizzazione dei settori produttivi e all’internazionalizzazione del capitale. A ciò si aggiungono i livelli di miseria diffusi nel sud del mondo e quelli che attanagliano l’ex-campo socialista, e che si approfondiranno in Cina con il suo ingresso nel Wto, che accompagnano il loro “sviluppo” capitalistico.
Un quadro che riconferma l’attualità e approfondimento delle cause che generano la necessità storica del superamento del modo di produzione capitalistico e del dominio della borghesia imperialista e che indica come il completo abbandono della transizione socialista nei paesi che per primi hanno realizzato la rottura rivoluzionaria, per l’apertura e l’instaurazione di un sistema capitalista, non è che una battuta di arresto nel processo storico della rivoluzione comunista, rispetto a cui il proletariato, avendone fatto esperienza, può riadeguare i termini della conduzione del processo rivoluzionario, quanto che l’imperialismo manifesta sempre più diffusamente punti di vulnerabilità storicamente determinati e determinabili intorno ai quali si può elaborare la strategia rivoluzionaria e condurre lo scontro rivoluzionario.
Il fatto che i sovrapprofitti del capitale risultanti dall’approfondimento dello sviluppo ineguale non si siano realizzati lasciando invariate le condizioni del lavoro salariato del proletariato metropolitano negli Stati imperialisti, anzi parallelamente siano stati approfonditi tutti i termini dello sfruttamento relativi e assoluti, dimostra empiricamente sia che il proletariato metropolitano occidentale non è aggregato alla borghesia imperialista nell’avvantaggiarsi di questi sovraprofitti, sia che l’incremento dello sfruttamento con cui il proletariato è chiamato a sostenere la competitività del capitale, non solo non è una soluzione alla crisi del capitale né definitiva né temporanea, non potendo che consentire la tenuta relativa e transitoria del singolo capitale sul mercato, ma converge ad approfondirne le cause che risiedono nel meccanismo di accumulazione del capitale, che proprio perché il capitale aumenta mentre proporzionalmente il lavoro vivo sfruttato diminuisce, periodicamente e in misura sempre maggiore non riesce più a valorizzarsi e a garantire la tenuta delle forze produttive.
Sul piano degli equilibri internazionali la catena imperialista formata a partire dal secondo dopoguerra intorno al polo dominante statunitense su livelli di internazionalizzazione del capitale e di integrazione ed interdipendenza delle economie crescenti, ha maturato progressivi passaggi di avanzamento della tendenza alla guerra lungo la direttrice est/ovest che non assumono per tutta una fase carattere di guerra generalizzata ma di conflitti limitati e altamente distruttivi per i paesi aggrediti dall’imperialismo, nel quadro di schieramenti variabili intorno all’Alleanza occidentale e di disposizioni articolate nei compiti bellici relative al complesso di condizioni politiche militari ed economiche di ogni Stato. Gli anni ’90 già sono stati caratterizzati dal ripetersi di guerre di aggressione espressione dell’azione della catena imperialista rivolta a ridisegnare gli equilibri internazionali e a riorganizzare la divisione del lavoro. In questo processo gli Stati imperialisti sono impegnati ad attivizzarsi per sostenere il proprio capitale monopolistico, e dato il carattere integrato e interdipendente della catena anche a concordare politiche comuni. Questo processo di ridefinizione ed espansione delle aree di influenza non è però risolutivo delle cause della crisi capitalistica, come è empiricamente dimostrato dalle condizioni stagnanti dell’economia mondiale e dall’incapacità sempre maggiore del capitalismo di assorbire le forze produttive crescenti. Un nuovo ciclo espansivo richiederebbe un’ampia distruzione di capitali e mezzi di lavoro realizzabile con una guerra imperialista di grandi proporzioni per la quale finora non ci sono state le condizioni politiche né militari, perciò nella fase attuale l’imperialismo è in grado di sostenere livelli di crescita dell’economia essenzialmente nel polo dominante e sviluppa politiche e iniziative rivolte ad attrezzare gli Stati della catena per far avanzare ulteriori fratture degli equilibri internazionali a proprio favore, con una strategia articolata che contrasta l’opposizione dei popoli che cercano di sottrarsi al giogo imperialista e con manovre destabilizzatrici tende a sottomettere quei paesi che presentano modelli economici e sociali non integrabili in quanto tali nella divisione del lavoro capitalistica, oppure la cui posizione politica fosse disfunzionale alla strategia imperialista.
E’ in questo quadro che sono comprensibili tanto la natura del processo di coesione politica europea, che ha come motore lo sviluppo dei capitali monopolistici, quanto le politiche di allargamento a est della Nato e della Ue ed il processo di riadeguamento degli strumenti militari e controrivoluzionari in atto in tutti gli Stati imperialisti pilotati dalla iniziativa di riarmo e di aggressione statunitense, e se ne possono individuare le linee di sviluppo e i passaggi di qualità.
Sono infatti i fattori strutturali storici di integrazione della catena imperialista che spingono a salti di qualità in direzione dell’approfondimento della coesione politica europea e al riarmo e riadeguamento militare e controrivoluzionario dei paesi dell’Europa occidentale. La direzione di questi passaggi di qualità, stanti le diseguaglianze di sviluppo interno e le contraddizioni della gerarchia della catena imperialista, e a fronte dell’integrazione dei paesi dell’Est europeo nella Nato e nella Ue, va a fare dell’approfondimento della coesione politica, un processo che si sviluppa prevalentemente sul piano della riforma delle sue istituzioni e su quelli della costruzione di comuni indirizzi di politica economica spinti dall’integrazione monetaria, della definizione di politiche e di strumenti controrivoluzionari e repressivi, mentre il riarmo e il riadeguamento militare complessivi si misurano con i concreti sviluppi della guerra imperialista e dell’iniziativa assunta dal polo dominante statunitense.
Il piano delle politiche controrivoluzionarie e repressive è stato tra i primi ad essere sviluppato per contrastare la guerriglia rivoluzionaria operante in Europa occidentale, poi proceduto con gli accordi di Schenghen e sullo spazio giuridico europeo, con la creazione di forze di polizia integrate etc.. Con il recente mandato di cattura europeo e le liste di organizzazioni rivoluzionarie e in generale antimperialiste, integrate con la definizione di criteri di discriminazione delle attività possano essere identificate come minaccia terroristica, e che includono forme di opposizione tra le più varie, si è aperta la strada ad un’amplissima discrezionalità funzionale anche al necessario calibramento della repressione alle diverse condizioni politiche e giuridiche degli Stati europei, si è infine esteso all’intero ambito europeo quanto già consolidato in paesi come l’Italia in materia dei cosiddetti reati associativi con cui lo Stato identifica dei nemici politici e li combatte in quanto tali e non si limita a perseguirne le specifiche attività a cui i codici penali attribuiscono valenza di reato.
Un filo nero lega le disposizioni del codice Rocco, che perseguivano un reato di sovversione che la qualificava con i contenuti politici della rivoluzione proletaria, segno della maturità politica che aveva raggiunto il proletariato che faceva sì che il codice penale potesse mettere per iscritto in che cosa consisteva la sovversione politica, e che poi sono state mantenute in vigore dal ministro della giustizia Togliatti nell’immediato dopoguerra, fino al recente allungamento dei termini di carcerazione preventiva per il reato di associazione sovversiva realizzato dal governo Amato con l’appoggio politico di R. C., e alla estensione del principio di sovversione in ambito U.e. sotto la definizione di terrorismo, generalizzato a qualsiasi fenomeno antiistituzionale, esplicitando la sostanza politica della futura carta europea dei diritti fondamentali.
Un piano di nodi e politiche, quindi, più che mai centrale nel catalizzare l’interesse comune degli stati imperialisti europei, che può supportare il governo del conflitto di classe all’interno dell’Europa occidentale accompagnando le riforme strutturali, e arginare e comprimere lo sviluppo delle tensioni nei paesi dell’est derivanti dai riflessi della crisi e dall’integrazione nell’Ue, verso la contrapposizione al dominio occidentale. Tale piano oggi si coniuga anche con le istanze più generali della catena di elevamento dei livelli e di rafforzamento degli strumenti della controrivoluzione imperialista per riadeguarli al livello di minaccia potenziale dell’opposizione che l’imperialismo suscita contro il suo dominio.
L’attacco alle linee di costruzione della coesione europea, alle linee del suo approfondimento, nella loro funzione antiproletaria e controrivoluzionaria, qualifica un punto di programma su cui costruire forze rivoluzionarie nell’area europee e prospettare alleanze nel quadro di un fronte combattente antimperialista, in quanto l’approfondimento della coesione europea e l’attuazione delle sue politiche è parte integrante della strategia della borghesia imperialista per governare la polarizzazione degli interessi divaricati dai livelli di crisi che il capitale raggiunge e per compattare e mobilitare gli Stati imperialisti nella proiezione bellica, per ridefinire la divisione internazionale capitalistica del lavoro, e rinsaldare il dominio imperialista.

La dinamica della crisi che spinge l’imperialismo all’integrazione di nuovi ambiti economici per il loro sfruttamento, genera dunque una tendenza alla guerra che si muove e si muoverà sulla direttrice est/ovest perché è verso le aree dell’est Europa e dell’Asia centrale che l’imperialismo deve indirizzare il suo espansionismo aprendo conflitti con gli interessi antagonisti. Un movimento, che spinto dalla naturale dinamica del capitale, non si instrada dunque, come nelle prime guerre imperialiste verso lo scontro militare tra Stati imperialisti che sono oggi ambiti attraversati dalla internazionalizzazione del capitale che ha creato profonde condizioni di integrazione e interdipendenza delle economie e in cui si è formata una frazione dominante di borghesia imperialista, espressione di un capitale monopolistico multinazionale aggregato al capitale finanziario Usa e intorno a cui ruotano tutte le altre frazioni di borghesia imperialista.
Negli anni ’90 la guerra all’Iraq, la destabilizzazione e poi la sottomissione e occupazione dei Balcani, e gli accordi di Oslo per realizzare la normalizzazione del Medioriente, dovevano costituire nella strategia Usa e occidentale altrettanti passaggi di avanzamento e di consolidamento delle posizioni della catena imperialista che ne avrebbero spostato in avanti gli obiettivi strategici, in quanto proprio l’area mediterranea-mediorientale, costituendo uno snodo degli equilibri strategici tra est e ovest diventava, mutati gli equilibri, da terreno di forzature tese a erodere le posizioni dell’avversario, terreno di conquista di posizioni più avanzate nel confronto a est, da parte della catena imperialista.
Le contraddizioni innescate da questi stessi passaggi sono i fattori che indicano la dimensione della contrapposizione che possono suscitare gli interessi e le spinte dell’imperialismo a cui vanno ascritte le cause dei conflitti collocati su questa direttrice, e in particolare: la resistenza dell’Iraq alla continua aggressione imperialista che ha obbligato gli Stati Uniti all’insediamento militare in Arabia Saudita, la resistenza afgana alle pressioni statunitensi da tempo esercitate per ottenerne la sottomissione e garantirsi il controllo strategico del paese, corridoio naturale dell’Asia centrale e infine la resistenza palestinese alla sottomissione all’entità sionista, reale contenuto dei patti di Oslo che nel medio periodo hanno alimentato la lotta di liberazione. Una lotta che gli Stati Uniti vorrebbero contenere oggi spingendo gli Stati arabi a un riconoscimento di “Israele” per legittimarne l’azione militare che, a maggior ragione a fronte del livello elevato raggiunto dallo scontro, fungerebbe da autorizzazione al genocidio costituendo una precondizione di governo dell’area per scatenare l’offensiva all’Iraq.
In questo quadro l’attacco dell’ “11 settembre” ha rappresentato un concreto elemento di contrasto della strategia imperialista, ne ha dimostrato la vulnerabilità, l’ha costretta a modificarne piani e passaggi, senza poter ovviamente farne venire meno gli interessi strategici su cui si muove. L’intera catena imperialista si è dovuta misurare con le implicazioni possibili del rapporto di sfruttamento e oppressione che ha istituito e approfondito, con quelle della sua costante azione di aggressione, che si attrezzava e si apprestava ad intensificare con i progetti di scudo antimissilistico rilanciati da Bush, con quelli di riarmo e di costruzione di una forza di rapido intervento europeo, con la propaganda avviata per giustificare l’aggressione all’Afghanistan. Ha dovuto perciò accelerare la propria mobilitazione, estendere il campo di intervento, e innalzare le misure controrivoluzionarie interne, sostenendone i costi economici e quelli militari della dispersione delle forze su più fronti, esponendosi alle contraddizioni di scelte operate per reazione e non nel momento e nel modo voluto e dovendosi limitare a costruire una coalizione a sostegno dell’aggressione all’Afghanistan, non interamente attivizzata nell’azione offensiva, a causa delle contraddizioni politiche interne e dei rischi sul campo.
L’elevata potenza distruttiva dell’attacco e la sua specifica selettività avendo inferto un colpo destabilizzante sistemico, ha imposto alla controrivoluzione imperialista un salto di qualità obbligandola ad adottare misure specifiche uniformi, e non più solo indirizzi e strutture comuni, che costituiscono forzature della mediazione politica rendendo più rigide e delimitate le risposte che possono essere date per normalizzare gli antagonismi di classe o anche gli equilibri internazionali per la pace imperialista, approfondendo la frattura con componenti sociali borghesi dell’area mediorientale che hanno costituito il naturale punto di appoggio delle strategie normalizzatrici dell’area e indebolendo la posizione delle classi politiche aggregate all’imperialismo. Fattori questi di concreta debolezza politica dell’imperialismo solo parzialmente compensata dalla sua propaganda politico-ideologica tesa a sfruttare le vittime civili provocate dalla potenza distruttiva dell’attacco per ottenere il sostegno delle popolazioni alla guerra imperialista e alle misure controrivoluzionarie. Una propaganda che non può mistificare l’evidenza che le guerre e le controrivoluzioni imperialiste, a differenza dell’attacco al Pentagono e alle torri gemelle del Wtc di New York, non provocano affatto vittime civili solo come “effetto collaterale” di un obiettivo di guerra che è quello di ottenere la destabilizzazione di un nemico per farlo recedere dai suoi intenti di aggressione e ritirare dai paesi in cui si è insediato militarmente. L’imperialismo provoca vittime civili perché aggredisce per sottomettere i popoli al suo dominio e poterli sfruttare, esse quindi sono un obiettivo di guerra parte integrante delle finalità della guerra imperialista, oppure obiettivo terroristico di una politica controrivoluzionaria volta a far recedere il proletariato dai suoi obiettivi politici autonomi, come ha ripetutamente dimostrato lo stragismo Nato in Italia con le bombe di piazza Fontana a Milano, a Piazza della Loggia a Brescia e alla stazione ferroviaria di Bologna…
L’attacco dell’11 settembre ha aperto una fase in cui la catena imperialista a partire dal suo polo dominante statunitense è stata costretta ad accelerare la sua proiezione bellicista, a sviluppare nuove aggressioni e a preparare innanzitutto un nuova campagna di guerra tesa a risolvere in via definitiva il nodo della sottomissione dell’Iraq. Oggi infatti lasciare vivere un popolo e un governo come quello iraqueno che combattuto da 10 anni non si è mai arreso, sarebbe una manifestazione d’impotenza degli Stati Uniti e perciò dell’intera catena, in un contesto strategico in cui è stato dimostrato che è possibile portare un attacco altamente distruttivo nel cuore del territorio del nemico anche con effetti destabilizzanti sistemici e senza impiegare le sue tecnologie avanzate. Una realtà nuova che priva gli Usa del potere deterrente costituito dall’inattaccabilità delle sue forze e del suo territorio nazionale, costringendoli a mantenere una costante disposizione offensiva sia per estirpare le forze guerrigliere che gli si contrappongono, che per fare di questa “offensiva permanente” il nuovo fattore di deterrenza centrale affiancato dall’arma nucleare, dallo scudo antimissilistico, dai bombardamenti d’alta quota e dal complesso di tecnologie avanzate di cui dispongono che ne connotavano la superiorità strategica e che sono stati depotenziati dall’attacco subito.
L’azione politico-militare della catena imperialista guidata dagli Usa e sviluppata a seguito della fine dell’equilibrio bipolare, messa in crisi nella valenza deterrente della sua superiorità strategica su cui si basava anche la sua capacità di condizionamento politico, ma nel contempo obbligata a reagire per recuperarla dando dimostrazione della inopportunità di realizzare attacchi non convenzionali contro di essa, pena l’alto prezzo in termini di distruzione che la potenza militare occidentale e la sua rapida e diffusa capacità di intervento può far pagare, non può costruire le condizioni politiche che nel quadro di un avanzamento lineare della sua strategia sarebbero state la base su cui le vittorie e i successi militari avrebbero potuto consolidare equilibri internazionali più favorevoli agli ulteriori avanzamenti, come dimostrano le pressioni e le forzature che vengono fatte per imporre la pace israeliana al popolo palestinese ed aprire la strada all’intervento contro l’Iraq.
La catena imperialista guidata dagli Usa dovrà perciò allargare i fronti di conflitto ed esporsi alla dispersione delle proprie forze armate con le quali dovrà anche insediarsi militarmente per preservare o addirittura conquistare, come in Afghanistan, il controllo del territorio, una condizione che favorisce la resistenza e il contrattacco antimperialista.
L’attacco all’imperialismo è asse programmatico della strategia che le Br praticano e propongono alla classe, e con cui storicamente hanno sostanziato la necessità e possibilità di alleanze antimperialiste tra forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterranea-mediorientale da stringere nella costruzione di un fronte combattente antimperialista che ha lo scopo di indebolire e destabilizzare l’imperialismo. Un punto di programma rivoluzionario che le Brigate Rosse perseguiono con l’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo che sempre più oggi si inquadrano nell’avanzata e nell’estensione della guerra e della controrivoluzione imperialista, che non costituiscono lineare rafforzamento del nemico ma anche fattore di approfondimento della sua vulnerabilità, e mettono in risalto la funzione che può svolgere l’attacco antimperialista nel cuore dell’imperialismo e la necessità per gli interessi generali e storici del proletariato e per le forze rivoluzionarie che se ne fanno carico, di costruire la forza e l’iniziativa adeguata a misurarsi con il livello dello scontro per poter incidere nei passaggi politici e militari di sviluppo della strategia, della guerra e della controrivoluzione imperialista.

In questo quadro internazionale e interno la rivoluzione proletaria riconferma tutta la sua attualità e valenza storica, mentre tutte le aspettative riformistiche e posizioni revisioniste che hanno accompagnato il movimento di classe per più di un secolo hanno dimostrato di aver solo contribuito a consolidare e perpetuare il dominio della borghesia imperialista. Oggi i simulacri residuali di queste opzioni politiche si rinnovano non solo come legittimatori, ma come veri e propri attori dell’azione degli Stati imperialisti nel genocidio dei popoli e nella subordinazione del proletariato alla schiavitù salariata e alla dittatura della borghesia, sulla base dell’attribuzione di un valore alla democrazia rappresentativa borghese come fattore di superiorità e di conquista sociale in cui il proletariato potrebbe avanzare le proprie istanze di “libertà e di diritti”, e che perciò gli Stati imperialisti sarebbero legittimati ad imporre nel mondo, contro il proletariato e i popoli tramite la sconfitta di quelle forze antimperialiste o rivoluzionarie che si pongono sul terreno di una lotta finalizzata alla distruzione dell’imperialismo o anche solo alla reale autonomia nazionale di singoli paesi.

Il rilancio dell’attacco al cuore dello Stato, con l’iniziativa del 20 maggio 1999 contro il responsabile dell’Esecutivo nel Patto di Natale Massimo D’Antona, colloca la proposta della strategia della lotta armata a tutta la classe, in un contesto caratterizzato dalla stabilizzazione del portato della controrivoluzione nel campo proletario e rivoluzionario, e nei compiti della Fase della Ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie avviatasi all’interno della Ritirata Strategica.
Il rilancio dell’intervento combattente e con esso della propositività politica della strategia della lotta armata nello scontro generale tra le classi, pur a fronte di una lunga interruzione nella quale sono intervenuti cambiamenti sociali e politici e che hanno riguardato i termini della stessa mediazione politica tra le classi, ha confermato la maturità raggiunta dalla guerriglia nel nostro paese e dal patrimonio politico elaborato e verificato nello scontro rivoluzionario dalle Brigate Rosse.
Un rilancio a cui lo Stato ha risposto elevando i livelli di controrivoluzione al fine come sempre di annientare la guerriglia, e di esercitare un’azione deterrente e preventiva sulle dialettiche aperte dall’iniziativa dell’Organizzazione con le istanze antagoniste prodotte dal conflitto di classe, un’azione supportata dai mezzi, dalle risorse e dagli apparati repressivi rafforzati in questi anni, e dal collaborazionismo di quei ceti politici che hanno fatto del controllo delle istanze di classe il valore d’uso del loro ruolo da parte dello Stato e quindi la condizione della propria agibilità politica.
Questo non ha impedito, pur nelle condizioni di arretramento del campo proletario e di svuotamento del movimento rivoluzionario, che si realizzassero delle dialettiche politiche che sono andate dalla semplice espressione pubblica del riconoscimento nella prassi rivoluzionaria delle Brigate Rosse delle istanze di potere della classe, in varie forme ovviamente adeguate a prevenire la reazione della controrivoluzione, ad istanze e nuclei rivoluzionari che hanno preso concretamente e fattivamente posizione sia in appoggio all’iniziativa delle Brigate Rosse che assumendosi la responsabilità di disporsi nello scontro con contenuti e pratiche offensivi, definendo così uno schieramento rivoluzionario. Al di là delle specificità, queste dialettiche rivoluzionarie hanno realizzato un percorso politico e materiale concreto di costruzione di un campo rivoluzionario reale, sulla base della discriminante della Lotta Armata per il Comunismo, un campo che instaura un rapporto politico di guerra con lo Stato e l’imperialismo e che lo traduce nelle forme organizzative che assume, nella base politica dell’unità delle forze che organizza e nel tipo di obiettivi che persegue distinti da quelli economico-sociali rivendicativi, un campo che si definisce in sintesi per la sua prassi rivoluzionaria nello scontro.
Piano diverso da quello della formazione di uno schieramento rivoluzionario, è quello della costruzione del Partito Comunista Combattente che non è un’entità che si produce spontaneamente o come frutto virtuale di un allineamento politico, ma è una organizzazione concreta centralizzata intorno a un contenuto politico costituito dalla sua linea e da una articolazione di strutture che ne realizzano il programma politico-militare. In uno schieramento rivoluzionario ciò che distingue le istanze rivoluzionarie che si relazionano al nodo della costruzione del Partito Comunista Combattente è il riferimento all’impianto teorico-strategico della Lotta Armata per il Comunismo con cui può essere affrontato uno scontro di potere e condotta la guerra di classe di lunga durata e la capacità di contribuire alla disarticolazione della progettualità e dell’equilibrio politico dominante, fattori che evidenziano il ruolo della necessaria centralizzazione politica del combattimento contro lo Stato e l’imperialismo intorno all’indirizzo politico e strategico delle Brigate Rosse.
La fase politica in cui le Brigate Rosse rilanciano la propria proposta strategica nello scontro generale tra le classi, è profondamente diversa da quella in cui hanno avviato 30 anni fa lo scontro rivoluzionario con lo Stato e l’imperialismo, a causa dell’andamento dello scontro rivoluzionario e di classe e degli arretramenti subiti dalle forze rivoluzionarie, dal movimento rivoluzionario e dal movimento di classe. La condizione di avanzata in quegli anni delle lotte proletarie e delle lotte rivoluzionarie e di liberazione dall’imperialismo in tutto il mondo, faceva assolvere alla Lotta Armata per il Comunismo una funzione di sbocco di avanzamento per le istanze di potere che provenivano dallo scontro di classe verso una soluzione rivoluzionaria che dalle Brigate Rosse veniva indirizzata sulla Strategia della Lotta Armata come proposta a tutta la classe, i cui termini non venivano definiti solo in relazione alla fase di scontro presente, ma ai caratteri storici dello Stato e dell’imperialismo, termini approfonditi dalla stessa iniziativa rivoluzionaria delle avanguardie organizzate dalle Brigate Rosse, nel misurarsi con le condizioni dello scontro e con l’andamento delle fasi rivoluzionarie.

La fase politica attuale pur nell’approfondimento delle condizioni strutturali di crisi del capitalismo, non è caratterizzata dalla disposizione generalizzata delle istanze proletarie sul terreno della lotta di potere, né dallo sviluppo del movimento rivoluzionario.
Oggi perciò la Lotta Armata per il Comunismo rappresenta il piano su cui sostanziare il ruolo di avanguardia rivoluzionaria che avvia dalla consapevolezza della valenza dei termini politici e strategici elaborati dal patrimonio delle Brigate Rosse perché adeguati ad impattare le forme politiche con cui lo Stato si rapporta all’antagonismo proletario e ad incidere nello scontro per far avanzare una prospettiva di potere, e a fornire gli strumenti con cui operare la frattura soggettiva che richiede l’assunzione del piano di lotta per il potere. Per questo assume valenza la chiarezza dei termini strategici su cui in ogni fase l’avanguardia rivoluzionaria può far avanzare lo scontro e che vanno anche a ricentrare la natura stessa del processo rivoluzionario e a liberarlo dalle incrostazioni spontaneiste e revisioniste e a restituirgli funzione orientativa della prassi rivoluzionaria.
I termini teorico-strategici che impostano la Strategia della Lotta Armata per il Comunismo muovono dalla concezione marxista della necessità storica della Rivoluzione Comunista ad opera della classe operaia e del proletariato, come un processo che nasce dalle contraddizioni del capitalismo e della sua funzione nella storia sociale, per svilupparsi in continuità con la concezione leninista dell’imperialismo quale fase suprema del capitalismo, del ruolo che adempie lo Stato nella società divisa in classi antagoniste, e del rapporto tra Stato e Rivoluzione, che costituiscono la base teorica dei termini generali della conduzione della guerra di classe e della concezione strategica dell’attacco al cuore dello Stato, combattimento che caratterizza la guerra di classe di lunga durata nelle democrazie mature.
La strategia rivoluzionaria per essere tale deve essere conseguente alla considerazione scientifica che riconosce nello Stato borghese come in ogni Stato in generale il suo essere manifestazione dello scontro tra classi antagoniste, e nel caso dello Stato borghese tra una classe proprietaria dei mezzi di produzione e di sussistenza e una classe che ne è priva e che è impedita nel procedere alla loro socializzazione e collettivizzazione, dall’esistenza e azione politico-militare dello Stato che organizza il potere politico della classe dominante, lo giustifica e ne garantisce gli interessi di proprietà privata e di valorizzazione del capitale che ne costituiscono i principi politico-giuridici centrali, con le sue leggi e i suoi strumenti sanzionatori e repressivi.
Niente impedirebbe al proletariato di prendere possesso dei mezzi di produzione o dei beni di sussistenza che usa e produce se lo Stato non ne difendesse la “legittima” proprietà privata con l’azione concreta dei suoi apparati armati, presa di possesso che nella dittatura della borghesia assume connotato di furto e saccheggio, fenomeno di massa che si è verificato in questi ultimi mesi in Argentina a causa della profonda crisi economico-sociale in cui l’hanno ridotta i piani di drenaggio delle sue risorse impostigli dal Fondo Monetario. Non potendosi impossessare dei mezzi di produzione e di sussistenza, il proletariato è costretto a vendere la sua forza-lavoro alla borghesia per riprodursi e alle condizioni possibili nello sviluppo della crisi del capitale, alle condizioni della sua valorizzazione, dinamica che sottopone il proletariato ordinariamente a ogni genere di ricatto (fattore strutturale su cui si fonda in ultima istanza l’aspettativa di realizzabilità della progettualità politica e sociale espressa ed elaborata da Marco Biagi).
Lo Stato, che è l’organo della dittatura della classe dominante, può essere tale in quanto e nella misura in cui è capace di mediare lo scontro antagonistico tra le classi su un piano politico, che non metta in crisi il potere della classe dominante e quindi la propria funzione di organo della sua dittatura, e che anzi assorba le tendenze alla reciproca distruzione tra le classi antagoniste (in particolare quando la classe dominata è un proletariato che ha da più di un secolo gli strumenti politici per proporsi concretamente obiettivi di potere, al di là delle fasi di suo arretramento).
Lo Stato è quindi anche un prodotto storico dello scontro tra le classi, ed in quanto tale è la risultante processuale della capacità di ricondurre tale scontro con i mezzi e i modi adeguati alle sempre nuove contraddizioni antagonistiche, a un quadro di riproduzione della dittatura della classe dominante.
Perciò lo Stato può essere anche la sede formale del rapporto politico tra le classi, e apparire in quanto tale “neutrale”, ossia il piano o la sfera entro cui i rapporti antagonistici tra le classi assumono un carattere politico e non di annientamento reciproco, e quindi esercita la funzione di organo della classe dominante in quanto e nella misura in cui la classe dominata è politicamente subalterna, cioè non conduce una lotta per i suoi interessi di classe che nel caso del proletariato sono quelli della liberazione dai rapporti sociali capitalistici per la costruzione della società senza classi. In generale perciò la costruzione-organizzazione politica autonoma per rivoluzionare i rapporti sociali di produzione, di una classe dominata come il proletariato che non è portatrice di una forma di proprietà concorrenziale con quella precedente, è sempre conseguente alla sua prassi rivoluzionaria, ossia alla sua contrapposizione al potere politico della classe dominante per l’affermazione dei suoi interessi generali e storici in funzione della tappa rivoluzionaria che impone il processo storico.
L’autonomia politica della classe proletaria non è cioè un presupposto, ma è conquistabile solo in un processo di scontro di potere, un processo che ha una sua storia concreta di avanzate e di arretramenti.
Per sviluppare la rivoluzione proletaria è necessario pertanto in generale che essa diventi obiettivo dell’azione politica dei comunisti, di una soggettività rivoluzionaria d’avanguardia che lo assuma perchè è l’obiettivo politico necessario, che operi una frattura con la condizione politica storica del proletariato, affinchè il piano rivoluzionario possa maturare come terreno e direzione di mobilitazione di tutta la classe proletaria contro il dominio politico della borghesia per la distruzione dello Stato che ne organizza ed esercita il potere e che garantisce questi rapporti sociali consentendone la riproduzione anche a fronte delle contraddizioni interne del capitale e in un rapporto tra classi con interessi generali antagonistici sempre più polarizzati.
Senza il potere politico la borghesia, che esiste grazie allo sfruttamento del proletariato, non potrebbe esistere come classe, e quindi difendendo il proprio dominio per difendere sé stessa mette in campo tutti i mezzi di cui può disporre per farlo adeguatamente, e solo un livello di violenza e forza adeguato possono sopraffarli.
Il potere non può perciò essere conquistato senza la violenza rivoluzionaria, e cioè senza una lotta armata che distrugga la macchina statale che realizza la dittatura di classe e costituisce lo strumento armato che tutela e garantisce gli interessi della classe dominante. Il processo rivoluzionario comunista è quindi sostanzialmente e fenomenicamente una guerra di classe contro lo Stato e la classe dominante e la strategia rivoluzionaria si definisce in relazione alle specificità storiche della conduzione della guerra di classe.
Il processo rivoluzionario è un processo al contempo di distruzione dello Stato-costruzione del Partito, cioè della forza rivoluzionaria occorrente alla conduzione della guerra, la cui tappa rivoluzionaria per il proletariato è in generale fin dalla Comune di Parigi e in particolare dalla vittoriosa Rivoluzione d’Ottobre, quella della conquista del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Una tappa che è stata modificata nei suoi aspetti specifici dal rapporto determinatosi storicamente tra rivoluzione e controrivoluzione.
La rivoluzione proletaria come processo storico e politico si è avviata con la partecipazione del proletariato alla lotta contro l’aristocrazia terriera nella rivoluzione francese e nei moti della prima parte dell’800 in Europa e, arrivando ai successi della Comune di Parigi e alla vittoria della Rivoluzione bolscevica, ha costruito i termini di fondo di un patrimonio rivoluzionario e gli elementi della coscienza politica rivoluzionaria espressi dal socialismo scientifico, dal materialismo storico-dialettico e dal pensiero politico di Marx, di Engels e di Lenin. La borghesia affermava ed estendeva la sua dittatura attraverso le vittorie delle guerre napoleoniche fino ai confini della Russia zarista e gli Stati europei, dove si espandeva il capitalismo concorrenziale e una borghesia nazionale, con la costituzionalizzazione delle monarchie assumevano i primi caratteri democratico-rappresentativi, un processo di riadeguamento delle forme di dominio che avviene nel vivo dello scontro tra le classi e che non coinvolge la Russia, dove la borghesia è debole e la sua lotta politica non incide sulla autocrazia zarista né realizzerà una propria rivoluzione. Se nell’Europa capitalistica la trasformazione in senso democratico delle istituzioni statali avverrà progressivamente attraverso passaggi di riforma e senza rotture rivoluzionarie, in Russia questa assume un carattere rivoluzionario che evolve rapidamente nella conquista del potere da parte del proletariato alleato ai contadini e all’instaurazione della sua dittatura. La conquista di obiettivi politici democratici ha avuto storicamente un carattere di lotta rivoluzionaria oppure riformista a seconda dei caratteri concreti dello Stato contro cui veniva condotta. Laddove lo sviluppo del capitale concorrenziale, e poi di quello monopolistico, e l’autonomia politica della borghesia portarono al consolidamento del suo dominio e all’instaurazione di forme statuali democratiche (le democrazie liberali a rappresentatività ristretta), la lotta per obiettivi politici democratici non assume un connotato complessivo rivoluzionario, per quanto fosse attraversata da tendenze rivoluzionarie più o meno forti e da molti scontri cruenti, perché l’azione politica di Esecutivi riformatori poteva essere indirizzata alla trasformazione delle istituzioni politiche senza che questo implicasse una destabilizzazione degli Stati, anzi poteva costituire, affiancata dalla repressione dei movimenti insurrezionali, un fattore di rafforzamento della governabilità in funzione controrivoluzionaria. Una potenzialità oggettiva che è legata ai cambiamenti economico-sociali che lo sviluppo del capitalismo produceva e anche ai termini del necessario ruolo che lo Stato doveva andare ad esercitare nell’economia, e che è alla base del riformismo socialista europeo e del lungo legame tra il proletariato e il riformismo. L’iniziativa politica del proletariato e delle masse popolari non aveva allora un riconoscimento istituzionale ed era per lo più illegale e priva di garanzie, non erano riconosciuti diritti politici, associativi, sociali etc., la lotta per la conquista di diritti politici e sociali non si contrapponeva però a un potere autocratico che negava il rapporto politico con una volontà diversa da sé, come era per le monarchie assolute, ma a un potere, quello dello Stato democratico che avrebbe potuto avviare un rapporto politico e modificare le sue istituzioni senza andare in crisi come sarebbe avvenuto per un potere autocratico, a patto ovviamente che questa volontà non ne mettesse in discussione la sostanza di dittatura della borghesia.
Con la vittoria della Rivoluzione bolscevica, i reparti rivoluzionari dei partiti riformisti europei sono spinti a separarsi e a costituirsi autonomamente in partiti comunisti che assumono e propongono l’obiettivo storico della conquista del potere politico e dell’instaurazione della dittatura del proletariato su una strategia e una linea politica che tende a riprodurre, nel corso delle crisi dopo la prima guerra mondiale, il modello rivoluzionario russo, e che era orientata a sviluppare una lotta politica che attraverso movimenti insurrezionali avrebbe dovuto logorare lo Stato e che in occasione dell’approfondirsi della crisi economica e politica fino al vuoto di potere avrebbe dovuto imprimere la propria direzione sul movimento della masse verso l’obiettivo della rottura rivoluzionaria. In Russia infatti la rottura rivoluzionaria era stata l’esito di un processo politico che si sviluppò in movimenti insurrezionali che conquistarono l’adesione di parte dell’esercito zarista determinando il rapporto di forza favorevole necessario.
La lotta rivoluzionaria guidata dai partiti comunisti suscitò potenti processi controrivoluzionari e non riuscì a vincere, anzi i partiti comunisti vennero annientati come in Germania o furono ridotti alla stasi politica come in Italia durante il fascismo. Processi controrivoluzionari che oltrechè essere condotti in prima persona dal partito socialdemocratico come in Germania o da soggettività politiche provenienti dal partito socialista come in Italia, sfociano nell’irregimentazione del conflitto sociale e si legano al consolidamento dell’intervento dello Stato nell’economia in funzione del governo della crisi a sostegno dei grandi capitali monopolistici a base nazionale, all’avvio di una corporativizzazione degli interessi sociali legata alla spesa statale e alla sua funzione di stimolo dell’industrializzazione; tendenze queste ultime che investivano anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti perché legate alla spinta data dalla guerra alla produzione meccanizzata e ai cambiamenti sociali prodotti dall’industrializzazione e dalla guerra stessa.
La lotta rivoluzionaria nei paesi europei di quegli anni, lasciò irrisolto nel patrimonio comunista il nodo della strategia atta a perseguire la sostanza del processo rivoluzionario, che è quella della distruzione dello Stato. Una sostanza che la rivoluzione russa aveva perseguito e concretamente realizzato in tutto il suo corso attraverso la mobilitazione politica delle masse proletarie e contadine che in sé stessa e per gli obiettivi che si prefiggeva di conquistare, impattando lo Stato autocratico zarista, lo distruggeva progressivamente fino a pervenire allo scontro armato con cui venne prodotta la rottura rivoluzionaria. La lotta rivoluzionaria nei paesi in cui era già maturo il capitale monopolistico e si andavano definendo i caratteri della democrazia borghese non era riuscita invece a praticare la sostanza della prima rivoluzione proletaria vittoriosa traducendola in una specifica strategia adeguata a impattare le forme di dominio statuali a cui si contrapponeva.
In Italia con la sconfitta del fascismo le forme politiche dello Stato vengono ridefinite sulla base degli equilibri politici che avevano portato alla vittoria nella guerra e vengono condizionate dal peso che aveva assunto il proletariato, dal ruolo svolto dalle componenti partigiane comuniste, e dall’occupazione americana e dai flussi di crediti con cui il piano Marshall sostenne i partiti politici anticomunisti come la Dc, un rapporto economico-politico tra borghesia nazionale e Stati Uniti che verrà stretto nell’Alleanza Nato.
Gli Stati Uniti imporranno come condizione per l’ottenimento degli aiuti del Piano Marshall, le necessarie forme politiche democratiche come garanzia per la proprietà privata e l’investimento di capitali che si apprestavano a fare e per fare della ricostruzione dei paesi sconfitti nella guerra un baluardo della tenuta dell’imperialismo nell’equilibrio bipolare. Una condizione politica che impongono sempre, come è verificabile tuttora nei confronti dei paesi dell’Est europeo e asiatico e in generale, e che è costitutiva del rapporto di dominio imperialista. Una condizione che presuppone il disarmo della Resistenza e l’amnistia ai fascisti, e il riconoscimento di queste forme politiche da parte delle forze che vi avevano partecipato tra cui il Pci, riconoscimento che sancisce il percorso revisionista di questo partito.
Il piano Marshall quindi supporta l’affermazione elettorale delle forze anticomuniste e la frammentazione del sindacato con la creazione della Cisl promossa dalla C.I.A., con cui viene importato il modello di corporativizzazione democratica dei sindacati sviluppatosi negli Stati Uniti e si avvia la repressione nelle fabbriche.
L’integrazione della catena imperialista intorno al capitale statunitense e all’alleanza Nato, il formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario Usa e di un proletariato metropolitano costituiscono i termini attuali della contraddizione borghesia/proletariato della nuova fase politica in generale in tutto il campo imperialista entro cui si ripropongono i nodi dello sviluppo di una prassi rivoluzionaria adeguata a far avanzare una prospettiva di potere.
La controrivoluzione imperialista seguita alla seconda guerra mondiale acquisisce riattualizzandoli nel nuovo quadro della ricostruzione ed espansione post-bellica, alcuni dei termini della controrivoluzione costituita dal fascismo e dal nazismo, e dei livelli di controrivoluzione preventiva espressi dal New Deal roosveltiano. Termini assimilabili per il modo in cui il conflitto di classe poteva essere governato in relazione al carattere di fondo dell’intervento dello Stato nell’economia andatosi complessivamente intensificando dalla crisi del ’29 in poi, stabilizzando in generale in ogni paese a capitalismo avanzato, la contrapposizione e la dialettica tra interessi sociali particolari, e la loro organizzazione e rappresentanza politica per comporli intorno a quelli generali della borghesia imperialista, quale elemento contenutistico della dinamica politica caratterizzante la dialettica democratica matura. Corrispettivamente la presenza stabile di forze armate americane in particolare nei paesi di confine della frattura bipolare, avvia l’attiva politica del polo dominante statunitense in funzione anticomunista interna ed esterna.

Le forme politico-statuali che caratterizzano gli Stati imperialisti incorporano i passaggi della controrivoluzione con cui viene stabilizzato l’assetto postbellico e che in quanto tali hanno una funzionalità relativa a prevenire le tendenze rivoluzionarie, la controrivoluzione preventiva diventa quindi un carattere strutturale delle forme politiche democratiche borghesi.

Si viene a delineare in sintesi un quadro politico interno e internazionale che compie un salto di qualità e che sarà quello a cui da questo momento in avanti si dovrà rapportare il processo rivoluzionario e la strategia per farlo avanzare e vincere.

Dal momento che lo Stato imperialista organizza e istituzionalizza un rapporto politico con il proletariato integrandone l’iniziativa politica nella democrazia borghese e calibrando a questo dato la propria azione soggettiva, invera appieno la tesi marxista della democrazia come l’involucro politico più adeguato, più solido per il potere della borghesia, un involucro politico che svuota le istanze di autonomia della classe facendone arretrare i termini storici e depotenzia le tendenze rivoluzionarie.
Questo dato qualifica in che consiste l’ “aumentato peso della soggettività” nello scontro di classe, e impone alla prassi e alla strategia rivoluzionaria di impattare la progettualità politica dello Stato in grado di neutralizzare, svuotandole o reprimendole, le istanze antagoniste e l’iniziativa autonoma del proletariato che nasce dalla polarizzazione degli interessi che la crisi generale del capitale va sempre più approfondendo, e di convogliarne l’iniziativa politica intorno a quelle istanze e a quegli obiettivi generali della borghesia imperialista complessivamente tesi a governare la crisi-sviluppo del capitale. Senza questa capacità di impattare la progettualità politica dello Stato, l’iniziativa politica non distruggerebbe lo Stato nelle forme politiche che ha assunto, quindi non solo non sarebbe in grado di far avanzare un processo rivoluzionario ma nemmeno di avviarlo: ciò impone al proletariato di operare da subito in termini offensivi politico-militari attaccandone la progettualità, compito che deve essere assunto da ogni avanguardia rivoluzionaria conseguente, assumendo le forme organizzative adeguate a sostenere lo scontro prolungato con lo Stato, forme che vanno a caratterizzare il Partito come Partito Comunista Combattente.

L’integrazione economica-politica e militare degli Stati imperialisti nella catena intorno al polo dominante statunitense, impone alla prassi e alla strategia rivoluzionaria anche di impattare fin da subito l’imperialismo nella nostra area attaccandone le politiche centrali con cui la frazione dominante convoglia gli interessi generali della borghesia imperialista a sostenere i nodi comuni della crisi, della guerra imperialista e della controrivoluzione, pena l’impossibilità non solo di realizzare la rottura rivoluzionaria, ma di far avanzare lo stesso processo rivoluzionario, perché la borghesia imperialista concentra le sue forze per sconfiggere la rivoluzione proletaria e le lotte di liberazione, sia incrementando il suo sforzo preventivo che scatenando offensive controrivoluzionarie. Un dato politico storico che va ad innovare i caratteri dell’attuale tappa rivoluzionaria e pone all’ordine del giorno il nodo della costruzione di alleanze tra forze rivoluzionarie operanti nella medesima area geo-politica definendone il piano di sviluppo dell’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo, e i termini organizzativi necessari del Fronte combattente antimperialista per conseguire la crisi politica dell’imperialismo ai fini dell’avanzata dei processi rivoluzionari.

Le Brigate Rosse sostengono che la tappa rivoluzionaria storica si realizza attraverso un processo di guerra di classe di lunga durata condotto nell’unità del politico e del militare e perciò la politica rivoluzionaria delle Brigate Rosse è la Strategia della Lotta Armata per il Comunismo, proposta a tutta la classe.

-La Strategia della Lotta Armata è la politica rivoluzionaria con cui le avanguardie comuniste organizzate nella guerriglia praticano obiettivi politicamente offensivi, cioe’ rivolti all’indebolimento dello Stato nella sua azione di dominio sulla classe nella prospettiva della sua completa distruzione e danno avanzamento all’antagonismo proletario sul terreno di lotta per il potere. La Guerriglia con l’attacco militare contro l’azione dello Stato di governo della crisi e del conflitto, disarticolandone gli equilibri politici che la sostengono, agisce da partito per costruire il partito, opera la trasformazione dello scontro di classe in scontro per il potere, in guerra di classe, costruendo e disponendo le forze proletarie e rivoluzionarie che si dialettizzano alla linea e al programma politico proposti dalla guerriglia.

– Con la Strategia della Lotta Armata le avanguardie e il proletariato rivoluzionario immettono nello scontro di classe gli obiettivi dello scontro per il potere che costituiscono il programma politico intorno al quale costruire la guerra di classe di lunga durata, in funzione e relativamente alle diverse fasi che essa attraversa, sia quando sono connotate prevalentemente dal ripiegamento delle forze e dall’arretramento del proletariato, sia quando lo sono dall’attestamento di avanzamenti dello scontro rivoluzionario, aprendo il rapporto di guerra “fin da subito” e cioè in qualunque condizione storica, anche a partire da nuclei esigui di avanguardie rivoluzionarie che lo assumono soggettivamente come proprio terreno e obiettivo proponendolo alla classe.

-La guerra di classe è condotta nell’unità del politico e del militare, tanto nell’iniziativa politica che nell’organizzazione delle forze, perchè il potere della borghesia imperialista è organizzato in funzione antiproletaria e controrivoluzionaria con una progettualità e mezzi che integrano il piano politico e quello militare, e articola le sue iniziative o risposte politiche nella costante azione tesa a convogliare la lotta di classe all’interno di compatibilità economico-sociali e forme di rapporto istituzionalizzate per svuotarne la contrapposizione e annientarne la spinta antagonistica. L’iniziativa rivoluzionaria nelle diverse congiunture, deve rivolgersi quindi contro le politiche con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi, per disarticolare l’equilibrio politico dominante, rendere relativamente ingovernabili le contraddizioni e organizzare e disporre sullo scontro per il potere le avanguardie e i proletari rivoluzionari che riconoscono nel programma e nel progetto politico fatto vivere dal combattimento della guerriglia lo sbocco per la propria istanza di potere e per praticare gli obiettivi rivoluzionari storici, costruendo le forze rivoluzionarie e proletarie.
Il processo rivoluzionario nella metropoli imperialista è un processo di distruzione dello Stato che attraverso l’offensiva militare finalizzata alla sua disarticolazione politica dello Stato procede in relazione alla trasformazione concreta degli equilibri di forza e politici verso una fase di guerra dispiegata, processo in cui l’aspetto politico è sempre dominante.

In una condotta della guerra che è politico-militare, un’iniziativa politica e una componente organizzata corrispettiva, distinta dall’iniziativa militare e da una componente organizzata di tipo militare non ha funzione rispetto allo sviluppo della guerra ed è superflua anche qualora operasse in condizioni di clandestinità e compartimentazione che non la rendessero ostaggio del nemico. Nè nel centro imperialista esistono territori liberati o liberabili (e ciò per ragioni storiche di sviluppo delle forze produttive, di integrazione del territorio e di pervasività dell’ordinamento e apparato statale), nei quali sia esercitato il potere politico da parte di forze e strutture rivoluzionarie, la cui iniziativa è quindi materialmente separata da quella di forze militari che si riproducono in queste condizioni di potere e operano contro forze esterne.

Nelle condizioni dello scontro presenti nel centro imperialista la guerriglia vive in “stato di accerchiamento strategico” dall’inizio fino alla fase finale della presa del potere, ha quindi un rapporto con il nemico di guerra senza fronti, in cui non ci sono spazi politici diversi da quelli che si conquista la guerriglia per esistere ed avanzare e su cui attestare le forze organizzate. La guerra di classe nel centro imperialista nasce dall’attacco politico-militare al nemico e non da forze accumulate sufficienti a condurla nelle sue successive fasi.
-La guerriglia nel centro imperialista si relaziona quindi alle forze proletarie in funzione di costruirne l’attrezzamento politico e militare allo scontro prolungato con lo Stato, e non in funzione della qualificazione delle istanze e contenuti che si esprimono nell’ambito di un’iniziativa meramente politica: la guerriglia opera secondo una linea di massa politico-militare.
-La guerra non è costituita solo di iniziativa militare perchè è una guerra di classe in cui il nemico non è una forza militare, ma lo Stato, una forza politico-militare il cui rapporto con il proletariato è dominato dalla politica proprio in funzione controrivoluzionaria e della stabilità del proprio dominio, per cui l’attacco militare e la corrispettiva forza che occorre costruire per condurre la guerra, devono essere rivolti a colpirne l’azione politica, non le forze militari in quanto tali, devono esprimere una capacità offensiva politica selettiva dell’azione politica del nemico, per ottenere l’effetto del suo logoramento che consiste nella sua disarticolazione politica per la gran parte del processo di guerra, e la costruzione delle forze del proprio campo.
-La guerra di classe è di lunga durata perchè le contraddizioni intrinseche del capitalismo non portano a un crollo, il potere politico è stabile, la borghesia imperialista convoglia interessi sociali intorno al suo potere politico, opera strutturalmente per prevenire tendenze e sviluppi rivoluzionari, e perchè le condizioni di sviluppo della guerra di classe stessa, sono prodotte dell’azione soggettiva delle forze rivoluzionarie che deve realizzare un logoramento del nemico e una costruzione delle forze del proprio campo per poter arrivare a una rottura rivoluzionaria vincente.
-Il rapporto di guerra con lo Stato per aprire il processo rivoluzionario, sul piano storico ha potuto maturarsi anche come elevamento di un scontro fatto di confronti politici e militari, in contesti di crisi economico-politica, e all’interno della ricorrenza di episodi di scontro militare e nel confronto con una controrivoluzione preventiva non ancora affinata, quindi come risultante di tendenze spontanee all’elevamento dello scontro sociale e politico alle quali avanguardie rivoluzionarie organizzate sulla strategia della lotta armata hanno dato sbocco dirigendolo verso obiettivi rivoluzionari. Trasformare lo scontro di classe in guerra di classe, laddove lo Stato risponde, come ha fatto nel nostro paese, con un processo controrivoluzionario che riesce a contenere e a bloccare il processo rivoluzionario, e ad attestare nello scontro le misure, le pratiche politiche e le procedure di assorbimento che si sono manifestate nel loro insieme capaci di raggiungere quel risultato, richiede l’intrapresa di questo rapporto di scontro da parte delle ristrette avanguardie rivoluzionarie che, non potendosi formare in un movimento rivoluzionario, si costruiscono gli strumenti politico-strategici e organizzativi-militari acquisendo ciò che è maturato nel processo rivoluzionario e nel rapporto di scontro storico, per affrontare i nodi politici che si sono posti nel rapporto rivoluzione-controrivoluzione, con il rilancio della lotta per il potere nello scontro generale tra le classi.
-La strategia della lotta armata coerentemente con il principio dell’unità del politico e del militare che informa la guerra di classe nei paesi a capitalismo avanzato, definisce il partito comunista come un partito combattente e in relazione alla natura del processo rivoluzionario -di distruzione dello Stato-costruzione del Partito- definisce la sua formazione come la risultante di un processo politico-militare che la guerriglia, nel determinare i termini complessivi dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata, costruisce sulla linea dell’agire da partito per costruire il partito.
Per le Brigate Rosse le condizioni politiche della costruzione del Partito Comunista Combattente si danno a partire dalla capacità di disarticolare l’azione politica dello Stato, perchè la progettualità politica con cui lo Stato interviene nelle congiunture politiche nella contraddizione dominante che oppone le classi è il modo con cui mette in atto la sua funzione antiproletaria e controrivoluzionaria e su questo costruisce equilibri politici dominanti. Rapportandosi con l’attacco (al cuore dello Stato) a questo piano, l’avanguardia armata colloca nello scontro gli obiettivi politici della lotta per il potere, spezza la mediazione politica disarticolando gli equilibri politici, facendo avanzare la guerra di classe, determinando la condizione politica primaria per la costruzione del Pcc. In sintesi è a partire dall’attacco scientifico al potere politico della borghesia che l’avanguardia rivoluzionaria costruisce il rapporto politico con la classe e la sua istanza di potere.
Le Brigate Rosse non sono il Partito, ma sono una forza rivoluzionaria che opera come un esercito rivoluzionario che attaccando lo Stato nelle sue politiche centrali, sostanzia l’agire da partito per costruire il partito, e avvia la costruzione del Partito, la costruzione degli elementi politico-teorici, strategici, soggettivi, organizzativi e militari che costituiscono il nucleo fondante il partito.
Per le Brigate Rosse lo sviluppo del processo rivoluzionario continua a realizzarsi facendo la “rivoluzione nel proprio paese” perchè questa rimane la dimensione politica principale della lotta tra le classi, ma richiede fin da subito di praticare l’obiettivo dell’indebolimento dell’imperialismo operando sull’asse programmatico dell’attacco all’imperialismo, alle sue politiche centrali. Asse programmatico sulla base del quale può essere realizzata una politica di alleanze con forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterraneo-mediorientale che ha una sua intrinseca complementarità economico-politica, per la costruzione di un Fronte Combattente Antimperialista che sviluppi un programma d’attacco comune alle politiche centrali dell’imperialismo.
L’obiettivo politico-strategico della costruzione del Fronte può essere raggiunto nella misura in cui si realizzano condizioni politiche e militari per attaccare l’imperialismo da parte di forze rivoluzionarie che possono avere anche diverse finalità o concezioni rivoluzionarie. Il Fca non sostituisce l’obiettivo storico della costruzione dell’Internazionale Comunista, che è realizzabile tra forze che hanno identiche finalità politiche e concezione e condividono la discriminante della Lotta Armata per il Comunismo.
-La strategia della lotta armata proposta dalle Brigate Rosse alla classe è impostata dalla concezione leninista dell’imperialismo e dello Stato e definisce il programma politico del Partito comunista combattente come un programma di combattimento contro lo Stato e l’imperialismo e di costruzione del Partito e del Fronte, attraverso il quale può avanzare la prospettiva di potere ed essere costruita la guerra di classe di lunga durata. L’iniziativa combattente può far avanzare questa prospettiva solo se l’attacco non è impostato genericamente costituendo una mera espressione dell’antagonismo di interessi e politico, ma persegue l’obiettivo di distruggere lo Stato e destabilizzare l’imperialismo, attraverso un concreto processo di disarticolazione politica operata con l’attacco militare all’azione politica, alla progettualità politica nemica che si afferma come centrale nell’affrontamento delle contraddizioni dominanti che oppongono le classi nelle varie congiunture politiche e nell’affrontamento delle contraddizioni della crisi e del dominio imperialista, progettualità che costruisce l’equilibrio dominante per far avanzare le linee di programma. Un attacco che, in quanto ha questo indirizzo politico, costituisce un rapporto di forza esercitabile e finalizzabile a incidere il piano su cui lo Stato si rapporta alla classe che è quello dello scontro di potere, colpendone il progetto e disarticolandone l’equilibrio politico con cui sostiene questo scontro e per come si articola nei suoi nodi-passaggi.
Il programma politico di disarticolazione dello Stato che le Brigate Rosse propongono alla classe definisce gli obiettivi programmatici che costituiscono nello scontro di classe concreto il piano di lotta per il potere, di costruzione del Partito Comunista Combattente e di mobilitazione della classe sulla sua linea politica e programma.
Il progetto politico con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi, è il cuore dello Stato. Non si tratta quindi di un uomo, di una struttura, di una funzione o di un apparato statale, ma di una progettualità che non si definisce a tavolino e una volta per tutte, ma si imposta e si aggiorna e si irradia progressivamente nel complesso delle relazioni tra le classi, specificando la costruzione di equilibri politici generali e parziali intorno ad essa.
Il massimo vantaggio politico ottenibile dal combattimento si dà colpendo il personale che costruisce l’equilibrio politico in grado di far avanzare i programmi della borghesia imperialista, un equilibrio che lega interessi sociali e politici non univoci e anzi contrastanti, agli interessi e agli obiettivi della frazione dominante della borghesia imperialista. La guerriglia può conseguire così l’obiettivo politico di disarticolare la progettualità statuale, squilibrandone l’azione delle varie forze che concorrono a realizzarlo.
La forza dell’attacco al cuore dello Stato non risiede nella sua sola forza militare, ma risiede nella contrapposizione di interessi antagonisti insiti nella contraddizione dominante che oppone le classi alla quale la progettualità del nemico si prefigge di dare una soluzione in funzione degli interessi generali della B.I. e in relazione ai rapporti di forza e politici tra le classi. L’attacco allo Stato sfrutta quindi la posizione strutturalmente difensiva della borghesia (anche qualora fosse in atto una offensiva controrivoluzionaria) che è obbligata a governare politicamente le contraddizioni di un modo di produzione e di un rapporto sociale storicamente superato. Dall’altro lato risiede nella forza politica del patrimonio sviluppato dalla rivoluzione proletaria e dalla guerriglia.
La disarticolazione non è un effetto politico ottenuto una volta per tutte con il singolo attacco, ma si produce nella misura in cui si sviluppa il combattimento, come pure in generale lo sviluppo della guerra è passaggio da circoscritte iniziative combattenti alla stabilizzazione delle offensive della guerriglia, di una sufficiente capacità offensiva disarticolante etc..
L’attacco allo Stato non è teso, in sè e per sè, a paralizzare e ad impedire in modo assoluto lo sviluppo delle sue politiche antiproletarie e controrivoluzionarie; per far questo è necessario un intero processo di guerra che faccia man mano conseguire posizioni più avanzate nei rapporti di forza e politici alla classe organizzata dal Pcc sul terreno della guerra.
L’attacco al cuore dello Stato quindi è linea strategica di disarticolazione politica dello Stato, impostata dai criteri di centralità, selezione e calibramento definiti dal patrimonio della guerriglia delle Brigate Rosse nel nostro paese.
-L’attacco all’imperialismo è volto a indebolirlo fino a determinarne la completa crisi politica e a rafforzare lo schieramento antimperialista. I criteri che hanno guidato il combattimento della guerriglia delle Brigate Rosse indicano che per provocarne il massimo indebolimento esso deve riferirsi alle politiche centrali con cui l’imperialismo affronta le contraddizioni dominanti della fase internazionale, nel quadro delle spinte strutturali della crisi e dell’avanzare della tendenza alla guerra per governarne gli aspetti generali, per rafforzare e far avanzare le proprie posizioni negli equilibri internazionali, contrapponendosi al proletariato e alle istanze e processi di liberazione dei popoli.
Il programma politico di disarticolazione-distruzione dello Stato e di attacco all’imperialismo per il suo indebolimento e di costruzione del Partito e del Fronte, si realizza sulla linea politica con cui la guerriglia si relaziona alle fasi e congiunture politiche interne e internazionali, e il suo avanzamento si colloca nelle condizioni di fase del rapporto rivoluzione/controrivoluzione e imperialismo/antimperialismo.

-Per le Brigate Rosse il Partito si dà in un processo di costruzione/fabbricazione nello sviluppo stesso del processo di guerra di classe. La costruzione della soggettività d’avanguardia non può darsi con un atto di fondazione, nè si rende possibile accumulare forze su un piano di attività politica, da disporre poi sul piano della guerra di classe perchè l’organizzazione che si può produrre non è quella di forze rivoluzionarie.
Per le Brigate Rosse l’avanguardia comunista combattente non si pone nello scontro come “direzione politica del futuro partito”, ma come organizzazione di guerriglia che si caratterizza e funziona come un esercito rivoluzionario e che adotta il principio dell’agire da partito per costruire il partito. Questo perchè è a partire e intorno al combattimento che si costruisce lo scontro di potere e per il potere e la possibilità di far evolvere la lotta della classe su questo piano.
Un’organizzazione di guerriglia, una forza rivoluzionaria, conduce uno scontro politico-militare tramite combattimenti che a partire da un’impostazione scientifica del proprio ruolo e della conduzione dello scontro, e in virtù di questo può aprire un rapporto politico con la classe che assolve alla funzione di trasformare lo scontro di classe in guerra di classe e organizzare le avanguardie rivoluzionarie nel partito e la classe intorno al partito e far quindi avanzare il processo rivoluzionario. L’esercizio del ruolo di Partito Comunista Combattente nella conduzione dello scontro rivoluzionario, non essendo la risultanza di un processo politico-militare in cui la classe si è posta su un piano di guerra di lunga durata, ma il presupposto di questo processo, non può realizzarsi che nella misura in cui le avanguardie rivoluzionarie che ne fanno parte, i quadri che lo costituiscono, sono espressione concreta della direzione esercitata da una forza rivoluzionaria nell’organizzare la classe nello scontro rivoluzionario, direzione che può configurare il Partito Comunista Combattente quando il livello della sua costruzione/fabbriicazione diventi adeguato a dirigerne interi settori nella guerra contro lo Stato e l’imperialismo. Una realtà e un processo che concretamente delimitano anche le condizioni e quindi i compiti su cui si deve concentrare una forza rivoluzionaria come le Brigate Rosse in particolar modo nell’attuale fase di Ricostruzione delle Forze rivoluzionarie e proletarie.
” …. Il processo di costruzione politica, programmatica e di fabbricazione organizzativa del Partito Combattente non è affatto lineare, evoluzionistico, affidato al tempo, ma al contrario é un processo discontinuo, dialettico, prodotto cosciente di un’avanguardia politico militare che, nel complesso fenomeno della guerra di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che sostiene e l’adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. …” (D.s. 2)
La militanza rivoluzionaria, in questo quadro, si misura con la frattura politica soggettiva necessaria alle avanguardie del proletariato a trasformare un ruolo politico che si forma e matura nel contesto del movimento delle lotte della classe e della lotta politica possibile nelle democrazie borghesi, un ruolo che esiste in funzione di tale mobilitazione, in un ruolo che determina il proprio rapporto con la classe in quanto combattente contro lo Stato e l’imperialismo. Una frattura ben più profonda e un salto superiore a quello pur richiesto dalla militanza in un partito che dovesse dirigere la classe su un piano di iniziativa, quella politica, su cui essa già si mobilitasse, salto che consiste nell’assumere la finalità della lotta per il potere come propria finalità soggettiva. Questo in quanto il piano della guerra non è in genere, e in particolare oggi in Italia, praticato dalla classe, sebbene il rapporto di guerra costituisca la sostanza della relazione tra borghesia e proletariato, né è intrinseco alla frattura soggettiva costituita per il proletariato dalla stessa lotta sociale e dalla sua potenziale evoluzione in lotta politica, per cui la frattura necessaria richiede un complessivo mutamento del punto di vista formatosi nella storia di una militanza o della mobilitazione nelle lotte. Una realtà anche questa che riconferma il principio dell’aumentato peso della soggettività nello scontro per parte proletaria.

Per le Brigate Rosse proprio perchè la lotta armata è una strategia in un processo rivoluzionario che è di guerra di classe in ogni sua fase, il modulo politico-organizzativo adeguato a strutturare le forze rivoluzionarie si definisce intorno ai termini di strategia e non può essere ridotto al carattere generico di formazione combattente.
I criteri impostativi che definiscono il modulo politico-organizzativo sono gli elementi che consentono alle forze rivoluzionarie di far avanzare il processo di scontro su tutti i piani.
L’unità del politico e del militare che si riflette sul modulo guerrigliero e trova nella clandestinità e compartimentazione i principi necessari a sostenere la disposizione offensiva per la realizzazione degli obiettivi politici della guerriglia, limitare le perdite e costruire organizzazione di classe sulla lotta armata.
I principi politici che presiedono al rapporto organizzativo delle forze rivoluzionarie e proletarie e che sono l’unità sulle finalità, sulla strategia, sulla linea e sul programma. La militanza regolare e irregolare che sono entrambe condizioni strategiche per lo sviluppo della guerriglia.
L’organizzazione delle forze che è in istanze superiori e inferiori regolate dal centralismo democratico.
La cellula che è unità di base del Partito. La costruzione dell’organizzazione che avviene per linee interne alla classe. La guerriglia che organizza sul terreno armato e clandestino tutti i livelli che si dialettizzano con la proposta rivoluzionaria. La centralizzazione del movimento delle forze sulla linea e sul programma politico intorno al piano di lavoro tramite il metodo politico-organizzativo, per sostenere il livello dello scontro ed incidervi con i termini politico-militari necessari ad operare sugli assi strategici. Il riferimento al primato della prassi e al principio prassi/teoria/prassi, nel rapporto tra esperienza e teoria rivoluzionaria. Lo sviluppo della linea politica in relazione ai cambiamenti storici della realtà dello scontro sulla base del principio di continuità/critica/sviluppo.
Il metodo politico-organizzativo come complesso di procedure e strumenti con cui sintetizzare i contenuti della linea politica in attività organizzate e fare dei termini del lavoro organizzato un carattere delle strutture da costruire.

L’esperienza maturata nel corso prolungato con lo Stato e con l’imperialismo, ha consentito di superare la visione manualistica che riduceva il processo rivoluzionario a due sole fasi, quella dell’accumulo delle forze rivoluzionarie e quella del loro dispiegamento nella guerra civile, e di definire il carattere illineare della successione delle fasi, e il loro riferirsi ai concreti esiti dello scontro. La strategia rivoluzionaria si articola tatticamente in rapporto alla natura della fase rivoluzionaria in corso e dispone le forze nello scontro corrispettivamente ai caratteri e ai compiti specifici della fase affinchè lo scontro rivoluzionario possa conquistare posizioni più avanzate e aprire una fase più favorevole. Caratteri e compiti che si riferiscono e vanno identificati nella concretezza del rapporto rivoluzione/controrivoluzione attestato, nei termini della mediazione politica che definiscono i caratteri generali dello scontro di classe, nei termini dello scontro tra imperialismo e antimperialismo.
L’attuale fase di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e Proletarie e di tutti i termini teorici politici organizzativi e militari per condurre lo scontro rivoluzionario, è nata all’interno della più generale Fase di Ritirata Strategica che ha impresso i suoi caratteri sul processo concreto di ricostruzione delle forze che si è avviato alla conclusione della manovra di ripiegamento.
L’intervento combattente delle Brigate Rosse operato nel maggio del 1999 si realizza a seguito di una lunga stasi dell’intervento nello scontro generale tra le classi, avendo potuto operare la ricostruzione delle forze e della capacità offensiva necessaria a realizzarlo e con esso rilanciare la proposta della Lotta Armata per il Comunismo.
Tale rilancio non ha esaurito i compiti della Fase di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e Proletarie, che continua ad essere in atto e ad essere improntata dalle fattori generali della Fase di Ritirata Strategica.
La contraddizione in cui si deve muovere oggi l’articolazione di una linea politica rivoluzionaria è tra lo stadio iniziale della ricostruzione delle forze in rapporto alla maturità politico-strategica del patrimonio della Lotta Armata per il Comunismo, e i mutamenti intervenuti dei caratteri della mediazione politica e dello scontro tra le classi in cui la controrivoluzione ha immesso quanto ha verificato funzionale a contrastare l’opzione rivoluzionaria, per comprimere e depotenziare l’espressione di istanze di autonomia politica di classe.
Contraddizione che inquadra il campo entro cui si definiscono i compiti della Fase per tutte le avanguardie rivoluzionarie con cui possono essere conquistate posizioni più avanzate e fatti concreti passaggi di costruzione del Pcc, e il cui punto di equilibrio e linea di superamento consiste nel selezionare i livelli di costruzione e formazione delle forze necessari e possibili e di sviluppo della linea politica, intorno alla priorità e sui piani della costruzione dell’iniziativa rivoluzionaria che la concreta capacità politico-militare può mettere in campo per incidere nello scontro.
ATTACCARE E DISARTICOLARE IL PROGETTO ANTIPROLETARIO E CONTRORIVOLUZIONARIO DI RIMODELLAZIONE ECONOMICO-SOCIALE NEOCORPORATIVA E DI RIFORMA DELLO STATO
ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI PER RICOSTRUIRE I LIVELLI NECESSARI ALLO SVILUPPO DELLA GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA
ATTACCARE LE POLITICHE CENTRALI DELL’IMPERIALISMO, DALLA LINEA DI COESIONE EUROPEA, AI PROGETTI E ALLE STRATEGIE DI GUERRA E CONTRORIVOLUZIONARI DIRETTI DAGLI USA E DALLA NATO
PROMUOVERE LA COSTRUZIONE DEL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA
TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN AVANZAMENTO DELLA GUERRA DI CLASSE
ONORE A TUTTI I COMPAGNI E COMBATTENTI ANTIMPERIALISTI CADUTI.
Marzo 2002.

Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.