Archivi categoria: Documenti dalle carceri e dai processi

Tribunale di Bologna, processo Biagi. Documento di Nadia Lioce e Roberto Morandi depositato agli atti dell’udienza preliminare del 5 ottobre 2004

Avviando la stagione dei processi a seguito delle operazioni antiguerriglia del 2003 lo Stato riaffermando il suo potere e dandogli risalto mediatico, lungi dal poter celebrare una vittoria politica (pol) contro le BR‑PCC, ambisce a sfruttare al meglio i risultati militari conseguiti riversandoli sul campo di classe e riv nel tentativo di demoralizzarlo e di contrastare il peso dominante del rilancio della strategia della LA nei rapporti generali tra le classi. Ciò perché rimane irrisolto per lo Stato il problema di impedire che le istanze autonome che emergono da un’opposizione di classe rafforzata politicamente dal rilancio, si leghino con l’opzione rivoluzionaria (riv) proposta dalle BR‑PCC quale alternativa alla crisi e alla guerra imperialista (imp). Così tenta di colpire il ruolo di direzione riv che l’Organizzazione (O) svolge da 30 anni nel nostro paese, e di far fronte allo specifico impatto nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione (r/c) che ha avuto il rilancio, il quale, per la sua valenza storica, non è affatto rimesso in discussione dalle perdite subite in quest’anno dalle BR-PCC sempre possibili per le forze riv e a maggior ragione nello stadio aggregativo (SA) della Fase di Ricostruzione che attraversa il processo riv. Un ruolo di direzione, quello delle BR, svolto perché l’attacco al cuore dello Stato incide nei rapporti generali tra le classi, ostacolando la realizzazione lineare dei programmi antiproletari e controriv della BI e indebolendo la tenuta degli equilibri pol‑sociali che li sostengono contrapponendovi l’interesse generale e pol del proletariato (prol); perciò è in grado di modificare le posizioni nello scontro a favore del campo prol e riv. Una capacità quella dell’attacco nei nodi pol centrali che oppongono la classe allo Stato che emerge con chiarezza dalla rivitalizzazione che negli ultimi anni ha caratterizzato le lotte e dalla maggior tenuta dell’autonomia di classe a fronte dei continui attacchi, accerchiamenti o manovre di depotenziamento e neutralizzazione a cui vengono sottoposte nel quadro delle politiche neocorporative e della mediazione politica attestata nelle relazioni generali tra le classi. In un contesto economico e pol segnato da una crisi sempre più profonda del MPU e del dominio della BI, alla quale la borghesia nostrana non può rispondere che con programmi di intensificazione dello sfruttamento e di impoverimento e spingendo alla partecipazione alla guerra e alla controrivoluzione imp diretta dal polo dominante USA e dalla NATO, lo Stato borghese cerca di fare dell’apertura dei processi un momento di attacco politico alle BR e alla proposta della strategia della LA che rivolgono a tutta la classe e, per colpire il ruolo di direzione e la funzione riv che svolge nello scontro, nega la realtà politica del processo riv per propagandare l’irriproducibilità nello scontro attuale dell’opzione riv., della strategia della LA e dell’avanguardia rivoluzionaria. Perciò mentre costringe i processi reali nelle ricostruzioni giudiziarie strumentali al suo fine politico, cerca di utilizzare in vario modo i prigionieri, ostaggi nelle sue mani, sfruttandone le figure riv che per ciò stesso rappresentano per contrastare l’avanzamento politico nella costruzione del PCC sancito dal rilancio, da un lato contrastando e stravolgendo la condotta, inscritta nel solco storico di una tradizione centenaria, di rivendicazione della propria identità militante da parte di prigionieri rivoluzionari, e di riadeguamento politico dei militanti BR prigionieri agli indirizzi dell’O. in attività. Dall’altro, esaltando la condotta di ostaggi che lo Stato è riuscito a rendere propri strumenti nell’attacco pol alle BR‑PCC e alla classe che rappresentano, che usa per incidere a suo favore nelle contraddizioni (cd) della soggettività di classe nel processo di emancipazione dalla condizione di subaltemità politica a cui la borghesia vorrebbe condannare il proletariato. Ciò mentre vengono esercitate pressioni d’ogni genere sullo schieramento di classe, criminalizzandone preventivamente ed emergenzialmente anche le espressioni di dissenso, quale modo con cui lo Stato fa fronte all’attuale grado di approfondimento del rapporto r/c riadeguandosi ad esso, per costringere la classe ad arretrare e affinché le sue avanguardie non assumano il solo terreno, quello riv della LA, su cui può essere data risposta strategica al problema pol di trasformare i rapporti di forza (rdf) a favore del proletariato e dargli prospettiva di potere. Un piano questo su cui è coeso l’intero quadro pol e sindacale in stretto coordinamento con il Ministero dell’Interno. Inoltre, seguendo in generale una specifica linea antiguerriglia verso gli arrestati e la base sociale della LA, attraverso la minaccia di pesanti condanne e facendo di questa e dei suoi esiti favorevoli allo Stato un mezzo di intimidazione e deterrenza verso il campo di classe e rivoluzionario si cerca di depotenziare il ruolo degli interessi generali e storici del prol a partire dai quali l’avanguardia comunista combattente costruisce la progettualità riv., il rapporto di scontro con lo Stato e la BI e la stessa soggettività riv di classe. Si cerca cioè di svuotare e negare la reale sostanza della soggettività riv di classe, il percorso di rotture e salti nella soggettività di classe da una condizione di subalternità all’assunzione di responsabilità pol d’avanguardia sul terreno della guerra di classe, adeguandosi ai termini attuali del rapporto r/c e relazionandosi offensivamente ai nodi centrali dello scontro generale per raggiungere la capacità politico‑militare complessiva idonea a dirigere il processo riv.. Lo scopo di queste linee pol di attacco dello Stato alla guerriglia è di confondere lo schieramento di classe e riv., ma allo stesso tempo rivelano a quale livello radicale si collochi ormai il pericolo riv per il potere della borghesia, non potendo contrastare politicamente in altro modo la propositività della strategia della LA e la centralità che ha acquisito nella storia dello scontro di potere tra le classi nel nostro paese.

È un fatto che il rilancio dell’opzione riv e della strategia della LA con le azioni del 99 e del 2002, ha attestato la risposta riv a quanto la BI e lo Stato avevano conseguito negli anni 80 e consolidato negli anni 90 dell’esito del duplice processo controrivoluzionario, da un lato come mutamento dei rdf storici tra BI e PI, e dall’altro, sul piano nazionale, come modifica in senso neocorporativo della mediazione politica tra le classi antagoniste con la strutturazione sul piano pol‑istituzionale, con il processo di esecutivizzazione, i patti sociali e il maggioritario, della mediabilità politica degli interessi proletari solo in quanto parziali, transitori e funzionali alle istanze e agli obiettivi della BI, ovvero come stabilizzazione nei rapporti generali tra le classi della subalternità politica del proletariato come sostanza della “democrazia governante”, fattori entrambi che contrassegnano il mutamento di fase storica complessivo a cui l’avanguardia riv fa fronte e nel quale si trova ad operare. L’avanguardia riv misurandosi, in specifico con l’intervento del 1999, con il compito di ricostruire proprio in questo quadro politico‑storico, la capacità pol‑militare di immettere offensivamente nella cd dominante in quella congiuntura gli interessi generali e storici del proletariato e la sua autonomia pol., ha potuto collocarli su un punto di forza e rappresentarli nello scontro facendo fronte alle cd dello SA della Fase di Ricostruzione delle Forze Riv e Proletarie e, dando soluzione in avanti alle sue problematiche, ha aperto un varco nella difensiva su cui era attestata la classe, in un contesto di interruzione dell’intervento combattente dell’O., sotto la prolungata offensiva dispiegata dalla BI e dal suo Stato.

Il patto di Natale del 99 costituiva infatti quel passaggio di verifica e riadeguamento del Patto Sociale del 93 complementare al pacchetto Treu‑Biagi del 96 con cui l’esecutivo Prodi, i sindacati confederali e la Confindustria spalancarono le porte alla precarizzazione del lavoro. Perciò era condizione decisiva dell’ulteriore arretramento politico della classe su cui l’esecutivo D’Alema avrebbe voluto far marciare i programmi antiproletari, controriv e bellicisti della BI governandone il conflitto che suscitavano e facendo degli esiti di quel passaggio termine del necessario assestamento e nuovo avanzamento del piano neocorporativo di rapporto tra le classi di approfondimento della mediazione politica neocorporativa e base del procedere delle linee di riforma complessiva dello Stato e del suo ruolo nelle pol centrali dell’imp. Con l’azione D’Antona il disegno politico espresso nel Patto di Natale ed il suo ruolo nel programma dell’esecutivo D’Alema ricevono un duro colpo. Ne viene cioè indebolita l’agibilità politica e la coesione dell’asse DS‑CGIL intorno a cui era aggregato un più vasto equilibrio politico‑sociale che lo sosteneva e legittimava le prerogative legislative che l’esecutivo si era avocato con le leggi‑delega per riformare il mercato del lavoro con le “politiche attive” in direzione di subordinare il lavoro salariato alla massima ricattabilità; per frammentare, privatizzare e ridurre la sfera del welfare; per comprimere ancor di più il diritto di sciopero; per svuotare il contratto collettivo nazionale di lavoro e per rafforzare la rappresentanza sindacale esposta a crisi di legittimità e di capacità di controllo del conflitto, dalla sua partecipazione attiva allo smantellamento delle conquiste storiche del movimento operaio e al peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali del proletariato, in un contesto economico strutturalmente non espansivo che ha ridotto progressivamente i margini materiali di negoziazione con cui aggirare le istanze autonome della classe. Se, proprio per il ruolo che le politiche neocorporative hanno avuto nel far arretrare le posizioni del prol., il Patto di Natale avrebbe dovuto costituire il punto di forza dell’esecutivo D’Alema e del suo programma di governo, con l’attacco delle BR‑PCC ne diventò invece il fattore di crisi. E ciò perché Massimo D’Antona ne era il garante per l’esperienza e la capacità pol maturata negli esecutivi degli anni 90 e come esperto di legislazione del lavoro nella consulta giuridica della CGIL, nel legare i passaggi di riforma della Pubblica Amministrazione, gli accordi contrattuali, il percorso di restrizione del diritto di sciopero e la regolazione del sistema della rappresentanza sindacale dei lavoratori dell’ambito pubblico, riconducendo gli antagonismi che emergevano nelle principali vertenze di quegli anni a un piano di compatibilità con i programmi riformatori e verificando negli andamenti di quegli scontri particolari la generalizzabilità degli esiti favorevoli alla classe dominante, realizzandola con l’introduzione calibrata agli equilibri tra le classi e al contenuto delle spinte conflittuali, dei contenuti neocorporativi nella legislazione del lavoro. Per questo e per trasformare complessivamente le leggi del lavoro che codificavano i rdf tra borghesia e proletariato della fase economica e pol precedente, l’esecutivo D’Alema fece di M. D’Antona il braccio destro del ministro Bassolino assegnandogli la presidenza del comitato consultivo sulla legislazione del lavoro, organismo che includeva la maggior parte delle associazioni sindacali e padronali e il cui ruolo venne svuotato dall’azione del 20 maggio 1999 e di fatto concluso, ma che avrebbe dovuto costruire tutte quelle mediazioni occorrenti a raggiungere obiettivi politici della BI che tuttora, a distanza di 5 anni, restano in parte irrealizzati, quali la sostituzione della contrattazione aziendale o locale alla centralità del contratto nazionale con la conseguente frammentazione della forza contrattuale della classe ed il suo indebolimento, ed il correlato rafforzamento dei livelli di capacità dei vertici sindacali confederali di emarginazione, e di partecipazione alla repressione delle spinte autonome della classe, e di controllo contenimento e neutralizzazione delle resistenze proletarie, con la legittimazione delle pratiche di democrazia formale idonee a garantirli.

Un ritardo pol che quanto previsto nel libro Bianco di M. Biagi intendeva colmare stringendo la radicale rimodellazione economico‑sociale e politica collegata alla riforma federale dello Stato, contando sul sostegno di un equilibrio politico‑sociale meno vincolante di quello degli esecutivi di centrosinistra. Ma, nonostante le forzature operate a seguito dell’azione Biagi dall’esecutivo Berlusconi con il patto per l’Italia e l’approvazione della legge 30 per superare i vincoli politici a cui i vertici del sindacato confederale soggiacciono nell’espletamento dei loro compiti antiproletari e controrivoluzionari, alcuni dei nodi principali non sono ancora sciolti. Anzi, il suo procedere a tappe forzate in un quadro in cui domina il rilancio della strategia della LA e ancora permane il varco offensivo aperto dalle iniziative D’Antona e Biagi, ha alimentato il conflitto di classe e accelerato la perdita di peso pol generale del sindacato, senza che siano già rimodellati organicamente i rapporti economico‑sociali tra le classi così da prevenire a monte il conflitto strutturando la subordinazione politica del proletariato né sia rodata la formula del dialogo sociale che li integra. L’affermazione ed il dispiegamento del progetto previsto dal libro bianco incontrano infatti vaste resistenze che, stante il peso dell’interesse generale e pol della classe rappresentato nello scontro dal rilancio,obbligano l’esecutivo, sindacato e Confindustria ad oscillare tra azione comune, inerzia ed azioni di forza, spinti dall’emergenza con cui premono le istanze della BI e dalla necessità di divaricare la classe dal piano riv., mentre a complicare il necessario governo della crisi e del conflitto si aprono già nuove cd a causa dell’approfondimento della crisi stessa e per come si manifesta nella debole economia nazionale e si riflette sugli esigui margini di politica economica consentiti dal bilancio statale per governarla, nel quadro dei vincoli UE e UEM definiti a sostegno della concorrenzialità del capitale monopolistico a base europea. Un approfondimento della crisi tale da prospettare il “declino” dell’economia nazionale e l’impoverimento progressivo delle condizioni di vita proletarie già avviato con le riforme del lavoro attuate in questi anni e tale da riproporre con forza al nuovo livello, e mentre lo schieramento imp porta avanti la sua guerra infinita contro i popoli che vuole sottomettere, il nodo storico dell’alternativa riv al dominio della BI.

Perciò a fronte dell’avanzamento sostanziale del processo riv prodotto dalla riproposizione nella attuale fase politica del patrimonio e della linea generale delle BR fatti avanzare al livello raggiunto dal rapporto r/c riadeguando indirizzi di fase e prassi riv, lo Stato per proseguire la sua offensiva contro la classe ha necessità di ottenere un qualche successo pol seppur parziale. Infatti i suoi recenti risultati militari contro l’O se si riflettono sull’andamento concreto del processo riv rideterminandone i passaggi, nulla possono contro il fatto politico che siano stati praticati nello scontro generale tra le classi gli indirizzi pol‑militari con cui le BR‑PCC combattono e disarticolano la progettualità della BI e gli equilibri pol che la sostengono che, nel far fronte a quanto la controrivoluzione ha attestato, rispondono alle istanze pol e strategiche della classe e delle sue avanguardie. Indirizzi che rispondono alla necessità nella fase in atto, di selezionare ricostruire e formare il complesso dei termini e dei livelli di disposizione‑organizzazione rivoluzionaria e proletaria sulla progettualità e sul programma delle BR‑PCC sulla base del contributo fin da subito alla prassi riv dell’O in termini di stretta centralizzazione politica e di responsabilizzazione complessiva sulla linea e sul programma dell’O per produrre la massima incidenza pol nello scontro generale tra le classi ed ottenerne il vantaggio ai fini degli obiettivi politico‑militari di fase.

Indirizzi che perciò mettono in grado le BR‑PCC di sostenere anche il riflettersi sulla soggettività di classe del livello attestato dalla controriv , dato politico quest’ultimo, che rende centrale in questa fase che l’avanguardia riv si faccia carico progettualmente e programmaticamente dei termini della cd costruzione/formazione e delle problematiche generali che ne scaturiscono ai fini di assestare l’iniziativa offensiva contro lo Stato e la BI e su ciò formare, attraverso le rotture ed i salti pol occorrenti, la soggettività riv adeguata a misurarsi con il complesso dei compiti di fase che ruotano intorno alla stabilizzazione dell’intervento combattente nello scontro generale tra le classi e alla ricostruzione dell’OCC che agisce da Partito per costruire il Partito e che pertanto ne costituisce il nucleo fondante.

La storia dello scontro di potere tra le classi nel nostro paese dimostra come lo Stato si muova in una sostanziale difensiva politica a fronte della strategia della LA con cui le BR dirigono lo scontro e che la soggettività riv di classe può farsi carico a livello necessario dell’opzione riv., perché questa si è attestata nelle relazioni generali tra le classi quale esito dei mutamenti sedimentati nella trentennale attività delle BR nei rapporti di scontro, per la capacità propria della strategia della LA di influire su di essi e di modificarli. Un dato pol che perciò è ineliminabile dalla controriv anche in caso di danneggiamento dell’OCC e che è il prodotto dell’essere la prassi combattente delle BR-­PCC fattore attivo del mutamento delle posizioni pol e di forza tra le classi perché svolge un ruolo di direzione rispetto agli interessi politici generali e storici del proletariato a partire dall’attacco sui nodi centrali che oppongono la classe allo Stato. Perciò lo Stato con l’avvio dei processi pretenderebbe di distorcere gli indirizzi politici e strategici di fase dell’O al pari dell’amara realtà per la classe dominante, del portato del rilancio. Rilancio che ha assestato quanto già emerso negli anni 80 con la capacità delle BR‑PCC aprendo la Ritirata Strategica di preservare e rilanciare l’offensiva contro lo Stato e la BI e di far avanzare la costruzione del PCC, assestamento che conferma che quando la rivoluzione riesce a sopravvivere e a resistere ad una controrivoluzione consegue una vittoria strategica.

I militanti delle BR‑PCC
Nadia Lioce
Roberto Morandi

Seconda Corte di Assise di Roma, Processo D’Antona e banda armata. Udienza del 7 luglio 2005. Documento dei militanti delle BR-PCC Nadia Lioce e Roberto Morandi depositato agli atti

Celebrando contemporaneamente e con celerità insolita tutti i cosiddetti processi alle Brigate Rosse, lo stato borghese ha cercato di valorizzare in qualche modo su un piano politico i risultati conseguiti dall’attività antiguerriglia negli ultimi due anni, per farli pesare sugli stessi militanti BR e rivoluzionari prigionieri, in termini controrivoluzionari nello scontro generale in mancanza di risposte politiche possibili a quanto la strategia della lotta armata ha reimmesso nello scontro di classe, ovvero l’alternativa proletaria della conquista del potere per la costruzione del comunismo, alla crisi della borghesia imperialista e alla sua incapacità di prospettare altro che crescente sfruttamento, impoverimento e regresso sociale, guerra e controrivoluzione. Infatti le risposte degli esecutivi che si sono succeduti dal ’99 ad oggi, strette tra l’urgenza delle istanze della borghesia imperialista nella crisi e il portato complessivo del rilancio dell’attacco delle BR-PCC allo stato in dialettica con l’opposizione di classe, non sono affatto riuscite a recuperare l’erosione degli equilibri politici e sociali che hanno sostenuto la progettualità della borghesia imperialista e i programmi di riforme economico-sociali e dello stato necessari per rafforzare il suo dominio, governare la crisi e sostenere l’impegno guerrafondaio e controrivoluzionario nello schieramento imperialista guidato dagli USA, in prima fila per trarne margini economici per il debole capitalismo monopolistico nostrano.

Né l’iniziativa delle parti sociali, è riuscita a ricucire linearmente e in tutta la sua profondità il tessuto di relazioni neocorporative lacerato dall’intervento politico-militare dell’Organizzazione in dialettica con l’opposizione di classe alle riforme. Del resto il dato politico che ha qualificato il rilancio e il suo essere attestazione della risposta rivoluzionaria a quanto la borghesia imperialista e lo stato avevano conseguito negli anni 80 e consolidato negli anni 90 dell’esito del duplice processo controrivoluzionario. da un lato come mutamento dei rapporti di forza storici tra proletariato internazionale e borghesia imperialista a favore di quest’ultima, e degli equilibri internazionali a favore della NATO. Dall’altro, sul piano interno, con il ridimensionamento del ruolo della strategia della lotta armata, come trasformazione in senso neocorporativo della mediazione politica tra le classi antagoniste con la strutturazione mediante i processi di esecutivizzazione, i “patti sociali” e il maggioritario, della mediabilità degli interessi proletari, solo in quanto parziali e transitori, e funzionali a istanze e obiettivi politici della borghesia imperialista. Una trasformazione che è stata passaggio dall’istituzionalizzazione del conflitto di classe, corrispettiva a determinati rapporti di forza e politici storici, operata nel quadro della democrazia rappresentativa a carattere parlamentarista, alla “istituzionalizzazione” della prevenzione del conflitto stesso, ai fini del dispiegamento dell’offensiva della borghesia sulla classe per rafforzare il suo dominio e strutturare una subordinazione politica del proletariato a fronte dell’approfondimento della crisi, della debolezza del capitale monopolistico e dell’economia nazionale e nella polarizzazione degli interessi antagonistici che producono. Un quadro di scontro nelle cui evoluzioni la soggettività rivoluzionaria che si è rapportata agli indirizzi politici e strategici praticati e proposti alla fine degli anni ’80 dalle BR-PCC riconoscendone la direzione rivoluzionaria dello scontro di classe, avviò negli anni 90 la disposizione e organizzazione delle forze aggregate per costruire l’iniziativa rivoluzionaria e la tenuta e avanzamento delle forze stesse. La valenza della linea praticata a suo tempo dai Nuclei Comunisti Combattenti è consistita nel non essere fondata sui limiti soggettivi delle avanguardie aggregate ad cui potevano essere rielaborate concezioni strategiche basate su teorizzazioni che non hanno fondamento politico nello scontro, ma sul ritenere che la valenza storica delle BR e della strategia adeguata a portare avanti la rivoluzione proletaria, fosse rappresentata proprio dalla proposta politica che avanzavano. Questa posizione è stata politicamente forte perché nel rapportarsi allo scontro riferendosi all’espressione più matura del processo rivoluzionario, datasi nello scontro stesso, era quella adeguata a sottrarsi all’arretramento prodotto da una fase politica a carattere controrivoluzionario. La difficoltà a coagulare forze rivoluzionarie e proletarie per riprodurre capacità di iniziativa rivoluzionaria non era infatti casuale, né temporanea, ma prodotto storico della sedimentazione nello scontro di classe di un processo controrivoluzionario che si rifletteva in varie forme sulla soggettività del proletariato e nel campo di classe e rivoluzionario. L’aspetto principale nell’avanzamento delle condizioni di fase doveva essere perciò intervenire nei termini politici dello scontro di classe rilanciando la propositività dell’iniziativa rivoluzionaria come unico piano per praticare un’opzione di potere che nel rapporto di scontro con lo stato non può che avere caratteri politicamente offensivi e quindi oggi non può che assumere carattere politico-militare e d’avanguardia. Gli attacchi realizzati dagli NCC non furono una generica espressione di antagonismo o di resistenza armata, ma riferiti ai criteri dell’attacco al cuore dello stato, l’attacco nei nodi politici centrali dello scontro tra classe e stato, ha costituito un criterio che ha permesso di collocare e impostare l’iniziativa combattente su un piano che consentisse di far avanzare una prospettiva di potere e in ciò rappresentare gli interessi generali e storici del proletariato e di organizzarsi e formarsi su una tendenza che poteva portare l’avanguardia rivoluzionaria ad assumere un ruolo che andasse nella direzione di costruire il Partito Comunista Combattente. Un processo niente affatto scontato, il cui reale avanzamento ha avuto come punti di forza il rapporto politico con il patrimonio storico delle BR e il fatto che l’azione combattente dei Nuclei nelle intenzioni della soggettività rivoluzionaria era condizionata dal dover essere funzionale a produrre forze e potenzialità da organizzare e formare a un livello di capacità offensiva superiore per rilanciare l’attacco al cuore dello stato. Così che a partire dall’esperienza degli NCC, sulla direttrice che hanno seguito, l’avanguardia comunista combattente sia riuscita ad arrivare a portare l’attacco al cuore dello stato e in questa fase storica, ha già pronunciato una parola definitiva rispetto al ruolo della proposta politica delle BR-PCC nello scontro di classe nel nostro paese. È per questo che la controrivoluzione ha voluto sostenere l’esistenza di una continuità soggettiva diretta tra militanti BR, in specifico prigionieri e rilancio. Se questo è infatti ciò che la strategia rivoluzionaria ha prodotto sullo stato partendo da zero può significare solo che gli eventi politici espressi da questa proposta rappresentano effettivamente la direzione teorica dello sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese, per cui possono essere ripresi e rilanciati anche a seguito di una fase in cui la controrivoluzione aveva assunto politicamente non solo la fine delle BR ma anche quella della lotta per il potere da parte del proletariato. La maturità raggiunta dal patrimonio delle BR è il frutto degli avanzamenti conseguiti dal misurarsi con la controrivoluzione degli anni 80, e seguito dall’apertura della Ritirata Strategica ed in particolare dal riferire strettamente la linea di combattimento fondamentale della guerriglia, l’attacco allo stato, affinché in questa fase rivoluzionaria abbia il massimo dell’incidenza politica, strettamente ai criteri di centralità del progetto dominante, selezione del personale perno dell’equilibrio politico a suo sostegno e calibramento ai rapporti di forza interni e internazionali, nonché allo stato delle forze rivoluzionarie e proletarie e alla loro disposizione sulla lotta armata. Criteri che impostano cioè la linea di combattimento sulla quale in questa fase si articola il programma politico di attacco allo stato e di costruzione del Partito e ai quali è collegata la comprensione più profonda del ruolo e natura dello stato, oltreché come organo della classe dominante e sede dei rapporti politici tra le classi, anche come rapporto politico e prodotto dello scontro tra le classi, per cui la distruzione dello stato come parte della natura del processo rivoluzionario, ha potuto e dovuto essere intesa non riduttivamente solo come distruzione dell’apparato statale, né, più correttamente, come distruzione (disarticolazione) del progetto politico dominante, ma senza considerarlo centrale non solo perché rispondente alle esigenze della borghesia imperialista come programma genericamente funzionale all’affermazione dei suoi interessi, ma perché nel rispondervi è progetto capace di realizzare l’inclusione del proletariato nella dinamica politico-istituzionale e quindi di garantire il rapporto politico tra le classi che lo stato borghese moderno nel quadro dei caratteri odierni dell’imperialismo assicura e con ciò la subalternità politica della classe dominata (e con ciò quindi svolge la concreta funzione di controrivoluzione preventiva). Eludere, nella considerazione del ruolo e delle politiche dello stato (inteso come istituzioni politiche e sociali nel loro complesso, non solo dunque lo stato in senso stretto, come “organi” costituzionali, ordinamento, etc. ma anche ciò a cui lo stato riconosce funzione pubblica), il ruolo che lo stato ha nell’esercitare il dominio politico della borghesia in chiave controrivoluzionaria impedisce infatti di comprendere che il programma politico di lotta contro lo stato rappresenta la possibilità di trasformare la lotta di classe in lotta di classe per il potere, cioè in guerra di classe, piano su cui la rappresentanza degli interessi generali del proletariato diventa programma politico concreto. Un’elusione da cui derivano necessariamente concezioni che separano la costruzione del proletariato sul piano dello scontro rivoluzionario su linee e modalità “politicamente” distinte dall’attacco politico-militare che viene realizzato, fino a ridurla a problematica organizzativistica, non essendo stata individuata la funzione politica anche rispetto alla lotta di classe che svolge l’attacco politico-militare, proprio perché lo stato non è stato considerato come rapporto politico tra le classi antagoniste che ha proprio in quanto tale una funzione controrivoluzionaria strutturale che dovrebbe impedire alla classe di sviluppare tendenze rivoluzionarie.

Rapporto politico che peraltro è un prodotto del complessivo scontro storico tra le classi e che perciò si è costruito-istituito in quanto e nella misura in cui ha capacità di reggere e sconfiggere le tendenze rivoluzionarie e che scaturiscono dalla oggettiva collocazione antagonista del proletariato nei rapporti sociali; è calibrata quindi ai rapporti politici e di forza che nello scontro si sono dati e deve diventarlo, non lo è sempre già a priori, ai rapporti che via via si determinano. È principalmente la centralità di questi termini che hanno costituito contenuto teorico degli avanzamenti raggiunti dalle BR-PCC nello scontro, che il rilancio ha potuto ricostruire nello scontro di classe il ruolo del programma politico di attacco allo stato, che per la strategia della L.A. praticata e proposta dall’Organizzazione non è mai stato impostato genericamente come mera espressione di un antagonismo di interessi e politico, nel perseguire in particolare in questa fase l’obiettivo storico di distruggere lo stato attraverso un concreto processo di disarticolazione politica operata con l’attacco militare alla progettualità politica nemica che si afferma come centrale nell’affrontamento delle condizioni dominanti che oppongono le classi nelle varie congiunture e fasi politiche in relazione ai nodi della crisi e del dominio della borghesia imperialista, progettualità che costruisce l’equilibrio dominante per far avanzare le linee di programma dello stato borghese.

Un attacco che, in quanto ha questo indirizzo politico generale, può assumere centralità nello scontro di classe, costituire un rapporto di forza esercitabile e finalizzabile a incidere sul piano su cui lo stato si rapporta alla classe, che è quello dello scontro di potere, colpendone il progetto e disarticolandone l’equilibrio politico con cui sostiene questo scontro e per come si articola nei suoi nodi-passaggi per irradiarsi nel complesso delle relazioni tra le classi, ed essere concreto esercizio di direzione rivoluzionaria del PCC in costruzione. Ovvero è il suo contenuto politico ciò che lo mette in grado di trasformare lo scontro di classe in scontro di potere, rispetto agli interessi generali contrapposti, al rapporto di forza, alla prospettiva storica aperta dalla realizzazione del programma di attacco allo stato e in guerra di classe in relazione alle fasi che il processo rivoluzionario matura. Un programma politico di disarticolazione dell’azione dello stato proposto alla classe, che definisce gli obiettivi programmatici che costituiscono nello scontro di classe il piano di lotta per il potere, e su di esso, la costruzione concreta del Partito Comunista Combattente e l’organizzazione e disposizione della classe sulla sua linea politica e programma. Disarticolazione del progetto dominante, il quale ha come sua funzione intrinseca quella di governare la crisi e il conflitto che caratterizzano il modo di produzione capitalistico e una società formata da classi antagoniste, conseguibile perché l’attacco allo stato con questi criteri, squilibra l’azione delle varie forze che concorrono a realizzarlo. L’attacco allo stato condotto con questi criteri esercita infatti una forza che non risiede nella sua sola forza militare, oggettivamente limitata nella fase di ricostruzione che si è determinata all’interno di quella più generale di Ritirata Strategica, ma, da un lato nella contraddizione dominante che oppone le classi e a cui il progetto politico dell’equilibrio politico dominante si prefigge di dare una soluzione antiproletaria e controrivoluzionaria in funzione degli interessi generali della borghesia imperialista governandone le contraddizioni antagonistiche convogliandole con un insieme di atti politici e militari nell’ambito delle compatibilità con il governo della crisi e nelle forme di rapporto istituzionalizzato con la classe. Usufruisce cioè della posizione strutturalmente difensiva della borghesia anche qualora fosse all’offensiva, borghesia che è obbligata a governare politicamente le contraddizioni di un modo di produzione e di un rapporto sociale storicamente superato. Dall’altro lato risiede nella forza politica del patrimonio politico sviluppato dalla rivoluzione comunista, dalla guerriglia e dalle BR-PCC in particolare. Motivi per cui l’attacco al cuore dello stato è linea strategica della sua disarticolazione politica, mentre il programma di disarticolazione-distruzione dello stato (e quello dialettico all’imperialismo per provocarne la completa crisi politica) e di costruzione del partito (e del Fronte Combattente Antimperialista) si realizza sulla linea politica con cui la guerriglia si relaziona alle fasi e congiunture politiche e il suo avanzamento si colloca nelle condizioni di fase dello scontro rivoluzione/controrivoluzione e si rapporta agli equilibri internazionali. Il rilancio della strategia della lotta armata è stato la risultante della tensione dell’avanguardia rivoluzionaria a portare la propria capacità offensiva e ruolo nello scontro al livello dell’attacco al cuore dello stato e della direzione rivoluzionaria esercitata dalle BR; obiettivo che ha imposto di confrontarsi con l’intero complesso delle contraddizioni e dei nodi politici che lo scontro rivoluzione/controrivoluzione poneva per dargli soluzione in avanti. Mediamente, infatti, alle spalle delle avanguardie che hanno dato vita agli NCC non c’era una storia rivoluzionaria di cui avessero memoria personale per una partecipazione diretta o, quando c’era, era ridotta fondamentalmente agli anni ’80, quindi tutta interna allo scatenamento dell’offensiva controrivoluzionaria e alla ridefinizione in senso neocorporativo della mediazione politica dello stato con il proletariato. Il riferimento al ricentramento operato dalla O. a seguito dell’apertura della Ritirata Strategica e la migliore conoscenza di questo periodo storico, faceva assumere i principi di impianto organici e maturi a cui le BR erano pervenute, ma associandoli come corrispettivo di prassi rivoluzionaria che li concretizzava a quella attività dell’O. pubblicamente visibile nella seconda metà degli anni ’80 in particolare e quindi fondamentalmente ridotta agli attacchi politico-militari che si sono succeduti e nel ritmo che hanno avuto. Inoltre nessuno aveva una idea reale o che rispecchiasse pratiche dell’O. in momenti in cui era fortemente destabilizzata, di ciò in cui consistesse il suo lavoro politico presso avanguardie rivoluzionarie e di classe, né di come l’O. sul finire degli anni ’80 avesse concepito di muoversi rispetto al problema della ricostruzione di tutti i termini per attrezzare la classe allo scontro prolungato con lo Stato che già si affacciava. D’altra parte la discontinuità organizzativa è il dato che consente e obbliga l’avanguardia rivoluzionaria allo sviluppo di ipotesi in merito a quello che potesse essere il quadro complessivo delle attività svolte dall’OCC che si intendeva costruire eccettuato ciò che si imponeva concretamente come una necessità dal momento che si voleva costruire una organizzazione stabile, con un logistico stabile, con militanti e strutture regolari etc. Non accade diversamente alle avanguardie rivoluzionarie che dall’azione delle BR-PCC di questi anni e al massimo dai documenti con cui la rivendicano, volessero ricavarne gli elementi per capire cosa devono fare nel complesso. In queste dinamiche oggettive risiede però anche il rischio di parzialità di ciò che può essere costruito pur avendo a disposizione un riferimento d’impianto e di patrimonio politico e di esperienza storica già matura. In particolare, anche a seguito del ’99, essendo l’OCC BR un’entità in costruzione, anche il rapporto più maturo con il patrimonio storico, si produce nello scontro e non a priori, ne esso si può ridurre alla semplice conoscenza teorica, anzi nel rapportarsi allo scontro affrontando i problemi politici che la situazione storica concreta propone, avendo però finalità e un’impostazione definita, questo porta a riesaminare categorie, principi e criteri che possono sembrare noti e ovvi e che invece vengono a fornire nuove armi per rapportarsi allo scontro ma anche evidenziando quanto il patrimonio della rivoluzione proletaria in Italia espresso dalle BR abbia raggiunto un elevato grado di maturità e attualità. Un patrimonio sui termini di conduzione della guerra di classe di lunga durata che alla fine degli anni ’80 raggiunge una definizione matura che riguarda il complesso dei termini su cui si sviluppa, nella definizione della fase rivoluzionaria, negli assi programmatici d’intervento, nei criteri attraverso cui l’attacco allo Stato può produrre il massimo di incidenza relativamente agli obiettivi della disarticolazione politica dello Stato e della sua capacità di esercizio di dominio politico sulla classe (e alla forza schierabile) ma anche nei caratteri organizzativi che la guerriglia deve assumere per far avanzare lo scontro, che non si limitano ai principi fondamentali di clandestinità e compartimentazione, ma definiscono anche il modulo politico-organizzativo adeguato, gli strumenti politico-organizzativi che possono far avanzare l’agire da Partito per costruire il Partito e costruire la forza adeguata a sostenere i compiti dello scontro prolungato con lo Stato e dell’organizzazione di classe su questo piano nelle dure condizioni di accerchiamento strategico in cui opera la guerriglia nella metropoli imperialista. In esso, l’attacco al cuore dello Stato e i criteri che lo qualificano, sono un termine impostativo fondamentale di tutti gli aspetti relativi alla conduzione della guerra di classe, e il nodo attraverso cui la guerriglia, nel rapporto di guerra che mette in atto con lo Stato, può impostare la sua azione combattente in maniera tale da esercitare effettivamente il ruolo di direzione politico-militare dello scontro di classe e rappresentando gli interessi generali e storici del proletariato. Averne la cognizione però non basta per affrontare tutti gli aspetti che consentono di far sviluppare la guerra di classe in ogni fase e nel loro procedere lineare. Se questo è l’unico termine con cui ci si rapporta alla contraddizione rivoluzione/controrivoluzione ci si disarma degli strumenti politici per esercitare un ruolo d’avanguardia. È necessario infatti utilizzare questi criteri per rapportarsi alle condizioni della fase rivoluzionaria in corso. Gli NCC hanno fin dalla loro nascita riferito il rilancio della iniziativa rivoluzionaria ad un problema di fase. Nel rapporto con l’impianto delle BR-PCC questo dato era ben chiaro, come era chiaro il fatto che la conduzione dello scontro dovesse riferirsi a condizioni di fase, per poterle superare e dare avanzamento al processo rivoluzionario. Anche i criteri dell’attacco al cuore dello Stato erano stati chiari fin dall’inizio grazie ad una corretta idea generale della natura e del ruolo dello Stato. Ciò fu alla base della concepibilità del criterio dell’attacco “nei nodi politici centrali”, non indiscriminatamente, ma rivolto a colpire il progetto politico centrale sugli assi programmatici definiti nell’impianto storico. Come pure dall’inizio c’è una identificazione della funzione portante svolta dal Patto neocorporativo nell’assetto politico-istituzionale complessivo. Nel merito della categoria dei “nodi politici centrali” nell’impostare l’iniziativa rivoluzionaria, la sua funzione è stata di distinguere la propulsività di attacco sui nodi centrali dalla scarsa a non propulsività di attacchi marginali o su piani che non siano quello classe/Stato. Questa categoria esprime cioè il principio dell’attacco sul piano di classe/Stato e non in un punto qualsiasi ma in un punto centrale nei rapporti politici e di forza tra le classi. Dato che i nodi politici centrali dello scontro esistono e lì si deve collocare l’iniziativa rivoluzionaria questa categoria ha una sua validità in particolare laddove non c’era una capacità di operare un’analisi politica, storica e complessiva che consenta di identificare la contraddizione dominante che oppone le classi, l’aspetto principale. Il progetto politico e centrale e i nodi su cui questo si articola e di definire una linea politica e un programma. Il limite di questa categoria è che non include in sé gli strumenti con cui un nucleo d’avanguardia possa concepire una linea politica, una progettualità rivoluzionaria con cui condurre lo scontro, non il singolo attacco. Quindi questa categoria ha una funzione decisiva e insostituibile per avviare una prassi rivoluzionaria, ma finisce per avere un ruolo riduttivo e infine negativo se viene assunto come punto di vista, perché limita la ricerca del come sviluppare una condotta della guerra. Un limite connesso è stato identificato nell’unicità dell’attacco portato dai NCC sui rispettivi assi programmatici. Limite rispetto alla propositività politica della prassi rivoluzionaria che è data dalla capacità del combattimento di articolare la corretta linea politica, linea su cui si costruisce lo scontro di potere, mentre l’unicità di attacco o la sua episodicità limita la possibilità di far assumere al combattimento il ruolo dia articolazione di una linea politica, di un programma politico e tende a qualificare l’iniziativa rivoluzionaria esclusivamente nel suo ruolo di esercizio isolato di forza contro il nemico di classe, di espressione di autonomia politica di classe in un singolo passaggio nel rapporto con gli interessi generali del proletariato. Un limite che si riflette nei termini politici che vengono immessi nello scontro che non sono sufficienti a definire il ruolo politico della prassi combattente e la natura di uno scontro sul terreno del potere; insufficienza che può generare un processo di dialettica politica che tende a relazionarsi all’aspetto ideologico e di prospettiva che l’iniziativa apre, piuttosto che all’aspetto politico e strategico per la classe a cui viene proposta e per le forze che la realizzano, per le quali risulta sminuito il ruolo della prassi combattente come punto di sintesi dell’elaborazione politica e il ruolo stesso dell’elaborazione politica nel consentire l’incisività dell’attacco militare, con risvolti anche nella costruzione della soggettività militante e organizzativa come mancata valorizzazione del ruolo che effettivamente si esercita nello scontro rispetto agli interessi storici della classe nel dirigerla ad assumere il piano e l’indirizzo per il loro conseguimento aspetto che non contrasta la tendenza spontanea a considerare in modo particolaristico il proprio ruolo invece che in rapporto al movimento generale dello scontro. Inoltre l’aspetto principale dell’iniziativa politico-militare degli NCC non è stato il suo ruolo in sé, per l’effetto politico che produceva nello scontro per quanto delimitato potesse essere la funzione politica che finiva per assumere nella coscienza politica, era quella di iniziative rivoluzionarie funzionali a determinare condizioni politico-militari e materiali per rilanciare l’attacco al cuore dello Stato e dunque ad aggregare le forze. Era dominante un approccio meccanico al riconoscimento dell’essere nella Fase di Ricostruzione e al dovere fare i conti con il piano particolare dell’esiguità delle forze organizzate. Su questo incideva principalmente la difficoltà dell’assunzione di un punto di vista informato dall’unità del politico e del militare su tutti i piani che riduceva la possibilità di fare delle iniziative un momento di impostazione di un modo generale per affrontare tutti i complessi termini di sviluppo della guerra di classe, per inquadrare il ruolo del “combattimento” nel far avanzare il processo rivoluzionario e nel suo rapporto con lo scontro di classe in relazione ai vari piani su cui si sviluppa la guerra di classe di lunga durata, ovvero il suo essere “modo” in cui si sviluppa il processo di guerra e su cui si lavora alla costruzione del PCC (e del FCA) qualunque sia il carattere della fase. Perché per la natura dello Stato e dell’imperialismo, l’avanzamento rispetto agli obiettivi che qualificano le condizioni di fase, proprio perché fasi di una guerra di classe, si realizza sempre e comunque come concreti risultati dei combattimenti realizzati, risultati politico-militari. E gli aspetti di programma che rappresentano più specificatamente l’organizzazione della classe intorno ad esso, definiscono le proprie condizioni politiche e materiali intorno al rapporto di scontro con il nemico, avendo presente che il nemico non è un’entità militare, come in una guerra convenzionale, né una forza politica, ma è lo Stato, che ha un ruolo di governo della crisi e del conflitto con una classe strutturalmente antagonista.

In conclusione le iniziative degli NCC erano strumentali, ma dato che lo erano ad elevare la capacità di “disarticolazione” e dato che per elevare questa facoltà occorreva costruire molte condizioni politiche, militari, ecc., così che i problemi della fase comunque venivano affrontati, questa strumentalità non ha portato fuori strada, ma solo a una parzialità e relativa disorganicità. Essa ha però concretamente pesato come indebolimento della capacità di costruire una soggettività militante sulla base dell’assunzione della lotta per il potere per affermare gli interessi generali del proletariato di contro a quelli della BI, in quanto si esprimeva debolmente la “ragione sociale” del ruolo e propositività degli NCC. Una propositività che avrebbe dovuto risiedere nell’articolare la corretta linea politica su cui costruendo lo scontro di potere maturassero le rotture soggettive che portassero ad assumere un piano politico e politico-militare riferito all’imposizione degli interessi generali e storici del proletariato, come propria identità e obiettivo di lotta e a costruirsi e formarsi relazionandosi e responsabilizzandosi rispetto a obiettivi di programma politico e non solo rispetto alle attività programmatiche. Elementi inquadrabili e misurabili nei condizionamenti imposti all’epoca del rapporto con la controrivoluzione e nella durezza delle condizioni politiche e materiali che concretamente si manifestavano nelle limitate capacità soggettive e collettive sia sul piano politico che militare. Con ciò nonostante l’inevitabile contraddittorietà di un processo del genere, altre strade sono state estranee all’impianto della strategia della LA e un arretramento rispetto alle conquiste politiche maturate dal proletariato italiano sul terreno della lotta per il potere. Un processo contraddittorio che ha fatto sì che il salto all’attacco al Patto di Natale, con l’azione D’Antona, fosse sostenuto da un’idea piatta e minimale dell’attacco al cuore dello Stato e della Fase di Ricostruzione, che però, concependo e vedendo la complessità dei termini che andavano ricostruiti e vedendoli nello scontro generale, perché sulla soggettività degli NCC si rifletteva il fatto che aggregavano avanguardie di lotta che avevano fatto esperienze di conduzione di lotte e sapevano che cosa andava capito e affrontato per far muovere una forza potenziale collettiva, identifica lo stadio aggregativo che attraversa la fase. Ma alla fine questo programmaticamente si riduceva a costruire i termini politici e operativo-militari che consentivano un agire organizzato. Il che non era poco, ma non raggiungeva una dimensione politico-strategica del problema. Soprattutto era difficile concepire come il problema con cui misurarsi fosse sia quello di identificare come fare a rapportare un’opzione tipicamente offensiva, come quella che le BR propongono, a una classe in difensiva (dal momento che veniva a mancare il piano comune, quello politico soggettivamente perseguito quanto meno come obiettivo di conquista di strumenti egualitari, di garanzia, ecc. come era stato negli anni ’70 su cui istituire una dialettica che potesse consistere nell’elevare i singoli obiettivi politici all’obiettivo storico della presa del potere; non c’era niente da elevare, il piano era comune solo perché era oggettivo, non c’era una disposizione allo scontro politico della classe); sia quello di concepire un processo rivoluzionario come un processo che richiede che l’avanguardia comunista si faccia carico di portare la classe sul piano del potere assumendolo in prima persona, e non di attendere che questa ci si disponga, ne tanto meno di propagandarlo ideologicamente sul piano di scontro compresso, ma sempre presente, tra capitale e lavoro.

Con l’iniziativa del ’99 le contraddizioni di cui è portatrice la forza rivoluzionaria organizzata che la produce vengono a saturazione ponendo un problema acuto di crescita radicamento e qualificazione delle forze organizzate e la forte esigenza di trovare una risoluzione al problema della costruzione del militante complessivo che viene affrontato dall’O. nella consapevolezza della necessità di realizzare un mutamento soggettivo complessivo per assolvere al ruolo nuovo esercitato nei confronti della classe contro lo Stato. Il problema della costruzione si presentava come richiedente un affrontamento globale, eccettuati i principi di impianto perché l’esperienza e condizione raggiunta dimostravano non esserci risoluzioni riproducibili valide in questo campo e perché ora la classe guardava alle BR-PCC con interesse storico e lo Stato con interesse di annientamento primario, mentre gli NCC non erano mai entrati in rapporti di questo genere. I problemi individuati erano che fossero stati dispersi nel campo di classe i termini per concepire uno scontro rivoluzionario e combatterlo, un fatto manifesto anche nelle forze aggregate, che non ci fosse un’idea del processo rivoluzionario e di ciò in cui dovesse consistere la prassi rivoluzionaria complessiva, che la costruzione non si risolvesse con meccanismi di aggregazione e reclutamento che avviassero una partecipazione al programma che riuscisse a formare come militanti complessivi né che fosse scontato il ventaglio minimo complessivo di funzioni che una forza rivoluzionaria o il militante rivoluzionario devono assolvere per costruire le BR-PCC nel loro ruolo di nucleo fondante il Partito. L’O. comprendeva che l’assunzione del terreno della lotta per il potere non richiede solo una coscienza teorica dell’esistenza di uno scontro di potere, ma una rottura soggettiva che porti ad assumere un piano politico e politico-militare riferito alla imposizione degli interessi generali e storici del proletariato come propria identità ed obiettivi di lotta, che non si determinava con il semplice inserimento in una forza organizzata perché occorre che le forze si relazionino e responsabilizzino rispetto ad obiettivi di programma politico. E che dunque era necessario che il programma dell’O. si estendesse affinché riuscisse effettivamente a finalizzare questa attivazione dell’avanzamento degli obiettivi generali di sviluppo della guerra, e che andasse trovata, stante l’estrema esiguità delle forze della guerriglia, una risposta politica all’impossibilità di centralizzare organizzativamente dialettiche con la proposta dell’O. sia perché non raggiungibili sia perché non sufficientemente mature per essere aggregate in istanze di confronto suscettibili di sviluppo organizzativo. Che un’alternativa all’impossibilità di una centralizzazione organizzativa delle dialettiche potesse essere trovata e finalizzata a degli obiettivi era concepibile perché il percorso del rilancio parte dagli NCC e gli NCC stessi erano stati la dimostrazione della possibilità di costruirsi in riferimento alla progettualità delle BR attraverso una dialettica politica, senza un rapporto organizzativo con le BR stesse. Anzi con questo era dimostrato e in questo erano sviluppati gli elementi di impianto strategico che è possibile produrre un processo di costruzione di autonomia che sia nello stesso tempo passaggio di costruzione del Partito, perché è realizzato un piano di attivazione centralizzato politicamente, che esalta la capacità della linea politica e del programma dell’O. Di essere elementi concreti di direzione sulla classe e sul campo rivoluzionario. Gli obiettivi potevano essere quelli di un avanzamento del punto a cui erano approdate queste dialettiche, di un rafforzamento dell’autonomia di classe che le esprimeva di un concorso di qualche genere all’avanzamento degli obiettivi di fase dell’O. E potevano essere importanti anche perché anche nel campo dello schieramento di avanguardie che hanno il proprio riferimento nella proposta delle BR, si era sedimentata una posizione dominante non necessariamente espressione di opportunismo o immaturità che non l’assumeva effettivamente come proposta politico-strategica sulla quale mobilitarsi e organizzarsi pena l’inconsistenza di un apporto alla lotta rivoluzionaria ma che riteneva di poterla far vivere “prolungandola” nel movimento con la funzione di politicizzare le lotte ed elevare il loro livello, come se questo obiettivo si potesse distinguere dal problema generale e complessivo di come sostenere uno scontro con il nemico sul piano del potere. Una contraddittorietà oggettiva di orientamento che fa approdare in generale alla constatazione della propria impotenza e alla sgretolamento della propria iniziativa politica. Tali problematiche generali proprio perché generali investivano anche le forze organizzate, le soluzioni quindi avrebbero consentito anche una riqualificazione dei militanti. In sintesi dopo l’iniziativa D’Antona gli elementi di sviluppo dell’elaborazione politica si danno intorno al principio della costruzione e formazione delle forze rivoluzionarie e proletarie come da realizzare sul piano della mobilitazione nello scontro su obiettivi e contenuti politici offensivi, nei suoi punti più avanzati in prassi combattente, e in quanto tali da orientare alla centralizzazione politica e con forze organizzative rapportate al nodo dello scontro prolungato con lo Stato, quindi su un piano armato e clandestino, con forze che si costruiscono intorno al problema di operare i passaggi politici necessari a collocare la propria iniziativa nello scontro di classe e riassumibile nell’obiettivo di rendere praticabile la costruzione di NPR. Infine viene riconosciuta l’opportunità della continuità dell’attacco nei nodi centrali su cui trovava sviluppo e riadeguamento il progetto politico attaccato dall’O. Nodi che furono individuati nei passaggi di regolazione restrittiva del diritto di sciopero e della trasformazione dei rapporti contrattuali in senso favorevole alle esigenze della BI, come termini dei rapporti politici e di forza tra le classi che con la loro risoluzione antiproletaria e controrivoluzionaria avrebbero riformato l’ordinamento dei rapporti tra le classi in merito, con conseguenze complessive. E proprio per questo erano nodi centrali a cui si rapportava l’azione dello Stato che doveva operare questo processo di riforma e ristrutturazione complessiva del sistema economico-sociale e perciò doveva avere una progettualità e degli equilibri politici che consentissero di realizzare queste forzature ma anche di riorganizzare in nuove forme i rapporti tra le classi e il loro conflitto, sempre finalizzate alla subordinazione politica del proletariato e all’istituzionalizzazione del conflitto di classe, ma su un’altra base di rapporti di forza. Per tutto ciò il complesso di questi attacchi a partire dal ’99 possono rappresentare e rendere più tangibile il modo con cui l’avanguardia rivoluzionaria deve mettere in atto l’attacco allo Stato in una fase della guerra in cui l’obiettivo è quello della disarticolazione politica, e da questa capacità di produrla, determinare le condizioni politiche potenziali per poter spostare forze proletarie sul terreno della lotta per il potere. L’insieme degli attacchi ’99-01 (a cui faranno seguito l’iniziativa Biagi e l’azione siglata NPC) può farlo perché è riconoscibile nello specifico programma politico che, mettendo in atto uno scontro impostato da un obiettivo offensivo nella prospettiva della distruzione dello Stato, ha rappresentato gli interessi generali della classe e un rapporto di forza esercitabile e finalizzabile sul piano su cui la borghesia porta il suo attacco, che è quello dello scontro di potere tra le classi che si specificava su quel progetto e nei suoi nodi. Al di là del limite che nel concepire vi si sia riflessa una visione ancora riduttiva della funzione che potevano svolgere il ruolo generale che assumono le iniziative 2000-01 per l’avanzamento politico dell’O. è consistito nella funzione di indicare un possibile processo di disarticolazione collegato all’indirizzo strategico espresso dall’iniziativa del ’99, che al contempo fosse terreno di partecipazione allo scontro di potere e per il potere delle avanguardie che si dialettizzavano con l’opzione rilanciata dall’iniziativa D’Antona. Così a seguito della verifica del programma 2000-’01, la base su cui operare la trasformazione soggettiva necessaria a supportare il salto compiuto con il ’99 ruota su due aspetti:

  1. l’ampliamento del concetto di disarticolazione, fino a quel momento inteso riduttivamente, una visione riduttiva a cui non è stato estraneo nella coscienza di essere tutti interni alla Fase della Ritirata Strategica un rapporto politico riduttivo con la prassi rivoluzionaria dell’O. fino agli inizia degli anni ’80 quando l’O. si era spinta su posizioni non avanzate ma insostenibili, rapporto giustificato dalla valutazione che in quel periodo storico diversi elementi di impianto fossero inadeguatamente definiti, ciò ha portato ad escludere quel periodo come termine di riferimento per una comprensione complessiva delle indicazioni che pure emerse dallo “spingersi in avanti” dell’O. e cioè di una disarticolazione che seppur rivolta erroneamente in quel contesto contro gli apparati dello Stato, però tendeva sempre ad articolarsi e di come questo fosse un termine che indicava come il processo rivoluzionario dovesse svilupparsi e che comunque per uscire dalla Ritirata Strategica occorra costruire condizioni e posizioni che consentano questo sviluppo della guerra di classe, alle quali quindi occorre riferirsi progettualmente e programmaticamente e quindi anche nel modo in cui si costruisce forza rivoluzionaria affinché sia adeguata a questa prospettiva. Un ampliamento del concetto di disarticolazione che prima si riduceva ad effetto del singolo attacco, rispecchiando l’esperienza sociale che le forze avevano della prassi dell’O. e che ora viene ad essere intesa come risultante proporzionale di una linea di attacco in funzione della qualità, quantità e livello degli attacchi;
  2. l’ampliamento della visione dei compiti dell’OCC anche ad un piano, quello della costruzione di organizzazione che non può essere considerato un compito puramente clandestino e svolto nei rapporti privati intessuti tra le avanguardie e i militanti, essendo la condizione storica della classe di tipo difensivo e politicamente subalterno e potendo essere questa contrastata stabilmente, come alternativa necessaria e possibile, solo dall’attivazione proletaria rivoluzionaria, a carattere offensivo e autonomo, quale principale termine di battaglia politica ed efficacia per condurre battaglie politiche per linee interne al movimento di classe, che non siano solo delle iniziali premesse, sempre isolabili e accerchiabili. Con ciò diventava concepibile un’alternativa all’impossibilità di una centralizzazione organizzativa delle dialettiche originate dalla oggettività del piano di scontro comune. Infine, per quanto riguarda gli effetti delle iniziative 2000-2002 siglate Nuclei, per l’O. il punto non è stato né che le iniziative strutturassero dei nuclei nell’immediato né che producessero altri nuclei che si disponessero spontaneamente, questo sia perché non può avvenire in questa fase a carattere controrivoluzionario, sia soprattutto perché dato che l’O., proprio perché è un Partito in costruzione, ha interesse che sul piano di lotta da esso proposto, di lotta per il potere, nei modi organizzativi e di iniziativa da essa proposti e sulle linee si determini una mobilitazione della classe, a partire dalle sue avanguardie, perché se questa mobilitazione non si dà o non si sviluppa, anche la sua possibilità di costruirsi come Partito si erode e si svilisce. E che l’agire politico dell’O. non sia rivolto a determinare una disposizione spontanea di nuclei intorno alla propria azione politica, ma una disposizione centralizzata, è funzione dell’efficacia della linea politica dell’O., proporzionale allo stato dei rapporti di forza politici tra classe e Stato, per cui i risultati in questa fase sono inevitabilmente limitati e contraddittori ma ciò non può indurre al gradualismo su quelli che sono i compiti strategici di un nucleo fondante il Partito, ma deve solo esprimersi in una linearità programmatica. L’O. per superare le contraddizioni e risolvere le problematiche dello stadio aggregativo della Fase di Ricostruzione ha scelto di rapportarsi alle dialettiche che si sviluppano con la sua proposta avanzando la propositività dei Nuclei Proletari Rivoluzionari invece che un’ipotesi di aggregazione diretta intorno alle BR perché il problema in questa fase è il salto e la frattura che si deve determinare concretamente sul piano politico dello scontro, che consiste nella capacità della soggettività di classe di assumere una posizione nello scontro per il potere, concretamente. Non si tratta di istituire sedi di dibattito per verificare l’omogeneità politica sull’impianto e la linea dell’O. e la capacità di operare disciplinatamente il lavoro rivoluzionario, ma anzi il confronto con le avanguardie di classe e rivoluzionarie non può avere questo scopo se non raggiunge l’obiettivo della costruzione di una posizione sul nodo del potere perché chi non pratica già uno scontro di potere o per il potere non ha necessità di optare per la strategia valida; questa necessità esiste solo nella misura in cui si colloca nella frattura dell’assunzione di questo piano di scontro, altrimenti è sovrastruttura ideologica. E se oggi per i rapporti di forza politici che si sono determinati storicamente, solo il riferimento alla lotta armata consente di assumere questo piano, deve esserci un’attivazione che abbia connotati politico-militari organizzativi idonei a corrispondere a un passaggio di fratture e non invece idonei a un passaggio di elevamento, di riadeguamento, di candidatura al reclutamento, ecc. Per queste ragioni la proposta dei nuclei e del loro tipo di attività è stata ritenuta essere quella adatta ad istituire i termini per cui può essere impostata la formazione di una militanza complessiva, impostarne il mandato e i termini di responsabilità complessivi su cui poter costruire strutture di O. e raggiungere l’obiettivo della ricostruzione dell’OCC. Infatti il problema politico generale non è quello della riqualificazione dei militanti perché questi rappresentano ciò che è maturato e stato compresso nello scontro di questi anni, ma è ciò che deve essere fatto maturare nello scontro, che è la frattura nell’assunzione del piano politico di scontro, rispetto alla esclusione operata dalla ridefinizione in termini neocorporativi della mediazione politica tra classe e Stato e dalla irreggimentazione tendenziale del conflitto di classe. E le avanguardie rivoluzionarie si possono formare e verificare come militanti complessivi perché praticano e propongono questa frattura e costruiscono la propria capacità di conduzione della classe su questo terreno non secondo un indirizzo qualsiasi, ma nella misura in cui sono capaci di riferirsi alla linea e al programma dell’O. diventano efficaci in questo ruolo. Una linea politica con questo carattere si relaziona al dato di fase che se non viene logorata questa mediazione politica, a partire dalle fratture d’avanguardia, non si dà nessuna uscita dalla Ritirata Strategica perché le posizioni perse per l’inadeguatezza della forza rivoluzionaria costruita, e quindi perciò non assestabili, non sono riconquistabili fuori da un quadro di scontro complessivo che non abbia conseguito delle trasformazioni sostanziali che riguardano la posizione della classe nello scontro rispetto allo Stato che rovesci l’effetto controrivoluzionario della sconfitta inflitta alle forze rivoluzionarie che venne riversata sulla classe. Del resto, questo indirizzo poteva essere la risposta politica cercata da una forza come l’O. senza un’organizzazione assestata, un dato particolare che rappresenta il generale della costruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie un problema strategico e non solo di fase, perché ci saranno sempre avanguardie rivoluzionarie e di classe non formate su un piano di scontro politico, non attrezzate dagli strumenti che solo il Partito, o il PCC in costruzione, può mettere a disposizione, il problema dunque è generale e non può avere una soluzione semplicemente operativa, ma deve essere politica, deve essere assunto politicamente il dato necessario e che si riproduce fino a che non si possiede effettivamente il Partito.

Inoltre, a maggiore ragione per un Partito di quadri che è in costruzione, non è completo, non è ovunque funzionante e funzionale, si impone di esercitare il proprio raggio d’azione in misura più ampia di quanto non riesca a fare per sua azione operativa diretta. Deve avere quindi funzione di stimolo e coagulo al fine che le forze potenziali si mobilitino nel migliore dei modi e questo deve essere perseguito progettualmente e non deve essere una mera risultante della sua azione. E nella misura in cui riesce a farlo, da un lato ottiene che la sua proposta si espande nello scontro come concreta espansione dell’attacco, della disarticolazione e della costruzione di forze rivoluzionarie, dall’altra che le dialettiche politiche e le potenzialità organizzative si sviluppano. Un aspetto reso più rilevante dal fatto che il problema per tutta una fase non è mai solo quello della mobilitazione di un numero sempre maggiore di avanguardie rivoluzionarie sul programma dell’O., né di semplice reclutamento di ulteriori militanti per completare o rafforzare delle strutture, ma di integrazione di militanti, con caratteristiche di quadri affinché si possa dar vita a delle strutture. Con questi elementi di indirizzo, che insieme agli approfondimenti teorici sul modulo politico-organizzativo della guerriglia, sulla natura materiale di esercito del PCC in costruzione per il carattere politico-militare di tutte le sue attività anche quelle che in sé non hanno natura militare, a partire dal dibattito politico, e con la precisazione nella funzione del metodo politico-organizzativo in riferimento a questo carattere della sua prassi l’O. realizza il suo programma di combattimento del 2002. Elementi che seppure non hanno raggiunto la sistematicità, la forma e il ruolo di una risoluzione strategica, ne hanno costituito il contenuto, attestato nello scontro. Per questo il rilancio della strategia della Lotta Armata con l’attacco ai progetti di riforma e rimodellazione economico-sociale dello Stato ha intaccato in profondità il rapporto politico neocorporativo che la borghesia aveva costruito in 20 anni nello scontro con il proletariato assestandone la subalternità. Rapporto neocorporativo che aveva costituito una linea dell’offensiva controrivoluzionaria degli anni ’80 tesa a divaricare lo scontro di classe e le istanze di potere che esprimeva, dall’opzione e dal piano rivoluzionario proposti dalle BR e che, nella misura in cui venivano inferti duri colpi alla guerriglia, diventava termine di rafforzamento politico dello Stato e della posizione dominante della BI.

L’attacco allo Stato sulle linee politiche e strategiche fatte avanzare dall’O., agendo come un cuneo nel rapporto tra Stato e classe, si è ripercosso nella dialettica con la classe aprendo un varco offensivo nella sua difensiva politicizzandone e rafforzandone la resistenza e le sue istanze e iniziative autonome che andavano a convergere intorno ai danni provocati dall’intervento dell’O., hanno approfondito al difficoltà dello Stato di ricomporre e ricucire lo strappo subito. Una dinamica che ha prevalso sui ripetuti tentativi di accerchiamento dell’opposizione di classe messi in campo dal nemico in particolare a seguito dei successi militari della controguerriglia, per riprendere la sua offensiva antiproletaria e controrivoluzionaria. Una dialettica che ha rappresentato la ricostruzione nello scontro generale tra le classi del dato politico del rapporto storicamente instaurato dalle BR con l’autonomia di classe nella fase della propaganda armata e che oggi è il prodotto di un avanzamento del processo rivoluzionario e costituisce una verifica storica di come l’avanguardia comunista combattente può far avanzare la strategia della lotta armata in questa fase. Un dato non inficiabile in alcun modo dalla dispersione di strutture rivoluzionarie in quanto la strategia per la conquista del potere adeguata a combattere le forme di dominio contemporanee dell’imperialismo, non essendo rimovibili la cause che l’hanno resa necessaria al proletariato, attinge dalla classe stessa le forze per avanzare ulteriormente, come il rilancio stesso ha dimostrato. In particolare oggi, pur in un quadro di processi aggregativi, del resto propri alla fase. L’avanguardia comunista combattente che dall’attacco muove alla costruzione e organizzazione della forze sulla lotta armata per avanzare sul piano della fase e della costruzione del PCC, dispone di superiori margini politici e verifiche di spessore strategico rispetto agli anni ’90, mentre i margini di cui usufruiva la BI hanno subito erosioni non solo sul piano interno, ma anche sul piano internazionale dove sull’equilibrio e stabilità dello schieramento imperialista pesa il portato dell’attuale crisi della coesione europea e le linee di guerra e di controrivoluzione per rafforzare, approfondire ed estendere il suo dominio non hanno affatto potuto dispiegarsi secondo i programmi previsti ma devono fare i conti con la guerriglia irakena e afghana e con la resistenza libanese e palestinese ai suoi disegni di integrazione economica e politica del Medio Oriente, che presuppongono la rinuncia di questi popoli alla proprie istanze nazionali, il loro disarmo e la loro sottomissione all’imperialismo. Ostacoli concreti che incidono sulla tenuta dello schieramento imperialista mantenendone aperte le contraddizioni.

Come militanti BR-PCC che hanno lavorato al rilancio e a ricostruire i termini complessivi politico-militari occorrenti a far avanzare lo scontro rivoluzionario siamo in quest’aula al solo scopo di rivendicare la nostra militanza e tutta l’attività dell’O e per misurarci con il compito di rappresentare gli avanzamenti del processo rivoluzionario conquistati dalla strategia della lotta armata che le BR propongono a tutta la classe.

La rivoluzione non si processa! Per questi motivi non abbiamo interesse né intendiamo presenziare alla lettura della sentenza.

Attaccare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di rimodellazione economico-sociale e di riforma politico-istituzionale teso a rafforzare il dominio della borghesia imperialista.

Lavorare alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie sul terreno della Lotta Armata e degli strumenti politico-organizzativi per rilanciare l’iniziativa offensiva e far avanzare i termini attuali della guerra di classe.

Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo nelle sue strategie di guerra e controrivoluzione oggi concretizzate nell’occupazione dell’Iraq.

Lavorare alla costruzione del Fronte Combattente Antimperialista con tutte le forze rivoluzionarie e antimperialiste dell’area europeo-mediterraneo-mediorientale per portare l’attacco contro il nemico comune, facendo vivere gli interessi comuni del proletariato e dei popoli della Regione.

Onore al compagno Mario Galesi caduto combattendo per il comunismo!

Onore a tutti i combattenti rivoluzionari e antimperialisti caduti!

W la Strategia della Lotta Armata!

W l’intifada palestinese e la guerra di liberazione irakena!

Proletari di tutti i paesi uniamoci!

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC:
Nadia Lioce
Roberto Morandi

Due interventi di militanti prigionieri delle BR-PCC critici rispetto ai contenuti espressi nell’azione contro la base Usa di Aviano

PRIMO INTERVENTO. Giuseppe Armante, Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Simonetta Giorgieri, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli, Carla Vendetti (militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente) Gino Giunti, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini (militanti rivoluzionari).

SECONDO INTERVENTO. Franco La Maestra (militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente).

 

PRIMO INTERVENTO

Riteniamo nostro dovere esprimerci con chiarezza contro criteri, analisi e posizioni politiche che nella sostanza invalidano il patrimonio nonché il contributo allo sviluppo del processo rivoluzionario prodotto dalle BR PCC. Lo facciamo come militanti BR PCC prigionieri assumendoci la nostra responsabilità a fronte anche della rivendicazione da noi fatta dell’azione contro la base Usa di Aviano del 2/9/93.

Non riconoscendoci nei contenuti che hanno sostanziato politicamente tale iniziativa, ritenendoli oggettivamente un attacco all’impianto strategico, alla linea politica delle BR PCC, un tentativo di spacciare logiche opportuniste e gruppettare come una “nuova variante” delle BR, di fatto estranee all’esperienza delle BR PCC, logiche politiche che a partire dal “nuovismo” dell’analisi della situazione internazionale, retrocedono le caratteristiche dell’imperialismo al 1914, elemento questo che oltre a rappresentare un’evidente sciocchezza sul piano dell’analisi concreta delle dinamiche imperialiste, risulta non indifferente al fine di incidere sugli stessi presupposti cardine che stanno all’origine della guerriglia, quale adeguamento della politica rivoluzionaria storicamente determinato al grado di sviluppo integrato dell’imperialismo e alle relative forme di dominio della borghesia imperialista (B.I.).

Un “nuovismo” analitico che infine vorrebbe fornire il supporto di fondo su cui vengono intaccati, nel volantino di rivendicazione dell’azione di Aviano, i capisaldi maturati nello scontro rivoluzionario degli ultimi vent’anni, in particolare quelli sviluppatisi all’interno della fase di ritirata strategica dall’82 ad oggi, facendo riemergere vecchie logiche, che non solo rimandano ad una visione generale dello sviluppo del processo rivoluzionario possibile a diversi stadi e livelli di tipo evoluzionistico, ma che nel confronto con la prassi e la teoria rivoluzionaria maturata dalle BR PCC chiariscono ulteriormente la loro natura di parto soggettivistico.

Concezioni chiaramente espresse nello svilimento della contraddizione principale classe/stato, che del resto risulta appiattita sulla problematica dell’antimperialismo. Problematica quest’ultima oltre tutto ridotta ad una visione tipicamente movimentista in cui lo stesso Fronte è proposto come una sorta di unità oggettiva e omnicomprensiva intorno ad una pratica solidaristica, un approccio che invalida i caratteri dell’internazionalismo proletario oggi e del FCA, così come attestati dalla prassi internazionalista e antimperialista delle BR.

Una logica soggettivista che in primo luogo è tesa a disfarsi della concezione dell’attacco al cuore dello stato, della negazione dei criteri della centralità, selezione e calibramento che guidano l’individuazione della contraddizione politica dominante che oppone la classe allo stato e l’attacco all’aspetto principale di questa contraddizione, vale a dire al progetto politico dominante della borghesia, e ciò è valido in ogni fase e in ogni congiuntura, poiché è solo da questa base che l’attacco al cuore dello stato risulta il perno su cui si fonda la capacità di incidere nello scontro politico e rivoluzionario da parte della guerriglia e intorno a cui si concretizza l’agire da partito dell’avanguardia combattente e si materializza il processo di costruzione del Partito Comunista Combattente in rapporto allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata in tutte le sue determinazioni, quindi non certo riducendo il processo di costruzione del PCC ad un confronto aprioristico su un generico processo di lotta armata che nei fatti lo disgiunge e lo separa dalla costruzione stessa delle condizioni politico militari idonee a sostenere lo scontro sulla strategia della lotta armata.

Così come su un altro piano tale visione fa emergere la lotta armata, soprattutto per come è delineata dalle BR PCC nella fase di ricostruzione, riproponendo la separazione fra l’agire di supposte avanguardie e la classe, invalidando di fatto uno dei cardini delle BR, la lotta armata come proposta a tutta la classe e quindi la necessità di attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo stato al fine di sviluppare la guerra di classe e ciò a maggior ragione in una fase di scontro così complessa come l’attuale, dove l’attività dell’avanguardia comunista combattente ruota gioco forza intorno ai cardini della fase di ricostruzione definita dalle BR PCC fuori dal movimentismo e combattentismo fine a se stessi.

In ultima analisi i contenuti e i fini proposti dall’azione di Aviano non sono che un tentativo opportunista che chiaramente si pone fuori dal quadro delle problematiche odierne di riorganizzazione e consolidamento dell’avanguardia rivoluzionaria per il rilancio dell’iniziativa sul terreno strategico della LA.

Per altro lo scontro stesso ha dimostrato l’inadeguatezza di simili logiche politiche da sempre fallimentari e già messe ai margini dalla guerriglia, tanto più impraticabili oggi stante l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, scontro che mette di fronte alle avanguardie rivoluzionarie la non aggirabilità della strategia della LA per riqualificarsi sul terreno rivoluzionario.

Detto questo, come militanti delle BR PCC prigionieri che fondano la propria identità politica nella piena assunzione dell’interezza della linea politica e dell’impianto strategico delle BR PCC, sulla base della valenza e propositività di questi stessi contenuti rivoluzionari, ribadiamo che, in riferimento ai caratteri del terreno rivoluzionario, anche nell’attuale contesto dello scontro di classe, seppure segnato dalla difensiva rivoluzionaria e proletaria, il livello più maturo raggiunto dal processo rivoluzionario si riafferma in tutta la sua valenza politica e strategica per perseguire gli interessi generali del proletariato, e questo non perché il processo rivoluzionario possa riproporsi in modo meccanico e evolutivo, ma perché quanto prodotto dalla guerriglia è divenuto parte integrante delle condizioni politiche che investono l’ambito della soggettività rivoluzionaria, quindi fattore discriminante le rotture soggettive per un verso o per l’altro.

In questo senso la riorganizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria per misurarsi adeguatamente con il livello dello scontro attuale è condizionata a riferirsi agli avanzamenti prodotti nel corso della guerra di classe, quale prerequisito da cui partire per rilanciare in avanti lo scontro rivoluzionario.

Ma più in generale a rendere necessaria e non aggirabile l’assunzione soggettiva di quanto maturato al punto più alto dal processo rivoluzionario, sono le stesse leggi che regolano lo scontro e non consentono che il rilancio del processo rivoluzionario possa ripartire da zero, né ripercorrere forme che si sono date in fasi precedenti dello scontro, per quanto profondi possano essere i ripiegamenti delle posizioni rivoluzionarie, poiché l’instaurarsi del rapporto rivoluzione/controrivoluzione ha impresso alla dinamica dello scontro rivoluzionario uno svolgimento verso il suo approfondimento.

Una dinamica che evidenzia anche come le politiche controrivoluzionarie dello stato non abbiano potuto rimuovere dallo scontro quanto sviluppato dalla guerriglia, né azzerare le espressioni dell’autonomia politica di classe, al contrario questo portato rivoluzionario si è impresso nelle condizioni generali dello scontro rivoluzionario e di classe, una dinamica rivoluzionaria che trae le sue ragioni prime da come si è caratterizzato il processo rivoluzionario nel nostro paese, promosso, organizzato e diretto dalle BR sulla strategia della LA.

Questo a partire dall’attività combattente che le BR hanno messo in campo in dialettica con l’autonomia di classe, contro i progetti antiproletari e controrivoluzionari dello stato e contro le politiche centrali dell’imperialismo e su cui hanno sviluppato una prassi rivoluzionaria che riportando lo scontro sul terreno del potere, ha posto le condizioni per ricomporre sul programma rivoluzionario le diverse componenti del proletariato metropolitano (PM) organizzando e disponendo sulla LA i suoi reparti più avanzati, facendo così pesare nel confronto con il nemico di classe gli interessi politici e generali del proletariato.

Un’attività rivoluzionaria che in questo modo ha inciso profondamente nei rapporti politici e di forza tra le classi e che, nel corso della guerra di classe, ha maturato acquisizioni teorico-politico-organizzative divenute fondamentali per il proseguo del processo rivoluzionario, tali da imprimere al suo sviluppo un preciso indirizzo.

In sintesi, nell’aspro scontro tra rivoluzione e controrivoluzione che ha segnato il processo rivoluzionario, le BR, nell’aver dato sviluppo alle stesse fasi rivoluzionarie che fino ad oggi si sono determinate, hanno caratterizzato passaggi rivoluzionari che hanno consolidato in termini strategici il terreno rivoluzionario e che per tanto costituiscono gli elementi di continuità della guerra di classe.

Una continuità che, sul piano generale, è riferita al progetto strategico della LA che le BR hanno potuto radicare nello scontro di classe, verificandolo e precisandolo nella prassi come quello adeguato a condurre il processo rivoluzionario nelle condizione specifiche del nostro paese.

Processo rivoluzionario che, dentro ai caratteri necessariamente di lunga durata della guerra di classe, non si svolge come progressione lineare, ma al contrario in modo fortemente discontinuo a causa delle peculiarità dello scontro nei paesi imperialisti.

In questo quadro di accentuata discontinuità della situazione rivoluzionaria attuale, su cui incide il ripiegamento delle posizioni rivoluzionarie nel quale è inserito il periodo di assenza dell’attività combattente delle BR PCC, si colloca dentro quelli che sono i termini dell’andamento del processo rivoluzionario che è un processo ininterrotto per tappe, che procede per salti e rotture e che, nella successione delle fasi rivoluzionarie che si sono date dalla sua apertura, vede vigenti la fase di ricostruzione, iniziata dalle BR all’interno della fase di ritirata strategica.

Una fase, quest’ultima, a carattere generale che informa ancora il rapporto di scontro.

Ciò vuol dire che nella condizione della guerra di classe è sempre prevalente il ripiegamento delle forze nel mentre viene rilanciata la capacità offensiva della guerriglia, linee generali su cui si dà la ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie e delle condizioni politico-militari per riportare l’iniziativa al punto più alto dello scontro.

È una fase rivoluzionaria, quella odierna, i cui caratteri le BR hanno contribuito a determinare e che si caratterizza da un lato per l’ulteriore salto controrivoluzionario e antiproletario compiuto dallo stato in questi ultimi anni e che affonda le sue radici nella più generale offensiva degli anni ’80, dall’altro dall’approfondimento della crisi economica che influenza e risente a sua volta della più generale crisi sociale e politica producendo una condizione politica generale caratterizzata da un’instabilità complessiva degli equilibri tra le classi nel paese.

Se l’approfondimento del contesto di crisi economica che attanaglia la B.I. e il suo stato, nonché l’evidente polarizzazione degli interessi di classe contrapposti fra proletariato e borghesia, a cui va aggiunto in questa fase l’acuto livello delle contraddizioni interborghesi non ancora pienamente ricomposte, costituiscono gli elementi di fondo della profonda crisi politica tra classe e stato, è nei fattori specifici che ne determinano l’andamento che emerge per lo stato tutta la difficoltà nel governo del conflitto di classe.

Fattori preminentemente politici, riferiti in primo luogo alla qualità politica dello scontro di classe e rivoluzionario che si è prodotto e a tutt’oggi emerge nel paese, sia riferito alla maturità espressa dal proletariato, classe operaia in testa, e dai settori più avanzati di autonomia politica di classe, con chiare connotazioni antistituzionali, antistatuali e antirevisioniste, e sia soprattutto in riferimento al ruolo svolto dall’avanguardia combattente, dalle BR, nell’incidere su questo stesso scontro, al fine di rappresentare gli interessi generali del proletariato contro la crisi della B.I., portandolo sul terreno del potere nell’organizzare la guerra di classe di lunga durata. Dati politici per parte rivoluzionaria e proletaria, da cui emerge anche in questa fase l’estrema difficoltà da parte della B.I. e del suo stato di governare linearmente e in maniera indolore il conflitto di classe, in particolar modo se riferito al tentativo di “neutralizzare” il portato ed il peso politico nello scontro dell’attività dell’istanza rivoluzionaria e sia riferito alla difficoltà di ricomporre i rapporti conflittuali col proletariato all’interno di un reticolo di relazioni neocorporative, quale presupposto fondamentale al pieno funzionamento della “democrazia governante” nel passaggio alla seconda repubblica.

Ed è infatti sullo sfondo di questo quadro politico delle relazioni tra classe e stato, accanto al disfarsi dei vecchi equilibri politici e soprattutto nei mutamenti che a livello politico istituzionale hanno accompagnato e scandito le tappe del modo di governare il paese intorno alle esigenze della B.I., con il loro riflesso sul più generale processo di “riforma” dello stato, che è maturato lo sbocco dell’attuale fase politica e dei relativi equilibri saldatisi a livello politico e istituzionale.

Uno sbocco che si è forgiato in questi anni di feroci politiche antiproletarie e controrivoluzionarie e di strappi perseguiti nelle relazioni tra le classi, quali fattori che hanno approfondito il rapporto di scontro, segnando il punto più critico della crisi politica del paese.

In questo senso equilibri politici che dovrebbero essere interpreti e garanti per delineare e caratterizzare il salto di qualità realizzato oggi nel processo di evoluzione alla seconda repubblica.

Una svolta dentro allo stesso quadro istituzionale al fine di codificare definitivamente il processo di centralizzazione e verticalizzazione dei poteri, particolarmente evidente nel rafforzamento del potere esecutivo, prodottosi in questi ultimi anni, attraverso la legittimazione politica formale di una “maggioranza” chiamata a sostenere politicamente e sul piano di semplice ratifica legislativa un “governo forte e stabile” che ha come suo contraltare un reale e sostanziale indebolimento dei contrappesi politici operanti a livello istituzionale nelle democrazie rappresentative borghesi, nella misura in cui ruolo e prerogative del parlamento sono stati funzionalizzati all’esecutivizzazione, quale prodotto delle modifiche che sono avvenute negli assetti del potere statale e, su un piano più generale, passibile di eventuali rotture istituzionali tese ad incidere sull’impalcatura costituzionale che non può che trovare in un’ulteriore frattura delle relazioni classe/stato la sua base di forza, a partire dal fatto che il centro di gravità di un nuovo assetto costituzionale e istituzionale risiede in primo luogo nei rapporti di forza e politici tra proletariato e borghesia.

Non una liquidazione del piano formale di democrazia rappresentativa, ma al contrario, un adeguamento attraverso un maggior grado di formalità di questo piano ai canoni delle democrazie mature, che per altro con la riforma elettorale di tipo maggioritario consente alla B.I. di far pesare più direttamente i suoi interessi sul piano politico, un adeguamento tutto interno al processo di rafforzamento della dittatura borghese di carattere antiproletario e controrivoluzionario in questa fase di crisi dell’imperialismo, dell’economia capitalistica e di sviluppo della tendenza alla guerra.

Nella realtà quanto questo passaggio si realizzi fuori e contro gli interessi generali del proletariato e della classe operaia e avvenga in termini sostanzialmente divaricati dallo scontro reale, si rende evidente nel suo risvolto verso il campo proletario, nel ricorso all’irreggimentazione nel governo delle contraddizioni sociali e politiche, dalle campagne e misure di “ordine pubblico” verso i settori di proletariato e classe operaia non disposti a subire passivamente i costi politici e sociali della crisi della B.I., dalle iniziative terroristiche tese al massimo di pressione e contenimento dell’intero corpo di classe, per definire quel clima politico generale funzionale alla gestione delle scelte più apertamente antiproletarie e controrivoluzionarie dello stato, il tutto parallelamente alla ridefinizione e riattivazione, intorno al quadro di compatibilità dettato dagli interessi della B.I., che vengono spacciati per gli interessi generali del paese, della “dialettica democratica” e della sua tenuta politica dentro “nuove regole del gioco”.

Da questo divario tra governabilità formale, caratterizzata dall’alta concentrazione delle leve del potere, contestualmente all’irrigidimento della mediazione politica, e rapporti reali di scontro tra le classi nel paese, si comprende come la svolta alla secondo repubblica e l’avanzamento nel processo di rafforzamento dello stato si intrecci strettamente all’approfondimento di tutti i termini della controrivoluzione preventiva, nel rapporto politico e di scontro con la classe operaia e il proletariato intero, scontro sui cui esiti poggia fondamentalmente il salto nella fase politica che si è aperta in Italia.

Per parte borghese “irreggimentare” i rapporti politici tra le classi e, su un altro piano, rispondere alle spinte di accelerazione della tendenza alla guerra, costituiscono oggi delle necessità improrogabili e le scelte politiche dello stato non possono che ruotare intorno ai margini dettati da tali necessità, sia che esse mirino a ritagliarsi la migliore posizione possibile all’interno dei processi di integrazione economico-politica e riassetto gerarchico della catena imperialista, all’interno di una generale spinta ad una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati, di cui la partecipazione ad effettivi eventi bellici ne è il più evidente riflesso politico; sia che rispondano alla ratificazione costituzionale ed istituzionale delle modifiche apportate e da conseguire nelle modalità del governo del conflitto di classe, nel quadro di pieno funzionamento della seconda repubblica.

Così come, d’altra parte, la ristrettezza delle scelte economiche da operare a sostegno dei gruppi monopolistici attraverso imponenti trasferimenti statali, all’interno di un contesto recessivo con un’ulteriore restrizione della base produttiva e perdita di posizioni nell’economia capitalista, ben al di là della propagandistica panacea del “meno stato, più mercato”, e della formula del “rapporto privatistico” nel regolare i rapporti capitale-lavoro, evidenzia i suoi risvolti materiali nell’attacco più spregiudicato alle condizioni politiche e di riproduzione materiale della classe, nel ricondurre i legittimi interessi dei lavoratori a problemi di “ordine pubblico”.

A fronte di questo complesso quadro di scontro, dentro a quelli che sono gli stessi termini di crisi politica e sociale maturati nel paese, il risvolto proletario e rivoluzionario alla crisi della B.I. si dà oggi più che mai sul terreno strategico posto dalla guerriglia.

Il solo in grado di incidere sui rapporti di forza per modificarli in favore della classe, quello cioè, che riportando sul terreno del potere i termini dello scontro, può ricomporre le istanze di autonomia di classe che emergono dai momenti più qualificanti delle lotte operaie.

Uno sbocco necessario e possibile dato dall’attualità e valenza della strategia della LA a partire dal fatto che essa trae la sua forza di rottura dall’essere l’adeguamento storico della politica rivoluzionaria alle mutate condizioni dello scontro di classe nella metropoli, condizioni per cui il processo rivoluzionario deve essere condotto nell’unità del politico e del militare, unificando cioè costantemente il piano politico a quello della guerra.

Questo perché un’attività rivoluzionaria di classe solamente politica non può incidere sul terreno dello scontro, né tanto meno può essere consolidata, poiché il “sistema democratico borghese” è in grado di diluire e assorbire l’urto delle istanze prodotte dalla lotta di classe attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa, in quel “gioco democratico” in cui partiti, sindacati, sedi istituzionali, ecc. sono tesi ad incanalare sul piano istituzionale il conflitto di classe e che incorpora la controrivoluzione preventiva quale politica costante tesa a reprimere e criminalizzare le espressioni antagoniste e non assorbibili dello scontro di classe.

Un sistema di contenimento del conflitto di classe che, calibrando mediazione e annientamento, è teso a non far collimare le istanze antagoniste che si producono nello scontro col terreno rivoluzionario. In questo senso non è possibile accumulare nel tempo forza politica da riversare sul piano militare nell’offensiva insurrezionale finale.

Per questo la guerriglia deve affrontare immediatamente e globalmente l’aspetto politico e quello della guerra insiti nello scontro, sviluppando, anche se in forma particolare perché dominata dalla politica, una vera e propria guerra di classe rivoluzionaria. In questo la guerriglia ha dato superamento alle concezioni terzinternazionalista, inadeguate anche per il venir meno del “momento eccezionale” stante il quadro storico uscito dalla seconda guerra mondiale e i caratteri contemporanei del blocco integrato imperialista che non presentano i termini per un conflitto interimperialistico nelle forme e nei modi del passato.

L’unità del politico e del militare agisce perciò come una matrice che si imprime su tutta l’attività rivoluzionaria e in primo luogo sullo stesso modulo guerrigliero che, unitamente all’assunzione dei criteri di clandestinità e compartimentazione, definiscono il carattere offensivo della guerriglia.

Questi gli elementi fondamentali che presiedono all’affermarsi di una vera e propria strategia della guerra proletaria a partire dai quali le BR hanno definito la proposta della strategia della LA a tutta la classe, adeguata alle specifiche condizioni dello scontro di classe in Italia e in riferimento alle caratteristiche qualitative del movimento proletario nelle sue espressioni di autonomia politica, sostanzialmente antistituzionali, antistatuali e antirevisioniste.

Sulla base di questa impostazione le BR hanno dimostrato la capacità e possibilità di contrapporsi in termini offensivi al potere della B.I., a partire dalle linee di combattimento dell’attacco allo stato e all’imperialismo, concretizzando e consolidando la dialettica con la classe nel processo che, a partire dall’attacco e dalla disarticolazione del nemico, passa all’organizzazione delle forze proletarie e rivoluzionarie sul terreno della LA per ritornare su nuove basi, ancora una volta, all’attacco.

Ovvero, nella dialettica attacco-distruzione, costruzione-nuovo attacco, le BR hanno messo in pratica, in ogni fase dello scontro, i criteri di costruzione e sviluppo della guerra di classe, in cui la lotta armata non è appannaggio solamente della pratica dei comunisti, ma è proposta a tutta la classe, è il terreno su cui organizzarla per riportare lo scontro di classe sul terreno del potere e attraverso il quale è possibile perseguire lo spostamento dei rapporti di forza in favore del campo proletario, facendo così vivere sia nell’immediato che nella costruzione della prospettiva rivoluzionaria, i suoi interessi generali.

Una dinamica rivoluzionaria che evidenza anche come le istanze dell’autonomia politica di classe, trovando il loro terreno di risoluzione nella dialettica con l’attività delle BR, hanno qualificato i caratteri dell’antagonismo proletario.

In sintesi l’attività rivoluzionaria delle BR nel suo complesso non solo si è riflessa in termini di tenuta del campo proletario nei confronti della controffensiva dello stato, ma soprattutto ha fatto avanzare da un punto di vista strategico la guerra di classe sull’obiettivo della prima tappa: l’abbattimento dello stato borghese e la conquista del potere politico da parte del proletariato metropolitano per la costruzione di una società comunista.

Sulla linea di combattimento dell’attacco allo stato le BR assumono la concezione leninista dello stato, facendo di questa questione il centro della loro azione politica fino al suo abbattimento, questione da cui i comunisti non possono prescindere perché lo stato è l’organo della dittatura della B.I., la sede politica del suo potere, laddove trovano sanzione i rapporti di forza tra le classi.

Per le BR attaccare il cuore dello stato significa individuare e colpire dentro alla contraddizione principale che oppone la classe allo stato, il progetto dominante della B.I. nella congiuntura per rompere gli equilibri politici che lo fanno marciare.

Il danneggiamento che ne consegue provoca una ricaduta in termini di relativa forza politica che per non essere dispersa deve tradursi in organizzazione di classe sulla LA e nel consolidamento della disposizione generale delle forze sullo scontro rivoluzionario.

Una linea di combattimento che interagendo direttamente sul rapporto classe-stato è il perno su cui si articola la costruzione della guerra di classe di lunga durata.

Nel corso dello scontro, all’interno della migliore comprensione della funzione politica degli stati nei paesi a capitalismo maturo, si sono definiti i criteri dell’attacco allo stato nella centralità, selezione e calibramento come quelli fondamentali per incidere adeguatamente al livello raggiunto dallo scontro ed avere il massimo del risultato politico, tanto più a fronte dei processi di forte centralizzazione e verticalizzazione del potere che si sono dati nel corso della rifunzionalizzazione dello stato interno alla transizione alla seconda repubblica.

Criteri questi validi per molte fasi ancora dello scontro, perché solo nella fase di guerra civile dispiegata è possibile attaccare su più livelli e contemporaneamente la macchina statale.

In unità programmatica con l’attacco al cuore dello stato, l’antimperialismo è l’altra principale linea di combattimento su cui le BR dispiegano la propria attività. È in riferimento alle caratteristiche strutturali dell’imperialismo che hanno determinato storicamente le relazioni integrate e gerarchiche della catena a livello economico, politico e militare, che si sono definiti i nuovi caratteri dell’internazionalismo proletario, su cui la guerriglia ha sviluppato la sua prassi internazionalista e antimperialista.

Come affermano le BR, sviluppare il processo rivoluzionario in un paese del centro imperialista significa misurarsi immediatamente oltre che col proprio stato, anche con l’imperialismo nel suo insieme, da ciò il carattere antimperialista e la natura internazionalista del nostro processo rivoluzionario, termini che le BR fanno vivere fin da subito nella dialettica con l’autonomia di classe e nella costruzione della guerra di classe. Dentro a questi principi le BR hanno portato avanti la pratica antimperialista nell’attacco alla NATO, quale pilastro dell’integrazione politico militare del blocco imperialista, nella sua funzione di guerra interna – guerra esterna, e nell’attacco ai progetti imperialisti nell’area.

In questo modo le BR hanno lavorato alla proposta di costruzione del Fronte Combattente Antimperialista, relazionandosi a quanto la guerriglia europea ha espresso su questo terreno, e contribuendo al suo sviluppo in avanti, sviluppo che nell’unità delle forze combattenti si pone al punto più alto di ricomposizione delle diverse espressioni dell’antimperialismo militante del movimento rivoluzionario e delle lotte del P.M.

Per le BR lo sviluppo del Fronte Combattente Antimperialista si dà all’interno di una politica di alleanze contro il nemico comune, con le forze rivoluzionarie che agiscono nella nostra area geopolitica europea-mediterranea-mediorientale, sia con la guerriglia che opera nella metropoli imperialista che con le forze rivoluzionarie di liberazione nazionale, per ricomporre nella pratica antimperialista del Fronte Combattente Antimperialista l’unità oggettiva che già esiste tra la guerra di classe nel centro e la guerra di liberazione nella periferia. La costruzione del Fronte Combattente Antimperialista, quale organismo politico-militare in grado di portare offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo nell’area, è condizione imprescindibile per dare sviluppo al processo rivoluzionario nel proprio paese, in quanto solo destabilizzando e indebolendo l’imperialismo è possibile favorire le rotture rivoluzionarie. Per le BR l’obiettivo della costruzione del Fronte Combattente Antimperialista è quindi fondamentale per lavorare allo spostamento dei rapporti di forza tra imperialismo e antimperialismo in modo da far avanzare i processi rivoluzionari nell’area e nel contempo portare a compimento gli obiettivi del processo rivoluzionario nel nostro paese.

Questo chiarisce anche il rapporto dialettico che vive tra i due assi di combattimento strategici dell’attacco allo Stato e all’imperialismo, dove uno non sostituisce l’altro, ma entrambi concorrono ad assolvere le finalità del processo rivoluzionario.

L’attuale fase internazionale vede maturare, sotto la spinta del livello critico ormai raggiunto dalla crisi economica generalizzata a tutto l’ambito capitalistico, i fattori politico-militari che convergono verso lo sbocco bellico, nelle tappe che evidenziano come l’Est sia la direzione principale di questo sbocco.

Tappe che hanno trovato un’ulteriore accelerazione dentro i mutamenti degli equilibri internazionali che, a partire dal dissolvimento del Patto di Varsavia, fino agli sconvolgimenti che attraversano i Paesi dell’Est, definiscono l’attuale caratterizzazione della contraddizione Est/Ovest. Da questo contesto il blocco imperialista, USA in testa, muove all’assoggettamento di questi paesi, nella ridefinizione, nel quadro NATO, della strategia politico-militare complessiva entro cui, malgrado le disomogeneità e la conflittualità di interessi tra i diversi stati imperialisti, stringere vincoli politico-militari nella necessità di muoversi in blocco su questa direttrice.

Un quadro internazionale che rimarca come la nostra area geopolitica, Europa in primo luogo, sia ancora una volta il teatro principale del concretizzarsi della prospettiva della guerra imperialista il cuore della ridefinizione dei futuri assetti della divisione internazionale del lavoro e dei mercati, in cui oggi la guerra in Jugoslavia rappresenta il primo banco di prova dell’intervento guerrafondaio imperialista sulla direttrice Est/Ovest.

Una realtà che fa a maggior ragione dell’imperialismo e della NATO il nemico mortale del proletariato metropolitano e di tutti i popoli dell’area, una condizione da cui scaturisce ancora di più la necessità e possibilità della pratica antimperialista e soprattutto il ruolo e la valenza strategica del Fronte Combattente Antimperialista nel confrontarsi al livello di incisività richiesto dallo scontro imperialismo/antimperialismo.

L’attività combattente delle BR, misurandosi con le peculiari condizioni dello scontro rivoluzionario nelle metropoli e assumendo il criterio prassi-teoria-prassi come quello che consente di correggere gli errori, ha potuto meglio definire gli avanzamenti della progettualità rivoluzionaria, questo nel duro confronto con la controrivoluzione e nel necessario sviluppo delle battaglie politiche.

Un processo necessariamente non lineare, segnato da avanzamenti e arretramenti, successi e sconfitte, ma che ha consentito alle BR di precisare e sviluppare la loro visione dello Stato e dell’imperialismo, come più in generale la stessa visione dello scontro rivoluzionario, epurandole tanto dalle tendenze idealiste, soggettiviste ed economiciste prodottesi nella fase di espansione della lotta armata, quanto di quelle dogmatiche e liquidazioniste, figlie dell’interiorizzazione della sconfitta tattica dell’82.

Nello stesso tempo ha consentito di acquisire meglio la capacità di conduzione della guerra di classe, nella migliore comprensione delle sue principali leggi di movimento, all’interno dei presupposti che consentono alla guerriglia di operare a fronte delle peculiarità eminentemente politiche che definiscono lo scontro rivoluzionario in un paese imperialista in cui, stante le forme di dominio, la guerriglia non dispone né di basi liberate, né di retrovie stabili, ma sviluppa la sua prassi rivoluzionaria in una guerra senza fronti, nel cuore stesso del nemico, costruendo le forze materiali della rivoluzione e le sue stesse forze nella capacità di dare sviluppo e avanzamento alla guerra di classe, operando fino all’abbattimento del potere della borghesia imperialista, dentro rapporti di forza sempre relativamente sfavorevoli alla rivoluzione in condizioni di accerchiamento strategico.

Acquisizioni generali che in particolare sono state precisate durante il processo autocritico avviato nella fase di Ritirata Strategica.

Una fase che le BR hanno aperto applicando le leggi della guerra che impongono di ritirarsi da posizioni non avanzate rispetto al mutamento generale delle condizioni dello scontro e a fronte di una controffensiva senza precedenti dello Stato.

Il ripiegamento è una legge dinamica della guerra, soprattutto della guerriglia, che consente alle forze rivoluzionarie, ritirandosi, di ricostruire le condizioni politico-militari per nuove offensive.

Dentro questo principio le BR hanno riportato l’iniziativa combattente al punto più alto dello scontro, tanto sull’asse classe/Stato (Giugni, Tarantelli, Ruffilli) che sull’asse imperialismo/antimperialismo (Dozier, Hunt, Conti) e intorno a ciò hanno intrapreso il riadeguamento complessivo che ha potuto essere tale valorizzando il complesso dell’esperienza acquisita in tutto il percorso rivoluzionario delle BR, così da riproporla in avanti.

La questione fondamentale che si è riaffermata all’interno della prassi delle BR è la forza determinante della strategia della lotta armata come asse portante del processo rivoluzionario e binario guida per lo stesso riadeguamento. Per questo le BR, nel mantenimento e riferimento costante alle discriminanti dell’impianto di base, sia agli assi strategici che ai presupposti cardine della guerriglia, hanno potuto ridefinire i compiti inerenti alla conduzione della guerra di classe e avviare la fase rivoluzionaria della Ricostruzione.

Una fase che, informata dai caratteri generali della Ritirata Strategica, comporta, a partire dal combattimento, attrezzare su tutti i piani le forze proletarie e rivoluzionarie alle condizioni dello scontro al fine di ristabilire i termini politico-militari per nuove offensive, definendosi come un passaggio fondamentale nell’avanzamento della guerra di classe.

Una fase rivoluzionaria che implica, nella dialettica guerriglia/autonomia di classe, lavorare sul duplice binario costruzione/formazione, cioè ricostruzione nel tessuto di classe dei livelli di organizzazione politico-militari necessari a sostenere lo scontro contro lo Stato e, in primo luogo, formazione dei rivoluzionari stessi perché acquisiscano la dimensione dello scontro rivoluzionario a partire dalla ricca esperienza maturata dalle BR in più di 20 anni.

Una fase rivoluzionaria, quella della ricostruzione, ad andamento fortemente discontinuo, per le condizioni politico generali in cui si sviluppa lo scontro rivoluzionario, stante l’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione, classe/Stato, un approfondimento che ha implicato alle BR, nel determinare le modalità con cui si dispongono e si organizzano le forze sulla lotta armata, un salto qualitativo nell’attività di direzione, attraverso la centralizzazione politica sul movimento generale delle forze (che è centralizzazione delle direttive politiche/decentralizzazione delle responsabilità a tutte le sedi e istanze organizzate) che consente che tutte le forze lavorino all’interno del piano di lavoro definito, al fine di muoverle come un cuneo sugli obiettivi perseguiti, per pesare con il massimo di incisività nello scontro.

La capacità di esprimere questo livello di direzione, in riferimento alla costruzione del complesso dei termini della guerra di classe, operando sul principio di “agire da partito per costruire il Partito”, ha posto le basi per un avanzamento del processo di costruzione del Partito Comunista Combattente, in quanto per le BR il problema della costruzione del PCC non è risolvibile con un atto volontaristico, o in cui la semplice formulazione di tesi politiche e del relativo programma è vista come sufficiente per la costituzione dell’avanguardia in Partito. Sul piano di sviluppo della strategia della lotta armata, operando nell’unità del politico e del militare, il processo di costruzione del Partito marcia strettamente in rapporto alla capacità di costruire e far avanzare il complesso delle condizioni politico-militari per il dispiegamento della guerra di classe. In altri termini il problema del partito non è ricondotto solo alla mera disposizione attorno al programma, ma a come esso vive in rapporto all’accumulo di forze rivoluzionarie e proletarie, intorno alla costruzione dell’organizzazione di classe armata, alla costruzione della direzione politica su di essa, ovvero dei quadri politico-militari in grado di affrontare complessivamente i problemi dello scontro rivoluzionario, ecc.

È quindi all’interno di questi criteri di attività e all’interno del più complessivo processo di costruzione del Partito Comunista Combattente, che le Br danno sostanza alla parola d’ordine dell’unità dei comunisti, parola d’ordine che non è intesa come unità generica sulla lotta armata, ma come un processo che ha il suo riferimento intorno all’indirizzo strategico, politico e programmatico delle BR, in stretto riferimento ai livelli teorici-politici-organizzativi che la stessa prassi delle BR ha attestato nello scontro rivoluzionario.

ATTACCARE E DISARTICOLARE IL PROCESSO ANTIPROLETARIO E CONTRORIVOLUZIONARIO DI RIFORMA DELLO STATO CHE EVOLVE VERSO LA SECONDA REPUBBLICA.

ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI PER RICOSTRUIRE I LIVELLI NECESSARI ALLO SVILUPPO DELLA GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA.

ATTACCARE LE POLITICHE CENTRALI DELL’IMPERIALISMO, DALLA LINEA DI COESIONE EUROPEA, AI PROGETTI DI GUERRA DIRETTI DALLA NATO, CHE SI DISPIEGANO IN QUESTO MOMENTO LUNGO L’ASSE DEI PAESI DELL’EST EUROPA E SULLA REGIONE MEDITERRANEO-MEDIORIENTALE.

LAVORARE ALLE ALLEANZE NECESSARIE ALLA COSTRUZIONE DEL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA.

GUERRA ALLA GUERRA – GUERRA ALLA NATO.

TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA DI CLASSE RIVOLUZIONARIA.

ONORE A TUTTI I COMPAGNI E COMBATTENTI ANTIMPERIALISTI CADUTI.

5 giugno 1994

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente:
Giuseppe Armante, Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Simonetta Giorgieri, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Fabio Ravalli, Carla Vendetti.

I militanti rivoluzionari: Gino Giunti, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini

 

SECONDO INTERVENTO

I tempi sono maturi per prendere la parola. La decisione scaturisce dal desiderio di non essere associato, mio malgrado, ad un gruppuscolo di brigatisti d’accatto che con infaticabile solerzia lavorano a sbarazzarsi di un impianto strategico e di un complesso di tesi che sono il tratto tipico dell’identità strategica e politica delle BR-Pcc: un patrimonio di insegnamenti rivoluzionari verificati e maturati attraverso 20 lunghi anni di scontro rivoluzionario.

Ma soprattutto esco dal silenzio per denunciare un tentativo di coinvolgermi indebitamente in una presunta gestione collegiale del processo a coloro che rispondono alla sbarra dell’operazione alla base Usa di Aviano.

Non c’è stata nessuna discussione e decisione presa in comune poiché non mi sono riconosciuto e continuo a non riconoscermi, né nei contenuti politici, né nei criteri che hanno sostanziato tale iniziativa.

Mentire per un rivoluzionario è un comportamento inqualificabile mentre è degno del più volgare politicante borghese! Tuttavia non è mai stato patrimonio delle BR nascondersi dietro le menzogne e i sotterfugi; per questa ragione è intollerabile; per questa ragione, mi sento in dovere di denunciare; se per gestire una iniziativa bisogna ricorrere a degli espedienti così meschini e farfugliare pietosamente che la gestione processuale è stata concordata con coloro con cui si è rinchiusi assieme, si è veramente alla deriva.

Un atteggiamento simile può solo confermare tutti i dubbi e le perplessità sulla credibilità e onestà politica dell’intera operazione, ma soprattutto lascia aperti tutti gli interrogativi sull’onestà individuale di chi se la gestisce in questo modo.

Ben sanno i firmatari della rivendicazione al processo di Udine con quale fermezza mi sono rifiutato di tenere bordone a tesi politiche che sono oggettivamente un proditorio attacco all’impianto strategico e alla linea politica delle BR-Pcc.

L’operazione Aviano si è qualificata per essere un tentativo maldestro e velleitario di spacciare logiche opportuniste e gruppettare come la “nuova variante delle BR-Pcc”. Logiche politiche dai contenuti fortemente astorici che retrocedono le caratteristiche del sistema imperialista a forme e contenuto pre-prima guerra mondiale.

Ciarpame ideologico, patrimonio di certi intellettuali neo-marxisti a cui si tenta di offrire un approdo rivoluzionario.

Una analisi politica della situazione internazionale che ha la presunzione di introdurre delle novità ma che raggiunge il misero risultato di riportare l’imperialismo alla situazione precedente, alla fase in cui la situazione si contraddistingueva per la coincidenza tra gruppi monopolistici nazionali e rispettivi apparati statali ed a cui si accompagnavano conseguenti rivalità tra sistemi economici nazionali.

Se non fosse che questa “fesseria” sul piano dell’analisi del sistema imperialista e delle forme che assume non finisse per gravare sulle stesse ragioni di fondo all’origine della guerriglia nelle metropoli, in quanto adeguamento della politica rivoluzionaria al grado di sviluppo integrato dell’imperialismo e dl conseguente mutamento delle forme di dominio della B.I., non ci resterebbe che ridere di loro e dei loro vacui discorsi.

Purtroppo le implicazioni di questo genere di posizioni politiche incrinano in misura considerevole i fondamenti maturati dall’attività rivoluzionaria delle BR ma soprattutto il valore degli insegnamenti rivoluzionari tratti in questi duri e lunghi anni di lotta rivoluzionaria in Ritirata Strategica.

Un atteggiamento politico pretenzioso quanto esiziale che persegue la finalità di spacciare per nuove analisi, concezioni politiche che appartengono a una realtà storicamente superata che rimette in onore vecchie visioni rivoluzionarie di tipo evoluzionistico che al confronto con la prassi e la teoria maturata dalle BR-Pcc nel vivo dello scontro, mostrano in se una configurazione soggettivista e gruppista.

Visioni politiche da sempre rifiutate dalle BR che nascono dalla profonda sfiducia nelle capacità rivoluzionarie del proletariato e da una idea erronea che attribuisce “ad un nucleo di samurai” la funzione ed i compiti della L.A. e altrettanto soggettiviste e gruppettare perché si esprimono chiaramente nello svilimento della contraddizione principale Classe/Stato e nel suo appiattimento sulla tematica antimperialista che è ridotta ad una visione tipicamente movimentista: dove la proposta di Fronte imperialista dalla concretezza della politica di alleanze, estendibile a tutte le Forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geopolitica (Europea – Mediorientale – Mediterranea) passa ad una non meglio precisata pratica rivoluzionaria dall’indirizzo antimperialista e internazionalista di vago contenuto solidaristico.

Un approccio che invalida l’attualizzazione operata in anni di prassi internazionalista e antimperialista delle BR, dell’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista e il contributo dato alla costruzione e al consolidamento del FCA quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo nell’area.

Dall’impianto analitico assunto come guida all’azione emerge con estrema chiarezza che uno degli intenti principali è quello di sbarazzarsi di uno degli assi di programma, quale è la concezione di attacco al cuore dello stato, che va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco e che invece vengono negati di fatto per “un’impostazione strategica” dell’indirizzo antimperialista ed internazionalista del processo rivoluzionario entro cui collocare lo sviluppo stesso della LA per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Per le BR-Pcc è esattamente vero il contrario! La rivoluzione proletaria ha necessariamente un carattere internazionalista, vale a dire che il dovere principale di ogni rivoluzionario è di “fare la rivoluzione nel proprio paese contando sulle proprie forze”. Ma è altrettanto vero che la condizione per poter fare una rivoluzione è legata allo stato dei rapporti di forza maturati nello scontro tra imperialismo/antimperialismo, dato l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico-militare. Quindi per sviluppare il processo rivoluzionario nel proprio paese non si può non prescindere dall’indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area geopolitica “Europa occ. – Mediterraneo – Medio Oriente”. La necessità del Fronte vive nella prassi offensiva che tende alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare condizioni di instabilità politica nell’area, funzionali al procedere del processo rivoluzionario dei singoli stati. Insomma per le BR l’attività antimperialista non ha mai significato sostituire l’intera prassi rivoluzionaria all’interno del paese e non si è mai inteso disperdere l’attività del FCA in un attacco generico all’imperialismo, ma le BR-Pcc hanno sempre svolto la politica frontista nell’individuazione dei nodi centrali, sia quando essi si esplicano nel cuore del sistema, sia quando sono volti a “normalizzare” l’area mediterraneo-mediorientale, sia quando essi si coordinano per stabilire politiche controrivoluzionarie nei confronti della Guerriglia e del FCA.

La centralità dell’attacco allo stato costituisce ora più che mai per le BR uno dei principali assi programmatici attorno a cui costruiscono organizzazione di classe sulla LA, ed esso si dà attraverso l’applicazione rigorosa dei criteri cardine di centralità, selezione e calibramento. Questi criteri risultano essere elementi determinanti perché su di essi verte l’individuazione della contraddizione ovvero il progetto politico dominante della Borghesia. Si dà efficacemente disarticolazione e se ne ha il massimo profitto politico, proprio incentrando l’attacco su tali criteri che sono sempre validi in ogni fase e in ogni congiuntura. Solo a partire da questa base, l’attacco al cuore dello stato ha la capacità di incidere nello scontro. Solo la puntuale applicazione di questi criteri permette alla attività della avanguardia rivoluzionaria di caratterizzarsi come agire da partito e di materializzarsi nel processo di costruzione-fabbricazione del P.C.C. in rapporto allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata in tutte le sue determinazioni. Cosicché la complessità del processo di costruzione-fabbricazione del Pcc non può avvenire da un confronto aprioristico su un generico processo di LA, disgiunto e separato dal compito prioritario di costruire le condizioni politiche-militari atte a sostenere lo scontro sul terreno della LA. Cade in quella separazione tra agire di supposta avanguardia e la classe. Un atteggiamento più volte bollato come erroneo e dannoso perché abbandona quello che è il referente politico al quale l’attività rivoluzionaria delle BR si è sempre rivolta ovvero il proletariato metropolitano a dominanza operaia. Proseguendo in tali ragionamenti neanche una pietra resta in piedi del “vecchio impianto” e così si finisce per non riconoscere l’importanza della periodizzazione del processo rivoluzionario, invalidando anche gli obiettivi e i compiti riconosciuti in questa fase che si dipanano lungo la direttrice della necessità di attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo stato al fine di sviluppare la guerra di classe di lunga durata, compito che per altro si pone nell’attuale fase di scontro come prioritario e ruota giocoforza intorno al cardine della fase di ricostruzione così come delineata dalle BR-Pcc fuori dal movimentismo e dal combattentismo fine a se stesso.

Per questa ragione i contenuti e i fini preposti dall’Operazione-Aviano sono un tentativo opportunista e avventurista che si pone al di fuori dal quadro di problematiche e di compiti odierni di riorganizzazione e consolidamento delle avanguardie rivoluzionarie per il rilancio dell’iniziativa sul terreno della LA.

È lo scontro ad essersi incaricato di dimostrare l’inadeguatezza di simili logiche politiche, esaltandone la natura opportunista e avventurista stante il livello di approfondimento raggiunto dal rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Logiche che si sono qualificate per la loro natura opportunista perché si sono attestate su un livello possibile a partire dalle proprie condizioni piuttosto che su quello che è necessario fare per modificare i rapporti di forza attuali tra campo proletario e stato; inoltre avventuriste perché hanno affrontato il compito di sostenere lo scontro con la borghesia armata senza un adeguato strumento.

È sempre lo scontro a dimostrare che non si può evitare furbescamente che chiunque si misuri sul terreno rivoluzionario non lo faccia dentro un modulo politico-organizzativo secondo cui sono strutturate le BR. I criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono i tratti caratteristici sempre validi, quindi strategici affinché ogni forza rivoluzionaria e la guerriglia nel suo complesso possa agire in tutta la sua portata rivoluzionaria in queste condizioni storiche dello scontro fra le classi.

Per le BR tutto questo complesso arco di criteri, principi, modi di esprimere prassi rivoluzionaria sono lo stile di lavoro che, in questi anni di esperienza rivoluzionaria, si è ben stagliato negli atti politici e materiali che ne hanno contraddistinto l’attività, lo spirito della militanza d’organizzazione.

Uno stile di lavoro che ha tratto la sua caratterizzazione dalla natura proletaria delle BR e dagli insegnamenti generalizzabili su questo terreno del movimento comunista rivoluzionario internazionale.

La riorganizzazione della avanguardia rivoluzionaria per misurarsi adeguatamente con il livello di scontro odierno è condizionata a riferirsi agli avanzamenti prodotti nel corso della guerra di classe dai quali non sai può sottrarre, per rilanciare lo scontro in avanti. Sono le leggi dello scontro a non consentire che il rilancio del processo rivoluzionario possa ripartire da zero nonché a dimostrare l’impraticabilità di forme già date in fasi precedenti dello scontro anche a fronte dei profondi ripiegamenti delle posizioni rivoluzionarie.

Come militante delle BR-Pcc in prigionia mi associo e controfirmo la rettifica fatta da un gruppo di militanti prigionieri il 5/6/94 condividendone interamente le ragioni, le critiche e i contenuti politici.

 

Novara 8/8/94

 

Il militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente
La Maestra Franco

 

Seconda Corte d’Assise del Tribunale di Roma. Dichiarazione dei militanti delle Br-Pcc Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Flavio Lori, Fabio Ravalli e della militante rivoluzionaria Vincenza Vaccaro allegata agli atti del processo “esproprio-Hunt”.

Ci sono stati nel nostro processo rivoluzionario snodi cruciali nel rapporto rivoluzione/controrivoluzione che hanno richiesto all’avanguardia comunista combattente il necessario processo di riadeguamento nella definizione e precisazione degli indirizzi politici di fase per poter assolvere alla funzione di direzione rivoluzionaria dello scontro per poter condurre adeguatamente la guerra di classe di lunga durata.

Nei primi anni ’80 la scelta di aprire ad una nuova fase rivoluzionaria, la Ritirata Strategica (RS) operata dalle BR-PCC, fu determinante per affrontare lo scontro rivoluzionario, per sostenerlo e rilanciarlo sul piano della guerra di classe, in relazione alle condizioni dettate dalla controrivoluzione in un contesto di cambiamenti più generali legati alla crisi recessiva generalizzata, che richiedeva la pacificazione dello scontro. Una scelta che si è imposta come terreno discriminante lo schieramento del movimento rivoluzionario e su cui si sono definiti i termini più adeguati della disposizione sulla Lotta Armata (LA) delle avanguardie più mature. Anche agli inizi degli anni ’90, all’indomani delle operazioni antiguerriglia dell’88-89, a fronte dei processi di consolidamento, nello scontro di classe e rivoluzionario, delle dinamiche controrivoluzionarie interne ed internazionali, la scelta compiuta dall’avanguardia com. comb. di avviare lo stadio aggregativo (SA), finalizzato al rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria e ricostruzione delle forze per l’offensiva, ha complessivamente fatto avanzare i termini di sviluppo della guerra di classe nella capacità di sostenerla e condurla su basi più avanzate.

Gli indirizzi politici, programmatici dello SA si sono confrontati con i nodi politici di contraddizione emersi dalle condizioni politiche danneggiate e disperse dal processo controrivoluzionario dell’evolvere del rapporto di scontro tra classe e Stato, relativamente alla discontinuità di attacco, alla difensiva di classe e alle condizioni e contraddizioni proprie alla soggettività rivoluzionaria, in quanto parte dello scontro generale. Si è trattato di misurarsi con la necessità di immettere nei nodi centrali di scontro il “dato politico assente” dell’espressione dell’autonomia politica di classe attraverso l’esercizio di un ruolo d’avanguardia che collocasse l’interesse del proletariato e la sua prospettiva di potere nello scontro generale tra le classi, andando a selezionare i termini complessivi idonei ad affrontare il nodo della ricostruzione delle forze per l’offensiva e dell’Organizzazione Comunista Combattente (OCC).

È proprio nell’affrontare il quadro di scontro nelle sue determinazioni principali, che l’avvio dello SA, sintetizzato nell’agire d’avanguardia dei Nuclei Comunisti Combattenti (NCC), a partire dalle iniziative offensive contro la Confindustria del ’92 e il Nato Defence College del ’94, si è qualificato come scelta fondamentale e dirimente nel dare risoluzione ai nodi politici e alle priorità poste sul piano rivoluzionario, a precisare ed affrontare i compiti inerenti alla Fase di Ricostruzione (RIC.) e dare adeguata continuità al processo rivoluzionario. Infatti l’agire d’avanguardia dei NCC, assumendo il terreno del riadeguamento operato dalle BR-PCC nel corso della RS e gli indirizzi propri alla fase di Ric., e ricollocandoli nello scontro, ha definito la progettualità che, rapportandosi alla complessificazione data sul piano della Ric. dal quadro di contraddizioni dello scontro, ha incardinato i processi politico-militari e i livelli di costruzione/formazione della soggettività rivoluzionaria nella coscienza del ruolo indispensabile che nella guerra di classe svolge l’OCC che agisce da Partito per costruire il Partito (P.).

Per gli indirizzi perseguiti, gli intendimenti e i riferimenti a base dell’agire politico strettamente aderente ai caratteri generali della fase di Ric. e alla concezione organica di sviluppo della guerra di classe, nonché per i termini politici, tattici e strategici dell’attuale fase di scontro, la prassi d’avanguardia, con l’avvio dello SA, ha caratterizzato in un quadro di obiettiva continuità del processo rivoluzionario, il piano di riadeguamento necessario dell’avanguardia, quale snodo fondamentale per dare adeguato sviluppo e proseguimento alla fase di Ric. e quale passaggio centrale che segna l’avanzamento qualitativo nella costruzione dei livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata rispetto ai cui indirizzi sono stati incanalati i processi aggregativi e i livelli di ricostruzione manifesti nella odierna direzione rivoluzionaria dello scontro espressa dalla nostra Organizzazione (O.).

È infatti in questo complesso quadro progettuale che si colloca, come primo punto di sintesi e rivoluzione delle problematiche della fase rivoluzionaria, l’attacco al cuore dello Stato del ’99 contro M. D’Antona, per indebolire il progetto neocorporativo con cui le BR-PCC hanno rilanciato nello scontro generale la strategia della LA, rilancio indirizzato ad aprire un varco offensivo nella difensiva di classe, che ha fatto avanzare i processi aggregativi sul piano della formazione e disposizione della soggettività rivoluzionaria, funzionale ad acquisire i ruoli militanti complessivi e la collocazione idonea sul programma e di assestamento dell’OCC e di costruzione del Partito Comunista Combattente (PCC), dinamica di ulteriore costruzione che ha reso possibile l’attacco del 19-3-02 contro M. Biagi.

I criteri, gli indirizzi politico-militari e le finalità dello SA sono obiettivamente il terreno discriminante a disposizione delle forze rivoluzionarie per essere adeguate ad assumere gli attuali termini dello scontro contro lo Stato e la Borghesia Imperialista (BI), e in questo senso lo è anche per i militanti d’Organizzazione e rivoluzionari prigionieri in quanto parte del contesto di scontro.

A nostro avviso riteniamo che per assumere questa discriminante non sia sufficiente la mera “adesione” alle risultanze delle iniziative offensive contro M. D’Antona e M. Biagi, al contrario si tratta di avviare un processo politico di disposizione idonea che può darsi solo a partire dalla presa d’atto delle contraddizioni e delle dinamiche politiche che la discontinuità d’attacco ha introdotto nello scontro rivoluzionario e di classe, per come queste si sono riflesse in termini di contraddizioni e limiti politici sui prigionieri.

Lo SA e le sue problematiche, prima di tutto le risultanze poste dalle BR-PCC, permettono di collocare e affrontare la reale natura delle contraddizioni e limiti che in forma latente o manifesta hanno attraversato e attraversano l’ambito rivoluzionario dei prigionieri. Contraddizioni che hanno investito la stessa valutazione dell’iniziativa d’attacco contro M. D’Antona, vista da larga parte dei prigionieri come il punto di partenza del rilancio del processo rivoluzionario, dopo l’“interruzione” seguita alle catture dell’88-89, non cogliendo di conseguenza il significato del bilancio che le BR-PCC hanno fatto del processo storico-reale della Ric. in questi 10 anni, e delle problematiche connesse allo SA presenti fin dalla iniziative dei NCC del ’92 e ’94. Contraddizioni e limiti di origine vecchia e nuova che assommano contraddizioni irrisolte nell’ambito dei rivoluzionari prigionieri durante tutto un percorso della RS, con quelle maturate nel confronto con la discontinuità, producendo meccanismi e dinamiche politiche di carattere difensivistico, sfociate in uno scollamento dalla disposizione adeguata all’evolvere dello scontro rivoluzionario e ai suoi reali processi politici. Meccanismi di sottrazione agli esiti dello scontro a cui vanno sostanzialmente ricondotte contraddizioni di tipo idealistico e soggettivistico.

L’idealismo ha attraversato gran parte dei prigionieri, per i quali il riferimento alla progettualità strategica e al riadeguamento operato nella RS dalle BR-PCC, pur costituendo punto fermo, ha perso nella discontinuità la connessione con la visione storica e unitaria del movimento del processo rivoluzionario, scontando in ciò il fatto che il riadeguamento è stato assunto idealisticamente, disancorato cioè dal processo materiale che ha visto prodursi nello scontro un avanzamento strategico per parte rivoluzionaria, collocando di fatto la fase di Ric. in un ambito oggettivo, svilendo i suoi caratteri dinamici e avanzati inseriti nella concretezza della RS, con la conseguenza di aprire la strada ad una visione meccanicistica e riduttiva del processo rivoluzionario, nell’aspettativa “dell’inevitabile ripresa” a partire dal punto più alto dello scontro. Contraddizione idealistica che si è riflessa sulla disposizione militante dei prigionieri, matrice di scalibramenti nel leggere e collocare in modo compiuto e adeguato i processi politici reali posti dall’avanguardia com. comb. che si misurava con le problematiche inerenti la fase di scontro e la discontinuità, fino a produrre oscillazioni nell’identità di Partito.

La contraddizione soggettivista è quella che più propriamente ha assommato in sé il quadro di contraddizioni maturate nella RS e quelle scaturite all’indomani delle operazioni antiguerriglia dell’88-89, palesandosi in pieno nella discontinuità. In particolare questo tipo di contraddizione ha portato a collocare le risultanze del processo di riadeguamento delle BR-PCC, l’apertura della fase di Ric., e, a conferma, gli stessi eventi dell’88-89, come elementi interni ad una parabola discendente del percorso rivoluzionario, di fatto marginalizzando e aggirando l’importanza del riadeguamento quale fattore di evoluzione e termine agente nei rapporti di scontro, e dunque discriminante il terreno rivoluzionario d’avanguardia, proprio all’approfondimento per parte rivoluzionaria della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione. Riadeguamento quale termine più avanzato di progettualità rivoluzionaria entro cui gli stessi capi saldi strategici trovano immediato riferimento ai contenuti che li sostanziano e li rendono praticabili, in una precisa visione di sviluppo del processo rivoluzionario in guerra di classe, in cui la teoria-prassi operata nel corso della RS e della Ric. è stata tesa a misurarsi e a risolvere le contraddizioni immesse dalla controrivoluzione e dal ripiegamento per rilanciare lo scontro in avanti. Le posizioni soggettiviste, di fronte alle ulteriori contraddizioni prodotte dalla discontinuità e dai caratteri di evoluzione dello scontro, hanno di fatto operato una cesura col processo di riadeguamento e le sue risultanze, in particolare invalidando i presupposti stessi della RS e gli indirizzi propri della fase di Ric., aprendo a concezioni politiche espressioni dell’arretramento difensivistico prodottosi sul piano politico nella visione e relativa disposizione militante intorno alle problematiche della fase rivoluzionaria all’indomani delle operazioni antiguerriglia 88-89. A seguito di queste operazioni, nei fatti, queste posizioni hanno considerato concluso un arco di esperienza del processo rivoluzionario, concependo così i termini del suo affrontamento su presunte differenti basi politiche, finendo per riproporre, se pure in forma “aggiornata”, quelle logiche proprie al combattentismo e al movimentismo lottarmatista, già a suo tempo battute dalle BR nel corso del processo rivoluzionario. Logiche politiche che hanno trovato espressione nell’eclettismo sul piano teorico e politico, invalidando la visione d’insieme dell’andamento storico-concreto del nostro processo rivoluzionario ed in particolare relativizzando il portato degli avanzamenti stabiliti dalla teoria-prassi delle BR nella conduzione della guerra di classe. Posizioni che hanno dato corpo ad una particolare impostazione politica fondata principalmente sull’empirismo nella pratica d’avanguardia, assunto tra l’altro a metro di “selezione naturale” verso l’adeguata disposizione nello scontro rivoluzionario, motivo di fondo per cui questa contraddizione è quella che maggiormente ha alimentato la lettura delle ipotesi del rilancio in termini evolutivi e gradualistici della soggettività rivoluzionaria e dello stesso processo rivoluzionario.

L’esistenza di queste contraddizioni e limiti nella militanza in prigione ha comportato l’impossibilità di riconoscere e considerare appieno i NCC per il ruolo che questa avanguardia com. comb. ha effettivamente svolto nella fase di Ric. delle forze all’indomani delle operazioni antiguerriglia ’88-89; questo sia per quella parte dei prigionieri che hanno espresso la contraddizione idealistica, che ha colto solo l’aspetto fenomenico delle iniziative dei NCC, in base al quale ha collocato su piani distinti e separati il “livello” posto in essere dalle iniziative combattenti ed il riferimento strategico e politico rilanciato nello scontro agganciando gli indirizzi politici delle iniziative di rilancio dalla relazione con i processi politici concreti avviati sul terreno della ricostruzione delle forze, sia per quella parte dei prigionieri che ha incarnato la contraddizione soggettivista che ha considerato gli NCC come un tentativo di rilancio tra gli altri, e per di più nemmeno adeguato, secondo la propria lettura delle dinamiche dello scontro e dei processi di ricostruzione stessi.

Porsi il problema di misurarsi con queste contraddizioni, e dunque di sciogliere il nodo di come sono stati considerati i NCC e conseguentemente assumere tutto il bilancio della fase di Ric., non è una questione di mera autocritica riferita al passato, pur essendo anch’essa rilevante sul piano della coerenza rivoluzionaria, ma è propriamente problema dell’oggi, cioè del corretto rapporto che va stabilito con le iniziative offensive delle BR-PCC a partire dalla posizione e dal ruolo che come militanti e rivoluzionari prigionieri occupiamo nello scontro. L’omissione di questo nodo equivarrebbe a riprodurre letture gradualistiche ed evoluzioniste del processo rivoluzionario in generale, più in specifico la mancata chiarificazione del ruolo dei NCC nel processo di ricostruzione avallerebbe la valutazione di un’avanguardia cresciuta per gradi di coscienza, valutazione che non solo svilisce il bilancio complessivo operato dalle BR-PCC sulla fase di Ric., riducendolo a proiezione di uno specifico percorso compiuto dall’avanguardia com. comb., ma ne negherebbe la sua dimensione politico-reale, come focalizzazione di problematiche generali e soluzioni necessarie, relative alla fase rivoluzionaria in corso e alla impostazione che ne ha guidato l’affrontamento e risoluzione, dimensione entro cui si colloca fin da subito l’attività dei NCC con “la ricostruzione delle forze attraverso il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria”. Un’omissione che ha quindi come risultato obiettivo il porsi in contraddizione con il piano reale che è stato affermato nello scontro dai NCC, ovvero con l’esperienza rivoluzionaria di questo decennio e con il bilancio che viene fornito, che inequivocabilmente qualifica i NCC come l’avanguardia che si è rapportata all’approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione all’inizio degli anni ’90 e con la complessità dei compiti e contraddizioni posti dallo scontro rivoluzionario e di classe e dalla fase strategica, collocando adeguatamente in questo scontro il patrimonio storico delle BR a partire dai contenuti più avanzati e maturandone i necessari sviluppi.

Una collocazione che è il piano da cui gli NCC hanno potuto mettere in campo, con le iniziative offensive del ’92 e ’94, la progettualità adeguata a misurarsi con le contraddizioni della discontinuità stabilendo i binari su cui incardinare i processi aggregativi finalizzati a immettere nello scontro il “dato politico assente” con l’attacco al cuore dello Stato.

Rapportarsi all’attività delle BR-PCC senza fare chiarezza sui nodi di contraddizione che hanno attraversato i prigionieri rivoluzionari in questa fase, non si traduce solo in una collocazione formale della propria militanza e altrettanto formale adesione ai contenuti d’O., ma collide con il piano centrale posto dalle BR-PCC come terreno discriminante dello schieramento rivoluzionario, nel senso che invece di contribuire a sostenere dalla propria posizione di rivoluzionari prigionieri questo piano, si finirebbe per contribuire obiettivamente, prima ancora che soggettivamente, a supportare quelle visioni fenomeniche e parziali, che operano cioè un riduzionismo della reale espressione rivoluzionaria dell’autonomia di classe, propria all’andamento storico e concreto del processo di guerra di classe, alimentando quelle letture indistinte onnicomprensive che la discontinuità ha favorito, svuotando il reale significato della continuità del processo rivoluzionario, che, dai livelli attestati dall’O. nella RS, è proseguito ed ha avuto i suoi sviluppi nei processi avviati nello SA dai NCC, un’avanguardia espressione della soggettività rivoluzionaria dell’autonomia di classe adeguata a misurarsi con l’approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione la cui prassi e progettualità ha espresso la valenza del piano di unitarietà dell’impianto politico e strategico, riaffermando che è sul principio prassi-teoria-prassi che l’impianto storico riceve i suoi avanzamenti, nel confronto con i nodi centrali dello scontro, nel quadro dei compiti e caratteri della fase di Ric.

Assumersi la responsabilità di farsi carico politicamente di questo nodo è a nostro avviso un prerequisito per riqualificare la militanza, affinché la disposizione nello scontro rivoluzionario dei prigionieri poggi sulla solida base della presa di coscienza dei processi reali condotti dall’avanguardia com. comb. nella discontinuità.

Ed è proprio a causa della discontinuità che la riqualificazione può darsi solo all’interno di un processo politico finalizzato a ricomporre la coscienza parziale del militante rivoluzionario in prigione ai contenuti complessivi espressi dalle BR-PCC nella prassi rivoluzionaria concretizzata dalle iniziative offensive contro D’Antona e M. Biagi, riqualificazione che in particolare per i militanti d’O. significa stabilire quella relazione organica con questi contenuti complessivi, necessaria a qualificare l’identità di Partito. E, soprattutto, misurarsi con il processo di riqualificazione della militanza è necessario per la funzione politica che i prigionieri ricoprono nello scontro. Una funzione politica che se in generale è legata all’attestazione del processo rivoluzionario nello scontro, in particolare è maturata nel quadro dell’esperienza storica fatta su questo piano dalle BR, da cui è emerso che i prigionieri possono avere un ruolo positivo nello scontro nella misura in cui questo ruolo è funzionale e subordinato alle priorità che vivono di volta in volta nel percorso rivoluzionario. Un principio generale questo che si è affermato in base alla conoscenza delle dinamiche che investono i prigionieri a causa del loro essere ostaggi in mano al nemico di classe e separati dalla prassi rivoluzionaria, una verifica da cui le BR hanno definito criteri e prerogative che sostanziano il ruolo dei propri militanti in prigione relativamente al vincolo di Partito, e che hanno costituito punto di riferimento anche per i militanti rivoluzionari prigionieri. Ruolo che deve sostenere e propagandare i contenuti dell’impianto strategico e delle linee politico-programmatiche definite nella prassi dall’O., ed assumere le discriminanti che di volta in volta le BR pongono nella conduzione dello scontro rivoluzionario e che, quando è necessario, deve anche farsi carico di difendere dagli attacchi la Linea Politica e l’impianto. Criteri e prerogative che nella misura in cui sono stati assunti dai prigionieri, hanno consentito loro di svolgere un ruolo positivo rispetto allo scontro rivoluzionario, fuori dai quali prevale, come è prevalsa, sotto le contraddizioni dello scontro, la tendenza alla teorizzazione soggettiva, espressione della divaricazione dalle concezioni sviluppate nella prassi dall’O.. Il saldo riferimento a questi criteri è ciò che ha permesso la tenuta anche nei momenti più difficili e controversi, salvaguardando i militanti dai processi che portano a spogliarsi dell’identità rivoluzionaria che si sono verificati nel quadro dell’“indurimento” dello scontro e delle specifiche politiche antiguerriglia dello Stato sui prigionieri.

Per quanto riguarda il nostro specifico percorso, gli arresti non hanno mai significato la vanificazione del proseguimento del processo rivoluzionario nei suoi termini della fase di Ric., pur essendo ben consapevoli che il peso delle perdite subite ne avrebbe reso più problematico il corso. Questo in base alla coscienza acquisita nel percorso militante formatasi nella RS e nella successiva apertura in essa della Ric. delle forze, che il processo rivoluzionario nel nostro paese ha giù raggiunto un punto di non ritorno, nel senso che il progetto strategico delle BR si è affermato come centrale nel percorso storico del proletariato italiano per la conquista del potere politico. Una centralità che è il risultato dell’incidenza nei rapporti di scontro tra le classi del processo rivoluzionario in dal suo inizio, soprattutto per come vi ha inciso l’avanzamento strategico conseguito nel confronto con la controrivoluzione degli anni’80, che ha attestato nello scontro i contenuti rivoluzionari del riadeguamento sviluppati nella RS. È stata proprio questa coscienza a guidare la nostra condotta politica dalla cattura ad oggi, una disposizione sui termini generali dello scontro rivoluzionario che, pur forte delle concezioni d’O., si è dovuta misurare con gli effetti politici della discontinuità sulla prigionia, presentatisi come tendenze idealistiche e difensivistiche che hanno attraversato il corpo militante da cui nessuno è avulso, pena pensare di porsi fuori dall’andamento dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione e dai suoi riflessi sulle dinamiche specifiche della prigionia.

Discontinuità che inoltre ha accentuato il carattere di parzialità indotto dalla condizione di separatezza e che ha influito più in profondità quanto a limitazione dell’analisi complessiva dello scontro e della lettura realistica dei suoi processi politici, nella difficoltà a rimanere ancorati a questi e ai criteri politici per interpretarli.

In questo quadro, pur con contraddizioni e limiti, partendo dall’identità di Partito fondata sulle concezioni attestate dall’O. in termini storici, strategici e politici, e in particolar modo tenendo ferme le risultanze del riadeguamento d’O., la nostra condotta militante ha teso a mantenere, seppure su un piano generale, una disposizione relazionata ai caratteri del terreno rivoluzionario, consentendoci così nei fatti di stabilire la dialettica possibile con il suo sviluppo, a partire dal modo di rappresentare i termini del processo rivoluzionario con al centro la fase di Ric., grazie al quale ci siamo potuti relazionare con il sostegno alle iniziative dei NCC, collocate all’interno della Ric., pur non comprendendo i termini politici di specificazione con cui veniva sviluppata la fase. Una condotta, la nostra, che dalla cattura ha nei fatti segnato uno spartiacque rispetto agli avvitamenti soggettivistici e argine, anche se contraddittoriamente, agli approcci idealistici verso lo scontro rivoluzionario, ed in questo ha costituito anche un riferimento per quei militanti rivoluzionari che hanno operato un posizionamento più adeguato al piano rivoluzionario dettato dalla fase di Ric.

Il processo di riqualificazione è reso oggi politicamente possibile dalle risultanze rivoluzionarie espresse dalle iniziative offensive delle BR-PCC. Risultanze che forniscono la chiave di lettura per poter riconnettere il nostro percorso militante in prigione con l’inquadramento complessivo dello scontro rivoluzionario e di classe sul piano storico, in base al quale lo SA nella Ric. è collocato precisamente nel più generale percorso del processo rivoluzionario nella fase di RS.. Chiave di lettura che in questo senso ci consente anche di inquadrare nel modo più corretto gli arresti dell’88-89 e conseguentemente dare la giusta valutazione delle condizioni del terreno rivoluzionario succedute ad essi, e cioè sono chiare oggi le ragioni per cui questi arresti, definiti propriamente dalle BR-PCC come operazioni antiguerriglia quindi situate sul piano delle perdite possibili nel rapporto guerriglia/Stato, si sono tradotti in discontinuità dell’attacco, ponendo il compito di costruire l’OCC: ragioni che risiedono nelle caratteristiche del quadro di scontro determinate dalla modifica del rapporto di forza tra rivoluzione e controrivoluzione, una modifica che le BR-PCC analizzano come risultato di un doppio processo controrivoluzionario (DPC), valutando le ripercussioni di questa dinamica controrivoluzionaria su tutti i piani dello scontro, in relazione al mutamento più generale della fase storica sui piani economico, politico e degli equilibri internazionali. Un DPC inteso come il coniugarsi dell’offensiva contro la strategia della LA nei centri imperialisti, ed in particolare in Europa negli anni ’80, con la controrivoluzione imperialista contro i paesi a transizione socialista che ha prodotto il crollo del Patto di Varsavia, avendo come esito la modifica delle relazioni di forza tra Proletariato Internazionale e Borghesia Imperialista, intese sul piano storico di fase.

Questa dinamica controrivoluzionaria alla fine degli anni ’80, inizia a riflettersi sulle relazioni complessive fra le classi, e dunque il riflesso del DPC su queste relazioni è il piano principale da cui sono dipesi sia la difensiva di classe e l’offensiva degli Esecutivi negli anni ’90 per far arretrare ulteriormente le posizioni proletarie, sia la discontinuità del percorso rivoluzionario. Più precisamente questa discontinuità è intesa dalle BR-PCC come discontinuità nell’attacco al cuore dello Stato, quale condizione che può verificarsi in una fase di Ric. delle forze e per questo non va confusa con la non linearità del processo rivoluzionario nel suo movimento di avanzate e ritirate. In sintesi è proprio questa visione complessiva dell’andamento dello scontro rivoluzionario che restituisce il piano concreto in cui collocare correttamente la discontinuità, avendo chiaro come questa non sia semplicemente riconducibile ad un diretto riflesso nello scontro degli arresti dell’88-89, ma al quadro complessivo determinato dal consolidamento della controrivoluzione, quale piano principale che ha rideterminato il terreno di scontro rivoluzionario e di classe negli anni ’90.

Infatti l’indirizzo e gli obiettivi della fase di ric. definiti alla sua apertura quale piano di risoluzione delle contraddizioni della RS, si sono necessariamente complessificati negli anni ’90 dovendo proseguire questa fase all’interno del consolidamento della dinamica controrivoluzionaria nel campo proletario e rivoluzionario, in un contesto di cambiamenti sociali e politici che hanno riguardato la stessa mediazione politica tra le classi.

Su questo piano l’avanguardia com. comb., cioè i NCC, che si è misurata con lo scontro per dare proseguimento ai compiti della fase di Ric., nell’impostare con lo SA il piano di risoluzione delle contraddizioni della discontinuità, ha potuto definire pienamente i caratteri propri alla Ric., precisando natura e portata delle sue contraddizioni, che sono state inquadrate come storiche. In altri termini la contraddizione che ha posto il compito di costruire l’OCC esplicita fino in fondo le problematiche di una ricostruzione delle forze che avviene dalla posizione ripiegata data dalla RS e che procede nel quadro di un movimento di consolidamento della controrivoluzione, problematiche riconducibili al fatto che la contraddizione costruzione/formazione presiede alla concretizzazione della ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie e degli strumenti politico-organizzativi per attrezzare il campo proletario allo scontro prolungato contro lo Stato, dato che la ricostruzione richiede la contestuale formazione delle forze in termini complessivi d’O. adeguate a misurarsi con l’approfondimento dello scontro sul piano del rapporto rivoluzione/controrivoluzione e con i compiti della fase rivoluzionaria.

In questo senso l’affrontamento della contraddizione costruzione/formazione dà soluzione al suo essere elemento critico dell’attività rivoluzionaria traducendola in fattore qualitativo della stabilizzazione nella ricostruzione delle forze ed in particolare di una direzione politico-militare adeguata alla conduzione della guerra di classe in questa fase.

L’individuazione del carattere di contraddizione della costruzione/formazione, che supera la definizione di “binomio” ed inquadra il suo affrontamento su un piano programmatico, chiarisce il terreno obiettivo su cui si misura questo compito politico e cioè che i termini della formazione delle forze rivoluzionarie sono definiti dalle necessità politiche poste dallo scontro rivoluzionario, mentre l’approfondimento di questo scontro è vincolo all’attestazione ed estensione della stessa ricostruzione delle forze. Nel quadro dei caratteri della fase rivoluzionaria e dell’approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione la discontinuità è condizione che incide nella contraddizione costruzione/formazione, stante il fatto che nella Ric. delle forze deve vivere il termine della costruzione dell’OCC., e la loro formazione è il piano che deve ottemperare alla costruzione di quei ruoli complessivi che sono la chiave di volta nel processo teso a costruire la direzione rivoluzionaria. La costruzione/formazione dei ruoli complessivi è a sua volta connessa al nodo della riproduzione di questi ruoli e questo specifico nodo caratterizza la tensione all’avanzamento dello stadio aggregativo iniziale alla costruzione del soggetto organizzato che si qualifica come OCC che agisce da P. per costruire il P., una riproduzione che è vincolata alla incisività politico-militare che può mettere in campo la forza rivoluzionaria, in quanto è nel costruire le condizioni per la capacità offensiva adeguata a portare l’attacco al cuore dello Stato che si dà la prassi su cui avviene la formazione idonea dei ruoli militanti complessivi che siano in grado di operare ulteriore costruzione, ruoli militanti che nell’insieme, cioè come O. e singolarmente, sappiano svolgere quel ruolo d’avanguardia in grado di misurarsi con lo scontro e organizzare la classe sulla L.A.. Problematiche connesse allo stabilizzarsi del portato della controrivoluzione come termine di contraddizione nella soggettività rivoluzionaria, condizioni di scontro che se in generale hanno visto uno svuotamento del movimento rivoluzionario, in particolare hanno inciso sulle espressioni della autonomia politica di classe sul piano della adeguata comprensione ed assunzione del terreno della lotta per il potere.

L’esperienza fatta dall’avanguardia nell’affrontare la contraddizione costruzione/formazione nel quadro della Ric. delle forze rivoluzionarie e della costruzione dell’OCC., ha fatto emergere le problematiche relative al processo di organizzazione della soggettività d’avanguardia e di classe che si rende disponibile sul piano rivoluzionario, che riguardano elementi di spontaneismo nella sua forma prevalente di ideologismo, inteso come un limite che nello scontro, sul piano del ruolo d’avanguardia, non riesce a stabilire l’adeguato rapporto tra prassi e patrimonio storico, limite che in ultima analisi vuole le concezioni come separate dalla prassi. L’ideologismo insieme all’immediatismo, all’esecutivismo e al genericismo, rappresentano espressioni di spontaneismo che rendono inadeguata la disposizione sulla L.A. e dunque sono di ostacolo ad assumere la funzione propria all’OCC. E come tali vanno affrontate come ordine di problematiche proprie dei comunisti relativamente alla concezione dell’avanguardia e del ruolo che svolge nello scontro.

Dall’affrontamento di queste problematiche è derivato un piano di esperienza da cui solo potevano essere definite le soluzioni atte a che l’avanguardia possa organizzare l’autonomia di classe che si dispone sul piano rivoluzionario attraverso la responsabilizzazione complessiva di quest’ultima sui compiti politici-operativi. Infatti se non è mai stata sufficiente la semplice disposizione spontanea sulla L.A., nella fase di Ric. questo piano, che essendo investito dalla contraddizione costruzione/formazione, necessita di un indirizzo progettuale in grado di incanalare tale disposizione verso la concretizzazione dei livelli idonei a svolgere il ruolo di direzione rivoluzionaria. Indirizzo che ha individuato nella costruzione e raggiungimento della autonomia politico-operativa e della responsabilizzazione complessiva i cardini intorno a cui la soggettività di lasse può farsi carico del terreno rivoluzionario come termine di disposizione e lavoro sulla Linea Politica generale. Obiettivi conseguibili con un preciso metodo politico-organizzativo, metodo che opera dentro la dimensione organizzata dell’attività rivoluzionaria e che presiede dall’inizio alla fine l’assunzione dei compiti e che è teso a sollecitare l’iniziativa rispetto ai problemi da affrontare, inducendo a valutar preventivamente quello che è necessario fare in ogni passaggio che porta all’attuazione del compito parziale. Questa valutazione preventiva è funzionale a collocare il compito parziale nell’attività complessiva anche in relazione alle esigenze di centralizzazione e socializzazione dell’esperienza, inducendo a sviluppare una concezione complessiva del lavoro rivoluzionario, in quanto metodo che mette in rapporto alla progettualità generale il compito parziale, costituendo quest’ultimo un esercizio del ruolo d’avanguardia della più generale espressione di direzione rivoluzionaria.

È tramite questo metodo che si costruisce e si forma l’autonomia politico-operativa e questo è ciò che mette in grado di operare le soluzioni politicamente più efficaci nel rapporto con la prassi. Un rapporto nel quale si concretizza il riferimento e l’assunzione del patrimonio che in tal modo viene collocato, verificato e fatto avanzare nei suoi termini di concezione. In ciò sta il senso del rapporto di continuità-critica-sviluppo col patrimonio, rapporto che vive in ogni aspetto e momento dell’attività rivoluzionaria e in cui la continuità sta nell’assunzione dell’interezza del patrimonio, a partire dai suoi aspetti più avanzati, la critica nella verifica che il confronto con la prassi richiede, lo sviluppo negli adeguamenti che ne scaturiscono e che si traducono nell’avanzamento della teorizzazione generale. Il raggiungimento della autonomia politico-operativa e della responsabilizzazione complessiva è dunque ciò che consente di contribuire al patrimonio collettivo, intendendo con ciò il patrimonio in continuo avanzamento, avanzamento che avviene all’interno della prassi-teoria-prassi quale principio su cui da sempre nella storia del nostro processo rivoluzionario si dà verifica e avanzamento alle concezioni del patrimonio.

L’autonomia politico-operativa, la responsabilizzazione complessiva e il metodo politico-organizzativo per conseguirle non sono soluzioni politico-organizzative adottate per sopperire al fatto che la direzione rivoluzionaria che agisce da Partito per costruire il Partito è in costruzione, al contrario, pur essendo nate dalle condizioni di discontinuità, si pongono come linee di formazione su cui si struttura la soggettività adeguata a misurarsi con la complessità dello scontro rispetto all’approfondimento della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione, pertanto costituiscono il piano avanzato su cui si costruiscono i ruoli complessivi, base della selezione della soggettività rivoluzionaria che si dispone come nucleo del soggetto organizzato e in quanto tali funzionali all’agire della forza rivoluzionaria in riferimento ai compiti di fase. Per concludere la Linea Politica generale che guida, quale punto di vista complessivo della realtà, l’attività dell’O. costituisce il riferimento costante del metodo politico-organizzativo adottato ed entrambi sono gli assi su cui si dà la formazione dei ruoli complessivi. Per altro verso l’autonomia politico-operativa è l’espressione di soggettività in grado di operare la disposizione delle forze sugli obiettivi programmatici secondo il principio di centralizzazione che assegna compiti e responsabilità capendone la complementarietà e la complessità.

Capire e valutare adeguatamente la logica politica che ha indirizzato l’attività dell’avanguardia per districare i nodi e le contraddizioni dell’avvio dei processi aggregativi in relazione al quadro di approfondimento del rapporto rivoluzione/controrivoluzione è il piano da cui si traggono gli insegnamenti fondamentali dell’agire della avanguardia com. comb. in relazione ai caratteri della Ric. che procede confrontandosi costantemente con il consolidamento di dinamiche controrivoluzionarie nello scontro. Circostanze in cui è fondamentale far leva sul senso storico del nostro processo rivoluzionario nei suoi caratteri di guerra di classe di lunga durata, sulla visione prospettica e dinamica del suo sviluppo, e quindi sulla saldezza dei suoi termini strategici, a partire dalla coscienza di come l’attività rivoluzionaria sia un fattore di mutamento del quadro di scontro, riferimenti che consentono di affrontare e governare il lavoro anche in situazioni contingenti, senza che le necessità politiche siano piegate al possibile, ma al contrario attrezzandosi politicamente, organizzativamente e militarmente per il livello necessario. Un approccio che l’avanguardia ha fatto vivere nello scontro degli anni ’90, proprio avvalendosi degli insegnamenti che derivano dall’esperienza trentennale delle BR, e arricchendo questi stessi insegnamenti in base alle soluzioni con cui ha costruito le condizioni politico-militari per reimmettere nello scontro di classe e rivoluzionario l’attacco al cuore dello Stato, quale contenuto orientante l’autonomia di classe e in cui si situa il piano avanzato della attuale attestazione delle BR-PCC nella direzione rivoluzionaria dello scontro. In altri termini insegnamenti che si traggono da come l’avanguardia ha affrontato la problematica di mettere in campo contemporaneamente e unitariamente il piano della Ric. intorno e sui processi aggregativi per la costruzione dell’OCC a partire dallo svolgere un ruolo di direzione rivoluzionaria rispetto ai nodi centrali dello scontro. Una complessità di compiti posti dal terreno rivoluzionario e dallo stato dello scontro che potevano essere affrontati solo in base ad una precisa progettualità al fine di indirizzare la prassi per costruire le condizioni politiche atte a sviluppare la capacità offensiva, in quanto su questo sviluppo fanno leva i passaggi per ottemperare alla funzione di OCC. Capacità offensiva che è strettamente vincolata, nelle modalità e nel grado di incisività dell’attacco portato ai caratteri e alle finalità della fase rivoluzionaria, allo stato delle forze rivoluzionarie e proletarie in relazione al nodo di contraddizione tra rivoluzione e controrivoluzione e più in generale alle condizioni delle relazioni complessive tra le classi e allo stato degli equilibri internazionali, questo complesso di fattori è il riferimento obbligato per sviluppare e assestare la capacità offensiva che l’avanguardia mette in campo e questo, nella condizione di discontinuità d’attacco ha significato attrezzarsi per costruire l’iniziativa combattente che, nell’avviare lo S.A., ha costituito il primo momento di risoluzione della discontinuità: questo hanno sintetizzato le iniziative offensive contro la sede della Confindustria e contro la NATO Defence College, con le quali i NCC si sonno confrontati sul piano classe/Stato con gli esordi del progetto neocorporativo relativamente all’accordo sulla politica dei redditi tra governo/Confindustria/Sindacati, e sul piano imperialismo/Antimperialismo col progetto di ridefinizione della strategia NATO. Una prassi la cui capacità offensiva è stata opportunamente calibrata allo stato del terreno rivoluzionario complessivamente inteso, un calibramento teso a rispondere ad una disposizione delle forze che, dentro il principio di centralizzazione proprio del movimento unitario e unico di una forza rivoluzionaria che svolge un ruolo d’avanguardia complessiva rispetto alo scontro generale tra le classi, ha tenuto conto, nel quadro dei rapporti di forza generali, delle forze mobilitabili in funzione della sostenibilità dello scontro rivoluzionario e della sua riproposizione in avanti.

In questo senso le iniziative offensive del ’92 e del ’94 hanno risposto ad una logica di calibramento espressione di una progettazione che si è misurata con tutti i fattori in campo e soprattutto finalizzaata a costruire i processi politici reali corrispondenti alla necessità di arrivare a mettere in campo e sostenere l’attacco al punto più alto dello scontro. Processi aggregativi che quindi si sono dati interamente sulla dinamica di sviluppo propria alla guerra di classe di attacco-costruzione-nuovo attacco, dinamica che vede una precisa interrelazione tra i suoi diversi momenti, le cui modalità sono riferite ai caratteri e compiti della fase rivoluzionaria. Riferimenti di fase che nel contesto di RS e di Ricostruzione delle forze influiscono peculiarmente su tale interrelazione, nel senso che il piano di costruzione che si ricava dall’attacco necessita di un complesso lavoro politico relativo alla gestione di tutti i fattori che l’iniziativa rivoluzionaria ha posto nello scontro. Un complesso lavoro politico di costruzione delle forze e dell’OCC segnato dalla necessità di sciogliere il nodo della contraddizione costruzione/formazione di quei ruoli militanti complessivi capaci cioè di riportare l’attacco al punto più alto politicamente, organizzativamente inteso. Iniziative offensive inquadrate sulla linea progettuale indirizzata a stabilizzare la “costruzione delle forze per l’offensiva”, con l’obiettivo prioritario, sul piano della costruzione della capacità offensiva, di riportare l’attacco al cuore dello Stato.

Obiettivo questo conseguito con l’iniziativa combattente contro M. D’Antona, figura centrale dell’equilibrio politico che nell’esecutivo D’Alema sosteneva il progetto neocorporativo. Un’iniziativa offensiva, quella del 20 maggio ’99, che ha potuto inserirsi nello scontro politico che si gioca in questa fase tra classe e Stato, in cui è centrale l’indebolimento del progetto neocorporativo. Un’iniziativa la cui incisività ha agito come fattore attivo per la modifica dei rapporti di forza sostenendo la classe nello scontro contro lo Stato. Infatti l’attacco ha colpito la formula politica concertativa su cui marciava il progetto neocorporativo nell’ambito della maggioranza di centro-sinistra, contribuendo alla crisi della concertazione e di conseguenza provocando l’indebolimento dell’azione politica dell’Esecutivo. Un salto nella direzione dello scontro che pertanto ha potuto assumere la denominazione storica BR-PCC e che, sul piano della incisività sui rapporti di forza, per come questi si sono strutturati con la controrivoluzione, ha “aperto un varco offensivo nella difensiva di classe”. In altri termini, l’aver riportato l’attacco al cuore dello Stato, essendo quello in grado di intervenire sugli equilibri politici che sostengono il progetto centrale della BI, è ciò che ha permesso di contrastare questo progetto finalizzato a sospingere indietro le posizioni di classe.

Un intervento basato sui criteri di centralità nell’individuazione del progetto, selezione del personale perno degli equilibri che lo fanno avanzare e calibramento dell’attacco ai rapporti di forza complessivi tra le classi, criteri cioè che permettono di operare il massimo di incisività disarticolante in rapporto a tutti i fattori sociali e politici caratterizzanti lo scontro di classe rivoluzionario. Il livello di direzione e capacità offensiva espresso dalle BR-PCC con questa iniziativa è ciò che ha reimmesso e fatto pesare nello scontro il “dato politico assente”, costituendo l’attacco al cuore dello Stato il contenuto orientante l’autonomia di classe come punto di vista e prassi conseguente, che sostanzia offensivamente la critica di classe allo Stato e alla BI la cui mancanza ha pesato in negativo rispetto alla situazione politica di classe. Un contenuto orientante che è fattore indispensabile nello scontro per determinare le condizioni politiche di affermazione dell’autonomia politica di classe, in quanto questa non è derivato spontaneo delle lotte, anche se antagoniste, ma il prodotto politico dell’immissione nello scontro dell’iniziativa offensiva. In sintesi piano offensivo che fa avanzare strategicamente la prospettiva di potere pesando nell’immediato come fattore politico che contrasta le politiche antiproletarie e sostiene lo scontro di classe, e per altro verso fornisce gli strumenti con cui operare la rottura soggettiva che richiede l’assunzione del piano di lotta per il potere.

L’esperienza maturata dall’avanguardia com. comb. negli anni ’90 chiarifica e riconferma un dato politico storico del nostro processo rivoluzionario relativo al fatto che il progetto strategico delle BR si è definito come l’espressione rivoluzionaria conquistata dall’autonomia politica di classe del nostro paese nello scontro per il potere contro lo Stato e la BI per l’affermazione dei suoi interessi generali storici.

Un patrimonio della soggettività di classe sedimentato nelle condizioni di scontro, ragione per cui né le politiche controrivoluzionarie né la dispersione dell’OCC hanno potuto compromettere la possibilità che l’espressione rivoluzionaria dell’autonomia politica di classe rilanciasse la propria progettualità sulla strategia della LA, verificata come quella adeguata a misurarsi con le forme di dominio della BI per la conquista del potere politico e l’affermazione della dittatura del proletariato.

Il riferimento ai compiti della fase di Ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie aver riconquistato l’esercizio della direzione rivoluzionaria dello scontro a livello BR-PCC, ha segnato un passaggio di avanzamento qualitativo nell’aggregazione delle avanguardie nel processo di costruzione dell’OCC, in quanto la costruzione derivata dall’ottenimento del relativo vantaggio politico seguito all’attacco a M. D’Antona ha posto le condizioni sul piano della formazione dei ruoli militanti complessivi, di disposizione delle forze sul programma e di costruzione politico-organizzativa per realizzare, come direzione rivoluzionaria e costruzione di capacità offensive l’iniziativa combattente del 19/3/2002 contro M. Biagi.

In questo modo le BR-PCC hanno dato continuità e sviluppo alla specifica linea politica mirata ad intaccare il progetto neocorporativo intervenendo sull’equilibrio e la formula politica che nel quadro della maggioranza di centrodestra sostiene questo progetto.

La problematica della costruzione della direzione rivoluzionaria ha segnato la prassi rivoluzionaria nel più complessivo quadro della Ric. delle forze negli anni ’90, una problematica che l’avanguardia ha potuto porsi adeguatamente a partire dall’aver collocato il patrimonio nello scontro, nella coscienza quindi del ruolo storico indispensabile che svolge l’OCC che agisce da P. per costruire il P. nel condurre la guerra di classe fintanto che non sono maturate le condizioni per il salto al P., valutando tutte le implicazioni che il perseguimento della costruzione dell’OCC comportava sul terreno rivoluzionario, che hanno necessariamente investito il piano della fase rivoluzionaria di Ric. che ha ricevuto la sua precisazione con la definizione dello SA.

Un piano di fase che ha rimarcato le leggi che sovraintendono alla costruzione della direzione rivoluzionaria nella guerra di classe, implicate dall’operare nell’unità del politico e del militare, leggi insite nell’attività della guerriglia che il percorso di questo decennio ha evidenziato in tutta a loro valenza: e cioè che la direzione rivoluzionaria necessaria a misurarsi con l’evolvere dello scontro rivoluzionario si costruisce soltanto a partire dall’agire come avanguardia complessiva. In altre parole agire da P. per costruire il P. è il principio guida entro cui si affronta il nodo della direzione rivoluzionaria della guerra di classe, principio che le BR hanno affermato come discriminante la conduzione della guerra di classe sin dall’esordio del processo rivoluzionario per svolgere fin da subito il ruolo di direzione e organizzazione del processo rivoluzionario all’interno del presupposto che il PCC, in relazione all’unità del politico e del militare su cui si sviluppa la guerra di classe, non si fonda, ma si costruisce e si fabbrica nel quadro dello sviluppo delle condizioni stesse della guerra di classe, entro cui vengono a precisarsi i termini politico-programmatici e di sviluppo delle articolazioni politico-militari necessarie e sufficienti al salto al Partito. Un processo questo fin dall’inizio condotto e organizzato dall’OCC BR che proprio nell’agire da P. per costruire il P. si pone e si struttura come nucleo fondante il Partito, reparto avanzato del proletariato rivoluzionario disposto e organizzato sulla linea progettuale della strategia della LA. Un ruolo di direzione che si concretizza nel misurarsi con l’iniziativa combattente con le condizioni dello scontro di classe, intervenendo sulla contraddizione dominante nella fase, per modificarla a favore del campo proletario, affermando sul piano della guerra di classe i suoi interessi politici e generali e costruendo le condizioni per sostenere lo scontro prolungato contro lo Stato e la BI.

Con l’avvio della SA l’avanguardia com. comb. ha fatto vivere coerentemente questi principi strutturando se stessa come nucleo di direzione, che solo costruendo l’iniziativa offensiva in relazione ai nodi centrali dello scontro tra classe e Stato, imperialismo e antimperialismo, ha immesso nello scontro le condizioni per costruire e selezionare i termini complessivi della direzione idonea a qualificarsi come OCC. In questa prassi e in questo indirizzo si è sostanziato il ruolo di direzione dei NCC, quale termine adeguato a dare avanzamento alla fase della Ric. all’interno delle condizioni politico-generali segnate dalla discontinuità d’attacco e dalla stabilizzazione del portato della controrivoluzione nel campo proletario e rivoluzionario. Un principio, quello dell’agire da P. per costruire il P., dirimente l’affermazione dell’agire della guerriglia, soprattutto nello SA, stante la centralità del nodo della costruzione della direzione rivoluzionaria come OCC. Un principio che andava necessariamente riaffermato in quanto le condizioni di scontro segnate dalla mancanza dell’attacco al cuore dello Stato e dalla difensiva di classe, non lo rendevano immediatamente comprensibile agli ambiti delle avanguardie di classe disposte sul terreno rivoluzionario ma politicamente impoverite. Si trattava di fare chiarezza rispetto alle interpretazioni fenomeniche e spontaneiste che potevano snaturare il processo dialettico della costruzione del processo rivoluzionario e della sua direzione in un’accezione evolutiva in cui quest’ultima si raggiunge solo quando si è in grado di portare l’attacco al punto più alto, un’accezione che nei fatti separa la costruzione politico-organizzativa dal ruolo d’avanguardia nello scontro. Principio questo dell’agire da P. per costruire il P. che, insieme alle cognizioni e concezioni generali della guerra di classe proprio alla proposta strategica delle BR-PCC, l’avanguardia, nel reimmettere nello scontro il dato politico assente, riafferma e chiarifica come una necessità politica data dal fatto che la guerra di classe non è dominante nello scontro politico odierno.

In concreto svolgere una funzione di OCC non era e non è un processo che può darsi fuori dalla relazione con lo scontro generale, ovvero dell’esercizio di una funzione di direzione rivoluzionaria che si misura con le problematiche centrali dello scontro tra le classi in termini complessivi, politicamente e militarmente intesi, in quanto è solo a partire dal relativo vantaggio politico che l’iniziativa combattente ricava intervenendo sui rapporti di forza, che si possono dare quei margini da impiegare per rilanciare il nodo strategico del potere e determinare i piani di aggregazione e ricostruzione consoni ad operare la direzione adeguata a sostenere e stabilizzare l’iniziativa rivoluzionaria. In questo senso il piano delle rotture soggettive sul terreno della LA, i processi politici aggregativi, si misurano costantemente con questi nodi di ordine politico complessivo, in quanto la problematica inerente al nodo di costruzione del PCC si misura in ogni momento con le modalità generali della prassi d’avanguardia nel combattimento contro lo Stato. Questione in riferimento a cui non è sufficiente una disposizione spontaneistica, di semplice schieramento o concepita come processo organizzativistico sulla linea d’O., ma si concretizza nel processo di centralizzazione politica sulle esigenze del combattimento alo Stato, alla disarticolazione dei suoi progetti dominanti, senza che l’iniziativa rivoluzionaria si disperda su questioni secondarie rispetto al piano di scontro centrale, o sia semplice riflesso di interessi antagonistici parziali. In questo quadro i processi aggregativi che si producono dal rapporto con lo scontro generale fanno sì che la soggettività di classe rivoluzionaria si costruisca e di sformi in modo adeguato a sostenere lo scontro e affrontare i nodi della fase rivoluzionaria in relazione alla concreta attivizzazione funzionale alla Linea Politica e programmatica d’O., ovvero al contenuto politico-organizzativo e di combattimento che ne guida la prassi e l’organizzazione conseguente.

Le BR-PCC hanno definito una specifica linea politica per indebolire ed ostacolare il progetto neocorporativo per la centralità che questo ha nei processi tesi a consolidare il dominio della BI sul proletariato, con l’assestamento di una mediazione politica neocorporativa. Centralità che deriva dalla funzione che il neocorporativismo svolge rispetto al governo del conflitto di classe, avendo a base la negazione degli interessi generali del proletariato e la ricomposizione forzosa di interessi diversi e particolari intorno a quelli della frazione dominante della BI. In ciò la logica neocorporativa si contrappone direttamente agli interessi generali della classe operaia e del proletariato, isolando e accerchiando le istanze di autonomia di classe non subordinate.

Il consolidamento del progetto neocorporativo è fondamentale per la BI ed il suo Stato, condizione generale attraverso cui gli Esecutivi intendono gestire le contraddizioni antagoniste e rimodellare le relazioni tra le classi facendo arretrare ulteriormente le posizioni politiche e di forza del proletariato, quale presupposto di fondo per far avanzare i processi di ristrutturazione economico-sociale e gli ulteriori passaggi di riforma dello Stato. Processi di ristrutturazione economico-sociale che nella loro funzione controtendenziale alla crisi intensificano lo sfruttamento della forza lavoro, linee di politica economica e sociale che investono l’area europea, tese ad abbattere i vincoli e le normative conquistate dalla classe operaia che regolano la legislazione sul lavoro; ristrutturazioni finalizzate in sintesi a ribaltare il ruolo del lavoro nella società e quindi renderlo subalterno in tutti i suoi aspetti alle necessità capitalistiche. Un passaggio che deve far fronte sia alla debolezza strutturale dell’economia italiana, sottoposta tanto alla concorrenza dei monopoli più forti europei ed americani, quanto a quella dei paesi emergenti, e che pertanto nella dinamica di attuazione riduce i margini di mediazione possibile, sia alla storia politica e sociale del nostro paese che ha sedimentato storicamente nel conflitto di classe una forte autonomia proletaria, motivo per cui i vari patti di stampo neocorporativo, ai quali si sono affiancati i primi processi di esecutivizzazione e i tentativi più o meno organici di Riforma dello Stato, quale ad esempio il progetto demitiano, attuati nel corso degli ultimi venti anni contro e sopra la testa della classe operaia, non hanno ancora prodotto gli esiti auspicati dalla BI, motivo che nello scontro caratterizza modalità, contenuti e non linearità nell’attuazione del “modello neocorporativo”, dovendosi misurare con le caratteristiche del quadro di scontro tra le classi storicamente determinato.

Rimodellazione economico-sociale che ha modificato e modifica la mediazione politica tra le classi e sostiene i processi di Riforma dello Stato, perseguita dalla soggettività politica della frazione dominante della BI nostrana nel quadro dei suoi interessi strategici riferiti necessariamente alla concorrenzialità ed interdipendenza economica per aree quale terreno delle concentrazioni monopolistiche in corso.

Dinamiche economiche che in riferimento a questa fase di sviluppo/crisi dell’imperialismo hanno richiesto l’adozione e la generalizzazione di un complesso di politiche economiche da parte dei singoli Stati imperialisti obbligato a misurarsi con il nuovo quadro prodotto dai livelli di internazionalizzazione del capitale quale piano di approfondimento raggiunto dagli organici rapporti di interdipendenza ed integrazione già prodottisi nell’evoluzione dell’imperialismo dopo la seconda guerra mondiale. Processo che si è riversato in termini generali su tutta la catena imperialista e nello specifico sui processi di coesione europea con la definizione di politiche comuni sia come linee di politiche economiche e sociali che di politiche proprie al rafforzamento e stabilizzazione del dominio della BI e funzionali a produrre i termini affinché lo Stato possa garantire confacentemente gli interessi della BI.

Per questo quadro di interessi e progettualità, la rimodellazione economico sociale e di riforma dello Stato, di stampo neocorporativo è economicamente organica e politicamente funzionale alla coesione politica europea, tanto più necessaria allo Stato quale base interna di rafforzamento per la sua assunzione di ruolo nelle politiche centrali dell’imperialismo e nei processi di guerra in atto.

Per questo il contenuto neocorporativo è il piano di riferimento rispetto a cui si vanno a formare, ruotare e collocare gli equilibri politici nel quadro dell’alternanza degli schieramenti di maggioranza, e non rappresenta certo “scorciatoie” autoritarie, tra l’altro di difficile gestione. Tanto per gli Esecutivi di centrosinistra (come è stato nei precedenti governi) che per quello di centrodestra attuale, il contenuto neocorporativo è l’asse centrale rispetto cui riferirsi nella propria azione, ciò che muta sono le relazioni con le parti sociali (il tipo di rapporto tra Esecutivo e Sindacato Confederale in primo luogo) e le formule politiche su cui si articola il neocorporativismo stesso.

Oggi si assiste ad una ridefinizione delle relazioni neocorporative tra Esecutivo-Confindustria-Sindacato Confederale e ad una diversa funzione della negoziazione neocorporativa rispetto alla precedente formula politica concertativa. “Concertazione” che ha incarnato tutta una fase della politica neocorporativa e consentito sul piano della sua istituzionalizzazione la generalizzazione del contenuto neocorporativo nelle relazioni politiche e di scontro tra le classi, sia veicolando ed informando le modifiche legislative sul diritto del lavoro e sostenendo con la “politica dei redditi” gli indirizzi economici dentro il contesto di crisi e nell’ambito dei processi di integrazione europea, sia affiancando le istituzioni e lo Stato quale canale di legittimazione ulteriore della sua azione. “Concertazione” la cui azione ha costruito e definito quei margini politici sul piano delle relazioni tra le classi, e di conseguenza su quello degli equilibri politici tra classe e Stato, per operare processi rispondenti alla necessità di una più complessiva riforma e ristrutturazione economico-sociale e quelli relativi ai passaggi che hanno investito la rappresentanza politica e la rifunzionalizzazione dello Stato. Una fase di affermazione della negoziazione neocorporativa, espressione degli equilibri politici di quella fase. Un’azione politica di accerchiamento dell’autonomia di classe, ragione per cui si rendeva necessario il massimo di inglobamento possibile delle istanze sociali rappresentate e rappresentabili al fine del depotenziamento dei contenuti di classe. Una funzione antiproletaria a partire dalla quale c’è stato il riposizionamento delle forze politiche di entrambe le coalizioni per affermare l’alternanza, al fine di stabilire il terreno istituzionale funzionale alla “democrazia governante”, poggiante sulla riduzione e selezione degli interessi rappresentabili e mediabili rispetto a quelli centrali della BI. In questo senso la formula politica della concertazione ha accompagnato il trapasso dalla prima alla seconda repubblica. Un processo che si è avvalso delle forzature della BI rispetto alla centralità dei suoi interessi e quindi teso sostanzialmente al rafforzamento del dominio della BI nei confronti della classe operaia e del proletariato. I “patti sociali” del ’92-’93, insieme agli ulteriori sviluppi che da questi ne sono conseguiti nel decennio grazie alla formula politica concertativa e al modello di relazioni sociali che l’ha sostanziato, hanno di fatto rappresentato un puntello essenziale nel quadro del governo della crisi e delle contraddizioni del conflitto di classe andando a rafforzare l’azione degli Esecutivi nella loro opera, con un ampliamento delle loro stesse prerogative decisionali.

L’attacco a M. D’Antona portato dalle BR-PCC al progetto neocorporativo ha contribuito sostanzialmente alla crisi della funzione politica della “concertazione” già in parte logorata dalla resistenza e opposizione di classe agli accordi del luglio ’92 e ’93, al famigerato “grande patto di Natale” e alle politiche che ne hanno sostanziato il corso; attacco che ha indebolito l’azione politica dell’Esecutivo.

Un quadro che a fronte delle ulteriori scelte e necessarie trasformazioni che erano implicate nel rispondere agli interessi della BI sul terreno della ristrutturazione e riforma economico-sociale in relazione all’approfondimento della crisi e allo sviluppo della tendenza alla guerra, nonché delle contraddizioni immesse dalla resistenza operaia e proletaria, ha posto alla soggettività politica della BI il doversi misurare, proprio a partire da questi dati di fondo, con le necessarie risposte politiche da mettere in campo, riferite ai termini di politica economica e di rifunzionalizzazione dello Stato contemporaneamente, tenendo in conto quanto maturato nei passaggi avvenuti su questi piani nel decennio precedente, al fine di saper integrare i passaggi di questa duplice priorità nelle capacità di governare le contraddizioni generali determinate dall’approfondimento della crisi del capitalismo. Ciò ha significato elaborare e definire una progettualità politica che portasse a sintesi organica e facesse, appunto, compiere un salto agli indirizzi “riformatori” messi in campo nel decennio precedente ricollocando il contenuto neocorporativo sia per la funzione che va ad assumere che per il sistema di relazioni che lo sostanzia, su un piano più avanzato. Non semplice prolungamento del piano di ristrutturazione economico-sociale portato avanti dagli Esecutivi degli anni’90: la riorganizzazione prospettata attiene ad una modifica profonda del “modello” di società, ovvero quella rappresentabile delle “democrazie governanti” in cui la strutturazione corporativa delle relazioni sociali è base della riduzione della rappresentanza istituzionale, politica e sociale del proletariato e quindi l’azione politica degli indirizzi riformatori si colloca e agisce sul complesso della riforma statuale, a partire dal rafforzamento e stabilizzazione delle prerogative dell’Esecutivo, quale perno della rifunzionalizzazione dello Stato, fino a rivedere la stessa forma-Stato in senso “federalista”. Federalismo che, tutt’altro dall’essere una ripartizione amministrativa, risponde all’esigenza economica di ricavare differenti saggi di profitto con il conseguente indebolimento del proletariato sul piano locale. Un salto di qualità richiesto a seguito delle modifiche apportate nel decennio passato alla legislazione sul lavoro e quelle a livello di rifunzionalizzazione dello Stato, unitamente all’approfondimento del rapporto crisi/guerra.

È all’interno di queste linee di fondo che la formula politica del “dialogo sociale” supera la “concertazione” intesa come dialettica non conflittuale tra le parti sociali, in quanto la prima dovrebbe poggiare su un sistema di relazioni e filtri che selezioni a monte i termini del conflitto di classe e con ciò di fatto ampliando i margini di manovra e di intervento degli Esecutivi stessi, nonché stabilizzando le condizioni politiche e sociali per “l’alternanza”.

Una dinamica che investe il piano di ridefinizione delle relazioni neocorporative tra Esecutivo Confindustria e Sindacato Confederale, cosa che non solo presuppone la posizione subordinata del Sindacato in termini generali agli interessi della BI, ma più sostanzialmente opera attraverso la collocazione funzionale delle organizzazioni sindacali in rapporto all’azione dell’Esecutivo e alle trasformazioni che l’assestamento dei processi di ristrutturazione economico-socciale e riforma in senso federalista aprono. Un disegno politico che con la compenetrazione tra pubblico e privato nei settori dell’istruzione, della sanità, dell’assistenza, ecc., con un maggior ruolo delle Fondazioni, del Terzo Settore…, come pure l’ulteriore trasformazione del Sindacato Confederale in associazione di iscritti, “erogatore di servizi” e non più nel ruolo di organizzatore del conflitto con il capitale, fruisce di una base economica e sociale concreta.

Una dinamica politica non priva di contraddizioni, ma che tende a normalizzare e funzionalizzare questo piano di relazione ai nuovi termini di democrazia dell’alternanza e del suo carattere “governante”, accentrante i poteri dell’Esecutivo. Ma soprattutto l’aspetto principale di questa progettualità politica è quello di costituire un salto nelle relazioni politiche e di forza tra le classi complessificandone e approfondendone il contenuto neocorporativo rispetto al livello di crisi cui è giunto il capitale. Dato di fondo quest’ultimo che impone una riorganizzazione delle relazioni sociali rispetto agli interessi antagonistici che esprime, funzionale alla regolazione complessiva della forza-lavoro e del suo mercato aderente ala capacità competitiva del sistema economico-sociale, alla ristrutturazione di forme di rapporti sociali e di lavoro idonei a tutti i livelli a sostanziare questo obiettivo, marginalizzando di fatto gli interessi e le istanze di classe a fronte della rimodellazione del reticolo della mediazione politica e della stessa rappresentanza politica e sociale, coerente a sostenere i processi di Riforma dello Stato e la tenuta del fronte interno rispetto all’impegno costante dello Stato nella guerra imperialista.

Guerra imperialista la cui genesi risiede nella crisi del Modo di Produzione Capitalistico ed il “fallimento” delle politiche controtendenziali alla caduta del saggio medio di profitto e l’adozione del riarmo come politica economica in qualità di domanda aggiuntiva (per le caratteristiche intrinseche a questa scelta il cui sbocco necessario è la guerra, pena la bancarotta degli Stati che ne fanno ricorso) sono l’indice generale che evidenzia la tendenza a risolvere la crisi in chiave bellica, in quanto la guerra è, in ultima istanza, distruzione di capitali eccedenti, funzionale ala ripresa del ciclo economico sulla base di una nuova divisione internazionale del lavoro e dei mercati.

La controrivoluzione imperialista verso i paesi del Patto di Varsavia, la destabilizzazione di interre aree geopolitiche e la destrutturazione economica per l’assoggettamento ed inglobamento nella catena imperialista di paesi anche con interventi militari, hanno segnato e costituiscono passaggi politici concreti che hanno fatto avanzare la tendenza ala guerra. Un avanzare che ha caratterizzato la modifica degli equilibri ed assetti politico-economici internazionali scaturiti dalla Seconda Guerra Mondiale e da decenni di guerre di liberazione nazionale.

Tappe che, dalla controrivoluzione imperialista, ala decennale aggressione all’Iraq, interna ai tentativi di stabilizzazione imperialista dell’area mediorientale, perseguiti storicamente dalla catena imperialista nel quadro del confronto ad Est, e che dall’imposizione dell’entità sionista si sono susseguiti senza soluzione di continuità, alla frantumazione ed assoggettamento della yugoslavia e dei Balcani, hanno evidenziato la rotta della guerra imperialista sulla contraddizione Est/Ovest, quale rapporto dominante economico, politico, sociale storicamente determinato. Tappe che, proprio nel dover impattare e rompere un equilibrio politico e sociale determinatosi storicamente hanno evidenziato da subito l’imposizione di relazioni volte ala subordinazione di paesi e sottomissione di popoli nel tentativo di privarli del loro diritto ad uno sviluppo autonomo e così condannandoli alla dipendenza e subordinazione economica e politica instaurando rapporti di dominanza peculiari volti all’inglobamento nella catena imperialista.

Questi i caratteri insiti nella strategia imperialista che ha guidato la penetrazione e gli eventi bellici, quanto gli schieramenti in essa.

Gli indirizzi guerrafondai e schieramenti inseriti nel quadro storico di integrazione e gerarchizzazione della catena imperialista da cui non si può prescindere. Le dinamiche che hanno marcato i passaggi salienti della tendenza alla guerra imperialista chiariscono come questa non possa essere interpretata come la riproposizione di una guerra di ripartizione di aree di influenza tra potenze imperialiste in conflitto tra loro, e gli attuali eventi bellici come una sorta di forma surrogata del livello assunto dalla concorrenza, come passaggio transitorio ad un conflitto interimperialista generalizzato. Al contrario i fatti sono lì a dimostrare che tanto più si approfondisce la dinamica della tendenza alla guerra e si rimarca come direttrice del conflitto l’asse Est/Ovest, tanto più, anche se contraddittoriamente, si pongono i termini di approfondimento del compattamento all’interno della catena imperialista, in questo senso la coesione europea e del ruolo assunto sul piano politico-militare, tutt’altro dal costituire un polo alternativo agli USA, è in tutta evidenza un pilastro della strategia NATO.

Gli attacchi al Pentagono e al World Trade Center, subiti dagli USA, oltre a mostrare la loro vulnerabilità, evidenziano per contro i caratteri propri, genocidi, controrivoluzionari e di attacco all’autodeterminazione dei popoli insiti e dispiegati dai processi di penetrazione e di guerra condotti dalla catena imperialista a partire dal suo polo dominante statunitense. Attacchi assunti dagli USA come “casus belli”, pretesto usato per ricollocare su un piano più avanzato i processi di guerra imperialista. Ricollocazione da cui scaturisce il dispiegamento in centro-Asia attraverso l’aggressione e l’occupazione dell’Afghanistan. Una nuova fase nella tendenza alla guerra imperialista derivata in realtà come necessità imposta dalle proprie contraddizioni, che hanno avvistato la capacità di governare e stabilizzare le crisi aperte dall’imperialismo stesso, e dalla resistenza di massa e d’avanguardia alle sue politiche di assoggettamento, che ha ulteriormente minato tale capacità. In altri termini lo status quo prodotto dalle “paci di carta”, in un quadro di stagnazione economica, era diventato elemento di freno, indicatore di arretramento delle posizioni imperialiste e in questo gli attacchi subiti ne sono stati cartina tornasole.

Un’accelerazione dei processi di guerra indotta dal polo dominante statunitense che è in sostanza uno squilibrio verso la generalizzazione della guerra imperialista. Il processo di guerra imperialista aperto in questa fase non è misurabile tanto rispetto al dispiegamento bellico linearmente inteso, anche se questo per necessità ha avuto un incremento, ma soprattutto per come investe, come passaggio politico, il complesso delle relazioni internazionali in cui la determinazione bellica innerva il piano politico-diplomatico dando luogo ed imponendo lo schieramento sugli interessi imperialisti intorno ad un quadro di rigida polarizzazione che investe il piano interno agli stessi Stati imperialisti, i quali operano attraverso misure legislative, politiche, di “ordine pubblico” e controrivoluzionarie in coordinamento tra loro sugli indirizzi generali da adottare funzionali alla tenuta del fronte interno. Misure supportate anche attraverso il terrorismo psicologico, disponendo i propri apparati giudiziari per alimentarlo e sostenerlo, e con la propaganda finalizzata a creare il clima di “inevitabilità” della guerra, di “convivenza” con la condizione immanente della guerra, tutti fattori che segnalano il grado di approfondimento e precipitazione verso un conflitto vasto e generalizzato.

È all’interno di questi caratteri che in linea generale contraddistinguono la fase di scontro interna ed internazionale, che le BR-PCC hanno rilanciato la propria progettualità rivoluzionaria ed i termini politici e programmatici per far avanzare la guerra di classe, sulle direttrici di combattimento dell’attacco allo Stato e dell’attacco alle politiche centrali dell’imperialismo con la proposta del Fronte Combattente Antimperialista, ed hanno attaccato la progettualità politica della frazione dominante di BI al fine di incidere nello scontro politico tra le classi, in funzione di una linea di combattimento che in questa fase della guerra di classe deve riferirsi agli obiettivi volti a produrre disarticolazione politica dello Stato ed in cui si sostanzia l’agire da Partito per costruire il Partito volendo spostare in avanti lo scontro tra le classi e collocare su un punto di forza la posizione degli interessi autonomi del proletariato, facendo così avanzare la linea politica sulla quale indirizzare lo scontro prolungato contro lo Stato e l’imperialismo che propongono alle avanguardie, al proletariato rivoluzionario e a tutta la classe.

Le BR-PCC, misurandosi con i termini di evoluzione dello scontro che vedono la BI riprendere l’iniziativa per capitalizzare in termini politici i risultati del duplice processo controrivoluzionari nei rapporti politici e di forza con la classe hanno ricondotto la situazione dello scontro sul terreno risolutivo della guerra di classe, unico capace di affermare l’alternativa di potere al sistema della BI, nonché di far pesare in termini politici gli interessi generali ed autonomi della classe operaia e del proletariato, misurandosi in termini adeguati al tipo di attacco e di modifica dei rapporti tra le classi in corso.

Per le BR-PCC intervenire sui nodi generali dello scontro operando concreta direzione rivoluzionaria e rilanciando la prospettiva di potere sul terreno della guerra di classe, è il solo modo per modificare i rapporti di forza, piano politico sul quale il proletariato e le avanguardie possono tornare a pesare rapportandosi all’attività generale dell’avanguardia armata e soprattutto è solo in questa dialettica che la autonomia politica di classe può trovare la sua ridefinizione in avanti. E’ in questa prospettiva che il rilancio ed avanzamento verso la stabilizzazione dell’iniziativa combattente contro il progetto neocorporativo riesce a relazionarsi ai diversi fattori in campo in una situazione che, sostanziata dalla stabilizzazione del portato della controrivoluzione e dalla difensiva di classe, che ha determinato un considerevole svuotamento politico del movimento rivoluzionario, vede la classe rispondere all’attacco borghese con gli strumenti a disposizione entro cui misura lo scarto, nonostante le ampie mobilitazioni, della realtà dei rapporti di forza e della capacità dello Stato di imporre il proprio terreno di intervento, situazione che ciononostante ha visto il prodursi di uno schieramento rivoluzionario intorno alle iniziative offensive dell’Organizzazione.

In questo quadro è l’Organizzazione l’unica a cogliere la sostanza del progetto della borghesia e dei nodi politici generali che investono lo scontro e le relazioni tra le classi, volendo la borghesia sospingere ulteriormente indietro le posizioni proletarie, attrezzandosi sui diversi piani per normalizzare il conflitto di classe e neutralizzare la proposta rivoluzionaria. Pertanto nella realtà dello scontro, padroneggiandolo sia in termini concreti che prospettici, l’Organizzazione riafferma la dimensione di guerra di classe del processo rivoluzionario assumendo l’unità del politico e del militare come dato che vive in ogni aspetto dell’attività rivoluzionaria basata sulla strategia della Lotta Armata, ed in ogni momento dello scontro rivoluzionario, prassi entro cui ricolloca lo stato delle forze in campo e dei diversi fattori facenti parte dello scontro, e definendo il movimento complessivo della guerra di classe entro cui inquadrare la pratica rivoluzionaria.

Movimento della guerra di classe che richiede la presa d’atto di principi, criteri e leggi che ne sono alla base e che sono emersi dalla verifica pratica nello scontro. Poiché è solo all’interno di questa concezione che è possibile assumere una disposizione adeguata da parte dell’avanguardia che si relaziona sul terreno della LA sia in generale rispetto ai caratteri della guerra di classe che rispetto ai nodi della fase rivoluzionaria, contraddistinta dai compiti della fase di Ric. delle forze rivoluzionarie e proletarie all’interno dei caratteri generali della fase di RS.

Caratteri e indirizzi di fase che necessitano il disporsi sul contenuto orientante della prassi d’O., la sua linea politica e programmatica non in termini generici o di riferimento virtuale, ma sappia esprimere quel livello di centralizzazione funzionale alla pratica d’avanguardia rivola alla disarticolazione dei progetti della borghesia, quanto funzionale alla direzione ed organizzazione del processo rivoluzionario nel suo complesso.

Per concludere ribadiamo che il processo che qui viene celebrato non è che un momento anche poco significativo dello scontro che oppone la classe allo Stato, e che il nostro rapporto con lo Stato dipende dal rapporto che le BR-PCC hanno con esso, ben coscienti che la credibilità ed autorevolezza della nostra O. nel tessuto proletario non può essere minimamente scalfita da qualsiasi manovra, tantomeno quelle attuate verso i prigionieri perché conquistata in più di trenta anni di attività rivoluzionaria nel nostro paese. Quindi dei nostri atti politici come della nostra militanza, rispondiamo solo alle BR-PCC e, con esse, al proletariato di cui sono l’avanguardia rivoluzionaria.

 

– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di rimodellazione economico-sociale neocorporativo e di riforma dello Stato

– Organizzare i termini politici e militari per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata

– Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo, dalla linea di coesione europea, ai progetti e alle strategie di guerra e controrivoluzionarie diretti dagli USA e dalla NATO

– Promuovere la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista

– Trasformare la guerra imperialista in avanzamento della guerra di classe

– Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti

 

I militanti delle BR per la costruzione del PCC
Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Grilli, Flavio Lori, Fabio Ravalli

La militante rivoluzionaria
Vincenza Vaccaro

 

Roma, settembre 2002

Ci costituiamo in Collettivo comunisti prigionieri. Documento di Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio, Sisi Vincenzo, Toschi Massimiliano

Con la stagione processuale consideriamo esaurita la fase, che, pur prigionieri, ci vedeva in affermazione e continuità con la battaglia politica condotta all’esterno. Fase in cui abbiamo usato le aule dei tribunali borghesi per affermare gli obiettivi generali e il contenuto dello scontro sostenendo il tentativo progettuale da noi portato avanti: contribuire alla costruzione del partito comunista nella forma e con i caratteri storicamente necessari per condurre vittoriosamente il processo rivoluzionario. Ciò che si riassume nel concetto – prassi di unità politico-militare, forma concreta della politica rivoluzionaria.

Questo all’interno dello sviluppo dell’autonomia di classe e nel vivo dello scontro, dei problemi e dei nodi politici che concretamente si presentano e rispetto ai quali si definisce la politica rivoluzionaria, l’agire da partito.

Questa nostra assunzione di responsabilità ha poi determinato lo scontro politico attorno alla nostra vicenda: all’operazione dello Stato di prevenzione e repressione dell’istanza rivoluzionaria si è contrapposto un forte schieramento solidale interno al movimento di classe. Centinaia di episodi di sostegno, dalle semplici scritte apparse nei muri delle metropoli, alla promozione di assemblee e comitati di solidarietà, fino al sostegno emerso fra gli operai nelle fabbriche in cui alcuni di noi lavoravamo. Tutto questo ci ha affiancato mentre rivendicavamo nei tribunali borghesi la nostra identità e la nostra prassi.

L’unità che si è così creata ha suscitato forti allarmi fra gli apparati della controrivoluzione che puntavano alla nostra criminalizzazione e quindi al nostro isolamento.

Unità cui hanno fortemente contribuito anche quei compagni che, pur non partecipi all’organizzazione rivoluzionaria e colpiti dagli arresti, non hanno piegato la testa di fronte al nemico comune.

Per mesi e mesi, il lavoro svolto dai settori di movimento unitisi nell’iniziativa di solidarietà ha determinato, nella sua dialettica con l’istanza rivoluzionaria, un dato politico: non solo che quest’ultima è tutt’altro che isolata ma che, pur colpita, agisce sui livelli del dibattito e della coscienza di classe, proprio perché riafferma la presenza della via rivoluzionaria nel vivo della lotta di classe.

Se fino alla battaglia politica processuale è stato necessario e prioritario affermare obiettivi e contenuti generali dello scontro sostenendo il tentativo progettuale da noi portato avanti, ora, mantenendo fermi questi capisaldi, si tratta di assumere più precisamente il contesto nuovo in cui ricollocare la nostra militanza.

Abbiamo deciso quindi di costituirci in Collettivo Comunisti Prigionieri; una decisione che non vuole certo assumere un significato di discontinuità politica, in quanto obiettivi e contenuti generali sono sempre gli stessi che orientano la nostra azione, quanto piuttosto definire la nostra discontinuità nel nostro modo di contribuirvi.

Un contesto, quello del carcere, che impone sì limiti precisi, ma che non bisogna considerare un “buco nero”, dove si viene sottratti alla lotta. Il carcere fa parte dello scontro: anzi, più lo scontro si approfondisce e investe i rapporti di forza fra le classi, più il carcere è presente. Quando poi il processo rivoluzionario si dispiega, allora carcere e repressione si massificano.

Tendenza questa che si manifesta con sempre più intensità man mano che la crisi del modo di produzione capitalistico produce i suoi effetti.

Le sempre più pesanti restrizioni che la borghesia imperialista impone e continuerà ad imporre alla classe operaia e al proletariato nel tentativo di cercare la soluzione alla sua crisi riproporranno con sempre più forza i temi legati allo scontro di classe che, liberandosi via via dalle catene della legalità borghese, aprirà spazio in primo luogo alla necessità della rivoluzione proletaria e allo sviluppo delle sue articolazioni organizzative in precisi termini politici e militari, di strategia, di sviluppo dello scontro e dei suoi mezzi.

Ed è solo su questo terreno di tendenziale scontro per il potere che il proletariato può unificarsi in quanto classe, dando sbocco positivo alle tante lotte parziali (altrimenti condannate all’impotenza) e che la borghesia può venire sconfitta.

Uno scontro in cui carcere e repressione divengono sempre più gli strumenti utilizzati per piegare e annichilire le istanze rivoluzionarie che intendono dialettizzarsi con il movimento di classe. Su questo terreno la contesa principale si dà attorno alla resistenza dei militanti prigionieri e alla loro difesa del processo rivoluzionario.

Come controprova conosciamo tutti i mezzi dispiegati per estorcere capitolazione, tradimento, dissociazione, fino alle forme più sofisticate e soffocanti di tortura psico-fisica, come il regime carcerario del 41bis. Questo perché lo stato vi dà grande importanza per contrastare e disgregare il movimento rivoluzionario dal suo interno. Soprattutto in una fase di crisi come questa in cui piccoli punti di riferimento per il proletariato possono assumere grande valore strategico.

Ecco che resistere, sostenere le posizioni rivoluzionarie, non cedere a ricatti e repressione diventa sempre più per i comunisti in carcere un imperativo.

Cosa che non è solamente fatto testimoniale di difesa dell’identità politica, bensì partecipazione concreta allo sviluppo del processo rivoluzionario.

Questo è l’obiettivo principale per cui ci siamo costituiti in Collettivo Comunisti Prigionieri.

Obiettivo che si concretizza nelle molteplici, seppur limitate, interazioni con il movimento rivoluzionario e di classe.

In particolare cercheremo di contribuire al dibattito, al lavoro di analisi generale; anche con traduzioni di materiali provenienti dal movimento comunista internazionale e dalle esperienze rivoluzionarie avanzate.

Intendiamo inoltre continuare a formarci come comunisti sul piano teorico, cercando di migliorare la nostra comprensione del marxismo-leninismo-maoismo, promuovendo gruppi di studio e seminari. Pensiamo anche che sia importante rapportarsi al cosiddetto mondo carcerario e alle sue lotte, per i tanti motivi che ne fanno un anello decisivo della macchina di repressione di classe, che è lo stato borghese. Questo con tempi, modi e obiettivi che definiremo man mano.

Perciò, come già fatto, cercheremo di cogliere le occasioni opportune per solidarizzarci ai movimenti di lotta e di protesta che possono prodursi e ci rapporteremo alle iniziative e campagne di denuncia, controinformazione e agitazione.

Tutto questo consapevoli del fatto che sta al movimento rivoluzionario, alle sue avanguardie, l’affrontare e risolvere i nodi politici per avanzare verso una nuova definizione progettuale strategica e verso la ripresa del processo rivoluzionario. Noi cerchiamo di fare la nostra parte resistendo e tenendo alta la bandiera rivoluzionaria qui, nella trincea carceraria.

 

Collettivo Comunisti Prigionieri “L’Aurora”

Bortolato Davide

Davanzo Alfredo

Latino Claudio

Sisi Vincenzo

Toschi Massimiliano

 

Siano-Catanzaro, gennaio 2011

La priorità dell’antimperialismo nella prassi rivoluzionaria della guerriglia. Quinta Corte d’Assise di Roma – Dichiarazione dei militanti delle BR-PCC Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli e dei militanti rivoluzionari Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini allegata agli atti del processo per “banda armata”

Il processo che viene qui celebrato contro i militanti delle BR-PCC e i rivoluzionari è pienamente calato nel clima di questa nuova fase politica, una fase politica complessa e densa di contraddizioni la quale, in relazione al piano che investe questo processo, riflette da un lato le particolari condizioni provocate dalla politica antiguerriglia sui prigionieri, dall’altro è la misura politica delle modifiche profonde che stanno avvenendo negli assetti del potere della borghesia, nella sostanza stessa della mediazione politica tra classe e Stato. La proposta dello Stato di soluzione politica per la guerriglia fatta qualche anno fa ai prigionieri, allo scopo di chiudere il conflitto aperto dal terreno rivoluzionario, ha sostanzialmente fallito il suo obiettivo, in quanto si è risolta unicamente con un ulteriore arruolamento nelle file della controrivoluzione di alcuni ex militanti, mentre il tentativo di riversarla sul terreno dello scontro rivoluzionario si è scontrato con l’indisponibilità delle BR e dei rivoluzionari a deporre le armi.

Il risvolto alla soluzione politica ha dato luogo ad un incremento dell’attività antiguerriglia volta a liquidare militarmente le BR e per altro verso a ridefinire le condizioni dei prigionieri che non intendono mercanteggiare la loro identità rivoluzionaria e d’organizzazione col nemico di classe. La politica antiguerriglia, compresa la sua specifica accezione verso i prigionieri, deriva direttamente dalle condizioni politico-generali dello scontro di classe, ovvero il modo con cui essa viene definita è strettamente legato all’evoluzione dei rapporti politici tra classe e Stato; per questa ragione il fallimento della soluzione politica non è dipeso unicamente dalla netta intransigenza opposta dalle BR-PCC a questo tentativo controrivoluzionario, ma principalmente dalla vitalità del processo rivoluzionario, dalle condizioni oggettive e soggettive per espletarlo, dalla verifica attraverso la pratica della centralità della prospettiva rivoluzionaria nel contesto dello scontro fra classi esistente nel nostro paese, e dalla funzione che in ciò vi riveste l’avanguardia combattente.

Proprio per l’evidenza di questo dato politico il quale dipende dal carattere della dinamica generale dello scontro di classe in Italia i “golpisti istituzionali” che in questa fase gestiscono la politica dell’Esecutivo, non trovano altro modo di contenere le istanze antagoniste che si producono nel campo proletario, se non attraverso chiare e concrete intimidazioni all’interno di un attacco ampio e articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro gli aspetti qualificanti dello scontro e come “tattica” preventiva per smorzare il montare delle istanze di lotta. La difficoltà di tenere a bada entro limiti di “mediazione possibile” la crescente opposizione di classe porta l’Esecutivo ad operare forzature su forzature nelle relazioni politiche con la classe. La difficile gestione di tali pressioni viene mistificata dalla “campagna contro la criminalità”. Sì, esiste una campagna di criminalità, ma è quella che sta attuando l’Esecutivo contro l’ambito di classe: raid militari nei conflitti di lavoro e contro le espressioni del Movimento Rivoluzionario, interventi d’autorità sul diritto di sciopero, esecuzioni legalizzate, minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento di classe. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa che più di ogni altro può mettere in discussione il suo potere: ovvero l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, perché capace di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, e di dirigerle e organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario.

Questo spettro, la guerriglia, non fa dormire sonni tranquilli alla borghesia e al suo Stato, perché rappresenta l’alternativa strategica, concreta e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo spettro in termini preventivi nel chiaro intento di strumentalizzare la guerriglia per ritorcerla da un lato contro il movimento di classe, dall’altro contro le stesse Brigate Rosse. Una politica terroristica questa dagli evidenti limiti… e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista, mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno, al di là di inevitabili battute d’arresto, dato lo spessore politico che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere questo complesso processo rivoluzionario.

In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l’attualità e la validità della linea politica e della proposta strategica della nostra Organizzazione malgrado la volontà, che si esprime anche in quest’aula, di soffocare la presenza politica dei militanti delle BR e dei rivoluzionari, di mistificare il senso stesso dei processi politici contro la guerriglia dentro formule e riti giuridici che per quanto sommari risultano inefficaci a nascondere la natura di classe di questi processi: quindi il nostro atteggiamento qui non può che riflettere il rapporto di guerra esistente tra la guerriglia e lo Stato, e in conseguenza di ciò, ribadiamo l’inconciliabilità delle nostre posizioni nei confronti dello Stato.

Per meglio comprendere i caratteri della fase politica che si è aperta nel nostro paese è necessario delineare brevemente il quadro internazionale che si è maturato in quest’ultimo decennio data la stretta relazione che corre tra la situazione in Italia e nel resto del mondo capitalistico. Mai come adesso la contraddizione Est-Ovest manifesta la sua dominanza all’interno del contesto mondiale. Le demagogiche campagne dell’imperialismo sulla “dissoluzione dei blocchi” e sulla nuova “era di disarmo” a mala pena dissimulano gli interessi economici, politici e militari che sottostanno alle prese di posizione e al ruolo svolto dai paesi occidentali all’interno della frantumazione degli equilibri post-bellici. L’accumularsi delle contraddizioni prodotte dalla crisi economica e dagli elementi di approfondimento dell’imperialismo, nel loro interconnettersi, premono verso il piano delle relazioni politiche, e quindi anche militari, stabilite dal rapporto Est-Ovest, una dinamica questa che è alla base dell’attuale fase dell’imperialismo; quello che si sta verificando è un complesso processo, che ha maturato significativi passaggi della tendenza alla guerra, e che si manifesta con caratteristiche specifiche a questa fase dell’imperialismo. Il riflesso di questi passaggi sul piano politico e militare si misura giocoforza col quadro storico stabilito dalla divisione del mondo in due sfere d’influenza, in due campi di interesse contrapposto, e che nella fase attuale da origine a quelle peculiari relazioni tra l’imperialismo e i “paesi dell’Est” date anche dalla specifiche condizioni e contraddizioni di questi paesi. Così come la crisi che si produce dentro al modo di produzione capitalistico, la tendenza alla guerra e il portato oggettivo dell’accumularsi critico della crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali (e di mezzi di lavoro) che non possono operare come tali. Uno stato a cui il capitale, esaurite tutte le possibili controtendenze, ha risposto storicamente con la guerra, quale mezzo per distruggere il sovrappiù di capitale prodotto in tutti i suoi termini, dove lo stadio di accumulazione critica delle contraddizioni mette in discussione equilibri e rapporti di forza complessivi premendo per una loro ridefinizione. Il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuove tecnologie nella produzione, ha fatto sì che si formassero poderosi processi di accentramento e centralizzazioni monopolistiche. Un processo che nel suo insieme ha liberato enormi quote di capitale finanziario. Per il grado di interdipendenza già esistente tra le economie capitaliste, questo movimento ha provocato un salto in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista; ciò ha nel contempo evidenziato le modifiche sopravvenute nella collocazione dei paesi della catena rispetto alla divisione internazionale del mercato del lavoro uscita dal dopoguerra. Sono gli USA, quale paese più sviluppato della catena, che hanno fatto da battistrada rispetto alle tendenze economiche affermatesi nel resto del mondo capitalistico, e propria per questa ragione hanno consumato per primi tutte le tappe che conducono alla crisi. La velocità con cui si consuma il ciclo capitalistico negli USA ha fatto sì che si affermasse la tendenza ad usare la politica del riarmo (e in taluni casi sbocchi militari) come “stimolatore” dell’economia; basti pensare che fin dal 1948 il ciclo espansivo già iniziava ad incepparsi manifestando i primi segni di recessione. La guerra di Corea ha avuto in quel caso la funzione di ritrainare l’economia USA. Quando è avvenuto il salto di composizione organica nella produzione, con l’introduzione della microelettronica e della robotica nei mezzi di lavoro, la velocità del ciclo è ulteriormente aumentata, e per la maggior produttività derivata anche dall’intensificazione dei ritmi di lavoro, si è alzato vertiginosamente il tasso di plusvalore relativo dando luogo a questa dinamica capitalistica: da un lato processi di concentrazione monopolistica, dall’altro uno stimolo alla caduta tendenzionale del saggio medio di profitto. Ma la rapidità con cui si è consumato il ciclo ha provocato una strisciante e pervicace recessione; soprattutto verso la fine del periodo reaganiano la struttura produttiva si è significativamente indebolita anche per la tendenza dei capitalisti a chiudere o non rinnovare gli impianti produttivi investendo solo in particolari settori ad alta tecnologia. La dimensione di questa tendenza ha configurato un vero e proprio processo di destrutturazione produttiva, la cosiddetta deindustrializzazione. In una certa misura le stesse scelte di politica economica compiute durante la presidenza Reagan hanno contribuito all’indebolimento della struttura produttiva. Il neo-liberismo ha messo in atto una serie di misure per favorire la ripresa dell’accumulazione capitalista e l’incremento dei profitti, in tal senso ha agito su più piani: sia stimolando l’azione selettrice della concorrenza, sia con apposite politiche monetarie, sia comprimendo le spese sociali; se a ciò si aggiunge la drastica riduzione del costo del lavoro avvenuto con le ristrutturazioni, si comprende come il cosiddetto “boom economico più lungo del dopoguerra” sia solo riferito ai profitti, in quanto è avvenuto in un contesto recessivo, contesto che non ha prodotto un allargamento della base produttiva al livello dell’investimento capitalistico necessario. Il boom dei profitti è stato tale da causarne un’inflazione e ciò ha favorito quella particolare tendenza ad impegnarli in speculazioni finanziarie, le quali conseguentemente hanno rigonfiato i parametri economici rispetto alla ricchezza reale prodotta. I poderosi processi di fusione attuati dai grandi trust monopolistici in settori ad alta composizione organica hanno avuto come risvolto il ridimensionamento dei settori a bassa e media tecnologia e la rovina di gran parte dell’agricoltura, un processo che come rovescio ha inevitabilmente approfondito le differenze sociali.

Alcuni dati possono dare la misura di questa realtà. Nella produzione in questo decennio la produttività per addetto è aumentata del 14%, mentre la perdita di potere contrattuale della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali ha consentito che fossero stipulati contratti che per assurdo prevedevano una riduzione di salario in casi di perdita di competitività dell’azienda; la stessa rimodellazione del mercato del lavoro ha camuffato i dati concreti, facendo apparire come occupati anche quelli che hanno lavorato poche settimane l’anno, o poche ore per settimana, o tramite la possibilità di suddividere un salario tra più persone. La riduzione delle spese sociali (previdenza, casa, sanità, istruzione) ha inciso sul livello di reddito di quegli strati che in passato sono stati l’anima della classe media, comportandone un drastico impoverimento. Di fatto in questo decennio gli stessi parametri borghesi calcolano al 13% sull’intera popolazione il tasso di povertà. Al fine di intervenire sugli effetti della crisi in termini controtendenziali e favorirne il decorso sono stati sviluppati molti studi dagli economisti borghesi sul tipo e durata dei cicli, come ad esempio quelli elaborati dal “Centro internazionale per la ricerca sui cicli economici della Columbia University”, una maggiore conoscenza che è servita per intervenire preventivamente con politiche mirate. Queste politiche, soprattutto quelle monetarie, hanno funzionato da stimolo artificiale delle stasi, per questo è stato possibile convivere con la recessione per così tanto tempo. Gli effetti di questi palliativi (“economia drogata”) hanno dato spazio a tesi sulle capacità autogeneratrici del capitalismo e ad apologetiche “bontà” di questo sistema sociale. Ma poiché le controtendenze non possono incidere nella sfera della produzione, nella sede cioè dove si produce la crisi, queste finiscono solamente per spostare in avanti le contraddizioni approfondendole ulteriormente, tenendo anche conto della diminuzione del capitale messo in moto in un ciclo capitalistico a questo livello di sviluppo. Per queste ragioni le controtendenze messe in atto negli anni ’80 hanno esaurito il loro effetto “calmierante”, finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale. Nonostante questi interventi, negli USA dall’82 la crescita del prodotto nazionale lordo non ha superato la soglia del 3%, indice per il quale gli stessi economisti borghesi non considerano vi possa essere crescita: in poche parole recessione.

La realtà è che a far da volano dell’economia statunitense è stato il più colossale riarmo prodotto dal dopoguerra, il principale intervento di politica economica operato dalla Casa Bianca e su cui ha fatto ruotare tutte le altre decisioni economiche. Gli alti tassi d’interesse hanno permesso di rastrellare capitali da ogni parte andando a finanziare i programmi del Pentagono, una politica monetaria che se è stata funzionale al riarmo, ha da un lato esportato inflazione in Europa, dall’altro ha contribuito ad ingigantire il deficit di bilancio sia federale che nel commercio. La scelta del riarmo ha permesso e permette di immobilizzare i capitali eccedenti all’interno delle tecnologie avanzate impiegate intorno al settore bellico, un settore che assorbe enormi quote di finanziamento solo per sviluppare la ricerca (parte di essa finalizzata su calcolatori superveloci). Le tecnologie avanzate applicate al militare hanno consentito di approntare sofisticati sistemi d’arma, applicabili tanto ai satelliti quanto alle nuove e moderne armi convenzionali; un dato questo che dimostra l’inconsistenza degli apologetici scenari di pace che la propaganda imperialista cerca di propinare, non fosse altro che per il volume astronomico degli investimenti “incorporati” all’interno del riarmo.

Data l’interconnessione delle economie, è subito chiaro come l’andamento dell’economia statunitense condizioni quelle degli altri paesi. In questo senso le principali controtendenze tendono ad affermarsi in tutto l’ambito capitalistico, rafforzando l’interdipendenza e complementarietà, nonché il loro rapporto gerarchico; così è stato per le politiche keynesiane, come per quelle neo-liberiste, così lo è tendenzialmente per il riarmo. L’Europa Occidentale fino ad ora, pur nelle sostanziali differenze di posizioni, ha usufruito di maggiori margini economici. La stratificazione risultata dallo sviluppo ineguale ha permesso di ammortizzare gli effetti della crisi in tempi più lunghi, ciò ha consentito di adottare misure controtendenziali, che tra l’altro non hanno soffocato le produzioni a bassa e media tecnologia, anzi sono state favorite da appositi aiuti statali. Ciò nonostante in questi ultimi anni la tendenza ad adottare la scelta della particolare politica economica del riarmo, come traino dell’economia, è proceduta in modo consistente anche in Europa Occidentale a partire dall’Inghilterra che per prima vi ha ricorso anche a causa delle sue strette relazione con gli USA. Ma la politica di riarmo, necessitando di ingenti masse di capitale finanziario per potersi legare alle tecnologie avanzate, richiede giocoforza uno sforzo comune dei paesi europei, per questo attualmente sia la ricerca che le commesse vere e proprie sono centralizzate da organismi che fanno riferimento alla NATO. Questa cooperazione, in parte forzata, favorisce l’ulteriore interconnessione delle economie e su un altro piano si riflette nei livelli di integrazione politico-militare. Per questa ragione la filosofia dell’Alleanza Atlantica, rispecchiando questa situazione, ha promosso significative esperienze interforce che integrano i rispettivi ammodernamenti degli eserciti e per altro verso approfondiscono i livelli di collaborazione multilaterale e bilaterale tra paesi europei in campo militare. Le differenze che si sono accentuate nella collocazione dei paesi della catena vedono spostarsi il peso economico verso il cuore dell’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership degli USA, sia perché rimane il paese più sviluppato capitalisticamente, per quanto indebolito dalla strisciante recessione, sia per il ruolo politico-militare che a tutt’oggi rende gli USA in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte politiche i partners della catena, pur tra stridenti contraddizioni, senza dimenticare la capillare penetrazione economica che il gigante statunitense ha perpetrato sull’intero continente, con conseguente influenza politico-militare. Tutto ciò all’interno della dimensione internazionalizzata dell’imperialismo che costringe ad una stretta interrelazione economica tutti i paesi della catena, con il risultato di poter scaricare parte degli effetti della crisi sugli altri partners. Questo quadro però non si presta a facili schematizzazioni come quelle che vedono tre principali antagonisti in campo, Giappone-USA-Europa Occidentale; ciò è infondato per il fatto che da un lato l’economia giapponese è cresciuta in modo totalmente dipendente dagli USA, e quindi con un certo grado di complementarietà, mentre dall’altro l’Europa Occidentale, pur nelle differenze di movimento della dinamica capitalistica, è assai integrata al livello di composizione dei colossi monopolistici col capitale finanziario USA, anche se gli ultimi anni hanno visto un’inversione di tendenza degli investimenti, accentuandosi quelli europei verso gli USA. Questi dati acuiscono maggiormente i livelli di concorrenzialità sui mercati capitalistici sottoponendoli a spinte contrastanti, e questo anche perché l’ultimo decennio è stato decisivo per una modifica qualitativa dell’ambiente capitalistico nello specifico europeo a causa del formarsi di significative aggregazioni monopolistiche intereuropee (e per la maggior tenuta del tessuto produttivo). Questa situazione ha in un certo senso rivoluzionato i termini della concorrenza interimperialista dato il definirsi delle nuove concentrazioni le quali richiedono, per formarsi, un ulteriore avanzamento del grado di internazionalizzazione; inoltre per le spregiudicate politiche commerciali che ogni paese adotta ciò provoca inevitabili resistenze e spinte protezionistiche di tutti i paesi capitalistici, nonostante gli accordi commerciali che vengono periodicamente fatti e puntualmente disattesi per il forzare della concorrenza. Di fatto il protezionismo scarica i suoi effetti più negativi nel commercio mondiale con i paesi in via di sviluppo. Il quadro europeo è, in questa congiuntura economica, il centro del movimento dei capitali. La liberalizzazione del mercato europeo e gli accordi politici raggiunti ratificheranno una realtà sostanzialmente operante: gli ulteriori passaggi politici a livello comunitario sanciranno le regole tese a formare l’ambiente più favorevole alle aggregazioni monopolistiche, diventando esse stesse veicolo per il processo di coesione politica europea. Ma l’Europa Occidentale non è un territorio economicamente e politicamente omogeneo; le differenze stratificate di peso economico delineano una gerarchizzazione marcata al centro della quale si situa la Repubblica Federale Tedesca. La RFT è andata assumendo un ruolo economico preponderante soprattutto all’interno di questa fase, a partire dalle caratteristiche della sua situazione economica, che in termini capitalistici è una delle più avanzate. Nella RFT si esprime emblematicamente l’aspetto dominante dell’imperialismo, dato dalla fusione tra capitale finanziario e capitale industriale e, per la sua specifica storia economica, ciò è favorito dalla sostanziale mancanza di vincoli nel ruolo delle banche come accentratrici di capitale finanziario. Questo ha fatto sì che pochi grandi gruppi bancari detengano quasi di fatto il controllo dei settori industriali più importanti del paese attraverso formule di partecipazione che ne garantiscono la maggioranza assoluta (la Deutsche Bank, la Dresdener Bank, la Commerzbank hanno partecipazioni, e quindi controllo, in proporzioni simili, nella Daimler nella Benz, nella Metallghesellshaft, nella Westfallen, Holzmann, Volkswagen, Basf, Hoechst, Siemens, Mbb, ecc…); per questa ragione il capitale finanziario e la funzione delle banche nella RFT hanno un ruolo cruciale nel controllo dell’andamento dei mercati, nelle fusioni tra grandi trust, sia dentro al paese che di tipo multinazionale e, cosa fondamentale, sulla direzione dei flussi finanziari. Questa realtà spiega da sola la centralità dell’attacco sferrato dalla Rote Armee Fraktion al presidente della Deutsche Bank, A. Herrhausen, tenendo conto dell’influenza che un tale ruolo esercitava nelle decisioni politiche principali prese a diversi livelli nella RFT. Anche nella RFT (così come nel resto dell’ambito capitalistico) gli altissimi profitti che le concentrazioni monopolistiche raggiungono avvengono in un contesto di recessione strisciante, in concomitanza dell’utilizzo degli impianti attivi vicino al 90% della loro capacità, mentre sul piano della circolazione c’è troppa liquidità, un valore del marco troppo alto, un’inflazione troppo instabile e, per altro verso, uno sbilancio degli investimenti sempre più massicci verso l’estero; in poche parole, gli effetti più vistosi della sovrapproduzione assoluta di capitali. Risalta agli occhi l’analogia storica con il precedente periodo prebellico nelle caratteristiche della situazione economica della RFT (così come nel resto dell’Europa Occidentale) e ciò è ancora più evidente se si confronta il suo riflesso sul piano politico. Oggi come allora la RFT è il nodo cruciale delle svolte politiche che si prefigurano in questa delicata fase internazionale. Ma le analogie non possono rendere la complessità dei fattori in gioco subentrati nella situazione, proprio a partire dal rapporto Est-Ovest nonché per l’evoluzione maturatasi in questi 45 anni a partire dalle relazioni che l’imperialismo ha stabilito con i paesi in via di sviluppo. La principale novità storica è appunto la realtà dei paesi che hanno operato le prime rotture rivoluzionarie, un fattore che per la sua importanza ha reso la contraddizione Est-Ovest dominante su tutte le questioni internazionali e che ha scandito dal dopoguerra le tappe sostanziali degli equilibri mondiali. Un fattore che ha il suo cuore proprio nella Germania (divisa in due dopo il conflitto) dove si riflettono tutti i mutamenti di sostanza del rapporto tra i blocchi (anche perché geograficamente interessata dallo spostamento di tali equilibri). I mutamenti di sostanza in quest’ultimo decennio, nascono proprio dalla RFT (e dall’insieme dell’Europa Occidentale) a partire dalla capillare penetrazione economica verso i paesi dell’Est. La forte complementarietà tra le economie dell’Europa Occidentale – e della RFT in particolare – e quelle dei paesi dell’Est – URSS in testa – è alla base del sostenuto flusso di investimenti destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Già l’interscambio commerciale con i paesi del blocco orientale per la sola RFT è di circa 24 miliardi di marchi di esportazione e di circa 20 miliardi di marchi di importazione, con un saldo attivo di oltre 4 miliardi di marchi per la RFT; se si paragona l’interscambio fra la RFT e gli USA (esportazioni verso gli USA per più di 45 miliardi, importazioni per circa 29 miliardi, con un attivo di oltre 16 miliardi di marchi per la RFT) si può comprendere l’importanza di questo dato (fonti Bundesbank). Una penetrazione economica che non è alternativa al riarmo, anzi i due aspetti si autoalimentano, per la natura del capitale, anche per l’elemento qualitativo di questa penetrazione dato da massicci flussi di capitale finanziario e che assumono pure la forma di “aiuti” economici all’Est europeo; è la crisi economica dell’imperialismo che spinge verso questa direzione poiché i paesi dell’Est europeo sono sufficientemente strutturati da consentire quella complementarietà necessaria a rilanciare la produzione con una diversa divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Così come per la seconda guerra mondiale furono gli USA che di fatto finanziarono il conflitto attraverso gli enormi investimenti in Europa, e principalmente in Germania quale paese più ricettivo, nella fase storica attuale è possibile che si ripresenti una dinamica simile, dove però il ruolo che fu degli USA non è svolto da un singolo paese, ma vi concorre la catena imperialista nel suo insieme, pur con posizioni differenziate che favoriscono l’Europa Occidentale e, all’interno di essa, la RFT per la forza che vi esercita il capitale finanziario. Se dal breve al medio periodo questa dinamica economica consentirà una stasi nell’accavallarsi del processo di crisi economica, dal medio al lungo periodo gli effetti economici, che si matureranno dall’uso del riarmo come principale immobilizzo di capitali eccedenti, avvicineranno come non mai lo sbocco militare date le caratteristiche peculiari “dell’investimento bellico”, il quale non consente un rientro nel circuito produttivo, anzi il loro non uso porta al collasso economico (beninteso il riarmo è altra cosa dalla normale produzione bellica che funziona dentro alle leggi della produzione in generale, dato che il “riarmo” è un intervento di politica economica che porta ad armare per sé lo Stato che se ne fa carico e non per il normale commercio). Se questa è la particolarità del riarmo dentro lo stadio economico che materializza la tendenza alla guerra in presenza di altre circostanze (crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali con lungo ristagno produttivo e recessivo, mercati capitalistici saturi, equilibri nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che necessitano di essere ridefiniti) ciò non significa attuazione immediata della tendenza poiché l’interazione con i fattori politici e militari abbisogna della rottura di molti equilibri politici e la maturazione di altri che si avvicinano a questa realtà (necessità) economica; processo per niente spontaneo e oggettivo, ma dato dal concreto scontro fra i diversi soggetti politici in campo.

L’Europa Occidentale in questo contesto generale, per i processi di coesione politica che sta promuovendo, acquista un peso sempre più rilevante nel processo di modifica degli equilibri del vecchio assetto postbellico, non solo lungo la direttrice Est/Ovest, ma anche nelle aree di crisi della periferia. È indubbio che la RFT in questo quadro tende ad imprimere i suoi interessi nelle scelte e nelle posizioni che assumono i paesi europei; questo per la forza del suo ruolo economico, che si impone nonostante scontri e differenze. Il grosso interesse della RFT ad impossessarsi degli spazi economici che i vicini paesi del’Est – Repubblica Democratica Tedesca in testa – offrono, è rivestito da plateali quanto revanscistici richiami nazionalistici “all’autodeterminazione dei popoli”, un cinismo politico che non manca alla Borghesia Imperialista tedesca e che consentirà un ulteriore rafforzamento della sua posizione economica.

Per questo la RFT assume un peso centrale all’interno della ridefinizione degli equilibri Est/Ovest. L’Europa comunitaria, nonostante i propositi di “unificazione politica” enunciati in primo luogo da Francia, Italia, RFT, è nella realtà un processo molto contraddittorio, perché se da un lato la dinamica stessa di questa fase dell’imperialismo necessita dello svincolo delle “barriere normative e commerciali nazionali”, dall’altro l’aspra concorrenza per occupare le posizioni più appetibili sul mercato capitalistico comporta una accentuata conflittualità in riferimento agli specifici interessi, come nel caso appunto della RFT. Infatti essa intende far pesare a suo favore lo sgretolamento degli equilibri con l’Est europeo poiché più favorita nell’accaparramento di questi mercati e quindi intenzionata a condizionarli ed inglobarli anche politicamente approfittando della loro attuale “instabilità politica”. Questo ha un riflesso proprio sul procedere di questi accordi politici che dovrebbero promuovere una “formale giurisdizione europea”. Tale discontinuità non impedisce all’Europa Occidentale di procedere nella coesione politica attraverso intese che di volta in volta si formano per il concomitare di reciproci interessi, come nel caso dell’opera di sfondamento ad Est attraverso pressioni di ogni tipo ed entità miranti a creare le condizioni favorevoli alla penetrazione del capitale finanziario, con il dispiegamento di vaste pressioni politiche; un terreno questo che coinvolge tutti i paesi della catena imperialista. Per questa ragione pare delinearsi un’informale divisione dei mercati futuri (vedi il tentativo dell’Italia di costituire un polo alternativo di aggregazione, alternativo a quello che nella regione settentrionale dell’Europa Occidentale ruota attorno alla RFT). Il dinamismo politico europeo per quanto persegua interessi specifici non è in antagonismo con gli interessi USA (almeno all’interno di questa fase) nonostante le diverse modalità con cui si relazionano alla contraddizione Est/Ovest; essi in modo diverso concorrono ad avvicinare il medesimo obiettivo: la rottura dei vecchi equilibri. Ciò non significa affatto fine del bipolarismo, si è chiusa solo una fase dello scontro Est/Ovest per l’apertura di un’altra e in relazione all’aggressività raggiunta dal capitale monopolistico in questa fase di crisi-recessione. È nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi di riarmo e compattamento all’interno dell’alleanza imperialista, pur nella diversità di ruolo e ai diversi gradi in cui si manifesta la crisi generale, che si colloca la coesione economica, politica e militare dell’Europa Occidentale. Un processo che perciò investe tutte le sue strutture sovranazionali (NATO, UEO, Consiglio d’Europa) a dimostrazione che i cosiddetti processi di pace sono solo un velo mistificatorio per nascondere le pressanti contraddizioni politiche ed economiche in cui si dibatte l’imperialismo. Sono gli USA, incalzati dalla crisi, a prendere l’iniziativa; essi adottano una strategia globale tesa ad intervenire in ogni zona di crisi, sia cercando di impedire la perdita di posizioni sia operando per il loro rafforzamento, interventi che sono principalmente di origine militare fino a palesare vere e proprie invasioni (dirette) come i recenti fatti in centro-America stanno a dimostrare. Intorno a questa strategia globale gli USA cercano di compattare tutta l’alleanza imperialista. L’attivismo USA è principalmente coadiuvato dall’Europa Occidentale tramite l’intensa attività “politico-diplomatica” consentitagli dai maggiori margini di manovra; questa si esprime principalmente nell’area di crisi mediterranea-mediorientale per ricucire in avanti gli strappi operati dalle precedenti forzature militari USA. Un’area che per la sua importanza (confine non definito nel dopoguerra, rotte strategiche) ha necessitato di un intervento di ordine complessivo; esso ha operato verso i conflitti nel senso di un loro contenimento e normalizzazione permettendo sostanziali modifiche nelle posizioni dei paesi arabi in senso filo-occidentale. Ma la normalizzazione è lontana dall’essere raggiunta per la resistenza opposta dai popoli libanese e palestinese, resistenza tale da far naufragare i vari tentativi d’intervento diretto, come ad esempio quello francese in Libano oppure, per altro verso, le pressioni cosiddette diplomatiche condotte dall’Italia in primo luogo per contenere, all’interno di una soluzione mediata, la rivolta del popolo palestinese data la sua indisponibilità a farsi normalizzare dalla pace imperialista. È un fatto che la resistenza del popolo palestinese non, ha permesso l’attuazione del piano Shultz-Shamir sull’autonomia amministrativa dei territori, facendo fallire tutti gli “accordi” che non si misurano con le questioni che la lotta ha posto all’ordine del giorno. La determinazione rivoluzionaria del popolo palestinese nel perseguire l’obiettivo della propria autodeterminazione sta minando ed erodendo la capacità di contenimento militare d’Israele per i riflessi che questo conflitto produce sul piano politico, sia interno all’area che a livello generale. La regione mediorientale-mediterranea è il luogo ove si riflettono e si intrecciano sia la direttrice Est-Ovest quale zona non definita nel dopoguerra e in cui l’alleanza occidentale ha premuto e preme (già nel ’48 con l’installazione dell’entità sionista a gendarme degli interessi imperialisti) al fine di modificare l’equilibrio di questi confini a suo favore, sia la direttrice Nord-Sud la quale coinvolge direttamente l’Europa Occidentale perché sua naturale zona d’influenza, e dunque per i conflitti che si producono tendenti a rompere la “cappa normalizzatrice” dell’imperialismo. Per questi due aspetti centrali questa regione va considerata l’area di massima crisi rispetto alle altre aree di crisi periferica. Ma è tutta la periferia ad essere sottoposta all’intervento dell’imperialismo, a partire dall’attivismo militare USA; esso, laddove non è direttamente praticato, è ugualmente presente attraverso i finti governi e le forze controrivoluzionarie che gli USA organizzano. Questo è il tipo di relazioni internazionali che intendono instaurare laddove le armi della diplomazia e lo strangolamento economico non sono sufficienti a ricondurre alla “ragione” i paesi che non si sottomettono alla logica dell’imperialismo o che non contrastano efficacemente i processi rivoluzionari interni (Panama, Nicaragua, Salvador, Filippine sono gli esempi più rilevanti). Gli USA ancora una volta si identificano col volto feroce della controrivoluzione imperialista, ma tanto è sanguinaria tanto essa manifesta la debolezza strategica del potere, dell’imperialismo, il quale a causa delle profonde diseguaglianze e dell’immiserimento che provoca non fa altro che suscitare la legittima resistenza dei popoli per la loro autodeterminazione e la necessaria opposizione di classe nelle metropoli del centro. Alla base di questa condizione non c’è una pura volontà di dominio perché l’imperialismo non è una politica, esso è uno stadio economico del capitalismo in cui domina il capitale finanziario. Il rapporto di sfruttamento che l’imperialismo stabilisce con i paesi della periferia solo apparentemente è simile al rapporto coloniale, se non per l’assoggettamento politico che in entrambi i casi ne è derivato. Se il colonialismo è consistito sostanzialmente nella rapina delle materie prime e delle risorse, l’imperialismo basa il suo dominio sul privilegio e monopolio dello sfruttamento industriale, al livello di sviluppo ineguale necessario a questo stadio economico; in questo senso la qualità dello sfruttamento è superiore e il dominio politico non si esprime più nei protettorati, ma per i vincoli che questi paesi sono costretti ad avere col mercato capitalistico, il quale ne condiziona pesantemente lo sviluppo economico e sociale. Basti pensare all’imposizione dei prezzi sulle materie prime o delle monoculture e monoproduzioni, o al potere esercitato dagli organismi finanziari internazionali (FMI, BM, ecc.) che condizionano l’erogazione dei prestiti alle concrete pressioni politiche. L’imperialismo impedendo il libero sviluppo dei paesi terzi (così come nel suo centro il libero sviluppo delle forze produttive “incatenate” dai rapporti di produzione) rappresenta storicamente la forza del regresso nel mondo. Un bilancio di questi ultimi 40 anni mette in risalto come l’imperialismo abbia subito nel suo insieme un’erosione costante della sua forza d’influenza e della sua estensione (pur in presenza di un approfondimento dello stesso modo di produzione). Se nella periferia i processi di decolonizzazione prima e di emancipazione dei popoli nelle “nuove democrazie” poi, hanno permesso di sottrarre molti paesi al dominio imperialista, all’interno del sistema si è affermata la prassi rivoluzionaria storicamente adeguata al suo superamento: la Guerriglia.

Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista, e in diversi momenti le rotture rivoluzionarie avvenute nella periferia hanno riversato il loro potenziale all’interno del Movimento Rivoluzionario del centro, influenzando anche tendenze politiche terzomondiste. L’evolvere della situazione internazionale e la marcata integrazione politica e militare della catena ha posto le condizioni per il superamento della concezione solidaristica dell’antimperialismo. Il mutato atteggiamento riguardo la necessità di opporsi e combattere l’imperialismo è partito dall’evidenza che lo stesso procedere del processo rivoluzionario nei paesi del centro necessitava di un indebolimento e ridimensionamento dell’imperialismo. Ciò ha posto con sempre maggior chiarezza che il dovere delle forze rivoluzionarie di sviluppare il processo rivoluzionario nel proprio paese doveva unirsi alla possibilità di praticare una politica antimperialista in grado di provocare nel cuore del sistema questo indebolimento; in sintesi, un compito politico che l’avanguardia rivoluzionaria combattente, la Guerriglia, si è posta e che ogni Forza Rivoluzionaria ha affrontato e affronta con l’approccio specifico; ciò però non ha impedito che si sviluppasse un processo di confronto sulla necessità di un’unità politica tra le diverse Forze Rivoluzionarie per combattere l’imperialismo. Questa acquisizione importante sul terreno dell’antimperialismo non è sfuggita alla Borghesia Imperialista; tant’è che un punto qualificante, che sta tutto interno ai processi di coesione politica della catena imperialista, e in particolare nello specifico europeo, è quello delle politiche antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione e coordinamento degli apparati repressivi, con l’omogeneizzazione degli strumenti legislativi quali ad esempio lo “spazio giuridico europeo” ed anche la definizione di iniziative politiche comuni quali la soluzione politica per la guerriglia (RFT, Francia, Italia, Spagna). E’ un punto qualificante da un lato perché caratterizza l’esperienza che la Borghesia Imperialista ha acquisito in relazione all’importanza politica e strategica della guerriglia, tanto nel centro imperialista quanto nell’area limitrofa mediterranea-mediorientale, dall’altro perché su questo piano minori sono le contraddizioni interborghesi e interimperialiste, dato che si tratta di difendere in tal senso gli interessi della catena imperialista nel suo complesso. Ovvero tali politiche partono dalla consapevolezza che esiste un fronte oggettivo dato dall’interesse comune delle varie Forze Rivoluzionarie che combattono l’imperialismo. Questa oggettività spinge alla costruzione-consolidamento del fronte antimperialista a livello soggettivo, di cui il Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è punto di partenza e momento qualificante della politica di alleanze. Ma già precedentemente, in base alle contraddizioni che presenta l’agire della varie frazioni della Borghesia Imperialista nei diversi paesi, si erano poste le condizioni per una serie di contatti e accordi che vedono in particolare l’Italia al centro di questo complesso meccanismo.

Il nostro paese si è mostrato all’avanguardia in questo campo (grazie all’esperienza accumulata in vent’anni di scontro rivoluzionario al suo interno e all’essere geograficamente vicino all’area di massima crisi) ed è riuscito a porsi al centro delle politiche antiguerriglia in Europa Occidentale e nell’area, stipulando ben 17 trattati con altrettanti paesi europei, arabi e del Nord-Africa, trattati che prevedono prevalentemente l’attivizzazione di centri di “intelligence” separati da quelli già esistenti (esempio Interpol) finalizzati all’acquisizione di notizie a carattere preventivo sullo stato delle Forze Rivoluzionarie operanti e sui movimenti rivoluzionari in genere (non esclusi naturalmente quelli a carattere politico-religioso quali i gruppi islamici). Essendo bilaterali e non prevedendo l’esclusività delle informazioni raccolte e trasmesse, questi accordi pongono l’Italia nella posizione di “centrale di acquisizione e smistamento” dell’attività antiguerriglia facendone, tra l’altro, un punto qualificante della sua politica estera. Questa attività controrivoluzionaria è tutta interna alla dinamica dell’imperialismo che tende alla gestione offensiva delle contraddizioni sociali e politiche che si producono nei diversi paesi, in funzione di deterrenza, sia quando acquista forma militare sia quando si mantiene sul piano politico, in quanto questi due piani interagiscono fra loro, con delle ricadute uno sull’altro, trattandosi in definitiva di misure coordinate sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo e rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area europea-mediterranea-mediorientale.

La condotta della guerra rivoluzionaria nelle dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione

La dinamica di fondo che è alla base di questa complessa fase internazionale attraversa tutti i paesi della catena imperialista, in questo senso condiziona ed incide nei contesti di ogni Stato, a tutti i livelli della loro politica a causa delle similitudini politico-sociali che si sono determinate con lo sviluppo dell’imperialismo. Il nostro paese riflette questa dinamica generale pur all’interno delle sue specificità e le spinte che essa produce, interagendo con i termini delle specificità nazionali, inaspriscono le contraddizioni del quadro politico interno rendendolo quanto mai instabile e problematico. L’esecutivo che si è formato si caratterizza per l’aspetto restauratore insito nel suo programma. Un aspetto conseguente alle sostanziali forzature (autentici colpi di mano) avvenute nel quadro istituzionale a tutti i livelli del potere statale e all’interno dei rapporti politici fra le classi, delineando chiaramente il procedere di un vero e proprio “golpe istituzionale”. Nei fatti sono state consumate rotture e modifiche nel modo di effettuare il “governo” del paese tali da aprire concretamente alla “seconda repubblica”. Non si tratta di un ritorno reazionario ai vecchi tempi, benché la compagine dell’esecutivo si avvale dei più oscuri personaggi espressi dalla classe dominante in questi ultimi quarant’anni, al contrario questa rappresenta al meglio quella frazione dominante della Borghesia Imperialista che intende prevalere su tutte le altre. Le “sbavature conservatrici” non sono eccezioni nostrane che mal si addicono alla “gestione democratica” dell’attuale stadio dell’economia capitalistica, ma esse contraddistinguono l’intero ambito dei paesi imperialisti. Se si analizzano le tendenze politiche affermatesi nei paesi occidentali, soprattutto dopo gli anni ’70, si può osservare come i governi delle cosiddette “democrazie rappresentative” tendono a concentrare il potere in “esecutivi forti” con un marcato dirigismo nei metodi di governo e conseguente restringimento degli spazi di mediazione politica; laddove tali tendenze sono state ratificate in normative e leggi di stampo restrittivo hanno comportato la modifica strisciante delle legislature. Questo tipo di esecutivi hanno gestito i pesanti costi sociali della crisi economica e delle ristrutturazioni produttive; per questo il loro operato si contraddistingue per il suo carattere antiproletario e controrivoluzionario (laddove è presente il processo rivoluzionario), ciò anche quando tali esecutivi sono stati guidati dai socialisti (ad esempio Francia, Italia, Spagna). In ultima analisi il taglio degli esecutivi che sono stati espressi nell’ambito dei paesi capitalistici configura l’attuale forma storica di dittatura borghese che meglio rappresenta la tendenza dominante dell’imperialismo, a maggior ragione nella fase politica che si è aperta in cui premono spinte verso soluzioni per regimi forti tout-court. Nella situazione del nostro paese questa tendenza si compenetra con le peculiarità storiche e politiche relative alla natura dello scontro di classe e al livello di sviluppo economico, nonché con i caratteri specifici assunti dalla classe dominante; ciò rende l’Italia ben inserita nel contesto generale della realtà politica dei paesi occidentali, con tutto il portato restauratore che essa esprime. Per questi motivi non esiste, se non nella gestione demagogica delle “opposizioni istituzionali”, uno sviluppo democratico dell’imperialismo; i riflessi delle “guerre concorrenziali” tra i grandi gruppi monopolistici, non sono lotte tra una versione più democratica e un’altra conservatrice del capitalismo, al contrario lo scontro vitale per aggiudicarsi le migliori posizioni fa sì che le frazioni di Borghesia Imperialista premano senza mezzi termini per pesare sul terreno della rappresentanza politica allo scopo di essere meglio favorite da quest’ultimo. Ma al di là di questo dato di fondo, sono estremamente complessi i fattori che intervengono nello scontro politico del paese per la natura di classe dello stesso. La fase politica che si è aperta in Italia rappresenta in tutta chiarezza, e in particolare nell’operato del governo Andreotti, le pressanti contraddizioni in cui è costretta a muoversi la frazione dominante della Borghesia Imperialista. In primo luogo ciò è testimoniato dal ruolo svolto dalla Presidenza della Repubblica nella nascita di questo governo e dal peso assunto nelle coalizioni dalla figura del Presidente del Consiglio, un peso preponderante all’interno dell’esecutivo per la dinamica impressa alla ridefinizione dei poteri e delle funzioni dello Stato che trova ormai attuazione verso una forma di governo caratterizzata dal progressivo accentramento dei poteri nell’esecutivo e in esso la sempre più manifesta funzione “coesiva” e “vincolante” del Presidente del Consiglio nel dirigere l’azione di governo. In definitiva la modifica e l’affinamento del modo di governare (suoi strumenti e metodi). Dal tipo di contraddizioni che sono venute a maturazione per tutto il corso dell’ultimo decennio, sintetizzabile nella necessità per uno Stato a capitalismo maturo d’intervenire nel movimento dell’economia in crisi (un intervento complesso data la sua dimensione internazionale) e di far fronte al governo del conflitto di classe, conflitto che ha conosciuto espressioni di uno spessore e con un grado di autonomia senza eguali nelle altre formazioni economico-sociali occidentali, e l’esistenza di un processo rivoluzionario diretto e organizzato dalla Guerriglia, ne è scaturito un processo di riadeguamento dello Stato che ha investito nel suo complesso forme e meccanismi del potere. Un processo non solo di carattere meccanico-oggettivo (ovvero scaturente solo sul piano di relazione crisi/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato, che pure esiste), ma che trova le sue radici e i suoi punti di squilibrio proprio nella specificità della democrazia rappresentativa italiana che, sorta dalla guerra e dalla Resistenza, ne ha ereditato una precisa configurazione degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato. Un processo di riadeguamento non certo lineare, che è relativo alle stesse forme di dominio della Borghesia Imperialista nel loro interrelazionarsi dialettico con la struttura economica (evoluzione dell’imperialismo) e con la classe (maturità del movimento di classe ed esistenza del processo rivoluzionario). In tal senso la democrazia rappresentativa è l’involucro sovrastrutturale adeguato alla fase dell’imperialismo, proprio in quanto ha dimostrato di possedere quell’elasticità necessaria a far fronte alla crisi, nella misura in cui questa ha prodotto non solo dei gravi scompensi economici e sociali, ma anche politici. Infatti, alla fine degli anni ’70, la DC – cioè la forza politica attorno a cui si era formato ed aveva ruotato il sistema politico italiano – entrò in una grave crisi politica dopo il fallimento della politica di “unità nazionale”; la complessa articolazione delle forze politiche borghesi ha in quell’occasione mostrato di poter garantire la “governabilità” del paese, segnando anche delle importanti tappe politiche nella definizione del più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato. La stabilità politica dell’Italia nelle scelte politiche fondamentali, quali il rapporto con l’alleanza atlantica, col grande capitale monopolistico e con la classe nelle politiche adottate, portanti come unico tratto distintivo un chiaro carattere antiproletario e controrivoluzionario, in tal senso ha trovato attuazione proprio nella complessità della democrazia rappresentativa, segnatamente al rifunzionalizzarsi dei partiti alle nuove condizioni generate dalla crisi, espresso dal formarsi di nuovi equilibri politici (le presidenze del consiglio “laiche”) che hanno gestito non solo i passaggi necessari alla frazione dominante della Borghesia Imperialista per sostenere la concorrenza e modificare e ricondurre in un nuovo ambito istituzionale i termini del conflitto di classe, attraverso il ripristino di condizioni favorevoli nei rapporti di forza generali fra classe e Stato, ma anche nelle modifiche apportate dal piano istituzionale nella funzione e nei poteri stessi dello Stato.

In questo decennio sono venuti a maturazione una serie di passaggi concreti nel processo di “riforma dello Stato” (i processi di esecutivizzazione in particolare) e di volta in volta si sono costruiti equilibri politici che hanno espresso nelle diverse fasi il punto di risoluzione (relativo) per le contraddizioni che nascevano dalle necessità di governo del paese. Dentro questo processo complesso e contraddittorio la DC ha maturato una nuova centralità che oggi la rende il perno di equilibri politici facenti capo alla frazione dominante di Borghesia Imperialista. Il processo contraddittorio aperto dalla “fase costituente” che tende ad evolvere verso una “seconda repubblica”, modificando funzione e peso dei partiti e gli strumenti con cui si opera la mediazione politica fra classe e Stato, si è ripercosso sugli equilibri politici che si instaurano a livello di governo spostando, nella sostanza, in avanti le stesse contraddizioni interborghesi e di conseguenza il loro punto di sutura. Se il passaggio dalla presidenza Goria al governo De Mita ha rappresentato una sterzata definitiva in questo processo con la ripresa del possesso in senso complessivo delle leve del comando sulla base di un progetto politico organico, seguita poi da una vera e propria escalation di colpi di mano e forzature, l’ulteriore passaggio in questa direzione operato con il governo Andreotti mostra in tutta evidenza gli effetti dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, così come la necessità impellente di operare forzature nei rapporti di forza complessivi laddove si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo della “democrazia formale” e con la costruzione di false “alternanze di governo” (le staffette). In realtà l’unica “alternanza” che si è realizzata è appunto quella all’interno della DC, tutta relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo e che hanno reso più stretti i margini di manovra nel “governo possibile” in presenza della crisi generale e del mutamento dei rapporti di forza a livello internazionale. L’attuale esecutivo, avvalendosi dei passaggi già operati verso l’esecutivizzazione e la rifunzionalizzazione dello Stato, in particolar modo la riforma della presidenza del Consiglio, la modifica del voto segreto, si è mosso su questa falsariga spingendo però l’acceleratore in seguito all’aggravarsi del quadro politico ed economico interno ed internazionale, caratterizzando l’azione di governo secondo schemi che non è errato chiamare di “golpismo istituzionale”, relativamente ai problemi posti dalla fase attuale dell’imperialismo, ovvero l’approfondimento della contraddizione Est/Ovest e la necessità di adeguare il capitale monopolistico ai nuovi livelli di concorrenza, mentre sul piano interno principalmente verso la vasta conflittualità politica e sociale che si esprime con le forme di lotta e di organizzazione a “macchia di leopardo”, che investe cioè molteplici settori di classe; lotte che avendo sperimentato a fondo la sostanza del neocorporativismo nelle relazioni industriali come corrispettivo dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, sono di fatto già parzialmente fuori controllo nel momento stesso in cui si esprimono, essendo caratterizzate a priori da una forte critica al sindacalismo di regime. Entro questo quadro in parte oggettivo, ma soprattutto soggettivo, cioè di lucida persecuzione di obiettivi prefissati nell’ambito dell’esecutivo, vediamo dispiegare l’azione di governo che spazia contemporaneamente su più piani, caratterizzandosi nel suo complesso come movimento di vera e propria restaurazione (nel senso di una tendenza all’azzeramento delle precedenti conquiste politiche e sociali della classe e non nel senso di un’involuzione reazionaria nelle forme di dominio della Borghesia Imperialista). Così è nei rapporti intergovernativi, con politiche di selezione nel rapporto fra ministeri e Presidenza del Consiglio passate da un lato attraverso il filtro del Consiglio di Gabinetto, che inoltre rappresenta una sorta di “comitato di crisi” riunito in permanenza per impattare le varie “emergenze” e per ricondurre entro interessi generali le inevitabili sfasature che si producono, e dall’altro con i vincoli cui sono sottoposti i singoli ministeri in materia di spesa sottoposta al vaglio del Capo del Governo e della triade bilancio-tesoro-finanze per verificarne la compatibilità con i rigidi indirizzi di politica economica. Analogamente nel rapporto tra esecutivo e parlamento si tende alla funzionalizzazione delle camere al governo (proposta di modifica del “bicameralismo perfetto”) per farle tendere ad una funzione di pura e semplice ratifica delle decisioni governative, per adesso attuate con il ricorso al voto di fiducia. Gli ultimi episodi in materia chiariscono il vizio per i colpi di mano che esprime però uno stato di necessità relativo al fatto che l’esecutivo deve muoversi contemporaneamente su più piani e con la medesima impronta decisionista perché ne risulti la possibilità di contenimento delle contraddizioni che si frappongono fra stato reale dei rapporti di forza e indirizzo politico programmatico, contraddizioni a loro volta alimentate proprio da questo modo di operare a suon di forzature. Inoltre nel rapporto con la Magistratura risulta chiarissima la ormai consolidata funzione assegnatagli di repressione-contenimento delle contraddizioni sociali e in più il tentativo di compattamento alle esigenze dell’esecutivo passanti attraverso la proposta di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), tendente ad azzerare il peso delle rappresentanze dell’opposizione “istituzionale”, così come per la Corte dei Conti che ha una funzione chiave per ciò che riguarda l’intervento dello Stato nell’economia, chiamata così a ratificare le scelte dei ministeri economici che favoriscono i monopoli, tutte squilibrate verso i finanziamenti diretti e indiretti al grande capitale in relazione ai processi di concentrazione monopolistica in atto, e ancora per la Corte Costituzionale chiamata a compatibilizzare con equilibrismi giuridici gli strappi operati nel quadro istituzionale. Altro piano è quello del rapporto tra potere centrale e poteri locali, dove a fianco della legge Gava, che sancisce la non autonomia politica in termini di indirizzo e di funzione degli organi del governo locale e la “responsabilizzazione” in materia di spesa sul piano amministrativo, si realizza la centralizzazione dei modelli di governo, imponendo coalizioni siamesi di pentapartito. Inoltre, un’attenzione particolare merita la recente proposta di Andreotti di riunificare i vari apparati dei Servizi Segreti, che palesemente tende a rafforzare il potere “golpistico” compattando l’azione dell’apparato più filogovernativo per antonomasia, che da sempre opera un ruolo controrivoluzionario tristemente noto.

Contemporaneamente a tutta questa serie di cambiamenti nel modo di governare, più o meno sanciti dalle modifiche legislative e istituzionali, è mutato in questa ultima fase anche l’approccio ai passaggi già operati o da operare sul piano della “riforma dello Stato”. Se da un lato l’esecutivo si è avvalso della riforma della Presidenza del Consiglio e della modifica del voto segreto come validi puntelli per i suoi colpi di mano, la stessa riforma della Farnesina ha subito nel suo iter alcune modifiche in relazione, in primo luogo, alle necessità derivanti dalla collocazione dell’Italia nella catena imperialista e all’interno del processo di coesione politica europea e, conseguentemente, rispetto al piano della rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato. Infatti, per far fronte alle esigenze sul piano dell’evoluzione dei rapporti Est/Ovest, con tutto il suo portato politico-strategico, oltre che economico, nella riforma della Farnesina è previsto che il Ministro degli Esteri coordini tutte le attività che riguardano la politica internazionale, anche se svolte da altri ministeri o Enti Locali (ad esempio le Regioni) con un’organizzazione delle Direzioni Generali per aree geografiche (Europa e Nord America, Sud America, Africa mediterranea e mediorientale, Africa sub-sahariana, Sud-Est asiatico e Oceania). La “supervisione” del Ministero degli Esteri che ne deriva è chiaramente attinente all’aumentato peso dell’Italia soprattutto sul piano diplomatico e politico, in primo luogo in relazione all’inserimento dei paesi della fascia sud europea nel processo di coesione-integrazione, e poi rispetto ai conflitti che si producono nell’area mediterranea-mediorientale, ma ha un riflesso diretto anche nei processi di esecutivizzazione poiché la gestione centralizzata della politica estera tende ad evitare le sfasature che normalmente si producono quando ad operare sono più soggetti istituzionali in una materia complessa qual è appunto la politica estera che evidentemente comprende più piani d’intervento. Si fanno sempre più evidenti entro questo processo, da un lato, l’enorme importanza assunta dal piano internazionale nello svolgersi delle relazioni tra i diversi istituti dello Stato e, dall’altro, le sue implicazioni complessive in termini politico-diplomatico-militari rispetto allo stretto legame tra crisi/compattamento dell’alleanza imperialista/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato: l’attivismo dell’Esecutivo in politica estera risponde anch’esso ad uno stato di necessità con il suo tratto restaurativo pur negli “affinamenti” legislativi e istituzionali. Rispetto al rapporto capitale-lavoro l’azione dell’attuale Esecutivo ha reso ancor più evidente il suo intervento diretto nelle principali questioni che riguardano la contrattazione della forza-lavoro e nel merito delle relazioni industriali; è recente l’ennesimo accordo capestro sul costo del lavoro spalleggiato dall’Esecutivo che ha spinto affinché esso prevedesse a fianco di tale questione anche un capitolo sulle nuove regole di composizione dei conflitti, così da rafforzare ulteriormente le posizioni del capitale, al contempo indebolendo quelle del sindacato, approfondendo la sua già grave crisi di rappresentatività che è divenuta materia da tutelare per legge! Inoltre, l’uso massiccio e spregiudicato della precettazione è divenuta la soluzione decisionista come anticipazione della legge antisciopero, un intervento questo sul piano istituzionale che per la forte opposizione incontrata nel campo proletario non ha ancora trovato attuazione per le contraddizioni interborghesi che ne sono derivate; per aggirare l’ostacolo, allora, si è posta mano agli stessi meccanismi della precettazione, rendendone più facile il ricorso. Il piano politico del rapporto classe/Stato si è andato a modificare a partire dalle forzature operate con la controrivoluzione degli anni ’80. Le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell’autonomia di classe, sono tali per l’attività della Guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui rapporti di forza generali tra le classi, ed è per questa dinamica che la controrivoluzione degli anni ’80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte proletarie, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro-ripristino delle precedenti condizioni favorevoli alla Borghesia Imperialista, in sostanza andando a modificare le stesse forme di dominio della borghesia adeguandole alla fase dell’imperialismo, nonché adeguandole ai livelli di scontro politico e sociale e all’esistenza del processo rivoluzionario. Partendo da questo dato generale, questo Esecutivo ha spinto al massimo la tendenza alla restaurazione, facendo delle pressioni e intimidazioni di chiara marca controrivoluzionaria, una pratica costante e quotidiana: blitz nei luoghi di lavoro per normalizzare i conflitti che vi si producono, in particolare camuffando la sostanza dello smantellamento dello “Stato sociale” in “scarsa attitudine al lavoro”; attacco e criminalizzazione di qualsiasi forma di antagonismo all’operato del governo, allo scopo di operare una pacificazione forzata e il silenziamento delle tensioni politiche e sociali che si producono nel paese. Un terreno obbligato, questo, anche in relazione alle esigenze del capitale in questa fase, che ha portato i livelli di sfruttamento della forza lavoro ad un limite di per sé insostenibile e che quindi genera conflitti e processi di aggregazione sui quali il governo si preoccupa di intervenire con metodi terroristici. Il quadro che viene a delinearsi di converso è perciò quello di una forte instabilità politica e sociale; lo stesso quadro politico delle forze istituzionali (di maggioranza e di opposizione) dimostra come alla generale tendenza all’accentramento dei poteri nell’Esecutivo ne consegue un indebolimento nella dialettica tra le forze politiche che continuamente genera la necessità di un riassestamento. Se la tendenza dominante all’esecutivizzazione è il tratto caratteristico di tutte le democrazie mature occidentali, la specificità del caso italiano merita di essere sottolineata proprio perché costituisce un percorso a suo modo originale sul piano del rapporto classe/Stato. Il riadeguamento delle forze politiche indotto dalla rifunzionalizzazione dello Stato trova uno stretto collegamento con l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo proprio a partire dagli equilibri che si formano intorno alla frazione dominante della Borghesia Imperialista. Il processo intrapreso dal PCI è tutto interno a questa dinamica e rappresenta solo l’atto conclusivo della progressiva perdita di peso politico e della modifica della funzione stessa che, precedentemente alla fase controrivoluzionaria, PCI e sindacato avevano svolto in quanto rappresentanze istituzionali della classe. Ma ciò che è più importante è che lo snodo conclusivo del percorso revisionista ruota attorno al tema politico dominante della “modifica delle regole del gioco”, in primo luogo attorno alla modifica della legge elettorale che ne costituisce un capitolo determinante poiché va a ridisegnare la geografia politica delle sedi parlamentari e dei rapporti di coalizione fra le forze politiche rappresentanti la Borghesia Imperialista, tenendo conto anche che il “modello” del pentapartito è ormai già nei fatti superato dalla centralità assunta dalla DC nelle coalizioni di governo.

Il PCI, costretto ad inserirsi in questo processo in virtù della modifica dei termini della mediazione politica tra classe e Stato, ne scambia la forma con la sostanza: infatti la provocatorietà del referendum proposto sulla legge elettorale non è tanto perché costringe la maggioranza a compattarsi per scongiurarlo e porre dunque mano a quello che costituisce il più delicato ingranaggio del meccanismo della “riforma dello Stato” (infatti è chiaro che l’approvazione di una nuova legge si misura con un terreno e ad un clima politico non ancora giunto pienamente a maturazione cui sta cercando di porre rimedio questo stesso Esecutivo con la pratica dei colpi di mano sulle questioni politiche preminenti), quanto perché è agitato a scopo lealista e propagandistico per camuffare nella forma referendaria ciò che invece è materia esclusivamente relativa agli interessi borghesi negandone così il carattere di classe.

Nella sostanza il PCI finisce per favorire la modifica del quadro costituzionale, sancendo per così dire la rottura degli equilibri instauratisi dal dopoguerra, in virtù di una “rinnovata affidabilità al sistema” che è poi semplicemente il conformarsi ad una dialettica puramente formale con le forze di governo, così da rappresentare solamente il garante “democratico” del regime.

Sono proprio gli anni della controrivoluzione a segnare in modo irreversibile la natura ed i passaggi del processo rivoluzionario nel nostro paese, ad imporre il terreno e la qualità dello scontro di classe, ad imporre il terreno di adeguamento alle avanguardie e al movimento rivoluzionario, e ciò per una semplice ragione generalizzabile a tutti gli Stati: è in riferimento al come, al modo con cui la borghesia impone la sua dittatura di classe, al come e al modo con cui la borghesia regolamenta e “istituzionalizza” il proprio dominio che si organizza l’opposizione di classe, l’opposizione rivoluzionaria.

È sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi vent’anni non una delle ragioni obiettive che stavano alla base della costituzione della Guerriglia nelle metropoli imperialiste è venuta meno. Ovvero, in sintesi le ragioni dell’affermarsi della Guerriglia, della strategia della lotta armata, sono date dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha posto in essere sia sul piano storico-politico che economico-sociale. E in principal luogo nella diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva e dall’altro lato per il conseguente grado di integrazione politico-militare fra gli Stati della catena che stabilisce una nuova condizione entro cui viene a collocarsi e svilupparsi lo stesso processo rivoluzionario. Da ciò si è constatato il venir meno del dato del “momento eccezionale” (strategia terzinternazionalista dell’insurrezione) e ponendo in essere, nel carattere di lunga durata della guerra di classe, l’aumentato peso della soggettività rivoluzionaria nello scontro. Anzi, l’intersecarsi del movimento delle crisi capitalistiche e il rapporto rivoluzione/controrivoluzione, ha spinto gli Stati della catena imperialista (pur con tempi e passaggi riferiti alla propria storia concreta) a rimodellare i termini del “governo” del conflitto di classe. Questa la natura e la base da cui hanno preso il via le odierne “riforme dello Stato” riconoscibili da tutti, anche se molti fanno finta o hanno interesse a non vedere e ciò per un’unica ragione, perché riconoscere questi dati di fondo e la realtà attuale significa (per parte rivoluzionaria) collocare la propria militanza nei presupposti interni alla formazione della Guerriglia; perché la Guerriglia nelle metropoli imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una “tecnica militare” (guerra guerreggiata), ma l’organizzazione adeguata a misurarsi contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico tra le classi negli Stati a capitalismo maturo; è l’unità del politico e del militare; è rompere con il monopolio della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere con il fine del superamento della società divisa in classi. D’altronde, questi ultimi dieci anni segnati dall’approfondimento del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione hanno evidenziato in termini oggettivi come un processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste, in presenza della Guerriglia, assuma la connotazione di una Guerra di Classe di Lunga Durata, come la proposta della lotta armata sia il solo terreno adeguato allo scontro per l’organizzazione di classe. È evidente perciò come questi anni di controrivoluzione siano decisivi per lo scontro stesso del processo rivoluzionario nel nostro paese, decisivi perché non ci si può sottrarre al livello di scontro raggiunto; perché le dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione attraversano in maniera orizzontale tutte le istanze politiche della classe (anche se lo Stato calibra il suo intervento nei confronti della classe e delle sue avanguardie mirandolo e dosandolo a seconda delle istanze si cui va ad agire); perché hanno imposto ed impongono all’avanguardia armata di misurarsi con le leggi dello scontro, di adeguare costantemente il proprio impianto politico, di affinare le capacità per realizzare il programma politico. Il contraltare a questi compiti è l’annientamento politico, è l’arretramento complessivo delle posizioni politiche della classe senza vie di mezzo! Per le BR questi anni sono stati fonte di ricchi insegnamenti e di una rinnovata capacità proiettata nel futuro proprio per la comprensione che hanno acquisito delle leggi generali che influenzano le dinamiche dello scontro di classe nelle metropoli imperialiste. Un percorso pratico fatto di avanzate e ritirate, di successi e sconfitte, di errori pagati duramente. Errori in parte evitabili e comunque sempre frutto dell’attività rivoluzionaria pratica. L’Organizzazione in attività saprà ancora una volta risolvere tali errori e far tesoro degli insegnamenti pratici e teorici. Dal loro superamento saprà trarne profitto, rilanciando su tali nuove acquisizioni (come sempre è successo in questi vent’anni) lo scontro a livello più alto. Da parte delle BR uno dei momenti fondamentali nel processo di riadeguamento alle mutate condizioni dello scontro è stata la scelta, nel 1982, di aprire la Ritirata Strategica. Le condizioni politiche generali in cui fu operata la Ritirata Strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’Organizzazione sui termini dello scontro. Da una parte l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo andavano a modificare il quadro degli equilibri generali. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’analisi dello Stato e della situazione interna, si riteneva che l’attacco all’“Unità Nazionale” aveva lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche. Questo era anche il prodotto di una visione dello Stato schematica, che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro ne schematizzava le funzioni ad articolazioni del “Sistema Imperialista delle Multinazionali”. Non si coglieva il movimento partito all’interno stesso della borghesia e dello Stato teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe, a partire dalle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie. Con il fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi per ridimensionare così il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato. Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla Guerriglia in modo da riversarlo sull’intero corpo di classe attraversandolo orizzontalmente: dai settori dell’autonomia di classe che si sono dialettizzati con la Guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato. Una controffensiva che per proporzioni, modi di dispiegamento, ha assunto caratteri di vera e propria controrivoluzione. Le posizioni inadeguate, prodotte principalmente dalla giovinezza politica, sono state battute nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo. Il ricentramento operato dall’Organizzazione (esplicitato dall’azione Dozier per quanto riguarda l’antimperialismo e dall’azione Taliercio per quanto riguarda il piano classe/Stato) non impedì contraddizioni e ritardi. Ma il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della Ritirata Strategica nonostante i limiti di comprensione che l’Organizzazione aveva della stessa, gli permise di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento pur all’interno della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato. La giustezza della scelta della Ritirata Strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché interpretando opportunamente le leggi della guerra rivoluzionaria ha permesso alle BR di ripiegare da posizioni niente affatto avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nell’andamento discontinuo dello scontro all’interno del percorso di lunga durata. Una scelta che ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi, hanno sottratto per quanto possibile, le forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato senza cadere nell’avventurismo. In tal modo le BR hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo a fronte delle modifiche avvenute nel contesto dello scontro con la conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali venutesi a determinare nel tessuto proletario e nell’autonomia di classe. Un processo quindi non lineare e ciò proprio per la natura stessa dello scontro di classe e del processo rivoluzionario in generale e della funzione della Guerriglia in particolare, la quale evidenzia senza mediazione il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe, caratterizzandolo pertanto come processo di guerra di classe di lunga durata.

Non linearità perché è un percorso materiale collocato per intero all’interno delle contraddizioni generate nel tessuto di classe dal confronto rivoluzione/controrivoluzione. Pertanto non è solo riduttivo, ma in alcuni casi anche oggettivamente opportunista pensare che sia sufficiente la “ricollocazione di un corpo di tesi e la loro propaganda per l’uscita dalla Ritirata Strategica” e ciò perché di fatto è sottrarsi alle implicazioni che ha l’operare nell’unità del politico e del militare, l’operare della Guerriglia indipendentemente dalla coscienza che se ne ha. Ma il procedere del processo di riadeguamento è strettamente legato alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione/organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento. Tenendo conto che per la Guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e militare; implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una “condotta della guerra rivoluzionaria” i cui termini sono interni ai presupposti della Ritirata Strategica sino a che l’evolversi successivo dei livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario non abbiano maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le classi. Possiamo affermare che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che permettono ad una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. Per quanto riguarda l’esperienza maturata dall’Organizzazione possiamo dire che la Guerriglia svolge la funzione di direzione dello scontro di classe, affrontando contemporaneamente e globalmente i principali piani del processo rivoluzionario. La direzione operata dalla Guerriglia è volta ad organizzare e disporre le forze in riferimento al sostenere il livello di scontro dato e ai fini della fase rivoluzionaria sul terreno strategico della lotta armata obiettivamente consolidatosi nello scontro rivoluzione/controrivoluzione in vent’anni di prassi rivoluzionaria delle BR. In altri termini la strategia della lotta armata è il modo con cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della Guerra di Classe di Lunga Durata contro lo Stato. Un processo in cui l’avanguardia armata si pone come direzione e organizza fin da subito i settori rivoluzionari di classe che si dialettizzano e si dispongono sul terreno della lotta armata. Vent’anni di prassi rivoluzionaria hanno chiarito come il portato dell’agire nell’unità del politico e del militare abbia tracciato un terreno concreto di (possibile) risoluzione al quesito da sempre oggetto di dibattito nel movimento rivoluzionario, quale la questione del “Partito” e del rapporto “Partito/masse” determinando al tempo stesso una netta demarcazione con l’opportunismo parolaio. Per quanto riguarda il Partito ciò ha evidenziato come questo sia un problema di costruzione/fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe, cioè problema di costruzione di una direzione politica e di strutture organizzate, adeguate a sostenere lo scontro e a rilanciarlo ed approfondirlo, perseguendo ed assolvendo alle necessità e ai compiti dettati dalla congiuntura politica che scaturiscono dalla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato, disponendo e organizzando le forze disponibili intorno ai compiti imposti dalla fase rivoluzionaria, compiti che in generale sono sempre riferibili allo stato dei rapporti di forza tra le classi, agli equilibri dei rapporti tra imperialismo e antimperialismo, allo stato delle forze proletarie e in ultima istanza ad un determinato passaggio del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. Solo la risposta corretta e contemporaneamente la collocazione materiale delle forze permette di aprire una nuova fase rivoluzionaria di scontro. Nuova fase che è sempre il prodotto di come si è conclusa la fase precedente, in quanto prodotto del rapporto concreto di scontro tra le forze in campo. Pertanto il susseguirsi delle fasi rivoluzionarie assume un andamento non lineare, non schematizzabile dall’inizio alla fine. Alla luce dell’andamento concreto del rapporto di scontro tra le classi, la costruzione di una reale direzione politica attraverso un atto di “fondazione del Partito” pare non solo infantile, ma addirittura opportunista. Per questo le BR fin dalla loro iniziale attività ed elaborazione teorica hanno sempre posto il problema del Partito come processo di costruzione e di fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nodo che ha sempre caratterizzato le fasi del processo rivoluzionario nel nostro paese, dalla fase della Propaganda Armata alla fase attuale di Ritirata Strategica. In questo percorso le BR si sono costruite come direzione politica dello scontro proprio agendo da partito per costruire il Partito, perché le BR non sono il Partito ma un’organizzazione di Guerriglia che nel loro agire politico-militare pongono le basi per la loro trasformazione in Partito.

In altri termini la Guerriglia, le Brigate Rosse, si pongono nello scontro come un esercito Rivoluzionario (ovviamente con specifiche peculiarità determinate dal tipo di mediazione politica assestatasi negli Stati a capitalismo maturo) che lavora a costruire la direzione politica, il Partito Comunista Combattente. Questa impostazione fa altresì chiarezza riguardo a quelle posizioni che vedono il formarsi del Partito come una sommatoria, “federazione” di gruppi e organismi che si richiamano ideologicamente al comunismo, dettandone l’inconsistenza di queste posizioni.

Riguardo al rapporto “Partito/masse” la posizione delle BR è nettamente chiara; tale rapporto non è altro che il termine di costruzione/organizzazione degli spezzoni di autonomia di classe sul terreno della lotta armata, calibrato nelle forme e nei modi alle fasi rivoluzionarie che si attraversano. La giustezza di queste concezioni, oltre ad essere stata verificata dalla pratica, è derivata dal fatto che la direzione della Guerriglia si esplica sui piani principali dello scontro, cioè vi è interdipendenza e interrelazione tra i diversi momenti in cui si materializza l’operare della Guerriglia nella dinamica attacco-costruzione-organizzazione-attacco. Questo perché un processo rivoluzionario non è la risposta agli attacchi della borghesia alle condizioni politiche e materiali della classe (un atto difensivo), anche se nel suo sviluppo conosce fasi di resistenza più o meno prolungate, ma è nella sua sostanza un processo di attacco per affermare gli interessi generali del proletariato. In questa fase della guerra di classe segnata, dal lato dell’attività controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti i termini della mediazione politica tra le classi e da parte rivoluzionaria, inserita nella fase generale dalle BR definita di Ritirata Strategica, cioè un periodo politico non quantificabile in anni nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad una ricollocazione delle forze in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia, diventano di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l’attacco, si definiscono gli assi programmatici e la disposizione/strutturazione delle forze disponibili. Un dato generale dell’operare della Guerriglia è che la sua iniziativa è tesa a lacerare il piano degli equilibri politici fra classe e Stato e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con l’attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro, una dinamica di intervento che “libera” – anche se momentaneamente – energie proletarie.

Una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali. Vantaggi momentanei derivanti dell’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse” stabili, non può avere retroterra logistico, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe); dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione di accerchiamento strategico, almeno fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario. Alla luce di questa considerazione di carattere generale ed ai caratteri assunti dallo Stato (in quanto organo della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione della inconciliabilità fra le classi) le BR fanno dell’asse classe/Stato il principale elemento programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato, visto in una separatezza tra i suoi apparati (politici, burocratici, militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nelle guerra civile. L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco.

Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell’attacco di disarticolare (inteso in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità tutta politica di individuare all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della Borghesia Imperialista.

Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.

Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in casi di arretramenti il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali fra imperialismo e antimperialismo. Questi i criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permettono alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.

Altro elemento programmatico, di vitale importanza, su cui si costruiscono i termini della guerra di classe è l’antimperialismo. Su questo terreno si è sviluppato un processo di confronto e di unità politica tra le diverse forze rivoluzionarie. L’esordio del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa Occidentale promosso nel 1985 dalla Rote Armee Fraktion (RAF) e da Action Directe (AD) ha costituito il primo momento di confronto concreto nelle forze rivoluzionarie, a partire dalla prassi che lo ha sostanziato; si è posto cioè sul piano soggettivo la possibilità di superare quel fronte oggettivo costituito dai singoli percorsi rivoluzionari che avvengono sia nel centro che nella periferia. L’assunzione soggettiva della politica di Fronte permette quindi di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo/antimperialismo; in questo senso ribadiamo la giustezza delle affermazioni fatte dal Fronte fin dal suo esordio, e cioè che lavorare alla costruzione e consolidamento del Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. L’attività antimperialista delle BR fin lì praticata con le iniziative politico-militari Dozier e Hunt, si è confrontata con il problema politico del Fronte ponendosi in dialettica con il suo processo di avanzamento e consolidamento (l’iniziativa politico-militare Conti).

L’approccio delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente alla politica di Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è quella di una politica di alleanze con le altre forze rivoluzionarie (non necessariamente del centro) tesa a costruire momenti di unità successivi contro il nemico comune (le politiche centrali dell’imperialismo). Per questo il fronte non è e non può essere una formazione “spuria” di una nuova Internazionale Comunista, come qualcuno nell’intento di denigrare questa proposta politica ha cercato di spacciare, ma sostanzialmente è fondata su un rapporto di alleanza fra le varie forze combattenti. Tutto ciò non significa che l’attività antimperialista sostituisca l’intera prassi rivoluzionaria all’interno del paese; ovvero vive la consapevolezza che i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata dipendono in primo luogo dalla capacità di intervenire nelle contraddizioni tra classe e Stato e che tali contraddizioni nascono all’interno delle condizioni peculiari del paese (per quanto possano essere influenzate dalle relazioni che l’imperialismo stabilisce all’interno). Per questa ragione l’attività nel FCA costituisce per le BR una parte del loro programma politico, essa cioè vive con l’attacco al cuore dello Stato un rapporto programmatico. Inoltre, per la nostra Organizzazione, l’attività del FCA non può disperdersi in un attacco generico all’imperialismo, a qualsiasi livello esprime la sua politica, ma ne deve individuare i nodi centrali, sia quando essi si esplicano nel cuore del sistema, sia quando sono volti a “normalizzare“ l’area mediterraneo-mediorientale, sia quando essi si coordinano per stabilire politiche controrivoluzionarie nei confronti della Guerriglia e del FCA. Ciò significa intendere l’alleanza come un processo di unità successive, che non comportano l’annullamento del proprio impianto specifico nella politica di Fronte, ma stringerla all’interno dell’obiettivo di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo, indipendentemente dalle finalità strategiche delle Forze Rivoluzionarie che vi contribuiscono, siano esse lotte di liberazione nazionale o la conquista del potere politico da parte del proletariato. Per questo le BR affermano insieme alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un’unica Organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo. L’unità possibile e necessaria, nel FCA, fra le Forze Rivoluzionarie del centro e quelle della periferia, nulla toglie al diverso peso e funzione che ognuna occupa nello scontro, due livelli che appunto si riunificano politicamente nella lotta contro l’imperialismo. All’interno di questi criteri generali, la nostra Organizzazione si rapporta alla politica del Fronte, contribuendo al suo rafforzamento attraverso intese politiche fattive. È all’interno di questo contesto, in riferimento alla politica di alleanze praticata e promossa dalla nostra Organizzazione, che rivendichiamo ancora l’iniziativa combattente della RAF contro il presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Essa, insieme alla precedente contro Tietmayer, si inserisce contro il centro della politica che in questa fase costituisce l’elemento principale del processo di coesione (formazione) dell’Europa Occidentale a partire dal suo cuore, il ruolo della Repubblica Federale Tedesca.

Due assi programmatici (classe/Stato, antimperialismo/imperialismo) che sono il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità d’attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro. Una direzione che si colloca nel quadro di scontro interno e internazionale dove qualificare e far vivere nella strutturazione e disposizione delle forze il patrimonio acquisito in questi vent’anni e misurarsi con l’approfondimento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione. Per inciso va detto che questi anni di prassi rivoluzionaria hanno verificato che qualora viene meno il modulo politico-organizzativo fondato sui criteri di clandestinità e compartimentazione, su sedi politiche ben definite che permettono di accertare e relazionare le diverse responsabilità attraverso il centralismo democratico, vi è perdita di capacità della Guerriglia su tutti i piani dello scontro. In questa fase politica quello che va tenute presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione nel nostro paese, un processo che si ripercuote nel modo in cui lo Stato si relaziona al campo proletario. Lo Stato ha ben presente che non può eliminare la componente rivoluzionaria, in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia con un raggio d’intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo verso lo Stato. Un aspetto questo che si compenetra con la mediazione politica facendo di quest’ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano con l’ambito stesso di formazione dell’avanguardia, nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/Stato per pesare sugli equilibri dello scontro mette in luce i termini necessari della dialettica Guerriglia/autonomia di classe. Una dialettica che a livello dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata deve agire sul binomio ricostruzione-formazione. Le BR hanno lavorato e lavorano per porre le basi alla fase di ricostruzione; queste poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi concretamente messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi. Se queste basi consentono di definire questo indirizzo politico su cui s’incentra il lavoro rivoluzionario, è però vero che la fase di ricostruzione è un passaggio problematico e difficile per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione. A fronte della qualità richiesta all’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per espletarlo, vi è la continua necessità di operare ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte; questo comporta un andamento avanzate-ritirate, per via dell’equilibrio da mantenere tra i due fattori, il quale deve confrontarsi con l’intensa attività antiguerrigliera e controrivoluzionaria dello Stato, e per altro verso per il necessario processo di formazione delle stesse forze rivoluzionarie. Ecco perché questa fase è soggetta ad un andamento fortemente discontinuo che comporta il procedere fra avanzate e ritirate, condizionando in tal modo l’atteggiamento tattico del momento. In sintesi, un termine di lavoro che attraversa verticalmente e orizzontalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze) a partire in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari.

L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione delle forze in campo attorno all’attività generale dell’Organizzazione, cioè emerge la necessità politica che l’attività dell’Organizzazione si muova in termini di forte centralizzazione politica, che nell’accezione leninista significa: centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di lavoro le cui caratteristiche politiche siano di patrimonio di tutti e non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione dell’attività del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo utilizzo politico delle medesime all’interno di una disposizione volta a farle muovere intorno all’iniziativa dell’Organizzazione. Ciò avviene solo dentro un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono non per spontaneo apporto, ma disposte e organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politico-organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento centralizzazione politica/decentralizzazione delle responsabilità. Questo perché non è più sufficiente disporsi spontaneamente sulla lotta armata pensando di ritagliarsi in piccolo i problemi posti dallo scontro; in altri termini, una riproposizione dell’esperienza dei nuclei, che al proprio livello riprendevano le indicazioni dell’Organizzazione, in questo contesto non è più praticabile politicamente.

Non si tratta di dover far fare esperienza al proprio livello alle forze che si relazionano, ma si tratta fin da subito di formarle all’interno di una disposizione che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede: la dimensione del senso organizzato del lavoro per rispondere alle necessità che assume questo livello di sviluppo della guerra di classe. Al di fuori di questo dato politico c’è solo un’interpretazione fumosa dell’unità dei comunisti che, muovendosi in ordine sparso, non può che trascendere dalle condizioni che lo scontro impone, al limite ritagliandosi un proprio spazio ininfluente ad incidere sullo scontro stesso, ma di fatto favorendo la dispersione delle forze e delle iniziative in quanto su di esse grava, indipendentemente dalla coscienza con cui si sono disposte nello scontro, tutto il peso delle condizioni politiche. Questo adeguamento implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguata alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività dell’Organizzazione, un livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento nel processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.

 

I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari organizzati intorno alle BR-PCC: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.

 

Febbraio 1990

La più utile solidarietà ai militanti prigionieri rivoluzionari è sviluppare la lotta rivoluzionaria. Documento del Collettivo comunisti prigionieri L’Aurora

Premessa

La questione della solidarietà di classe emerge ogni volta che la repressione mette in campo i suoi strumenti per arrestare la lotta di classe nelle sue diverse espressioni.

Le risposte che vengono date non sono sempre adeguate a questi attacchi, perché questi avvengono in forme diverse e con livelli di intensità determinati dalle fasi storiche, dai rapporti di forza tra le classi e dai soggetti in campo.

Contro i movimenti e le lotte per i bisogni immediati la repressione agisce per fermare i processi di radicamento ed estensione. Contro le organizzazioni rivoluzionarie che si danno percorsi e strutture funzionali alla lotta per il potere agisce per annullare ogni capacità di azione anche in forma preventiva.

Rispetto alle lotte per i bisogni immediati, dove la repressione si manifesta con i licenziamenti per rappresaglia, con le cariche poliziesche, con denunce e arresti per i reati di “piazza”, la solidarietà è la più genuina e naturale risposta per denunciare l’inconciliabilità tra bisogni proletari e potere borghese e per cercare di imporre il ritorno alla lotta dei compagni colpiti da arresti o licenziamenti.

Diversa è la situazione quando la repressione agisce contro la parte più cosciente ed organizzata del proletariato, oggi alla ricerca di una strada per far confluire le enormi energie della classe proprio verso quell’orizzonte politico che da sola non riesce a darsi: quello della rivoluzione proletaria contro il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo e dell’edificazione di una società socialista.

E nella ricerca di questa strada assume oggi il posto principale la costituzione del Partito rivoluzionario costruito in funzione della presa del potere politico da parte della classe operaia e del proletariato. Costruito quindi fin dai suoi primi passi nell’unità del politico-militare.

Lasciamo quindi da parte tutte quelle interazioni solidali che si sviluppano all’interno delle lotte che la classe oppone al procedere della crisi quando queste si trovano ad affrontare la repressione. Non perché non le consideriamo importanti, anzi. Piuttosto perché su di esse c’è ben poco da dire essendo la rappresentazione più naturale e spontanea della volontà di presentare la più forte unità proletaria a fronte dell’offensiva borghese alle condizioni di vita e di lavoro delle masse.

Quello che ci interessa invece trattare è la solidarietà che parti del cosiddetto movimento di classe offrono alle istanze rivoluzionarie colpite dalla repressione e quindi ai Militanti Prigionieri Rivoluzionari (MPR). In questo campo, spesso, l’opportunità e la modalità con cui si sviluppa il movimento di solidarietà sollevano critiche, dubbi, precisazioni, dibattiti, ecc. tutte cose che trovano la loro ragion d’essere alla luce della contraddizione fra la lotta della classe sui propri bisogni immediati (è questo il contesto in cui va collocato il movimento di solidarietà, con la particolarità che esso rappresenta settori di massa che cercano/sostengono l’istanza rivoluzionaria) e la lotta rivoluzionaria per la presa del potere politico.

E come in ogni contraddizione anche in questa si presenta un rapporto di unità e lotta. Unità, per quanto riguarda il reciproco riconoscimento (“siamo tutti dalla stessa parte”; “lottiamo ognuno per ciò che gli compete, lo stesso nemico”; ecc.) e lotta, dovuta a diversi livelli di coscienza per ciò che riguarda le necessità della lotta rivoluzionaria.

È questo un dibattito che a più riprese e gradi ci ha trovati coinvolti dal giorno degli arresti nel febbraio 2007, in quanto referenti di un movimento di solidarietà sviluppatosi in opposizione alle manovre repressive del nemico di classe che per estensione e militanza trova ben pochi riscontri negli ultimi 20 anni.

Un dibattito che, sviluppatosi sia tra di noi che tra noi e questo movimento, ci ha permesso di rilevare pregi e difetti di questa esperienza.

Ci ha anche dato modo di confrontarci con l’esperienza e i contenuti di altre componenti politiche di MPR.

L’intento di questo scritto è anche di fare il punto del dibattito e presentare a tutti coloro che intendono impegnarsi nel campo della solidarietà (e in seconda battuta a tutti quelli che, volenti o nolenti, ne sono i referenti: i MPR) la nostra sintesi. Questo perché ci siamo trovati spesso a dare risposte parziali a questo o a quel tema che viene sollevato dal movimento solidale senza mai riuscire a dare la visione generale e completa di ciò che pensiamo.

Ci sembra quindi giunto il momento di farlo.

 

Quale solidarietà vogliamo?

Vogliamo partire da un concetto che pur sembrando semplice e banale ci pare che non sempre venga tenuto nel la giusta considerazione come guida del movimento di solidarietà.

E cioè il fatto che la migliore (non l’unica) solidarietà che si possa fare ai MPR è quella di proseguire nella lotta rivoluzionaria.

Questo è un enunciato che ha validità universale, per noi, come per ogni organizzazione rivoluzionaria che tenga fede al proposito di rovesciamento dell’ordine imperialista esistente tramite la conquista del potere. Con ciò in realtà si supera il concetto stretto di “solidarietà” per abbracciare quello proprio della militanza rivoluzionaria.

Se questo concetto non è ben fermo si rischia di concepire il lavoro della solidarietà come fine a se stesso e non come una “parte di un tutto”. Si rischia di perdere l’orizzonte politico solamente con il quale il lavoro di solidarietà riveste la sua utilità principale di tener viva tra il proletariato e la classe operaia la strada della rivoluzione e della loro emancipazione. Se si vuole rendere produttiva l’esistenza dei MPR l’unico modo è quello di far conoscere la loro esperienza di lotta per il potere che si tratta “solamente” di riprendere alla luce degli insegnamenti delle esperienze fatte e nel le condizioni attuali in cui, tra l’altro, lo scontro va acuendosi. Possibilmente correggendone errori e difetti.

Tutto ciò senza nulla togliere al fatto che oggi la solidarietà, nel suo significato più ampio, ha acquisito grande importanza. Infatti essa è invocata e praticata su diversi fronti di lotta, in diverse situazioni sociali, proprio come primo livello di risposta alla realtà di disgregazione e di divisione concorrenziale, alimentata sistematicamente dalla borghesia. Si pensi alle aggregazioni territoriali che si sono date sia attorno a questioni sociali-ambientali, sia attorno a lotte operaie che, per le loro dimensioni ridotte e/o marginalizzate (in particolare le lotte dei proletari immigrati) hanno acquisito forza e collegamenti di classe proprio grazie alle reti d i solidarietà. Quindi sviluppare la solidarietà come tessuto di riaggregazione, come primo terreno su cui la classe può riconoscersi e sviluppare le proprie forze, come terreno di esperienze comuni e di comunicazione fra vari settori ecc., non può che essere positivo, creando base e consistenza di massa per lo stesso successivo passaggio, cioè la sua finalizzazione.

 

La solidarietà che non ci interessa

Al di fuori o se si trascura di tenere ben ferma l’impostazione appena affermata, ci si trova ad affrontare alcune deviazioni. Ne accenniamo qui alcune con cui ci siamo confrontati direttamente: la tendenza al vittimismo o all’innocentismo, il lamentarsi fine a se stesso di essere vittime delle montature della controrivoluzione e del fatto che la borghesia non rispetta le sue stesse leggi. Questo atteggiamento, pur comprensibile, non considera che lo scontro di classe non si può misurare sulla base del quadro giuridico, qualsiasi esso sia. Bisogna andare al la sostanza e considerare la repressione elemento imprescindibile dello scontro. Vittimismo e innocentismo non solo sono inutili , ma anche dannosi perché impediscono al proletariato di dotarsi della giusta concezione dello scontro e perché ci si va a confrontare con i codici borghesi legittimando e avvalorando la loro esistenza; considerare gli attacchi repressivi alle organizzazioni rivoluzionarie al pari della repressione verso il movimento di classe generico. Non distinguere e fare un tutt’uno come si rivela negli slogan: “siamo tutti terroristi” , “siamo tutti sotto attacco repressivo”, “abbiamo preso 150 anni di condanne” ecc.

Cosa che, se da un lato mostra la tendenza positiva ad unirsi alle istanze rivoluzionarie colpite dalla repressione, dall’altra svalorizza la loro precisa collocazione nello scontro come reparto d’attacco. Se l’intento è, come crediamo, impedire il loro isolamento, questo si può ben fare pur distinguendo le varie componenti.

Tra l’altro ci sembra che ponendo tutto sullo stesso piano si corre viceversa il rischio di esporre inutilmente il movimento solidale alla repressione, collocandolo/assimilandolo ad un livello che non gli è proprio; anche lo slogan “non siamo tutti, mancano i prigionieri” fa parte di questo appiattimento. Nel merito di questo specifico ci sentiamo di fare due considerazioni: la prima è che i prigionieri non mancano affatto, anzi continuano, nell’ambito del carcere imperialista, la lotta rivoluzionaria nella forma della resistenza al carcere stesso e nel rifiuto al capitolazionismo e al liquidazionismo. Secondo, i prigionieri appartenenti ad organizzazioni rivoluzionarie, proprio perché tali, nemmeno prima della loro cattura potevano essere assimilabili principalmente al cosiddetto generico “movimento” di classe essendo in primo luogo membri o promotori d i organizzazioni politiche rivoluzionarie complessive d’attacco.

Insomma, anche qui non va bene appiattire, si toglie parte dell’identità politica e si reca danno a quei MPR che ancora dal carcere tengono fede al progetto rivoluzionario; idem dicasi per tutte quelle volte che si nominano i MPR senza fare riferimento alla loro organizzazione politica di appartenenza o che vengono posti alla stregua della comune popolazione detenuta. E, teniamo a precisare, diciamo questo non perché i MPR vadano considerati una elite, vadano trattati meglio o messi sull’altare, anzi. Ma perché nello scontro di classe hanno rivestito e rivestono un ruolo specifico che non va mai nascosto o dimenticato; agitare i MPR come supplenza della rivoluzione o ridurli a feticcio di essa. Il che porta facilmente a metterli in maniera acritica su un altare. Bisogna invece considerare i MPR come parte attiva dello scontro di classe e tra di essi ci sono storie, linee politiche, modi di essere e di agire diversi e che vanno considerati, non sottaciuti. Ci si deve sempre porre la domanda se quello che fanno o dicono aiuti o meno la ripresa del processo rivoluzionario. E ciò, beninteso, vale per tutti, noi compresi. Non c’è la voce del prigioniero prima di tutto, in virtù della repressione che sta subendo. Prima di tutto vengono le esigenze della rivoluzione; in ultimo, sollecitare un protagonismo dei MPR onde avere materia e sostanza per alimentare il movimento solidale. Beh, qui non abbiamo molto da dire. Ci sembra evidente che il movimento di solidarietà si scontri qui con i suoi limiti ed in principal modo quello già accennato di considerarsi fine a se stesso. Ma su questo torniamo tra poco.

Detto tutto questo ci teniamo a precisare che la responsabilità principale di queste “deviazioni” (se così si possono definire) non è da imputarsi al movimento di solidarietà stesso, ma all’arretratezza e alla debolezza del processo rivoluzionario nel nostro paese, alla mancanza dell’organizzazione rivoluzionaria che sappia valorizzare e incalzare tutte le tendenze positive espresse dal movimento di classe nell’alveo della lotta rivoluzionaria.

E qui ci sentiamo di intervenire, in continuità al nostro contributo politico-organizzativo finalizzato alla risoluzione di questa mancanza. Non tanto con l’intento di darvi concretezza (cosa impossibile, visto dove ci troviamo), piuttosto cercando di arginare e contenere quello che a noi sembra rallentare e inibire la ripresa del processo rivoluzionario, cercando di contribuire ad elevare la coscienza e ad approfondire le questioni poste da tutti quelli che, esprimendo vicinanza e appoggio, intendono così schierarsi nello scontro di classe.

 

È dunque inutile la solidarietà ai militanti prigionieri rivoluzionari?

Alle nostre obiezioni potrebbe sollevarsi questa domanda.

Ebbene la nostra risposta è che ogni espressione positiva proveniente dalla classe e dal movimento di classe che si collochi o cerchi di collocarsi nel campo rivoluzionario non è mai né negativa né inutile. Anzi, può rappresentare un valido strumento di educazione delle masse nel diffondere le idee comuniste, nel collegare le lotte economiche e sociali alla lotta politica ecc. ma, appunto, deve collocarsi precisamente, trovare il suo ruolo e non fare confusione tra piani e livelli, questa sì, dannosa .

Per quanto riguarda la nostra stretta esperienza abbiamo visto quanto utile sia stato tutto il movimento di solidarietà che si è sviluppato fin dai giorni dei nostri arresti. Un movimento che è nato e cresciuto nel mentre prendeva le mosse la crisi economica provocata dall’insolvenza dei mutui subprime e che, in altre forme, prosegue tuttora in un crescendo di tensioni e contrasti tra i vari blocchi imperialisti. Senza dilungarsi troppo sui caratteri di questa crisi, si può tranquillamente affermare che essa sta determinando un vero e proprio salto di qualità nell’attacco alle condizioni di vita e d i lavoro delle masse popolari comune a tutta l’area dei “soliti” centri imperialisti (intendiamo cioè esclusi gli imperialismi emergenti dove assistiamo a diverse dinamiche, i cosiddetti BRIC, per capirci).

Questo perché l’unica soluzione di uscita definitiva dalla crisi per via capitalistica è far riportare il ciclo di accumulazione alla cui base si trova la necessità di estrarre dalla classe operaia quote crescenti di plusvalore in grado di valorizzare le enormi quantità di capitali già accumulati. Il che si traduce nel tornare a far profitti intensificando lo sfruttamento del lavoro vivo.

Anche nel nostro paese questo è l’imperante obiettivo che i principali gruppi imperialisti (FIAT in testa) stanno perseguendo con lo smantellamento pressoché totale di tutte le regole e i limiti allo sfruttamento che il movimento operaio aveva imposto con la lotta nel la sua storia (abbattimento del limite delle 8 ore, attacco ai CCNL, alla legge 300, alla      626, il Collegato lavoro, drastico dimezzamento della pensione, pesante ridimensionamento dell’assistenza ecc.). La tabula rasa di diritti e tutele è la condizione necessaria per continuare a far profitti. E non si danno più i margini materiali su cui hanno potuto crescere le ipotesi riformiste. O è così, o si molla tutto e si va da un’altra parte dove i profitti sono maggiormente garantiti. Questo è il ricatto che la FIAT sta imponendo nei suoi stabilimenti in Italia con la totale complicità di CISL-UIL-UGL e FISMIC e con l’incapacità della FIOM di dare risposte vincenti, poiché impantanata nella sua storica palude riformista e legalitarista.

Va anche tenuto presente che la crisi ha già seminato centinaia di migliaia di licenziamenti, un grosso rimpolpamento dell’esercito industriale di riserva a cui molto difficilmente farà seguito un riassorbimento, in una ipotetica conclusione della crisi che ancora nemmeno si intravede. Tanto che qualche testa d’uovo imperialista ha coniato la definizione “new normal” intendendo con questo dire, senza peli sulla lingua, che da questo arretramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, persino nei paesi più avanzati, non ci sarà ritorno.

Un altro fattore che indica la gravità e la profondità della crisi in atto è che nemmeno l’enorme bacino dell’esercito industriale di riserva costituito dalla forza lavoro immigrata è sufficiente a garantire una sufficiente estrazione di plusvalore agendo sulla concorrenza salariale operaia. E l’auspicato scontro proletariato locale – proletariato immigrato, salvo qualche caso, non si sviluppa nonostante le forti spinte reazionarie dei partiti politici della grande e piccola-media borghesia che puntano da tempo alla mobilitazione reazionaria di massa. Ricorrono invece pesantemente all’utilizzo dei CIE e dei CTP, veri e propri lager disseminati in tutto il territorio nazionale in cui le inumane condizioni detentive servono a schiacciare la testa alle popolazioni immigrate.

Contrariamente ai disegni della borghesia si assiste piuttosto a forme di lotta del proletariato immigrato che raccolgono il sostegno di parti di proletariato italiano (vedi Milano e Brescia) quando addirittura non lottano insieme (cooperative lombarde e fabbriche varie).

Insomma alla borghesia imperialista serve ben altro. Deve scontrarsi frontalmente con la classe operaia centrale. Quella che ha il posto che si pensa fisso, che tramite le lotte si era guadagnata un certo tenore di vita. Quella di Pomigliano e di Mirafiori, per intenderci. Cioè con la parte più organizzata che porta ancora sulle spalle quel che è rimasto della memoria storica del movimento operaio.

Alcuni passi li abbiamo già visti (Pomigliano, formazione di NEWCO per aggirare il CCNL, adesso Mirafiori), il prossimo sembra essere quello di creare un CCNL per il solo settore auto, un distaccamento Federauto di Federmeccanica. Se così fosse, l’intento è evidente: isolare gli operai dell’auto e dell’indotto dagli altri per poi colpirli meglio. Infatti storicamente a questo è servito dividere la classe operaia in decine di categorie, ognuna con il suo CCNL.

D’altronde emblematica è la dichiarazione della Presidente di Confindustria Marcegaglia: “bisogna capire fino a che punto ci si può spingere […] abbiamo iniziato dal 1999 a cambiare le relazioni industriali, ma certo non è possibile cambiare in un giorno 100 anni di storia”.

Vediamo inoltre che, in questo contesto, la gravità della crisi impone alla borghesia di dispiegare un attacco generalizzato che oltre alla classe operaia coinvolge l’intero proletariato e la gran parte delle masse popolari. Senza fare l’intero e sempre più lungo elenco, basta pensare al taglio della spesa pubblica che si traduce in peggioramento delle condizioni del pubblico impiego, in riduzione dell’assistenza sanitaria, in declassamento dell’istruzione. Naturalmente senza toccare le spese militari per la guerra verso le quali invece va dirottata parte delle risorse precedentemente destinate alla spesa sociale.

In particolare il settore scolastico subisce uno specifico attacco con tagli che ne affossano definitivamente ogni residuo ruolo di promozione sociale per le classi subalterne. La scuola di massa deve essere trasformata in un contenitore di potenziali futuri disoccupati – sottoccupati in cui il codice selettivo-meritocratico è esasperato al fine di ottenere coercitivamente la disciplinata rassegnazione. Naturalmente potenziando invece la scuola d’elite per la formazione della classe dirigente come si vede con l’incremento del finanziamento alle scuole private.

In questo contesto scolastico-giovanile si è già espressa una forte risposta di massa che ha evidenziato una radicale opposizione delle fasce più proletarie degli studenti che, sul piano dei contenuti più avanzati (“ci rubano il futuro”, “la vostra crisi non la paghiamo”) è stato capace di cogliere correttamente la portata dello scontro e che ora si sta misurando con le manovre repressive dello stato volte ad annullarla.

E questo con grandi livelli di mobilitazione (centinaia di migliaia) e con un significativo sviluppo internazionale (Francia, Grecia, Inghilterra, Italia).

In sintesi ci troviamo di fronte ad una situazione “Nuova”, ad un cambio di passo nella dinamica dell’attacco della borghesia imperialista e delle conseguenti lotte di difesa. Una situazione in cui il proletariato e la classe operaia avranno bisogno delle loro migliori forze ed energie. Una situazione in cui chiunque intenda inoltrarsi nel campo della lotta rivoluzionaria può trovare terreno fertile per svilupparsi sapendosi dialettizzare correttamente.

Tornando quindi al nostro discorso, crediamo che anche il movimento di solidarietà nato attorno a noi debba registrare questo cambio di passo, cosa che probabilmente ha cominciato a valutare, anche in relazione all’esaurirsi della fase più intensa di scontro datasi con la nostra stagione processuale.

Bisogna andare oltre e ricentrare la propria attività verso la classe in lotta, dialettizzandosi fortemente con essa, avendo dalla propria parte tutto il portato di esperienze di lotta alla repressione e di appoggio a chi ha cercato di concretizzare un percorso rivoluzionario, proprio come soluzione da parte proletaria, della crisi del capitalismo.

 

Alcune precisazioni

Con questo non intendiamo che si supplisca alla mancanza dell’organizzazione rivoluzionaria o al necessario investimento militante sulla prospettiva rivoluzionaria. Lo sviluppo della rivoluzione e delle sue organizzazioni è e rimane nelle responsabilità proprie di chi se ne assume soggettivamente il compito. E non ci sono scappatoie.

A questo compito non possiamo supplire né noi in quanto MPR, né tanto meno chi promuove solidarietà nei nostri confronti né qualsiasi movimento che si collochi sul solo terreno del la difesa degli interessi di classe.

Detto questo, ciò non toglie che si possano sviluppare piani di lavoro parziali che portano acqua al mulino della rivoluzione. Certo, in mancanza del mulino, questi piani parziali possono disperdersi i mille rivoli ed essere più facilmente neutralizzati dal nemico di classe. Ma questa non è affatto una legge.

Tenendo ben presente il piano generale, pur non contribuendovi concretamente, si possono ben svolgere attività parziali.

E a conferma di questo si è visto il peso avuto dal movimento di solidarietà nel contrastare i piani della controrivoluzione che in ogni modo ha cercato di estirpare dalla classe la nostra esperienza, denigrandola e infangandola con le ipotesi più assurde (infiltrazione nella classe operaia, terroristi, gente fuori dal mondo, collusi con la mafia ecc.). E continua a rivelarsi estremamente utile nel rivendicare l’internità al movimento di classe dei MPR e nel tessere una corretta dialettica fra le diverse entità del movimento di classe, contribuendo a contenere l’operazione strategica dello Stato di separazione e isolamento delle istanze rivoluzionarie della classe.

Affermiamo questo in contrapposizione all’idea, presente nelle esperienze rivoluzionarie del nostro paese e anche quindi tra i MPR, che in assenza del piano principale, dell’organizzazione d’attacco, del partito, tutto il resto sia inutile; che prima di fare qualsiasi cosa è indispensabile che tutto sia a posto in un ordine prestabilito da realizzare secondo manuale.

La realtà non si compone di meccanismi ma di contraddizioni che bisogna saper trattare alla luce degli aspetti principali . Ed è indispensabile nell’analisi di queste contraddizioni (la dialettica) discernere le contraddizioni tra noi e il nemico “da quelle in seno al popolo” per dirla con Mao. In queste ultime, in particolare, rientrano quelle tra partito e masse di cui stiamo trattando. Non fare queste distinzioni, sostituire al materialismo dialettico il formalismo meccanicista come metodo di analisi, porta alle assurde affermazioni per cui, a prescindere dall’analisi concreta degli avvenimenti, i movimenti di solidarietà, di resistenza, di lotta in assenza dell’organizzazione rivoluzionaria sono sempre oggetto di manipolazione della controrivoluzione e di conseguenza oggettivamente controrivoluzionari o forieri di opportunismo. Incredibile come, con estrema facilità, si possa confondere l’analisi dei limiti e delle arretratezze evidentemente presenti nel tessuto della classe con l’analisi delle contraddizioni tra la classe e il suo nemico. Così sì, non si fa altro che abbandonare la classe alla sua sorte, lasciandola disarmata di fronte al potere e alle sue strumentazioni di recupero e repressione.

Certo è del tutto corretto cercare di concentrare le energie disponibili sul piano principale dell’attacco, ma è altrettanto errato concepire questo in contrapposizione ai molteplici aspetti parziali, secondari presenti nel movimento di classe, cui appartiene anche il movimento di solidarietà ai MPR.

D’altronde se quest’ultimo esiste (e non solo da noi ma in ogni parte del mondo dove la presenza di processi rivoluzionari produce prigionieri politici) è proprio in virtù dell’esistenza (passata o presente che sia) dell’istanza rivoluzionaria combattente.

Non concepire questa dialettica e il suo sviluppo positivo significa confinare forze proletarie nel buio del fare per fare e del movimentismo inconcludente.

Con quest’ultima precisazione non intendiamo entrare in polemica con altri che la pensano diversamente da noi. Le posizioni sono ben note e riteniamo fuorviante in questa fase aprire un simile dibattito. Il nostro intento è piuttosto porre l’attenzione, come già detto, sul fatto che tra i MPR esistono queste diverse posizioni, discendenti da progetti politici e percorsi organizzativi diversi, proprio perché i MPR ne sono l’espressone concreta, bisogna considerare queste diversità e non appiattirli alla mera dimensione della prigionia politica.

 

 

Conclusioni

Perseguendo l’obiettivo di migliorare la reciproca comprensione delle posizioni del movimento solidale e dei MPR, ci auguriamo che questo scritto fornisca, da parte nostra, tutte le chiarificazioni necessarie. Riassumendo:

– ciò che a noi interessa è in primo luogo la ripresa del movimento rivoluzionario, particolarmente impellente in questa fase di acuta crisi del modo di produzione capitalista in cui la disponibilità alla lotta del proletariato e della classe operaia andrà via via accrescendosi per forza di cose; in questa luce valutiamo tutto il resto e quindi chiediamo di essere considerati in primo luogo come militanti del movimento rivoluzionario del nostro paese e solo in seconda battuta come referenti della solidarietà;

– tra le due cose (essere militanti rivoluzionari e referenti della solidarietà) non esiste opposizione, bensì un rapporto di unità diretto al principale obiettivo della rivoluzione; rifiutiamo invece la solidarietà fine a se stessa, l’appiattimento, l’essere messi sugli altari in quanto prigionieri;

– infine affermiamo e rivendichiamo il ruolo positivo che il movimento di solidarietà ha svolto e svolge non solo nei nostri confronti ma anche nella storia passata e presente del movimento comunista internazionale. Il fatto che quest’ultimo nel nostro paese sia ad un livello arretrato, non autorizza l’avanguardia comunista, quando anche prigioniera, a denigrare le espressioni più genuine e sincere di quella parte del proletariato che simpatizza per la rivoluzione.

Detto questo fateci sapere cosa ne pensate e, sempre disponibili ad ulteriori chiarimenti, vi auguriamo buon lavoro.

 

COLLETTIVO COMUNISTI PRIGIONIERI “L’ AURORA”

 

Gennaio 2011.

Elementi di Bilancio del Processo PC P-M. Documento dei militanti per la costruzione del PC P-M Bortolato Davide, Davanzo Alfredo, Latino Claudio e Sisi Vincenzo e dei militanti comunisti rivoluzionari Gaeta Massimiliano e Toschi Massimiliano

L’udienza del 4 maggio ha costituito il più alto momento della vicenda processuale contro i militanti per la costituzione del PC P-M, con una giornata di significativo impatto politico: la più forte mobilitazione della solidarietà, dentro ed attorno al tribunale, e la lettura della nostra dichiarazione finale in aula.

Questa vicenda, nel suo corso, ha acquisito una certa rilevanza di interesse generale nello scontro di classe. Per quanto il percorso politico organizzativo, colpito dalla repressione, fosse in una fase embrionale, esso (pur con i suoi limiti e difetti) era un passo decisivo nella ritessitura di quell’entità politico – strategica che storicamente si è dimostrata e legittimata in quanto unica, coerente concretizzazione della via rivoluzionaria, e qui nei paesi del centro imperialista. Quell’entità che si è forgiata nel vivo del grande ciclo di lotte dalla fine degli anni ’60, sostenendo una fase di scontro altissimo a cavallo fra i ’70 e gli ’80, ridando corpo e possibilità tangibili alla rivoluzione proletaria. E sul filo di continuità con il Movimento Comunista Internazionale.

È chiaro che avanguardia riconosciuta e portante di tale percorso sono state, nel nostro paese, le B.R. ma negli anni seguenti, di sconfitta tattica e di ondata reazionaria, si è trattato di riprendere criticamente la via tracciata, di evincerne i grandi insegnamenti, l’eredità positiva, liberandola dal peso degli errori. Perciò, come nucleo di militanti postisi sul terreno della ripresa della via rivoluzionaria, abbiamo formulato la centralità della questione del partito del proletariato, nei termini di PC P-M.

La precipitazione della crisi capitalistica, acuendo tutte le contraddizioni, ne rende ancor più evidente la necessità, l’urgenza. Settori di massa si battono con decisione, si radicalizzano, e nelle loro forme di lotta si sviluppa il contenuto dell’antagonismo di classe: operai sequestrano padroni e dirigenti, i giovani affrontano le polizie, i proletari immigrati sfasciano le prigioni-CIE (centri di ritenzione per immigrati), ecc.

In dialettica con questi sviluppi della lotta di classe si situa dunque il nostro processo. Così la nostra espressione di piena solidarietà agli operai in lotta alla FIAT di Pomigliano e alla Thyssen-Krupp di Torino.

Agli inizi del processo, quando potemmo incontrarci le prime volte dopo un anno di sostanziali isolamenti, definimmo le linee di una strategia processuale.

  • In carcere ed in tribunale, la lotta continua. Si tratta di affermare le stesse ragioni della via rivoluzionaria, cui si è contribuito all’esterno, e per cui si viene arrestati. Dunque il carattere principale da affermare è quello di processo politico, entro il generale scontro di classe ed ai fini degli obiettivi rivoluzionari di questa fase, in particolare del percorso di costruzione del partito
  • Questo pur tenendo conto del diverso grado di investimento militante dei compagni, in particolare fra i compagni rivendicanti il percorso politico-organizzativo in questione e quelli militanti entro realtà di movimento e/o di fabbrica. L’obiettivo che ci si era dati era quello di unità nella differenza. Unità fondata sulla comune identità di classe e di appartenenza al campo rivoluzionario.
  • La difesa andava impostata secondo il criterio del “processo di connivenza d’attacco”. Cioè, senza rifiutarlo drasticamente, ci si disponeva ad affermare il primato del politico, la negazione di legittimità alla giustizia borghese, e una battaglia costante lungo il suo svolgimento. Il ruolo degli avvocati andando perciò a subordinarsi a questa impostazione, l’aspetto tecnico-giuridico a quello
  • La solidarietà ed il movimento di classe potevano così trovare ampio spazio per dialettizzarsi con noi, per sviluppare una solidarietà nel suo senso più vero e ciò è reciprocità nel comune interesse di sviluppo delle posizioni rivoluzionarie nel contesto di scontro con la repressione, di affrontamento allo Stato della

In conclusione del processo, possiamo dire di aver tenuto saldi questi presupposti, e di averli realizzati in quanto obbiettivi politici, e questo anche grazie alla riuscita unità nella lotta fra questi vari soggetti.

Particolarmente significativo lo smacco alla strategia della Contro (Digos e magistrati) tesa a creare divisione e disgregazione. Il loro unico risultato è stata la creazione del “pentito” di turno, rivelatosi però molto maldestro ed inefficace. Per contro, la compattezza fra tutti noi è stato notevole, segnata da vari momenti marcanti, dalla solidarizzazione nei momenti di scontro acceso, espulsioni dall’aula, ecc.

Questo ha inciso positivamente pure sulla tattica tenuta dagli avvocati. Relazionandosi alla nostra impostazione politica ed a questa esigenza di non dare adito a differenziazioni di tipo dissociativo, anche gli avvocati hanno trovato una certa base di intesa e di comune battaglia.

Ne è conseguita una difesa globalmente omogenea e coerente con i presupposti politici. Alcuni passaggi delle loro arringhe hanno così partecipato alla nostra iniziativa di stravolgimento (ribaltamento) politico dell’accusa, evidenziando tutto il carattere classista, di ingiustizia e di strumento di repressione controrivoluzionaria dell’ordine giudiziario.

Evidenziando come strategie e strumentazione repressive sono vere e proprie articolazioni, da parte borghese, di uno scontro che tende a trasformarsi in guerra aperta.

A rafforzare il tutto, il notevole apporto di solidarietà del movimento di classe. Questo non era per nulla scontato, visto il clima di terrore preventivo con cui lo Stato cerca di isolare le istanze rivoluzionarie. E invece, la mobilitazione attorno al processo ha ribadito e sviluppato pienamente quello slancio che si era manifestato sin dal giorno degli arresti.

Questa solidarietà si dava sia rispetto alla rivendicazione di internità delle nostre figure al movimento di classe – nostra collocazione negli ambiti proletari di lavoro e di lotta – sia rispetto al riconoscimento di percorso politico-organizzativo. Per quanto la realtà del movimento di classe sia ancora caratterizzata da frammentazione e incapacità a produrre unità e determinazione progettuale-strategica, se ne riconosce la possibilità nei passi concreti fatti da alcuni nuclei militanti. Se ne riconosce la valenza, il potenziale. L’espressione immediata di solidarietà è stata in particolare importante come elemento di forza nel contrasto all’operazione che lo stato cerca sempre di imbastire in questi casi: “non si tratta che di quattro fanatici isolati..” L’intreccio che si dava fra il livello qualitativo di questa solidarietà – e cioè da situazioni specifiche di movimento e dalle fabbriche di provenienza – e l’entità della nostra istanza politica, ha determinato un’espressione di forza, ha permesso di attestarsi su un livello di lotta visibile, sulla linea di affrontamento fra classe e Stato.

Non è cosa di poco conto, poiché ha significato il ribaltamento, in certa misura, del dato di partenza, e cioè di una sconfitta tattica in impulso ad una nuova dinamica. Dinamica sicuramente ridotta e parziale rispetto agli obiettivi progettuali della struttura in formazione, però dinamica significativa che consente l’allargamento di spazio politico, l’innalzamento del dibattito politico. Tant’è che questo dato si è dispiegato chiaramente in questa stagione processuale, vivendo come rappresentazione (pur modesta ed embrionale) di quella tendenza rivoluzionaria che è comunque sentita in ambiti proletari, come esigenza e passaggio inevitabile dalla semplice lotta di classe alla guerra di classe. Tanto più nell’attuale sprofondamento di crisi e guerra imperialista.

A questa dinamica ha contribuito molto anche l’apporto internazionale, che non è stato un semplice fatto testimoniale, episodico. Si è configurato invece come iniziativa costante e sistematica nel tempo. Perché? Perché essa si è generata entro gli ambiti ruotanti attorno alla costruzione del S.R.I. il quale, dalla sua definizione originaria, concepisce il sostegno ai prigionieri rivoluzionari come parte e funzione della più generale battaglia per cui essi sono caduti in carcere e cioè lo sviluppo del processo rivoluzionario. Perciò la priorità è sempre stata per le esperienze relativamente più avanzata e vive, dal punto di vista rivoluzionario. E questo, coordinando e concentrando l’iniziativa dei vari comitati nazionali, attorno quei casi che acquisiscono un valore al di là delle frontiere: fu (ed è) il caso con il movimento rivoluzionario di Turchia e Kurdistan, con Palestina e mondo arabo, con Spagna e Paese Basco, e appunto con il caso nostro.

Quanto questo sia significativo ed importante è evidente sia nella sua dimensione diretta, tangibile, che nella prospettiva che apre: nell’attuale contesto, estendere la valenza di ogni battaglia rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area geo-politica, significa farne veicolo di avanzamento nell’interesse generale internazionale.

Insomma, questo dispiegamento di solidarietà, sul piano locale ed internazionale, è ancor più importante oggi e proprio accentuando il suo carattere di internità, di dialettica con gli sviluppi del movimento di classe e della sua tendenza rivoluzionaria (e non come semplice “soccorso”).

Il fatto che la nostra vicenda sia assurta ad un ruolo emblematico, significativo, rispetto agli scenari del possibile scontro di classe – e questo ben al di là sia dei livelli politico-organizzativi concretizzati che delle capacità soggettive – ha determinato il suo sovraccaricarsi di interesse a valenza, da parte dei due campi.

Sicché, nel campo proletario, ciò è avvenuto rispetto ai livelli di coscienza e maturazione, esistenti o meno. Vale a dire che, talvolta, pur esprimendo solidarietà (sempre rispettabile) lo si è fatto tentando di ricondurre, di ridurre la dimensione strategico-rivoluzionaria ai limiti e ristrettezze della dimensione movimentista.

Infatti, quello che ci ha stupito di più, negativamente, è la diffusa trasversale, tendenza a ridurre in questa vicenda il suo aspetto principale, portante: l’istanza di riorganizzazione e progettualità strategiche, sul terreno politico- militare.

Si è voluto spesso presentare la cosa come semplice ondata repressiva contro il movimento, finendo per di più per rendere principale il dato repressivo.

Questo è sbagliato, e molto.

Benché, da anni, l’involuzione autoritaria, la blindatura preventiva, fino a forme di guerra preventiva da parte statuale, stiano avanzando e si aggravino di anno in anno, possiamo riscontrare che comunque queste politiche si manifestano a livelli diversi. Contro il movimento di classe, nella sua dimensione di massa, viene fatto ricorso alla violenza poliziesca nelle piazze, così come allo squadrismo fascista-razzista; vengono usati fermi di polizia e denunce, perquisizioni e tutta la politica di sgomberi ed espulsioni (centri sociali, case occupate, fabbriche in lotta), fino alla repressione specifica contro i proletari immigrati che assomma al suo carattere di classe pure quello neo-colonialista.

Infine la spada più pesante: l’uso dei reati associativi. Che però, rispetto a questo campo di massa, bisogna dire che (per il momento) è ancora un uso deterrente, risolvendosi in brevissime carcerazioni – come nel caso della rete “Sud ribelle”, o dei sindacalisti SLAICobas, sempre al sud – e certo con effetti intimidatori e paralizzanti. Il massimo peso repressivo (sempre rispetto ai movimenti di massa), con un vero salto di qualità, lo si è avuto come nel caso delle pesanti condanne per il G8-Genova e per gli scontri a Milano – Corso Buenos Aires. Ma proprio perché la repressione colpiva lotte di piazza non pacifiche, anzi vere pratiche di violenza proletaria organizzata. Certo, la repressione è stata vile ed indiscriminata, ma la differenza qualitativa politica c’è.

Tant’è che arriviamo al nocciolo della questione: la repressione che tocca le istanze di lotta e i progetti organizzativi che praticano l’uso delle armi. Che sia nell’area comunista che in quella anarchica. La repressione, qui si dà come parte di vero e proprio scontro, sviluppato ed assunto politicamente. Come parte inevitabile quando si cerchi di trasformare la lotta di classe in vera lotta rivoluzionaria. E questo è un’altra differenza qualitativa, politica, fondamentale.

Viceversa, nella visione riduttiva, la repressione appare quasi come unico attore a fronte di un informe movimento. E mancando una chiara visione del piano di tendenziale lotta rivoluzionaria, e la sua conseguente assunzione, ne discende un’attitudine che potremmo definire vittimista. Perno ne è la convinzione che si venga attaccati “per le proprie idee, per la propria identità”. Ciò che, oggi in Italia, all’attuale livello delle contraddizioni, non è vero ed è sfalsante politicamente. Infatti la questione dell’identità politica, proprio perché non è meramente “idealista”, concerne la prassi. È questa a qualificare veramente l’identità. È questa che è stata attaccata nel caso nostro, e non la generica identità di militanti di classe.

Ed è per questo, per contro, che migliaia di onesti e combattivi militanti di classe, oggi, non vengono arrestati (per non parlare dei ciarlatani di sedicenti partiti m-l-m, o altri “rivoluzionari” inconseguenti).

Sicuramente un domani, quando le forze rivoluzionarie ed il processo rivoluzionario si svilupperanno, allora la repressione si estenderà e toccherà anche solo il “reato d’opinione”, toccherà gli ambiti di massa in modo indiscriminato (come avvenne nella fase acuta di scontro dei primi anni ’80). Ma, anche in questo caso, motivo scatenante ne è l’esistenza dell’istanza rivoluzionaria, dello sviluppo del processo rivoluzionario. E così è oggi, pur nelle proporzioni de la situazione attuale, di sviluppo embrionale delle contraddizioni. Presentare le cose come repressione delle idee, dell’identità politica, significa sostenere qualcosa di non credibile politicamente e, peggio, svalutare, eludere l’istanza rivoluzionaria. Tant’è che l’attitudine vittimista si riassume poi in una difesa del tipo “non è successo nulla, non hanno fatto nulla.”

Noi abbiamo discusso, riflettuto sul perché emerga diffusamente questa attitudine. In effetti, ci sembra questione di rilievo poiché essa è sintomo, risultato dei livelli attuali del movimento e dei nodi politico-ideologici da affrontare.

Come si può superare la situazione di arretratezza soggettiva di fronte alle grandi possibilità oggettive offerte dalla crisi capitalistica?

Come superare la situazione di difensiva permanente – a fronte di attacchi incessanti su tutti i fronti – e riuscire a ricomporre le fila proletarie su una prospettiva unificante, e unificante perché concreto percorso (strategia) verso la realizzazione degli obiettivi di trasformazione sociale?

Come superare il senso di impotenza, inefficacia, o meglio il dislivello dei piani d’azione con cui il sistema, blindato, riesce a tenere a distanza i movimenti, a confinarli nella marginalità?

Come superare l’uso disfattista degli esiti delle Rivoluzioni del Novecento, finalizzato ad impedire, bloccare ogni seria progettualità di “mondo nuovo”?

Qui le risposte non possono che essere sul piano della progettualità, di un’ipotesi politico organizzativa che assuma responsabilità e rischi del caso. Il tutto concretizzandosi in una prassi.

Ora, questo è esattamente il senso del nostro tentativo, del nostro inizio di un percorso politico-organizzativo definito come “costruzione del PCP-M”. Un percorso che riesca a riannodare i fili che raccogliamo dal grande ciclo ‘70/’80, operandone una sintesi adeguata in superamento di limiti ed errori.

Sintesi che fa propria soprattutto l’esigenza di concretizzare la strategia rivoluzionaria, tramite la costituzione di un Partito in grado di sostenere un processo rivoluzionario di lunga durata, e questi come unico sbocco positivo alle tante istanze di lotta e trasformazione sociale.

Solo la rottura rivoluzionaria ed il dispiegamento di un percorso di scontro politico-militare può dare sbocco e prospettiva a queste istanze, può aprire la possibilità dell’alternativa sociale; viceversa non solo impossibile, ma destinata ad essere stritolata dalla involuzione autoritaria e militarista del sistema capitalista (che fa a pezzi persino le illusioni riformiste della “sinistra borghese”).

Per quanto il movimento di classe sia composto di livelli e situazioni diverse, per coloro che si pongono sul piano della prospettiva rivoluzionaria può e deve esistere unità tendenziale, politica ed ideologica, con le punte più avanzate che pongono la suddetta questione di strategia e prassi. Solo in questo modo si crea lo spazio politico necessario per riuscire ad articolare il lavoro in seno alla classe, anche sui livelli più minuti. Cioè, solo in questo modo si può far vivere un rapporto dialettico fra le varie istanze.

Viceversa si finisce nell’arretramento: ci si appiattisce sui livelli di massa (invece di farli evolvere); ci si perde in impostazioni velleitarie ed inconseguenti (perché non si dice e non si pratica il come affrontare l’imperialismo e la crisi capitalistica); si arretra di fronte alla repressione in attitudine vittimista e de-politicizzata; ecc.

Certo, oggi l’esercizio è difficile, mancando il polo rivoluzionario costituito, di questa dialettica. Mancando cioè, se non il Partito quanto meno un’organizzazione politico-militare che sappia “agire da partito”. Però questo è il lavoro, questa è l’impostazione. L’articolazione nel lavoro di massa, nelle situazioni di base, nei movimenti, deve orientarsi al comune obbiettivo di avviare, costruire la via rivoluzionaria. Ciò che chiamiamo “Unità nella lotta”.

Le attitudini, le impostazioni contraddittorie a questa comune finalità e che alimentano opportunismo e incoerenza, vanno criticate e superate. Ciò che chiamiamo “Lotta nell’unità”.

 

Milano – maggio 2009

 

I militanti per la costruzione del PCPM

Bortolato Davide

Davanzo Alfredo

Latino Claudio

Sisi Vincenzo

 

I militanti comunisti rivoluzionari

Gaeta Massimiliano

Toschi Massimiliano

Intervento fatto in aula il 27 maggio dal compagno Claudio Latino a nome dei compagni Alfredo Davanzo, Vincenzo Sisi, Davide Bortolato del Collettivo Comunisti Prigionieri “L’Aurora” e del militante comunista prigioniero Massimiliano Toschi

Presentazione verbale del documento allegato agli atti del processo d’Appello come dichiarazione finale.

– La nostra presa di posizione collettiva è espressa nel documento che oggi alleghiamo agli atti, qui mi limiterò a presentarlo e a farne una rapida sintesi.

– Innanzitutto alcune parole sull’uso fatto dei nostri documenti dalla Corte di Primo Grado: è un uso mistificatorio. In perfetto stile inquisitorio.

Si è voluto considerare la nostra presa di posizione collettiva come la prova regina della confessione.

Si vede proprio che l’Inquisizione ha lasciato il segno nel modo di fare giustizia di questo stato.

Il bisogno di confessione è grande da parte delle Corti giudiziarie della nostra classe dominante.

E in questo processo questo bisogno si è fatto ancora più grande a causa della debolezza politica dell’accusa.

Solo questa debolezza, infatti, spiega la necessità di trasformare, con un’operazione da prestigiatori, in confessione un nostro documento politico.

È la stessa debolezza che spiega la necessità di sostituire tre giudici popolari alcuni giorni prima del ritiro in Camera di Consiglio. E in aggiunta c’è stata anche la provocazione di considerare tra i firmatari del nostro documento anche chi non lo ha firmato affatto come il compagno Bruno Ghirardi.

– Vogliamo ribadire che non abbiamo niente da confessare alle Corti giudiziarie della classe dominante. Il carattere di classe della loro giustizia è chiarito fino in fondo dal fatto che i padroni responsabili coscienti di migliaia di morti di operai per cancro, cosa riconosciuta anche dai “processi Eternit”, Pirelli e Fincantieri, non si faranno nemmeno un giorno di galera. Per non parlare delle stragi. Con relativi depistaggi e archiviazioni.

– I nostri documenti, le nostre espressioni politiche, sono assunzioni di responsabilità e dichiarazioni di solidarietà nei confronti della nostra classe. La classe il cui sfruttamento mantiene anche la sovrastruttura giudiziaria di cui questo processo è una manifestazione. Solo alla classe degli sfruttati e degli oppressi dobbiamo dare spiegazione del nostro essere qui come imputati di fronte alla giustizia borghese. E vogliamo ancora una volta utilizzare questa scomoda posizione per ribadire il nostro rapporto di unità con la classe operaia e ringraziare della solidarietà che ci è stata espressa nel corso del processo. Ringraziamento che non potrà mai compensare la grande onda di calore umano che è riuscita a raggiungerci superando le mura delle galere e le grate delle gabbie.

– Come con le altre prese di posizione anche con questa cerchiamo di portare il nostro modesto contributo nella ricerca della verità. Non si tratta però della verità giudiziaria della giustizia borghese, che ci ha già condannato e ci condannerà, ma della verità rivoluzionaria della classe che lotta per la fine del sistema dello sfruttamento e dell’oppressione, per una società senza distinzione di classe, basata non sull’individualismo ma sull’uguaglianza, finalizzata non al profitto individuale ma al benessere collettivo.

– In questo senso interveniamo in questo processo per ribadire ancora una volta il suo carattere politico. Questo processo è un momento dell’offensiva con cui la borghesia cerca di impedire lo sviluppo della lotta del proletariato.

Lo fa con i manganelli della celere contro i lavoratori, i giovani e le popolazioni in lotta e lo fa con la magistratura e i processi che colpiscono avanguardie e soggettività che si pongono sul piano strategico – organizzativo per strappare il potere alla classe degli sfruttatori.

Tutte queste sono contromisure che la borghesia prende per far fronte alla crisi del suo sistema. Una crisi che come si è visto negli ultimi anni è tra le più gravi della storia del capitalismo.

– in considerazione di questa situazione abbiamo scelto di introdurre il nostro documento con una frase di Carl Marx: “A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà dentro ai quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra una epoca di rivoluzione sociale.”.

– Abbiamo fatto questa citazione per due motivi. Primo perché vogliamo rimarcare che la nostra storia non è assolutamente descritta nel racconto che ne fa chi ci accusa. E’ una storia che non è solo parte della storia e del movimento delle organizzazioni rivoluzionarie originatesi dal ’68 studentesco e dal ’69 operaio che a partire dagli anni ’70 hanno riaperto l’opzione della rivoluzione proletaria ponendo la questione del potere. Ci interessa, infatti, rivendicare che la nostra piccola storia è una goccia del grande fiume del movimento comunista internazionale che da oltre 150 anni rappresenta l’unica vera possibilità di superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo fondamento del capitalismo.

– Il secondo motivo è che la frase di Marx è una lucida descrizione della situazione attuale di crisi del capitalismo, crisi che è precipitata in questi ultimi anni.

Anni di crisi in cui i volumi di ricchezza bruciati sono stati enormi. La saturazione dei mercati ormai rende impossibile un investimento produttivo che valorizzi i capitali in eccesso. È crisi di sovrapproduzione e l’unica via di uscita è la distruzione di forze produttive di alcuni a vantaggio di altri tra i gruppi imperialisti. In un contesto in cui le distruzioni dell’ambiente sono sempre più devastanti.

-sul fronte esterno si creano nuovi squilibri tra vecchie potenze economiche declinanti e nuove potenze emergenti e si approfondiscono tutte le contraddizioni. Si rafforza la tendenza alla guerra interimperialista e si sviluppano guerre per accaparrarsi risorse e posizioni strategiche come quelle che massacrano il popolo afgano e iracheno.

– Sul fronte interno ance nel nostro paese la crisi oltre che economica diventa anche politica e istituzionale. La torta da spartirsi diventa sempre più piccola e come conseguenza si assiste ad uno scontro sempre più acuto tra le diverse lobby affaristiche collegate alle diverse frazioni della borghesia e ai loro partiti. Uno scontro in cui si scoprono gli altarini: la corruzione, l’immoralità e la putrefazione del sistema dei valori della borghesia.

– Anche se sempre più divisi nella lotta per la spartizione del potere e della ricchezza quello su cui si trovano sempre d’accordo banchieri, industriali e governanti è far pagare la crisi ai lavoratori e alle masse popolari. Coltivano l’illusione di poter superare questa crisi intensificando lo sfruttamento, spremendo più sudore e succhiando più sangue, estraendo cioè più plusvalore dal lavoro e per questo riducendo ulteriormente i salari reali.

– In realtà quello del trasferimento sempre maggiore di ricchezza prodotta dai settori popolari a quelli padronali è un processo in atto da tempo e che con l’acuirsi della crisi si intensifica. Ma tutto questo travaso fatto di riduzione del cosiddetto costo del lavoro, licenziamenti, tagli e privatizzazioni di sanità, scuola, previdenza e assistenza che ha portato alla miseria interi strati proletari non è servito ad impedire l’inevitabilità della crisi.

– Ha creato però una situazione sempre più insostenibile che porta ad un aumento delle lotte operaie e delle masse popolari. Mobilitarsi in prima persona per la difesa dei propri interessi primari diventa una scelta obbligata. E sempre più difficile diventa il lavoro degli imbonitori, dei professionisti della resa agli interessi dei padroni.

– Queste lotte sono caratterizzate dalla difficile ricerca di una soluzione di parte proletaria del problema. Esprimono contenuti come: “La vostra crisi non la paghiamo”, “A lavoro uguale salario uguale”, “Contro la privatizzazione e mercificazione dei beni comuni” (acqua), “Lavorare meno, lavorare tutti” che contrastano i piani del supersfruttamento. Ma come anche la rivolta degli immigrati a Rosarno ci ha mostrato la realtà dell’oppressione capitalistica è un blocco di potere dispotico e violento che dagli avvoltoi della finanza mondiale scende fino ai negrieri-caporali.

– Questo blocco di poter si può affrontare solo imparando a coniugare resistenza e attacco. Un esempio in questo senso lo troviamo nella situazione attuale in Grecia dove parallelamente alla mobilitazione di massa contro l’affamamento e la miseria si dà la ripresa della lotta armata per il potere. Il movimento di classe che si rifiuta di pagare i costi insopportabili della crisi del sistema entra in dialettica con l’istanza rivoluzionaria trovando così una prospettiva politica.

– A noi preme ribadire ancora una volta che il polo principale di questa necessaria dialettica è l’istanza rivoluzionaria. Il piano di partito che si pone sul terreno di scontro per il potere. È qui che il lavoro dei comunisti trova il suo sbocco come la storia del movimento comunista internazionale ha ampiamente dimostrato.

Solo con il partito il movimento delle masse può conquistarsi una strategia rivoluzionaria e rovesciare l’oppressione attraverso una guerra popolare prolungata.

– Naturalmente se, come noi crediamo, questo sviluppo è storicamente inevitabile, ed è anche accelerato dalla crisi in corso, nessun processo e nessuna sanzione giudiziaria potrà impedirlo.

 

– La crisi produce guerra e miseria: sostenere la resistenza, organizzare l’attacco.

– Costruiamo il partito Comunista-P.M. della classe operaia e del proletariato.

– Proletari di tutto il mondo uniamoci: morte all’imperialismo, libertà ai popoli.

Dal processo “Aviano”. Dichiarazione dei militanti Br-Pcc Francesco Aiosa e Ario Pizzarelli e dichiarazione di Paolo Dorigo presentate al processo di Udine relativo all’attacco alla base USA di Aviano e allegate agli atti.

Premessa

Rispetto al testo del 5.6.94 pubblicato da un gruppo di militanti prigionieri della nostra Organizzazione che ritrattano la loro rivendicazione dell’azione di Aviano dobbiamo riaffermare che le Brigate Rosse hanno un’identità politica, strategica e programmatica, chiarissima lungo una storia di ventiquattro anni durante i quali la direzione è sempre stata nell’Organizzazione in attività. Lì rimane.

La logica e la procedura adottate da questi nostri compagni sono gravi e sconcertanti. Le spieghiamo con la confusione e l’oscillante disorientamento determinati da anni di assenza di attività politico-militare e quindi di direzione politica di Organizzazione e con la conseguente ignoranza dei problemi odierni dello scontro. La fase di ricostruzione della guerriglia nell’attività è estremamente complessa e difficile per tutti e non deve stupire troppo che ciò possa anche riflettersi a suo modo, in maniera più distorta in carcere.

Come militanti delle BR-PCC abbiamo discusso e deciso la gestione di questo processo nel metodo degli ultimi vent’anni: sulla linea politica dell’Organizzazione in attività – consapevoli che, come ogni militante sa bene, non spetta ai prigionieri sindacare l’operato dell’Organizzazione bensì sostenerlo – assieme ai nostri compagni coi quali in carcere siamo organizzati e nel carcere in cui siamo rinchiusi. In questo stesso corretto ambito abbiamo ora ritenuto obbligata questa nostra nota e, insieme abbiamo ritenuto doveroso fare ciò che è possibile per evitare contrapposizioni che siamo in grado di valutare come sicuramente dannose per l’insieme del movimento rivoluzionario. Nelle contraddizioni non antagoniste e soprattutto nelle questioni interne d’Organizzazione rifiutiamo per principio, per metodo e per stile di lavoro di alimentare logiche di schieramento.

Non intendiamo perciò discutere pubblicamente. Le BR non svolgono dibattiti a cielo aperto, che producono solo divisione e confusione: solo nel processo prassi-teoria-prassi si produce chiarezza, e così unità.

L’intero contributo teorico-pratico dato dalle Brigate Rosse nel processo rivoluzionario in Italia è un patrimonio acquisito, è la base politico-militare su cui pur nelle difficoltà la guerriglia in attività, le BR-PCC, si stanno confrontando contro lo stato e l’imperialismo nel lavoro di rimettere in moto la continuità della direzione rivoluzionaria del proletariato. È all’Organizzazione in attività che anche noi, in quanto prigionieri, ci discipliniamo, come ogni militante prigioniero è tenuto a fare.

La conduzione della fase di ricostruzione è un processo nient’affatto lineare, che oltre tutto è dovuto ripartire sui colpi militari subiti dalla nostra Organizzazione nell’88-89 e ha la necessità di costruire nei tempi dovuti il suo consolidamento, che non può che prodursi sulle proprie gambe nel vivo dello scontro.

 

Dichiarazione Corte di Assise di Udine 6 giugno 1994.

Il 2 settembre 1993 un nucleo armato della nostra organizzazione ha attaccato il personale militare americano della base aerea Usa di Aviano. Lo rivendichiamo ancora una volta, e in quest’aula, come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

Lo scopo era di infliggere le maggiori perdite e causare il maggior danno possibile al nemico: indipendentemente dall’esito concreto conseguito dalla nostra operazione e dalle circostanze particolari che ne hanno condizionato il risultato, la scelta dell’obiettivo e delle modalità dell’attacco è difesa da una valutazione politica del tutto consapevole del livello di scontro da praticare per rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria, nella logica offensiva della guerriglia e nella linea delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC. Il bilancio sulla conduzione e sulla conclusione dell’operazione di Aviano ha di sicuro suggerito alla nostra organizzazione utili motivi di riflessione e fornito nuovi elementi critici di esperienza. Nessun insegnamento andrà sprecato, in futuro certamente faremo meglio.

In ogni caso la nostra azione contro uno dei maggiori centri logistici e operativi della struttura militare americana in Europa meridionale e nell’area mediterranea ha dimostrato ancora una volta che attaccare le forze imperialiste non solo è necessario ma è possibile anche in condizioni difficili coma ha detto un grande guerrigliero: «Bisogna fare la guerra in tutti i posti dove la fa il nemico, nella sua casa, nei luoghi dove si diverte e si riposa… Bisogna impedire che il nemico abbia anche un solo minuto di tranquillità, un minuto di tregua fuori dalle sue basi e anche all’interno di queste…». (Che Guevara)

Per la linea delle Brigate Rosse il piano in cui si attesta, nel vivo dell’azione, il rapporto fra rivoluzione e controrivoluzione e si fissa il conseguente impegno politico-militare dell’avanguardia combattente, non deriva dai rapporti di forza misurati sulla specificità delle situazioni locali, ma sintetizza nella pratica dell’attacco la contraddizione principale, imperialismo/antimperialismo. Per questo nonostante l’acuirsi della crisi nella ex Jugoslavia e l’avvio dell’operazione “Deni Flight” ponessero la base di Aviano in prima linea, riaffermandone il ruolo e l’importanza come braccio operativo della strategia Nato di intervento nei Balcani e sottolineandone la funzione già svolta in passato di indispensabile ponte logistico per le “proiezioni di potenza” americane nell’area mediterranea e mediorientale, è stato possibile colpire dove volevamo anche se non come volevamo. A fronte della determinazione della guerriglia, poco contano i vari gradi di allarme “bravo” o “charlie”, le tanto propagandate “eccezionali misure di sicurezza”, l’estendersi e l’approfondirsi di un controllo poliziesco già capillare in una delle regioni storicamente più militarizzate d’Europa.

Il 2 settembre ’93 le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente lo hanno dimostrato.

Nella propria impostazione strategica le BR hanno definito fin dalle origini l’indirizzo antimperialista ed internazionalista del processo rivoluzionario entro cui collocare lo sviluppo stesso della lotta armata per la conquista del potere politico da parte del proletariato in questo paese. Già nella risoluzione della direzione strategica del 1975 l’organizzazione afferma che: «…la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è anche guerra di liberazione antimperialista, perché l’emancipazione di un popolo da un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono vie nazionali al comunismo perché non esiste la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista».

A partire da questi presupposti politici di fondo l’attività più che ventennale delle Brigate Rosse ha individuato nella Nato il vettore principale delle politiche centrali imperialiste. Con la cattura del generale Dozier e in seguito con l’azione contro Hunt e fino all’azione Conti, l’analisi si è concretizzata in pratica di combattimento, seguendo una linea che ha saputo svilupparsi fase per fase costruendo le basi per la formazione del Fronte Combattente Antimperialista.

Colpire la Nato attaccando Aviano per noi non significa “smascherare” l’aggressività guerrafondaia occidentale o “denunciare” il pericolo di una intensificazione dell’intervento imperialista in questa o quell’area di crisi. Non è stato un gesto di propaganda armata. Il rombo quotidiano degli F 16 o degli A-10 in fase di decollo per una missione che per la prima volta dalla sua istituzione nel ’49 impegna direttamente la Nato coinvolgendola in uno scenario bellico, è la più efficace propaganda che gli americani stessi possano fare all’autentico carattere “di pace” o “umanitario” delle loro iniziative militari e, insieme, ai miserabili vantaggi che la loro presenza in Friuli comporta per la situazione economica locale. Il proletariato e i popoli della periferia del sistema non hanno il problema di “smascherare” le grottesche costruzioni ideologiche che da sempre mistificano le aggressioni imperialiste, perché hanno provato e provano sulla propria pelle cosa significhi il volo degli aerei a stelle e strisce, dalla Libia alla Somalia, dal Libano all’Irak, da Grenada a Panama e ovunque gli Usa e i loro alleati occidentali hanno seminato morte e distruzione in nome dei diritti dell’uomo.

L’azione di Aviano, quindi, non è stata simbolica, ma ha rappresentato l’applicazione di cosa significhi per le BR-PCC considerare l’attacco agli Usa, l’attacco alla Nato, come il concreto e vitale punto di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli già bestialmente sottoposti all’aggressione imperialista in ogni parte del mondo. In questo senso la nostra attività e la decisione di usare le armi il 2 settembre 93 si inserisce a pieno titolo in questa fase di riorganizzazione delle forze rivoluzionarie attorno alle basi programmatiche e dell’impianto strategico delle BR-PCC che pone le condizioni per il rilancio della lotta armata e del processo rivoluzionario in questo paese. A questo proposito collochiamo l’iniziativa dei compagni dei nuclei comunisti combattenti condotta a Roma il 10-1-94 contro la sede del Nato Defence College, struttura di formazione di quadri politico-militari da inserire in ruoli dirigenziali, come un momento qualificante nel percorso di ripresa di una pratica rivoluzionaria che ha dimostrato quanto l’incisività strategica della proposta politica della nostra organizzazione trovi riscontro in quelle avanguardie combattenti consapevoli di misurarsi con gli impegnativi compiti posti all’ordine del giorno dalle stesse caratteristiche dello scontro attuale.

Infine, per ciò che riguarda questo processo, da quanto abbiamo sostenuto risulta chiaramente che il nostro comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia e quindi non ha bisogno di alcuna giustificazione davanti a un tribunale dello stato. Della nostra condotta politica e pratica rispondiamo soltanto alla nostra organizzazione: le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

L’arrogante certezza che la fine del bipolarismo consegnasse nelle sole mani della casa bianca il governo del concludersi di un secolo di straordinari sconvolgimenti economici e sociali, di guerre e rivoluzioni, sta tramontando proprio nel momento della massima proiezione estera della supremazia bellica di Washington.

Al di là di ogni apparenza è proprio l’indebolimento tendenziale della base economica dei grandi trust monopolistici americani nei confronti del processo di formazione degli altri poli imperialisti a far privilegiare il piano strettamente militare come terreno su cui riaffermare saldamente fra gli alleati una indiscutibile superiorità USA. In questo senso non esiste una discontinuità sostanziale fra le linee strategiche di gestione della transizione al dopo “guerra fredda”, impostate con l’attacco all’Irak e sfociate nella tesi di Bush sul “nuovo ordine mondiale” a egemonia americana, e l’evoluzione degli indirizzi di politica estera dell’amministrazione democratica.

L’aggressione all’Irak è stata l’ultima guerra in cui l’interesse generale dell’imperialismo a ribadire la subordinazione di un paese della periferia poteva ancora identificarsi con lo specifico interesse Usa al controllo di un’area strategica e, nel contempo, la prima guerra in cui la ricerca da parte americana della copertura di una coalizione internazionale tramite il paravento Onu era finalizzata all’utilizzo dello strumento militare come metro di misura della propria leadership nell’ambito delle relazioni interimperialiste. Fatte le debite proporzioni, e in un altro contesto, la riproposizione di uno schema analogo in Somalia chiarisce quanto la strada dell’uso dell’interesse generale dell’imperialismo, come collante politico di una coalizione animata da esigenze concorrenziali, sia ormai sempre meno producente e praticabile. L’impostazione della operazione “restore hope” voluta dai repubblicani e la sua conclusione malamente gestita dai democratici, non rimandano tanto alla differenza fra Bush e Clinton nel governo della prima fase di “unipolarismo”, quanto al grado di divaricazione fra reali interessi specifici degli stati imperialisti già raggiunto nel breve periodo trascorso dalla guerra del golfo e rispecchiato dall’attuale stallo dell’intervento occidentale nella crisi della ex Jugoslavia. Le oscillazioni della politica estera ufficiale americana sono il riflesso di questa situazione. La casa bianca si muove fra la diretta assunzione di un ruolo di gendarme dell’ordine mondiale e una linea in cui è l’Onu, tramite le sue “missioni umanitarie”, che consente agli Usa di conseguire i propri obiettivi senza risultare direttamente impegnati in ogni congiuntura. Viene anche lasciata aperta un’ipotesi che abbandona la proposta di costruzione di una forza armata stabile Onu e rivaluta la Nato attraverso l’approfondimento del rapporto bilaterale con i maggiori stati imperialisti come miglior veicolo del riconoscimento della supremazia americana. In ogni caso alla favola del presidente buono, disponibile a liquidare l’eredità di Reagan e di Bush, ma prigioniero della logica aggressiva del complesso militare-industriale, può dar credito solo il cretinismo clintoniano di una certa sinistra della borghesia europea, PDS orgogliosamente in testa.

 

La realtà è che i vari gruppi dirigenti, le frazioni di borghesia, gli stati, si stanno muovendo conseguentemente ad una situazione segnata nel profondo dal generalizzarsi di una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitali che da vent’anni investe il sistema imperialista, crisi che è il fattore dominante di questa fase e si traduce oggi nella grave recessione in cui si trovano coinvolti, se pur in diversa misura, tutti gli stati imperialisti.

La tendenza alla guerra come sbocco storicamente inevitabile delle contraddizioni innescate dal carattere strutturale della crisi capitalistica non deriva dalla pianificazione delle politiche aggressive dell’imperialismo ma le presuppone. Il prodotto di queste strategie poi, e come sempre, si verifica sul campo, e ciò nell’epoca dell’imperialismo significa la distruzione dei capitali sovrapprodotti, di merci e di forza lavoro eccedente, ovvero fame, morte e devastazione per milioni di persone: la trasformazione dei conflitti locali in guerre regionali e poi in guerre più estese nella periferia ed ora anche in Europa è la forma con cui si sta già dispiegando la sostanza della tendenza alla guerra.

Il riarmo reaganiano che ha trainato l’illusoria e breve ripresa economica della metà anni ’80 come estrema misura controtendenziale per arginare l’incedere della crisi è riuscita ad accelerare il collasso dell’est, incapace di reggerne le conseguenze anche a causa del grado di integrazione già conseguito nel mercato internazionale. Dall’89 al ’91 si è innescato un processo che, attraverso le crisi interne dei paesi dell’Europa orientale, lo scioglimento del Comecon e del patto di Varsavia, è sfociato nella dissoluzione della stessa Unione Sovietica, con la presa del potere politico da parte di formazioni che esprimono e perseguono organicamente interessi controrivoluzionari ed esigenze borghesi. Le conseguenze di questa realtà sono evidenti. Il quadro strategico internazionale caratterizzato dall’assetto bipolare della contraddizione storica est/ovest si è trasformato radicalmente con ovvie ripercussioni sia nella periferia, sia nel centro del sistema imperialista, specie in Europa. La fine della “guerra fredda” interagisce così con l’aggravarsi delle ragioni strutturali della crisi ed è proprio nell’estendersi e generalizzarsi delle sue conseguenze sociali e politiche in ogni angolo del mondo che la maturazione storica della necessità di rottura del sistema imperialista si traduce nella possibilità di porre con rinnovata forza all’ordine del giorno la costruzione dello sbocco rivoluzionario.

Oggi il “trionfo sul comunismo” può rovesciarsi dialetticamente nel suo contrario. È una possibilità che non cerca di riprendere le mosse dai cieli a temporali dell’ideologia, ma che riaffiora concretamente dalle stesse linee di frattura del precedente equilibrio internazionale e si afferma in uno scenario sempre più instabile e disordinato, lacerato da dinamiche di conflitto che coinvolgono masse enormi di uomini e di donne, ipotecano la sopravvivenza di intere aree geografiche, cancellano e ridisegnano confini, provocano flussi migratori inarrestabili, sconvolgono e rimescolano assetti sociali, culture e tradizioni. Le prospettive di lotta e le grandi potenzialità rivoluzionarie, che scaturiscono dalla natura e dalla portata delle cause materiali alla base della nuova situazione, proprio perché fanno definire strategicamente favorevole il quadro attuale, impongono ai comunisti il massimo impegno nel promuovere quell’ineludibile riadeguamento alle condizioni dure e complesse dello scontro odierno che trova il suo primo passo nella comprensione delle direttrici che caratterizzano questo stadio della crisi del modo di produzione capitalistico contemporaneo, l’imperialismo.

Per quasi mezzo secolo gli stati imperialisti hanno riconosciuto sostanzialmente la supremazia della super potenza americana e il suo ruolo nella difesa dell’interesse generale del blocco occidentale, da intendersi non come sommatoria meccanica di interessi specifici e parziali, ma come convergenza di esigenze ricomponibili in un contesto tendenzialmente unitario in quanto storicamente determinato dalla stessa definizione delle linee economiche e politiche di superamento della crisi postbellica. A differenza della prima guerra mondiale imperialista, la conclusione della seconda vede l’affermarsi di una sola vera potenza egemone, realmente vincitrice. Si innesca così un processo che va diversificandosi dalla precedente dinamica del mondo capitalistico nella sua fase imperialista. Gli Usa che grazie allo sforzo bellico avevano enormemente accelerato lo sviluppo delle forze produttive dovevano ricostruire un’area di mercato adeguata all’assorbimento delle ingenti masse di capitale accumulato. Il piano Marshall rispondendo a questa vitale esigenza americana determina anche le premesse strutturali della futura coesione del campo occidentale; anzi crea il campo occidentale inserendovi da subito le nazioni fasciste sconfitte. Dato da allora quello specifico rafforzamento della tendenza all’internazionalizzazione dei mercati e dei capitali che sul piano mondiale renderà presto obsolete le vecchie forme di dominio degli imperi coloniali ridisegnando le relazioni fra centro e periferia e sul piano “atlantico”, dopo la ricostruzione e la conseguente espansione delle economie europee, sfocerà nella ricerca di progressive ridefinizioni del rapporto di integrazione/concorrenza fra i diversi paesi. Un rapporto che si preciserà nelle tappe successive della connotazione di un interesse generale europeo, formalizzandosi nella creazione di istituzioni e organismi sovranazionali sempre più complessi, allargati e articolati, dalla CECA alla UE del trattato di Maastricht.

Questo processo, lento e intervallato da frequenti battute d’arresto, è potuto avviarsi solo all’interno di una solida cornice politico-militare e diplomatica, del tutto diversa dalle intese o alleanze prebelliche: il patto atlantico nasce infatti con la duplice funzione di fronteggiare l’espansione del campo socialista congelando gli equilibri di Yalta (la dottrina Truman del “containment”) e di stabilizzazione interna in chiave anticomunista e controrivoluzionaria del rapporto classe/stato cercando di fissare i limiti entro i quali integrare nel quadro democratico l’espressione politica mediata e “compatibilizzata” della spinta dal basso delle esigenze proletarie. Una necessità, quest’ultima, particolarmente sentita dalla borghesia di quei paesi dove le masse operaie vedevano nell’Urss un forte punto di riferimento ideologico e nella ricostruzione dell’Europa orientale un concreto esempio di come il piano Marshall non fosse l’unica strada per uscire dalla devastazione provocata dalla guerra. L’istituzione della Nato, mentre segna la piena affermazione della contraddizione est/ovest, rafforza a sua volta le ragioni della coesione rispetto a quelle della divaricazione, alimentando ulteriormente la spinta oggettiva verso la stretta interdipendenza economica dell’occidente. Per un lungo periodo, con qualche eccezione significativa (Suez, momento di punta del gollismo, ecc.) che misura la distanza di questa realtà da quella delle relazioni interimperialiste fra le due guerre mondiali, i contrasti fra le medie potenze verranno quindi incanalati in ambiti politico-diplomatici che ricomporranno le latenti spinte centrifughe in un interesse generale europeo, armonizzandolo con l’esigenza degli Usa a ribadire, congiuntura dopo congiuntura, la propria supremazia nella gestione dell’equilibrio bipolare. In questo senso l’interesse generale del campo occidentale si riassume nel riconoscimento consensuale della leadership americana e si articola gerarchicamente non solo in base al peso economico effettivo dei vari anelli della catena imperialista, ma anche secondo la loro specifica collocazione geopolitica lungo l’asse della contraddizione principale, la linea di fronte con il nemico globale rappresentato dall’Est.

La particolare attenzione Usa alla capacità dell’Italia di tenere adeguatamente la sua posizione nel fianco sud-est della Nato, tradottasi in una prassi consolidata di aperte e dirette ingerenze nelle questioni interne del paese e in un’opera costante di pressioni “non ufficiali” sullo svolgimento dei suoi passaggi politici cruciali, è un esempio ben noto che vale anche per molteplici altre situazioni. La dimostrazione di quanto la contraddizione est/ovest abbia profondamente connotato non solo il definirsi di un interesse generale dell’imperialismo ma, in ultima analisi, anche l’evolversi delle specifiche forme del dominio borghese, sta nello stesso procedere dei vari assetti politico-istituzionali verso il consolidamento delle attuali “democrazie compiute” europee. Allo stesso modo le direttrici strategiche che hanno fin qui presieduto il processo di formazione economica e di strutturazione politica di un polo imperialista europeo non possono essere considerate indipendentemente dalla contraddizione principale che ne ha stabilito i presupposti, orientato lo sviluppo e scadenzato le tappe.

Oggi, con l’esaurirsi di quella solidarietà occidentale in funzione antisovietica che ha contrassegnato un’intera fase storica, le contraddizioni interimperialiste stanno assumendo una portata impensabile anche solo qualche anno fa. Processi che parevano inarrestabili si bloccano e deviano dal loro corso, costruzioni diplomatiche date per eterne si ridefiniscono o si esauriscono. L’unanimità di facciata e l’ottimismo propagandistico dei vertici internazionali riescono sempre meno a mascherare le conseguenze dell’approfondirsi della crisi economica nelle relazioni fra gruppi e stati imperialisti. La loro tendenziale rotta di collisione, per ora ammessa ufficialmente solo a livello di “guerre sui tassi”, “guerre commerciali” o di “contenziosi” sui reciproci protezionismi, influisce in modo evidente sulla tenuta dei vecchi equilibri negli organismi sovranazionali. Lo scontro politico fra interessi concorrenziali si svolge ancora in forme mediate nella camera di compensazione dell’Onu, ma la stessa questione della futura composizione del consiglio di sicurezza è indicativa della velocità con cui la ricollocazione gerarchica nella catena degli stati imperialisti si rifletta nella ricerca di un maggior potere decisionale nel definire la nuova articolazione con la posizione di supremazia americana. Le contraddizioni fra gli Usa e il polo imperialista europeo in formazione vengono moltiplicate dalle dinamiche centrifughe che ridisegnano l’Europa centro-orientale e dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica, fattori destabilizzanti che a loro volta si ripercuotono all’interno della UE. La politica di Kohl e la linea della Bundesbank scaricano sugli alleati le difficoltà sorte dall’enorme costo dell’annessione della DDR mettendo così in crisi lo stesso tradizionale asse franco-tedesco. La “Grande Germania” cerca spazio ad oriente e si circonda di una fascia di paesi satellite con l’area del marco che si estende dal Baltico al bacino danubiano, ma la RFT non ha la forza di imporsi da sola come unica potenza egemone continentale. Lo SME è franato, le tappe previste per l’unificazione monetaria non possono più essere rispettate, la situazione economica interna di nessuno stato imperialista risponde più ai parametri vincolanti del trattato di Maastricht, l’intero processo di unificazione deve essere continuamente rinegoziato.

È la crisi balcanica a mettere a nudo, dopo anni di assordante retorica europeista, le difficoltà di una concertazione effettiva delle politiche estere degli stati imperialisti e quindi a definire il reale stadio raggiunto dal processo di formazione del polo imperialista europeo sul piano della autentica coesione e della sua concreta strutturazione politica. I governi di Bonn, Parigi, Londra, Roma, prima sono unanimi nel fomentare l’odio nazionalista come fattore di accelerazione delle tendenze disgregative già presenti nella federazione Jugoslava, poi si dividono nel promuovere l’ascesa e favorire il consolidamento di nuove borghesie compradore in sanguinosa competizione per sistemarsi sotto questo o quell’ombrello protettivo. Messa per la prima volta di fronte ad una prova concreta nella gestione diretta dell’intervento in un’area di crisi, L’UEO dimostra la fragilità del suo iniziale tentativo di porsi, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, come il vettore della progressiva autonomizzazione politico-militare europea e si subordina ancora una volta alla Nato, muovendosi in modo “compatibile e complementare” alla struttura militare atlantica. Una situazione che conferma come la riqualificazione della Nato nel ruolo di braccio armato dell’Onu, attraverso l’applicazione della dottrina della “presenza avanzata” per la sua proiezione in interventi “fuori area”, privilegia l’interesse americano a condizionare le modalità e i tempi di sfondamento a oriente degli alleati europei. In questa realtà, ancora tutta in movimento, va inserito il nodo in via di definizione dell’associazione alla Nato di vari paesi ex socialisti tramite diversi e progressivi gradi di partnership, mentre la geografia delle nuove alleanze “sul campo” e delle sfere di influenza tende a ricalcare quasi esattamente la disposizione delle forze dell’equilibrio europeo deflagrato nel ’14 con il primo macello mondiale di proletari causato dall’imperialismo.

È in questo scenario che dobbiamo considerare anche la valutazione della situazione italiana, non limitandoci a tenerlo sullo sfondo con una visione che, riducendo l’antimperialismo a una sorta di “politica estera” da affiancare di volta in volta alla conduzione della lotta qui, impedirebbe di concepire da subito l’agire della guerriglia in questo paese come parte integrante dello scontro rivoluzionario a livello internazionale.

Il processo di rafforzamento e sviluppo del fronte combattente antimperialista ha già scontato il peso politico estremamente negativo dell’assenza di una prassi rivoluzionaria adeguata alla gravità del momento durante la partecipazione italiana alla coalizione imperialista che aggredì l’Irak nel ’91. Allora le retrovie del nemico restarono sostanzialmente al sicuro. I movimenti di massa che pure si svilupparono contro la guerra non poterono, a causa della loro stessa natura, sottrarsi effettivamente all’influenza di una sinistra europea che, a partire dal suo interesse oggettivo nella partecipazione agli utili del dominio imperialista del mondo, si dimostrò organicamente schierata nella propria borghesia imperialista. I movimenti oscillarono così inevitabilmente nell’orbita e sotto la direzione di un opportunismo diversamente graduato dal “pacifismo equidistante” fino all’adesione più o meno critica alle superiori ragioni dell’occidente. L’iniziativa della guerriglia in Europa occidentale, e particolarmente in Italia, assolutamente non all’altezza della portata dello scontro , non riuscì ad impostare nemmeno in abbozzo quel rapporto dialettico con le avanguardie espresse anche dal movimento di massa che, sulla base di un’incisiva azione dall’alto e sul terreno di combattimento dettato dal livello dei rapporti di forza complessivi, poteva sviluppare una maturazione in senso antimperialista. Soltanto la presenza attiva ed effettiva di una guerriglia che esprime gli interessi strategici del proletariato può infatti costruire forza e organizzazione sul piano rivoluzionario.

Ma questa indispensabile autocritica non ci può esimere dal prendere posizione su ciò che è accaduto ad una altra organizzazione che pure si era schierata all’avanguardia nella conduzione di campagne di attacco alla Nato e contro le politiche di riarmo imperialista in Europa nel corso degli anni ’80. La Raf ha dichiarato fin dall’aprile del ’92 di voler recedere dal processo di lotta antimperialista per dedicarsi ad una specifica ed “universale” battaglia di “contropotere”. In questa nuova chiave la concezione guerrigliera e la prassi internazionalista che è stata la discriminante fondamentale posta storicamente dalla Raf nel movimento rivoluzionario internazionale, sono totalmente rimosse in quanto ritenute un allontanarsi “dalla lotta qui” e vengono sostituite da una impostazione strategica alternativa per la creazione, attraverso una dinamica che dovrebbe necessariamente svilupparsi dal basso, di spazi sociali liberati da estendere gradualmente in ambito capitalista. Non solo viene così ribaltata la concezione strategica della lotta armata, ma l’atteggiamento verso le lotte del proletariato metropolitano si rovescia nell’apologia delle particolarità e dei limiti delle lotte stesse. Per quanto riteniamo doveroso riaffermare oggi quanto abbiamo sempre sostenuto sulla funzione storica della Raf nella nascita della guerriglia e sul contribuito al suo radicamento ormai venticinquennale nei centri dell’imperialismo, ribadiamo che poco importano gli altri aspetti teorici della sua revisione e che la manovra di far leva sulla condizione dei compagni prigionieri nelle mani del nemico per giustificare la propria deriva opportunista ha tali analogie con vicende già sperimentate in Italia da non meritare di essere denunciata ancora una volta. Al contrario, e per parte nostra, torniamo ad affermare con forza che l’involuzione della Raf conferma ulteriormente come l’abbandono dell’impostazione della guerriglia di partire dal quadro strategico degli interessi del proletariato mondiale come condizione costitutiva, conduce ad abbandonare la linea rivoluzionaria nelle metropoli, nel “proprio” paese. Internazionalismo e antimperialismo effettivi sono garanzia della correttezza strategica e dell’efficacia politica della lotta per il potere nel paese in cui la guerriglia opera. Il rilancio di una linea rivoluzionaria nelle metropoli parte da questa realtà, una realtà che si dimostra ancora più valida in questa fase della situazione internazionale e del rapporto rivoluzione/controrivoluzione ad essa collegato.

Esiste una correlazione diretta fra la necessità della borghesia imperialista di liquidare un assetto politico e istituzionale ormai obsoleto e la ricerca delle condizioni generali più favorevoli per una nuova collocazione dell’Italia nel più grande riallineamento globale di forze mai verificatosi dalla fine della seconda guerra mondiale.

Lo scontro a tutto campo che agita protagonisti e comparse della scena politica attuale va ricondotto a questa prospettiva di fondo ed è in questo senso che va utilizzata la bussola analitica capace di orientare la guerriglia nella corretta individuazione del cuore dello stato.

Dietro la cosmesi propagandistica delle mani candeggiate, della virtù contro il vizio, del nuovo contro il vecchio, compare l’oggettività della dinamica che anima e indirizza la fase di transizione alla seconda repubblica. Era l’esigenza della borghesia imperialista di governare l’inserimento nel processo di formazione del polo europeo sostenendo il livello crescente di integrazione/competizione con le altre economie a presupporre il demitiano “portiamo in Europa l’azienda Italia”, cioè il vecchio. È la stessa tendenza ora rafforzata nel suo carattere competitivo dalla fine del bipolarismo e dalla fluidità degli attuali equilibri internazionali a motivare il berlusconiano “per contare di più in Europa”, cioè il nuovo. Al di là degli imbonimenti ideologici che intasano i canali della costruzione del consenso, appare chiaro che nessuna delle linee politiche oggi in conflitto si propone di frenare un processo che è comune pur nelle ovvie specificità, a tutte le formazioni economico-sociali europee e che detta il riposizionamento di tutti gli stati imperialisti. Lo scontro è invece avvenuto e continua a svolgersi fra la capacità delle diverse linee di porsi come interpreti privilegiate dell’articolazione programmatica, politica e istituzionale, dell’interesse della borghesia imperialista a vedersi garantito il retroterra più funzionale alla proiezione sui mercati internazionali. Come in ogni scontro, ci sono stati vincitori e vinti. Un intero ceto politico è stato, se non del tutto spazzato via, fortemente e definitivamente ridimensionato “per via giudiziaria”, cioè grazie a un metodo che anche nei momenti di maggior tensione ha saputo assicurare la tenuta della stabilità complessiva del sistema.

La DC che per mezzo secolo ha gestito i passaggi determinanti nel progressivo perfezionamento delle forme democratiche del dominio borghese, dalla liquidazione del CLN al centrismo, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, non è riuscita a guidare quella transizione ad una matura democrazia compiuta che pure era stata da tempo promossa dai suoi settori più lungimiranti e organici alla borghesia imperialista. La drastica marginalizzazione della DC non deriva ovviamente né dall’inettitudine della sua leadership, né dai vincoli di un apparato ideologico di matrice cattolica ormai superato, né dal suo grado di corruzione. In quanto a competenze maturate in decenni di esercizio del potere la burocrazia DC non risulta certo sprovveduta rispetto ai nuovi arrivati sulla scena politica. Inoltre, sul piano ideologico, l’interclassismo e il solidarismo cattolico hanno sempre rappresentato un ottimo collante sociale oltre che un efficace supporto teorico alla centralità democristiana. Ridurre poi ad una questione etica il problema della quota di clientelismo “patologico” presente nel sistema di potere democristiano è una grossolana mistificazione che vuole confondere i motivi del definitivo superamento del vecchio “keynesismo all’italiana” e della liquidazione del welfare della prima repubblica. Le cause della fine della DC sono oggettive e materiali. Derivano da un lato dal mutamento non solo dei rapporti di forza fra le classi ma dalla composizione stessa delle classi sotto la spinta incalzante della crisi che rende sempre più difficile la mediazione fra il diversificarsi degli interessi anche all’interno della borghesia, dall’altro segnano l’impossibilità di graduare i tempi e le tappe della riconversione del vecchio sistema di potere, scadenzandoli come in passato sulla velocità di adattamento democristiana ai nuovi assetti e non, come richiesto oggi, sulle priorità espresse direttamente dalla borghesia imperialista. Non è superfluo ricordare, inoltre, come la fine del bipolarismo abbia fatto venir meno quel pilastro fondamentale dell’egemonia DC rappresentato dal tradizionale rapporto fiduciario atlantico con gli Usa, dovuto alla collocazione italiana sulla linea di confine della contraddizione est/ovest. Se il problema di rinegoziare le future relazioni con Washington permane ed anzi assume una crescente importanza, saranno governi non più necessariamente democristiano a gestirlo, com’è dimostrato dalla visita di Clinton e dalla “scommessa” del presidente americano sull’Italia berlusconiana.

La riforma dello stato, la rifunzionalizzazione dei suoi poteri, la ridefinizione delle sue competenze e del grado e delle caratteristiche della sua presenza diretta nella sfera economica avanzano ormai su linee percorse da altri soggetti politici, che si contendono la guida della prosecuzione di un disegno da completare là dove il crollo della DC ne ha lasciato l’abbozzo. L’obiettivo del passaggio alla seconda repubblica era in realtà maturo da tempo. Già dopo la metà del decennio scorso era stato possibile mettere in cantiere progetti di riforma istituzionale che ratificavano l’assestamento del rapporto classe/stato su posizioni decisamente sfavorevoli per il campo proletario. Una modificazione sostanziale dei rapporti di forza che si era potuta concretizzare attraverso la fase di profonda ristrutturazione produttiva dell’inizio anni ’80 e l’attacco controrivoluzionario che aveva non solo colpito duramente la guerriglia, ma che aveva scompaginato l’intero arco delle forme politiche con le quali si era espresso il livello di autonomia di classe ereditato dai grandi cicli di lotta precedenti. La erosione progressiva degli spazi conquistati dalla classe operaia negli anni ’70 di pari passo al restringimento oggettivo delle basi materiali di qualsiasi credibile ipotesi riformista, l’accelerarsi dell’involuzione del revisionismo e la trasformazione del sindacato in una articolazione del regime pronta ad imboccare la strada della concertazione neocorporativa, marciavano parallelamente al precisarsi dei vincoli economici fissati dagli organismi internazionali (CEE, FMI, Banca Mondiale) che imponevano l’avvio del ridimensionamento complessivo del welfare come condizione del rilancio concorrenziale del sistema. La traduzione sul terreno istituzionale di questa situazione, dopo le forzature in senso presidenzialista del periodo craxiano, era sistematizzata nel progetto di riforma De Mita-Ruffilli, nella pratica di governo, viveva già nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, nello svuotamento delle prerogative parlamentari e nel mantenimento dell’opposizione in un ruolo di subalternità consociativa, quindi in quei primi elementi di “democrazia governante” (dove alla massima concentrazione del potere reale corrisponde la più vasta apparenza di democrazia, cioè il massimo di democrazia formale) che dimostravano quanto la fase matura della prima repubblica avesse già incorporato quel salto di qualità nel rapporto classe/stato operato dalla controrivoluzione negli anni ’80. Allo stesso modo la definizione di piani di controllo e riduzione della spesa e di rientro dell’enorme debito pubblico era già stata impostata programmaticamente dal governo De Mita (il primo piano Amato) anche se solo la successiva linea Amato-Ciampi ha cominciato ad applicarla in concreto. Lo schema demitiano non poteva però prevedere la velocità di divaricazione della forbice fra la gradualità di un disegno teso a ridurre al minimo le effettive lacerazioni costituzionali e la maturazione delle spinte alimentate dai pressanti interessi economici della borghesia imperialista. All’interno di questo contesto l’attacco delle Brigate Rosse individua l’importanza del più organico progetto politico elaborato dalla DC per affrontare i delicati passaggi del generale processo di riassetto dello stato e con l’azione contro Ruffilli contribuisce a incrinare gli equilibri politici che lo sostenevano. Il resto è storia recente. La riforma elettorale che doveva sanzionare il definitivo assestamento di una democrazia compiuta a misura del mantenimento di una rinnovata centralità democristiana, si è trasformata in un autentico boomerang accelerando il tracollo della DC e dei suoi vecchi alleati.

È significativo che sia stato un comitato d’affari della borghesia nella più pura delle sue accezioni, il primo vero “governo dei tecnici” dell’epoca postfascista, a porsi sia come curatore fallimentare della prima repubblica, attento a far procedere nella massima stabilità l’emarginazione della dirigenza del pentapartito e la crescita delle nuove formazioni politiche dilazionando la scadenza elettorale per consentire la creazione di un cartello di sinistra-centro, sia come promotore dell’impostazione di una politica estera da media potenza capace di ritagliarsi autonomi spazi di intervento e sfere di influenza.

Il Ciampi continuatore della linea Amato di “risanamento economico” e garante dell’affidabilità della “Azienda Italia” di fronte al sistema bancario internazionale, il Ciampi che svuota le riserve di Bankitalia pur di “tenere il paese agganciato a Maastricht” è lo stesso che perfeziona i primi passi di un rinnovato protagonismo in aree storicamente oggetto dell’espansionismo italiano. Lo dimostrano il protettorato sull’Albania, l’avvio di una presenza concorrenziale a quella di altri stati imperialisti nella penetrazione nella regione balcanico-danubiana e, principalmente, l’intervento in Somalia.

La partecipazione alla sanguinosa aggressione al popolo somalo è stato un concreto passaggio di quella rinegoziazione del rapporto con gli Usa nella definizione dei margini di maggiore autonomia di manovra consentiti all’espressione di un interesse specifico a sottolineare il peso e la rilevanza dell’apporto italiano ad un intervento imperialista. Non solo: la richiesta di un esplicito riconoscimento ufficiale in sede Onu, con i suoi risvolti pratici, sul campo, nel mutamento della relazione di totale subalternità iniziale alla gestione americana di “restore hope” non si riduceva alla ricerca di una affermazione del “prestigio nazionale”, ma rispecchiava il tentativo tutt’altro che formale di attestare una salda presenza italiana nel corno d’Africa ad un livello ben più efficace della precedente e disastrosa esperienza craxiana. Un obiettivo per ora mancato; nell’ambito del più generale fallimento dell’intera operazione, grazie alla tenace e coraggiosa resistenza del popolo somalo, ma che ha mostrato apertamente il grado di crescente difficoltà nella composizione di interessi concorrenziali fra diversi stati imperialisti.

I parà della folgore hanno lasciato sul terreno a Mogadiscio e sulla vecchia strada imperiale di Mussoliniana memoria centinaia di somali giustiziati come “banditi”, forse un migliaio secondo la stima orgogliosamente formulata dal generale Floris al ritorno dalla spedizione. Una buona verifica sul funzionamento del “nuovo modello di difesa” e, insieme, la fine della presunta scarsa affidabilità militare come argomento da far pesare contro l’Italia nelle relazioni interimperialiste.

Su un’altra scala e in un diverso contesto la crisi nella ex Jugoslavia ha fatto risaltare il coinvolgimento italiano in termini ben differenti da quello tradizionale di semplice, per quanto importantissima, portaerei della Nato protesa nel mediterraneo. L’articolazione e la graduazione delle mosse politico-diplomatiche italiane nei confronti della linea americana e delle differenziate strategie d’intervento degli altri stati imperialisti era tesa fin dall’inizio del precipitare bellico della situazione a connotare uno specifico interesse nazionale in discontinuità con il precedente allineamento acritico verso qualsiasi indirizzo di volta in volta adottato dagli alleati più potenti. Anche in questo caso i più ampi spazi di manovra gestiti dal duetto Ciampi-Andreatta sono stati resi possibili dalla completa disponibilità italiana ad attivizzarsi sul piano strettamente militare con una mobilitazione mai registrata in passato e addirittura non richiesta, come si è visto con l’altalena di assensi e dinieghi in sede di organismi internazionali alla proposta dell’invio di un contingente in Bosnia, considerata come un ulteriore fattore di squilibrio in una realtà già complicata dal difficile calibramento nel sovrapporsi sul campo di diverse linee di “interpretazione” del mandato Onu da parte dei vari protagonisti dell’intervento imperialista.

È questa eredità che l’esecutivo di Ciampi ha trasferito nelle mani del cosiddetto “primo governo della seconda repubblica”: la più solida delle piattaforme per qualsiasi successiva forzatura nel senso di un aggressivo attivismo internazionale finalizzato alla nuova collocazione imperialista dell’Italia.

Intervenire nel delicato snodo di contraddizioni in cui si inserisce il rinnovato protagonismo italiano per la piena assunzione di un ruolo da media potenza che spinge per un suo riposizionamento gerarchico, politico, diplomatico e militare negli organismi sovranazionali (dall’Onu alla UE, dalla Nato alla UEO) significa allora provocare anche quelle ricadute sul terreno dei rapporti di forza interni che definiscono il cuore dello stato nella linea garante della più efficace articolazione fra risanamento economico, nuovo quadro politico-partitico, passaggi di riforma istituzionale e di revisione costituzionale. Oggi il cuore dello stato vive nella linea che si afferma e si rafforza nella competizione per dirigere la fase di transizione alla seconda repubblica e perseguire così l’approfondimento e il perfezionamento delle forme di dominio sul proletariato che stabilizzano il rapporto classe/stato sul livello richiesto dalla borghesia imperialista come condizione indispensabile alla proiezione concorrenziale sui mercati internazionali.

Il rapporto di unità programmatica fra antimperialismo e attacco al cuore dello stato va stretto in questo senso ed evidenzia la capacità della guerriglia di individuare e colpire le direttrici politiche centrali della ricollocazione imperialista dell’Italia e nel contempo di impostare realisticamente l’avvio del processo di disarticolazione dell’instaurazione di una autentica seconda repubblica.

Solo con questa logica una adeguata pratica offensiva della guerriglia può costruire le valide premesse per rimettere in moto una corretta dinamica (sempre e comunque vincolata dagli esiti dell’andamento discontinuo dello scontro) che sappia relazionare l’uscita del campo operaio e proletario dalla difensiva con il rinnovarsi dell’espressione politica, anticapitalista, antistatale e antimperialista della sua autonomia. La conseguente rivitalizzazione della dialettica avanguardia combattente/autonomia di classe va costruita nella prospettiva della direzione da parte della guerriglia dei tempi e dei passaggi dell’organizzazione e della disposizione delle forze proletarie rivoluzionarie sul terreno della lotta armata.

Il processo che abbiamo ora delineato sinteticamente non è uno schema astratto né una esercitazione teorica che prescinde dagli effettivi rapporti di forza che caratterizzano la situazione attuale; ma presuppone una valutazione compiutamente materialista anzitutto delle reali condizioni del campo proletario e della natura difensiva delle lotte di resistenza che riesce ad esprimere in questa fase. Un campo operaio e proletario indebolito da anni e anni di attacchi durissimi alle proprie posizioni sociali ed economiche e, nonostante una recente ripresa di mobilitazione e di dibattito, ancora in larga misura depoliticizzato, confuso, inquinato da opportunismi di ogni genere.

Il carattere offensivo o difensivo delle lotte non si stabilisce a partire dal giudizio sulle forme che di volta in volta vengono sviluppate, sulla pratica “alta” o “bassa” o sulla loro diffusione ed estensione quantitativa. Per i comunisti il parametro di riferimento non è l’osservazione sociologica, ma è l’analisi dei rapporti di forza che si determinano fase dopo fase fra proletariato e borghesia, fra classe e stato, fra rivoluzione e controrivoluzione. La capacità di contrastare specifici progetti di attacco alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e la possibilità delle lotte di sedimentare organizzazione al di fuori e contro il reticolo di mediazioni politiche ed istituzionali che le imbrigliano e le depotenziano, non vanno misurate indipendentemente dai rapporti di forza complessivi, ma relativamente ad essi. La qualità dello scontro di classe e il carattere dell’autonomia operaia e proletaria che vi si può sviluppare è data anche, a partire dalla base materiale delle contraddizioni strutturali del rapporto di produzione capitalistico, dalla coscienza, dalla memoria e dalla tradizione storica che si determinano nel proletariato attraverso le sue esperienze politiche e rivoluzionarie. Esperienze che in questo paese sono particolarmente contrassegnate da più di vent’anni di lotta armata per il comunismo e dal ruolo centrale svolto in questo senso dalle Brigate Rosse. L’impossibilità pratica, in un lungo arco di tempo in cui i colpi subiti dalla guerriglia lo hanno impedito organizzativamente, di riaffermare una presenza rivoluzionaria attiva esprimendola con attacchi al livello necessario ha inciso pesantemente sulla maturazione dell’autonomia di classe come soggetto politico.

Abbiamo ricordato come la fase finale della prima repubblica avesse già ampiamente incorporato quei rapporti di forza decisamente sfavorevoli al campo proletario “capitalizzando” gli esiti dell’attacco dispiegato contro la classe all’inizio degli anni ’80. È da questa realtà che si formalizzano gli accordi neocorporativi e si ridefinisce la funzione del sindacato confederale, terzo attore sul palcoscenico della concertazione con governo e confidustria in quanto non solo garante del controllo e del depotenziamento dei picchi “alti” delle lotte di resistenza, ma soggetto attivo e giuridicamente riconosciuto dell’articolazione nella classe degli assi programmatici della linea di “risanamento economico” e dei suoi effetti sul piano contrattuale, salariale, normativo. Un sindacato di regime che rafforza la sua stessa ragion d’essere e compatta la sua struttura burocratico-amministrativa a misura della capacità di cogestire il processo di graduale smantellamento del welfare, di contenimento e riduzione del salario reale e di massima flessibilità della forza lavoro. È su questo terreno che la linea Amato-Ciampi ha riscosso i più notevoli successi consentendo al governo la più totale mano libera sugli altri fronti della politica economica, dall’azione di Bankitalia sui tassi d’interesse, alla riorganizzazione del sistema creditizio, all’inizio effettivo delle dismissioni e delle privatizzazioni. Indipendentemente dal grado di liberismo che i nuovi esecutivi della seconda repubblica intenderanno davvero mettere nei loro programmi operativi, gli accordi del 3 luglio ’93 che perfezionano il funzionamento della dialettica neocorporativa già definita con il patto del 31 luglio dell’anno precedente, restano una solida piattaforma di riferimento anche per una linea governativa che si proponga di ridimensionare ulteriormente il ruolo e il peso del sindacato. La natura di regime ormai assunta da una larga fascia di dirigenti e bonzi sindacali facenti riferimento all’area revisionista troverà di sicuro anche nella seconda repubblica la possibilità di esprimersi nell’impegno di contenimento e repressione delle lotte operaie.

È solo incidendo sui rapporti di forza complessivi che determinano questa situazione che la prospettiva di un rafforzamento politico del campo proletario può tradursi in una uscita della classe dalla difensiva, una tenace e quotidiana resistenza che è destinata ad indebolirsi ulteriormente senza il rilancio della lotta armata e della sua capacità di disarticolare il progetto centrale della borghesia imperialista di transizione alla seconda repubblica e della piena assunzione italiana di un ruolo da media potenza in uno scenario internazionale estremamente fluido e solcato da profonde contraddizioni.

L’attività di direzione dei comunisti sullo sviluppo della prospettiva rivoluzionaria deve quindi tenere sempre presente il piano internazionale dello scontro, assumendosi la responsabilità di agire nell’attuale rapporto classe/stato ad esso collegato. Una responsabilità decisiva e un ruolo dirigente da conquistare e difendere che non possono esprimersi in modo compiuto se non nella dimensione del processo di costruzione del partito comunista combattente. Fuori da ogni velleitarismo o attendismo è questa la discriminante sulla quale si deve confrontare politicamente e verificare concretamente l’unità dei comunisti per il rilancio e l’avanzamento della strategia della lotta armata.

Un confronto pratico che deve indirizzarsi da subito sulla necessità di attestare solidamente la guerriglia su quei livelli di analisi e di programma politico-militari e organizzativi richiesti dalla fase di ricostruzione e indispensabili per far fronte ai nuovi compiti da sostenere in un quadro di riferimento generale difficile e complesso e in dure condizioni di lotta. Un processo di questo tipo non può realisticamente essere concepito come il risultato automatico e lineare di una maturazione spontanea o condotto come il graduale riconnettersi di una pratica ancora inadeguata alla qualità che deve caratterizzare l’iniziativa guerrigliera con l’assunzione teorica dell’impianto strategico della lotta armata. La vitalità delle avanguardie che il movimento rivoluzionario riesce a esprimere non deve condizionare le sue potenzialità di crescita alla “medietà” dei livelli di coscienza già acquisiti. Sono le rotture soggettive, è il ruolo sempre crescente della soggettività rivoluzionaria ad individuare e intraprendere un percorso che si fa carico di responsabilità ineludibili nel misurarsi con tutti i passaggi di questa fase.

La fase di ricostruzione non si sviluppa in vetro, al riparo dai colpi che si subiscono nel corso dello scontro, ma nel suo stesso procedere riesce già a far vivere le proprie finalità – nel senso di agire da partito combattente per costruire il partito combattente, nel porsi sempre come suo nucleo strategico – grazie alla consapevolezza che nella conduzione di un processo rivoluzionario di lunga durata le battute d’arresto, gli arretramenti e le sconfitte invece che distruggere la guerriglia la rafforzano e ne rilanciano l’impianto organico.

Per questo fare tesoro del ricchissimo patrimonio di esperienza politica, militare, logistica e organizzativa delle Brigate Rosse non significa ricorrere meccanicamente ad un arco di soluzioni già date, ma impegnarsi per ristabilire i termini complessivi che consentano nuove offensive tenendo ben presente che anche la fase di ricostruzione è un processo orientato dalle linee fondamentali che presiedono la strategia della lotta armata.

Un impianto organico che scaturisce dal portato teorico e dai risultati politici conseguiti in più di vent’anni di pratica combattente, verificato nel vivo dello scontro e sottoposto al vaglio critico della realtà dei rapporti di forza e che rappresenta il più alto contributo all’elaborazione della scienza comunista della rivoluzione proletaria in questo contesto storico.

– La rivoluzione nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato mondiale, il rapporto strategico con i processi rivoluzionari e di liberazione alla periferia del sistema, l’internazionalismo e l’antimperialismo come condizioni stesse dell’affermazione della rivoluzione e ambito generale in cui collocare i diversi percorsi rivoluzionari.

– In questa prospettiva il conseguimento dell’obiettivo della conquista del potere politico, della distruzione dello stato borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria per il superamento storico della società divisa in classi e per la costruzione della società comunista.

– La lotta armata come strategia generale del proletariato metropolitano, il carattere di lunga durata della guerra di classe per la conquista del potere politico. L’attacco al cuore dello stato come attacco che in ogni congiuntura individua e colpisce il progetto dominante della borghesia imperialista nella contraddizione che oppone la classe allo stato.

– L’unità del politico e del militare come matrice fondante dell’agire della guerriglia. La clandestinità e la compartimentazione come principi strategici che presiedono la sua impostazione offensiva e ne garantiscono la tenuta nell’andamento discontinuo dello scontro.

– Centralità, selezione, calibramento dell’attacco come criteri guida nella scelta dell’obiettivo dell’iniziativa rivoluzionaria della guerriglia e a partire dall’attacco centrale al cuore dello stato e ai progetti imperialisti, l’organizzazione e la disposizione delle forze rivoluzionarie proletarie sul terreno della lotta armata, la formazione della direzione rivoluzionaria come processo di formazione, nello scontro, del partito comunista combattente.

– Centralizzazione delle direttrici dell’attacco/decentralizzazione delle responsabilità a tutte le istanze organizzate per pesare con il massimo di incisività nello scontro e concentrare lo sforzo politico militare sugli obiettivi perseguiti.

Ogni vittoria e ogni sconfitta delle forze rivoluzionarie nel centro e nella periferia del mondo dominato dall’imperialismo sono nostre vittorie e nostre sconfitte, indipendentemente dalla distanza geografica, dalle particolari condizioni di classe, dalle differenti caratteristiche di origine e consolidamento dei vari percorsi rivoluzionari e di liberazione nelle peculiari contraddizioni economiche e sociali che li alimentano.

“La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della politica proletaria a livello internazionale” (risoluzione della direzione strategica 1979), quindi si pone fin dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli stati del centro imperialista, dove una vittoria rivoluzionaria assumerebbe una portata decisiva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari alla periferia e dunque per l’insieme del processo rivoluzionario mondiale. Questa concezione dell’internazionalismo che spazza via ogni logica “solidaristica” e supera definitivamente ogni visione dell’antimperialismo come una sorta di “politica estera” della “propria” rivoluzione è una conquista irreversibile acquisita dall’esperienza più che ventennale delle Brigate Rosse.

L’attacco alla struttura militare Usa, l’attacco alla Nato, si inserisce nel rilancio della politica di sviluppo del Fronte Combattente Antimperialista e articola nella pratica il significato che attribuiamo alla costruzione nel vivo del combattimento di concreti e propositivi punti di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al dominio e all’aggressione imperialista.

È in questo senso che da tempo la nostra organizzazione ha riconosciuto l’individuazione di un’area geo-politica dove realizzare i passaggi politico-militari e organizzativi necessari al consolidamento della dimensione strategica del fronte e allo sviluppo della sua capacità di attacco. L’area Europea mediterraneo mediorientale che si polarizza sostanzialmente su due regioni, gli stati europei e il mondo arabo, separati anche se organicamente funzionali secondo la dinamica sviluppo/sottosviluppo, è da considerarsi un’area unitaria in quanto reciprocamente complementare nell’articolarsi del rapporto centro/periferia. È un’area estremamente variegata la cui interdipendenza è il risultato di un lungo processo storico che ha sedimentato sulle coordinate della sua continuità geografica una fitta rete di interconnessioni economiche, politiche, militari che evidenziano il legame fra le strutture del sistema imperialista e il carattere delle lotte di classe e dei percorsi rivoluzionari e antimperialisti che vi si dispiegano. È proprio per questo che è necessario e possibile concretizzare soggettivamente nella linea del fronte e nell’insieme di quest’area la convergenza che già esiste tendenzialmente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando così una saldatura di portata strategica per l’avanzata del processo rivoluzionario internazionale.

In quest’ambito assume un’importanza eccezionale la rivoluzione palestinese, al centro dello snodo che collega le potenze imperialiste ai paesi del mondo arabo-islamico. Un mondo che, pur frantumato dalle dinamiche reali dell’approfondimento dei rapporti fra le borghesie arabe e l’imperialismo dovuto all’incalzare della crisi e al mutamento degli equilibri internazionali dopo l’89, vive come forte punto di riferimento nella coscienza delle masse arabe sfruttate e rappresenta ancora un vettore di stimolo e di coagulo per le lotte nella regione. La contraddizione era la presenza dell’entità sionista e la rivendicazione di una nazione palestinese è centrale e determinante per la pacificazione imperialista, e in primo luogo americana, dell’intero medio oriente.

Ed è proprio la soluzione politica di questa contraddizione a stare al centro dei piani imperialisti per questa regione, piani che puntano a far accettare nel cuore stesso della nazione araba la presenza di Israele, di uno stato creato ex novo dall’imperialismo per farne una testa di ponte per i suoi interessi nell’area. Attraverso la realizzazione progressiva di rapporti bilaterali fra Israele e i paesi arabi confinanti, l’imperialismo e il sionismo perseguono l’obiettivo della disgregazione del fronte arabo, già minato dalle politiche filoimperialiste dei regimi arabi reazionari e la cui fragilità è apparsa in tutta la sua evidenza nello schieramento a fianco degli americani nella guerra di aggressione contro l’Irak. In questo modo il nemico vuole porre le basi per fare di Israele non più solo un gendarme dell’imperialismo, ma una potenza regionale pienamente riconosciuta e destinata ad esercitare tutto il peso economico derivante dal suo sviluppo tecnologico e dai suoi rapporti con l’occidente.

Per arrivare a questo gli imperialisti hanno ben chiaro che il loro nemico principale da abbattere è la rivoluzione palestinese, perché è essa, attraverso la lotta armata delle sue organizzazioni combattenti e la partecipazione delle masse all’Intifada, a tenere aperto un conflitto che si riflette all’interno di ogni paese arabo alimentando fra le masse il nazionalismo arabo con la sua carica antimperialista, un nazionalismo storicamente rivoluzionario per il contesto economico, sociale e strategico in cui è sorto e si è sviluppato.

Il cuore del progetto di pacificazione imperialista e di dominio della regione è sempre rappresentato da quegli accordi di Camp David che aprirono la prima breccia effettiva nel corpo della nazione araba con il coinvolgimento dell’Egitto, uno dei suoi paesi più rappresentativi non solo per il suo peso complessivo ma anche per ciò che aveva significato il panarabismo nell’epoca di Nasser per il riscatto dell’intera regione dalla subordinazione all’occidente.

La nostra organizzazione aveva già riconosciuto l’importanza strategica di Camp David e ne aveva colpito uno dei garanti esecutivi, il direttore generale della Forza Multinazionale di osservazione nel Sinai Leamon Hunt, a Roma il 15 febbraio 1984. Fu quello un passo concreto di una politica di fronte che solo più tardi avrebbe avuto una più compiuta definizione, ma che condusse già allora ad una unità antimperialista oggettiva di fatto, fra le BR per la costruzione del PCC e le organizzazioni combattenti della regione mediorientale che attaccavano in quella fase quello stesso progetto.

Oggi il progetto di Camp David informa ancora da parte israeliana le politiche tese a frantumare il fronte arabo e palestinese, perseguendo processi di pace bilaterali e separati con l’Olp e gli stati arabi confinanti. E anche il “piano di autonomia” già previsto dagli accordi del ’79 trova ora una concretizzazione nella formula del piano Gaza-Gerico, “Gaza and Jericho first” frutto dell’accordo raggiunto fra la direzione capitolazionista dell’Olp e il governo Rabin, sotto la tutela americana.

Questo accordo segna una tappa fondamentale nello sviluppo della strategia imperialista nella regione e il suo esito misurerà l’andamento dei rapporti di forza tra rivoluzione e imperialismo in tutta l’area, e non solo. Attraverso esso i settori di borghesia palestinese più legati al capitale internazionale puntano a creare un ambito in cui sviluppare una propria economia. Non necessariamente uno stato, quindi, essendo sufficiente per questo scopo un qualsiasi ambito territoriale riconosciuto giuridicamente che attragga capitali e ottenga condizioni di favore nel flusso commerciale con l’estero. In un tale quadro tutti i punti qualificanti del programma originario dell’Olp vengono accantonati e la lotta nazionale palestinese viene dirottata verso gli obiettivi di un pugno di capitalisti, proprietari terrieri e intellettuali filo occidentali legati all’imperialismo e sui quali la direzione dell’Olp punta per crearsi una base di consenso, una politica che significa però aprire una contraddizione in seno al popolo palestinese fino ad oggi unito nell’Intifada.

Questo progetto è attaccato da tutte le forze rivoluzionarie che esprimono gli interessi genuinamente popolari delle masse e le difficoltà in cui si dibatte sono sotto gli occhi di tutti. L’opposizione delle organizzazioni palestinesi che non hanno mai rinunciato alla lotta armata e sei anni di Intifada hanno determinato una situazione in cui la direzione capitolazionista dell’Olp è costretta a prendere decisioni in sintonia con le richieste israeliane e americane e sempre più in contrasto con gli interessi nazionali, smascherandosi così di fronte alle masse in Palestina e nella diaspora e creando essa stessa i presupposti per l’intensificarsi dell’opposizione delle classi sfruttate palestinesi, di tutti coloro che saranno inevitabilmente esclusi dai ristretti benefici economici apportati dal “piano di autonomia”.

Su un altro fronte, ma nell’ambito della stessa contraddizione creata dalla presenza dell’entità sionista in questa regione, il fronte di resistenza nazionale libanese, nel quale si sono integrate le forze palestinesi in Libano e le organizzazioni combattenti islamiche, prosegue l’offensiva contro le truppe israeliane e la milizia-fantoccio dell’ALS di Lahad e contribuisce a indebolire la coesione interna e la sicurezza dell’entità sionista, attraverso una pressione continua sulle forze di occupazione, ostacolando così la pacificazione imperialista della regione oltre che la ricostruzione in Libano di un regime filoimperialista sovvenzionato dai sauditi e dai capitali occidentali.

La lotta dei compagni palestinesi e libanesi è quindi assolutamente centrale nel rapporto di guerra tra rivoluzione e imperialismo nel cuore di un’area strategicamente vitale per la ridefinizione dei nuovi equilibri internazionali.

Allargando la prospettiva di riferimento generale, il dispiegarsi di diverse iniziative antimperialiste e rivoluzionarie nel mondo arabo e islamico, in Turchia e nella regione curda va visto come strategicamente convergente con lo sviluppo di processi rivoluzionari e di liberazione in molte altre regioni della periferia, in Africa, Asia e America Latina. A questo proposito l’avanzare della guerra popolare in Perù e nelle Filippine dimostra in modo estremamente significativo come la direzione comunista delle lotte di liberazione sia la migliore garanzia dell’approfondimento del loro carattere antimperialista e rivoluzionario.

È necessaria quindi la massima determinazione per favorire il più vasto schieramento combattente di forze rivoluzionarie contro il nemico comune. Le Brigate Rosse fanno vivere concretamente questa necessità nel contributo alla costruzione e allo sviluppo del fronte combattente antimperialista, il passaggio politico-militare più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello di scontro adeguato ad attaccare e disarticolare le politiche centrali che indirizzano le strategie imperialiste nella nostra area geopolitica. La costruzione del FCA è un impegno programmatico che le BR assumono fino in fondo, nelle nuove condizioni e nella consapevolezza della dimensione strategica del Fronte maturata nel vivo della lotta.

GUERRA ALLA GUERRA!

GUERRA ALLA NATO!

COSTRUIRE E CONSOLIDARE IL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA!

ATTACCARE E DISARTICOLARE LA FASE DI TRANSIZIONE ALLA SECONDA REPUBBLICA!

ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI DELLA FASE DI RICOSTRUZIONE PER IL RILANCIO DELLA LOTTA ARMATA!

ONORE AI COMPAGNI CADUTI COMBATTENDO PER IL COMUNISMO!

 

Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione
del Partito Comunista Combattente

Francesco Aiosa, Ario Pizzarelli

 

 

Dichiarazione di Paolo Dorigo

 

Come militante comunista riconosco l’incisività dei contenuti politici di fondo e condivido l’attualità e la correttezza dell’analisi che ha condotto le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente ad attaccare la base di Aviano, uno dei principali centri operativi della struttura imperialista Usa e Nato nella nostra area geopolitica. Colpire la Nato attaccando Aviano è stato un passaggio quanto mai chiaro di cosa significhi costruire, in riferimento alla dimensione strategica del consolidamento del fronte combattente antimperialista, un concreto e vitale punto di convergenza degli interessi del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al bestiale dominio dell’imperialismo. L’azione di Aviano conferma la validità della linea strategica delle BR per il PCC anche in questa difficile e impegnativa fase di ricostruzione delle forze rivoluzionarie per il rilancio della lotta armata.

Mi riconosco completamente, quindi, nella gestione politica che le BR hanno dato a questo processo e di fronte a qualsiasi tribunale dello stato ribadisco che il mio comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia a cui rispondo, come militante comunista, della mia condotta politica e pratica.

 

Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994

 

Paolo Dorigo

.