Presentazione (Per il dibattito e la fusione con altra organizzazione)

I compagni e le compagne che propongono questo documento di dibattito fanno parte della Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente (PCC), e hanno prodotto e sviluppato le proprie tesi in questi anni attraverso la rivista “Per il Partito”.

La Cellula per la costituzione del PCC è formata da compagni provenienti da diverse ipotesi organizzative, che si collocano all’interno dell’esperienza storica del movimento comunista internazionale e, nel particolare di questi ultimi 30 anni fanno riferimento agli insegnamenti prodotti dall’avanguardia comunista combattente del nostro paese, alla quale, nel bene e nel male, ed ai vari livelli della loro coscienza un contributo hanno dato. Individuando come asse centrale delle proprie riflessioni oggi, la valorizzazione dell’esperienza delle BR che nel panorama delle varie Organizzazioni Comuniste Combattenti degli anni ‘70, hanno rappresentato la componente marxista-leninista, ed oggettivamente l’unica alternativa credibile al progetto revisionista (al di là di ogni tipo di scelta che può aver maturato oggi la maggioranza dei suoi ex dirigenti).

In questi anni abbiamo cercato di tenere aperto il dibattito sulla necessità del partito e sulla valorizzazione dell’esperienza della lotta armata comunista in Italia negli anni settanta, ponendoci come struttura di percorso per l’unità dei comunisti, non come organizzazione fine a sé stessa.

In estrema sintesi, abbiamo sostenuto la necessità di costruire un modello di partito che recuperava il meglio della tradizione della terza internazionale, epurato dagli elementi di dogmatismo e di culto della personalità, con una chiara scelta di tendere ad una abolizione della divisione del lavoro, ed una applicazione del centralismo democratico effettivo e non come riproduzione dell’autoritarismo borghese.

A questo punto abbiamo recuperato quella che secondo noi è stata la grande innovazione della lotta armata(LA) comunista negli anni ’70, la capacità di spostare la contraddizione sul terreno dello scontro per il potere, superando i limiti della lotta operai-padroni, per porre la questione proletariato-Stato, cioè l’utilizzo della LA comunista come strumento essenziale della politica comunista nei paesi imperialisti.

A partire da questo rimane per noi essenziale la teoria/prassi dell’attacco al cuore dello Stato e l’esperienza conseguente realizzata dalle BR. Altre forme peraltro necessarie quali azioni di finanziamento, eliminazioni spie, ecc., presenti da sempre nell’attività dei PC, non caratterizzano la novità dell’esperienza degli anni ’70.

Presentare il nostro percorso politico non deve essere inteso dai compagni come un voler marcare una differenza, marcare il proprio bagaglio storico e politico. Vogliamo invece che sia utile a comprendersi meglio, nel momento in cui si inizia un percorso di comunicazione che dovrebbe gettare le basi di una proficua collaborazione per un successivo passaggio per la costruzione/costituzione del Partito del proletariato. D’altronde troveremmo sciocco non dichiarare che ai tempi della battaglia politica interna alle BR sviluppatasi nel’84, alcuni di noi si trovarono, sebbene non come militanti dell’organizzazione, a sostenere la seconda posizione. Sono passati quindici anni da quella rottura, molti di noi non l’hanno vissuta in prima persona ma possiamo dire in tutta tranquillità di condividere il bilancio fatto dai compagni belgi delle Cellule Comuniste Combattenti che, nell’analizzare i motivi della rottura, dicono: L’impressione che ci è rimasta di questa esperienza è quella di uno spreco spaventoso.

Oggi a tutti noi spetta un compito molto delicato, saper affrontare le esigenze di una fase ricca di prospettive rivoluzionarie e contemporaneamente un quadro dei rapporti di forza molto sfavorevole alle forze comuniste e alla classe.

Il nostro compito è quello di predisporre un piano di lavoro che porti a gettare le basi di una possibile ed utile unità, per battere la frammentazione dei comunisti e gettare le basi per la ripresa della lotta rivoluzionaria in Italia.

Lo stato di salute del movimento comunista richiede un grande sforzo, la gravità della situazione non può tollerare altri rinvii.

È importante far compiere un salto in avanti al dibattito ed all’iniziativa dei comunisti, superando quei motivi di stagnazione ed incomunicabilità, riprendere i veri motivi di contraddizione, i nodi non sciolti, ma sapendoli vedere alla luce dell’attuale contesto, cercandone una soluzione che sia la più adeguata a tutta l’area dei comunisti che in questi anni sono rimasti conseguentemente sul terreno del Partito e del processo rivoluzionario.

Una tesi comune di tutta l’area dei comunisti, è sicuramente l’assunzione della tesi dell’unità del Politico/Militare, e ciò è qualcosa di tutt’altro che secondario e sottovalutabile.

Questa è una tesi fondante, carica di implicazioni e che, proprio per i due termini che contempla, esclude tutta una serie di mezze posizioni estremiste che, dell’uso della forza, tendono a farne mezzo di lotta dei movimenti sociali, dei movimenti di massa o di soggetti sociali di volta in volta emergenti, per come si presentano.

Come pure questa discriminante serve ad arginare due tendenze, la prima è quella di una parte di gruppi di provenienza PC(ml) che si rivolge prevalentemente agli operai e alle “masse popolari”, insistendo sulla necessità di fare il partito o di ricostruire il vecchio Partito Comunista Italiano.

Nelle loro pubblicazioni ci spiegano che sono contro il parlamentarismo, che in Italia c’è la controrivoluzione preventiva e che bisogna trarre degli insegnamenti dalla lotta di classe degli anni 70/80. Senza prevedere però né la forma, né il modo con cui il Partito fa politica.

La seconda tendenza è quella che si rivolge ai settori giovanili: sprigionare, invisibili e altri antagonisti di maniera. Per la loro natura di piccoli borghesi di cui è composto il gruppo dirigente, e per l’assenza di una strategia rivoluzionaria, impostano l’essenza della loro iniziativa (in alcuni casi para/violenta) in ambiti istituzionali.

La situazione dell’area dei comunisti, che ha per noi come discriminante l’unità del politico-militare (P-M), deve però lavorare a superare i processi di frantumazione che hanno raggiunto nel corso degli anni 80 e 90 il massimo livello conosciuto. Siamo arrivati ad una situazione nella quale ci sono problemi a completare il quadro della presenza dell’area. Bene, clandestini al nemico, sempre, ma visibili alla classe e agli altri comunisti (nei modi e nelle forme) deve essere un obiettivo di questa fase. Se ciò è vero, diventa quindi necessario, una visibilità tanto in rapporto alla classe, quanto in rapporto agli altri comunisti. D’altronde, la dispersione su base locale e minoritaria impedisce una adeguata caratterizzazione sul piano della visibilità e dell’impatto organizzativo per una pratica comunista che ha il suo carattere costitutivo nell’unità politico militare.

A differenza dei gruppi dogmatici ed opportunisti delle diverse specie, noi dobbiamo misurarci su una capacità di approntamento di una strategia che sappia incidere e rendere immediatamente visibile e misurabile l’impatto della nostra politica nei confronti del nemico di classe. Così come deve essere altrettanto visibile e comprensibile al proletariato e alla classe operaia.

L’assenza del Partito Comunista e, più in generale la mancanza del soggetto comunista, ha tra le altre conseguenze la possibilità di vedere il proletariato sempre più coinvolto in scontri inter borghesi. Per questo, occorre ribadire che il compito principale dei comunisti in questa fase rimane la costruzione/costituzione del Partito Comunista Combattente (il PCC. Abbiamo ribadito più volte in questi anni che il Partito non si fonda nel chiuso dei “centri studi”, legali o clandestini che siano.

Priorità nella costituzione del Partito, difesa dei principi, presenza nei movimenti di massa e sviluppo dell’inchiesta operaia, sono tutti elementi dialettici per riaffermare una presenza politica dei comunisti.

 

I materiali che seguono sono in parte stralci di documenti da noi prodotti in questi anni, rivisti in virtù del dibattito attuale.

SINTESI DELLA NOSTRA POSIZIONE

Nella nostra concezione della Lotta Armata (LA) non si può parlare di significato strategico della LA in se stessa, in quanto la strategia dei comunisti si definisce nell’abbattimento dello Stato borghese, nella istituzione dello Stato della dittatura proletaria per la costruzione del comunismo, in un processo rivoluzionario ininterrotto per tappe, delle quali la prima tappa nel nostro paese è la rivoluzione proletaria condotta attraverso la LA delle masse contro lo Stato della borghesia, nella fase rivoluzionaria

La LA delle avanguardie comuniste, nella fase che precede la situazione rivoluzionaria (fase che può durare più o meno a lungo) ha un carattere marcatamente diverso ed attribuirgli un carattere strategico, ci pare sia politicamente inutile. Non si tratta della LA delle masse proletarie (sempre non nel senso della quantità, ma del livello politico), benché nessuno ignori che esistono livelli di violenza spontanea delle masse la cui importanza non può essere sottovalutata. Si tratta della lotta armata del Partito ed ha come obiettivi propri gli obiettivi che caratterizzano la lotta politica in generale del Partito nella fase che precede la fase rivoluzionaria. Cioè scompaginare i disegni politici della borghesia, rendendo più acute le contraddizioni che la attraversano al di là di qualsiasi intervento soggettivo, rendendo più o meno inefficiente l’uso della macchina statale (il che non dipende dal volume di fuoco, ma dalla qualità politica del combattimento); orientare, dirigere ed organizzare il movimento di massa in qualunque forma esso si esprima, ed in definitiva aprire spazi alla crescita dell’autonomia proletaria. Contribuendo così (insieme alla attività di propaganda, agitazione ed organizzazione fra le masse) alla maturazione di quegli elementi soggettivi che andranno costituendo una delle componenti determinanti della situazione rivoluzionaria. L’abbattimento dello Stato borghese, nel senso leninista di distruzione della macchina statale della borghesia (vedi Lenin di “Stato e rivoluzione”), nei paesi del centro imperialista, non può essere realizzato, nella fase rivoluzionaria, che attraverso la lotta armata delle masse proletarie diretta dal Partito. E non può avere altro scopo che quello della sua sostituzione con lo Stato della dittatura proletaria.

La LA del Partito, nella fase non rivoluzionaria, è quindi finalizzata, nei paesi imperialisti, al conseguimento di obiettivi politici determinati, che naturalmente mutano nel tempo, a secondo della situazione politica concreta. Non può essere ripetizione di azioni simboliche di antagonismo astratto ed assoluto, destinate a moltiplicarsi per virtù dell’esempio, ed a realizzare così gradualmente l’attacco allo Stato. La LA del Partito, momento centrale della sua lotta politica, ha lo scopo di scompaginare i disegni politici della borghesia, smascherando il loro significato agli occhi delle masse e rendendone problematica la realizzazione, colpendo quei rapporti politici, quei quadri politici dirigenti concreti, nei quali le forze contraddittorie della borghesia trovano provvisori equilibri e connivenze (quello che è stato definito il cuore dello Stato). Così facendo evidenzia ed acutizza le contraddizioni del fronte borghese (che obbiettivamente esistono), alza la consapevolezza delle masse e ne orienta il movimento, sviluppando contraddizioni nello stesso disegno repressivo, naturalmente anche con i metodi tradizionali del movimento rivoluzionario, che consistono nella eliminazione di spie e torturatori e nella distruzione di strutture della controrivoluzione. Innalza cioè il livello dell’autonomia proletaria. È ovvio che la LA non è l’unico strumento di lavoro politico del Partito.

Abbiamo detto e ripetiamo che in questa fase storica è però il metodo decisivo. Per comprendere la portata di questa affermazione bisogna considerare quella che Lenin chiamava la differenza fra azione dal basso e azione dall’alto del Partito. Se è vero che dal basso, legalmente/o clandestinamente, il Partito educa attraverso la propaganda e mobilita ed organizza attraverso l’agitazione le masse, dall’alto il Partito, come qualsiasi partito, attacca il partito avversario, i partiti avversari, le condizioni politiche, le solidarietà politiche della borghesia che la costituiscono in forza capace di governare lo Stato al servizio dei suoi interessi. Come conduce questo attacco dall’alto? La storia fornisce numerosi esempi che vanno dalla campagna scandalistica, all’azione parlamentare, al controllo delle autonomie locali, all’infiltrazione nei gangli più sensibili dello Stato (per esempio, le forze armate). Non esistono principi in proposito, ma solo scadenze concrete. Nessun metodo è stato, è o sarà adottato una volta per tutte. La scelta dipende da un’analisi della situazione storica e sociale, condotta sulla base dei principi del marxismo-leninismo. L’antiparlamentarismo della “sinistra comunista” italiana è stata una linea errata di rifiuto dell’azione dall’alto, e come tale criticato da Lenin. Qui ed in questa fase storica il metodo di importanza decisiva dell’azione dall’alto del Partito è la lotta armata. Non intendiamo escludere che si possano insieme ad esso impiegare altri metodi, ma quello che ci preme e ci discrimina è che quello della LA viene da noi assunto come metodo decisivo, nel senso che è quello che decide della capacità di sviluppare lo scontro di classe a partire da quel livello offensivo, che nella sua sostanza e nelle sue forme, si è andato determinando, al di là dei contingenti flussi e riflussi.

Nella fase dell’imperialismo la scontro di classe si approssima sempre più al suo momento decisivo, e logicamente la controrivoluzione alza di conseguenza il tiro cercando di prevenire l’offensiva proletaria (e solo episodicamente manifestandosi come “conseguenza” degli attacchi subiti). Il modo tradizionale di fare politica per un Partito comunista rivoluzionario – attraverso un accumulo di forze con metodi “pacifici” – trova spazi sempre più esigui. Prenderne atto e trarne le conseguenze è d’obbligo.

Non si tratta solo né principalmente di rispondere (e cioè di reagire ad una repressione sofisticata) ma di tenere quel terreno che logicamente ed inevitabilmente deve essere tenuto, dato l’attuale sviluppo storico del conflitto di classe. Non ci sono perciò “spazi democratici” da recuperare con le armi, ma c’è da portare ancora più avanti il livello di scontro quale si è venuto storicamente determinando.

Dunque la nostra concezione della LA del Partito non ha nulla a che vedere con la LA spontanea delle masse, con la LA delle avanguardie di massa contro il fascismo e la repressione, con la LA delle anime belle contro i criminali vecchi e nuovi, ecc.

Non abbiamo nulla a che vedere neppure con le concezioni che dividono politico e militare e che sboccano in strutture tipo partito e suo braccio armato, neppure in diverse versioni che vorrebbero il “braccio armato” strettamente subordinato, come una pura funzione “tecnica” al Partito. Dubitiamo che la LA possa essere considerata una funzione “tecnica” (semmai tal genere di funzioni esistesse in generale) e siamo convinti che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato (per esempio nella resistenza antifascista, ma anche nelle guerre di liberazione) che la pretesa di dirigere dall’esterno una tale “funzione”, non potrebbe in definitiva che condurre al suo abbandono al livello più basso del movimento di massa, quello egemonizzato politicamente da riformisti e revisionisti. Coll’inevitabile effetto di “rimbalzo” di dare legittimità e forza a questo livello per pretendere alla direzione delle strutture politiche.

Nulla abbiamo ovviamente infine a che vedere con l’extraparlamentarismo di quei giorni che o – fatalmente – finiscono nel parlamentarismo più bieco, oppure restano in un extraparlamentarismo acefalo, nel quale il rifiuto della lotta parlamentare null’altro ha prodotto di diverso perché il partito non solo possa agire dall’alto, ma possa in definitiva anche agire coerentemente dal basso in mezzo alle masse.

 

IL PROCESSO RIVOLUZIONARIO Il processo rivoluzionario è il fatto di un’avanguardia politica che sappia sviluppare un percorso di avvicinamento delle espressioni di massa (movimenti, fenomeni di resistenza, rivolte apolitiche, violenze diffuse, ecc) agli obiettivi generali storici di classe, un processo di maturazione politica rivoluzionaria (non ideologica), un percorso di lotta politico/economica che liberi le masse dai tanti lacci delle forze conservatrici, dell’inerzia e della rassegnazione.

O meglio ancora, il processo rivoluzionario è il fatto dell’interazione, dialettica tra la determinazione, la progettualità dei comunisti e la dinamica, le esperienze, il processo di “riappropriazione di se stesse” (autorganizzazione) delle masse. Dopo un lungo processo politico-militare, punto culminante ne è l’insurrezione come ribaltamento decisivo dei rapporti di forza, sancito dalla presa del potere, passaggio all’offensiva strategica, sostenuta per l’appunto dall’incontro più compiuto e organico possibile tra il partito e le masse. La rivoluzione, nell’insieme delle sue tappe (lotta per il potere, fase di transizione), è un processo di “riappropriazione” da parte delle masse di tutti gli aspetti della vita sociale, economica, culturale, “personale”, di superamento dei rapporti di oppressione e sfruttamento, di superamento dell’alienazione sociale fondata sulla società divisa in classi. Processo complesso e conflittuale (come la storia delle prime esperienze sociali ci insegna), ma processo ben preciso e non certo riducibile a presa del potere/socializzazione dei mezzi di produzione e del prodotto/espropriazione e repressione della borghesia vecchia e nuova, per quanto questi siano i pilastri della trasformazione.

In un certo senso l’avanzamento del processo rivoluzionario consisterà nel progressivo (non lineare ma contraddittorio) aumento del ruolo delle organizzazioni di massa nella riappropriazione di tutti gli aspetti della vita sociale e nell’esautoramento delle istituzioni separate, nell’estinzione del partito stesso e dello stato.

 

L’UNITÀ POLITICO-MILITARE

Se la LA è la forma tipica del far politica nella fase dell’imperialismo maturo, e ciò non per cattiveria o bontà di qualcuno, ma per il necessario deperimento (quasi totale) degli altri mezzi di confronto (e mediazione) politica, sia a livello interno che a livello internazionale; poiché d’altra parte, senza neppur bisogno di scomodare Clausewitz, è evidente che non si tratta di “circense” con obiettivi di spettacolo e divertimento (cioè solo una forma più atroce dello stesso gioco del calcio), allora si pone concretamente il problema del rapporto tra politico e militare (P-M): cioè il rapporto fra l’analisi e l’elaborazione dei disegni tattici e strategici politici e l’articolazione tattica e strategica delle operazioni militari.

D’altra parte anche il rapporto nelle persone concrete della militanza politica e di quella militare.

Si tratta di questioni per niente oziose, ma fortemente presenti nel Movimento Rivoluzionario (MR) ed alle quali sono state date le soluzioni più diverse, contribuendo così a quella babele delle lingue a cui sopra si faceva cenno. Il primo rischio da affrontare è quello del “militarismo”.

In che cosa consiste il “militarismo”? Nel fatto che i disegni tattici e strategici vengono elaborati distintamente e separatamente da quelli politici e che perciò finiscano fatalmente per vivere e svilupparsi su direttive diverse anche se non necessariamente contraddittorie.

Non si tratta affatto di grossolane sottovalutazioni della ricchezza di articolazione strategica a lungo termine delle operazioni militari, con inevitabili ricadute su tutto il disegno politico.

Anzi semmai il contrario. Per fare un esempio a tavolino: l’attacco militare ad un obiettivo politico (e tutti lo sono, anche quello apparentemente solo militare) può essere condizionato dall’importanza politica maggiore o minore dell’obiettivo e dalle possibilità maggiori o minori di attaccarlo militarmente.

La separatezza del disegno politico e di quello militare porta fatalmente o ad affrontare in modo eccessivo sul piano militare l’obiettivo, o a sopravvalutare le difficoltà militari rispetto all’importanza politica dell’obiettivo, con inevitabile ricaduta sul piano politico complessivo, sia in caso di successo che in caso d’insuccesso.

Inversamente, la valutazione della priorità degli obiettivi politici, con una delega in bianco al piano militare per il loro conseguimento, porta fatalmente all’irrilevanza in definitiva della valutazione politica.

In ogni caso si afferma il “militarismo”, il che vuol dire che le implicazioni politiche implicite nello sviluppo e variazione nel tempo del disegno strategico militare, prevalgono su qualsiasi elaborazione politica prodotta in altra sede (per così dire, esclusivamente politica).

E ciò per l’inevitabile fatto che l’azione e reazione sul piano militare hanno, nel 99% dei casi, tempi decisionali estremamente più rapidi di quelli che può consentirsi qualsiasi Ufficio politico.

E non valgono le soluzioni di puro rimedio provvisorio del genere commissari politici presso le unità militari.

In definitiva, disegno politico e disegno militare devono essere elaborati nello stesso contesto e perciò dalle stesse persone, di modo che tutti i militanti siano coinvolti e pienamente consapevoli dei problemi posti all’uno e all’altro livello.

Di modo che ogni problema che si ponga lungo la via (il che è la cosa più normale del mondo) sia risolto responsabilmente con consapevolezza dei due livelli di problemi, da tutti i militanti coinvolti.

Inoltre ed in più vi è un altro aspetto del problema a cui bisogna far cenno.

Per contrastare la tendenza al “militarismo” molti compagni pensano che normalmente i militanti impegnati sul piano militare sono magari tecnicamente preparatissimi, ma politicamente di livello più basso, più vicini alla sensibilità politica a livello di massa, insomma soldati, fantaccini, e che il compito dell’organizzazione politica è quello di “dirigerli” (in tutti i sensi).

Ciò rappresenta un pericolosissimo riflesso sul terreno dell’organizzazione rivoluzionaria della divisione, nel lavoro produttivo (che è ovviamente altra cosa), fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tipico della società borghese.

Il lavoro militare non è per nulla un lavoro manuale (salvo che in versioni mafiose e camorriste che non ci possono minimamente riguardare), ed il lavoro politico rivoluzionario non è per nulla un lavoro intellettuale (salvo che nelle versioni di cui sopra).

Entrambi i lavori sono manuali ed intellettuali insieme, il che vuol dire concretamente svolti dalle stesse persone, nello stesso contesto.

La perdita di questo orientamento non può che provocare incomprensioni, carenze, rivalità, continue volontà di rivincita fra i compagni, capaci di portare alla disgregazione di qualsiasi struttura organizzata.

Dunque in questo senso noi siamo per la più rigida unità del P-M e deriviamo questa regola dalla considerazione che la LA è il metodo fondamentale, decisivo, essenziale (o come dir si voglia) del fare politica oggi nei paesi del centro imperialista.

 

RAPPORTO PARTITO-MASSE

Il fatto di porre al centro dell’attuale fase la costruzione/costituzione in Partito dell’avanguardia, con la conseguenza di privilegiare la messa a punto di questa dimensione prioritaria, non deve portare a rimuovere ed accantonare la giusta considerazione dell’altro polo del processo rivoluzionario. L’altro polo è il movimento di massa, ciò che vuol dire per noi considerare la sua situazione attuale, in quanto tale e dentro lo sviluppo storico che a tale punto l’ha portato, le esperienze ereditabili e valorizzabili, la loro eventuale valenza politica ed il loro realizzarsi con i percorsi politici dell’avanguardia. Ciò vuol dire saper instaurare una reale dialettica avanguardia-masse (quindi né distacco estremista, né appiattimento acritico). E, soprattutto, rapportarsi al movimento di massa per quello che è, non vuol dire coglierlo staticamente (fotograficamente) nel momento-situazione considerati, ma sempre dentro la sua storia, il suo divenire, e quindi lavorare ai suoi prevedibili sviluppi: cioè bisogna cogliere il movimento di massa nella sua dinamica e questo vuol dire saperlo analizzare, discernere e selezionare le sue espressioni, ciò che è secondario o addirittura arretrato da ciò che è portatore di contenuti avanzati; e, aspetto altrettanto importante, il modo in cui far emergere questi ultimi a scapito dei primi e con cui relazionarli alla politica del Partito.

Quindi le passate esperienze del movimento di massa in quanto tali sono tutt’altro che disprezzabili ed anzi, dentro un’analisi sul movimento di massa attuale e sulle prospettive del come sviluppare una linea di massa, vanno sicuramente riconsiderate e mediate. Per esempio, punto molto avanzato degli anni settanta fu l’estensione sul territorio di esperienze di lotta ed organizzazione che fecero vivere la critica di massa all’insieme dei rapporti sociali capitalistici, fino al limite di situazioni di vera “illegalità di massa”. Autoriduzione di bollette e affitti e le occupazioni di case, alcune lotte negli ospedali e nelle scuole costituirono un terreno molto avanzato sia perché richiedevano un retroterra già molto solido, innestandosi sul possente movimento operaio e servendosi delle sue strutture di fabbrica come scheletro organizzativo primario; sia perché furono una critica di massa, embrionale e spuria fin che si vuole, a leggi ed istituzioni borghesi, ai caratteri ed alle finalità di certe strutture sociali, al diritto borghese nel suo insieme. Furono un attacco alle politiche di spesa pubblica dello Stato, un’imposizione di “prezzi politici” contro quelli che lo Stato pratica normalmente per la borghesia: fu un attacco ai meccanismi più generali e ricompositivi del ciclo di realizzazione del capitale sociale. Furono il rifiuto delle cosiddette “compatibilità economiche”, della presunta neutralità delle leggi economiche; venivano messi in luce i rapporti sociali e reali e veniva attaccato lo Stato pure nella sua veste di “capitalista collettivo”. Cioè fu gran cosa l’aver fatto emergere una critica di massa ai rapporti sociali capitalistici, nella loro estensione a tutta la società ed a tutto il tempo sociale quotidiano, l’averla fatta emergere in forme di lotta ed organizzazione tra le più avanzate possibili a questo livello.

Oltre non può che porsi, logicamente, il salto dialettico alla lotta per il potere politico.

Ma resta il fatto che sicuramente è giusto proporsi di riorientare, indirizzare di nuovo il movimento di massa verso un simile livello di ricomposizione e di capacità critica, oltre che genericamente verso la lotta: il rifiuto a costruire “l’altro movimento operaio” o il nostro movimento di massa non vuol dire adattamento supino al movimento di massa per come si esprime. Vuol dire conoscerlo, indagarlo, radicarvisi il più possibile al fine di orientarlo, indirizzarlo sulle tendenze di classe, potenzialmente rivoluzionarie, e quindi discernere tra le varie esperienze: in questo senso certe esperienze vissute in quegli anni sono da recuperare e riattualizzare in quanto al loro contenuto (e cioè senza idealizzarne le forme).

Porre partito-masse in relazione dialettica, di non continuità, di unità e distinzione, e farlo in una fase piuttosto che in un’altra vuol dire saper situare i due elementi nei rispettivi campi, con tanto di possibilità e limiti. Saperli distinguere e relazionare, per di più non in modo statico ma seguendo la dinamica della lotta di classe e del processo rivoluzionario che naturalmente influisce sul loro peso specifico e reciproco, a seconda delle fasi: questa è la grande questione da risolvere quando si vuole affrontare ed impostare correttamente il rapporto partito-masse. Il che vuol ben dire che la dinamica dei movimenti di massa, il suo ruolo, le sue espressioni, hanno un’importanza precisa e determinante: il partito deve tenere costantemente aperto questo rapporto e sintetizzarlo di volta in volta in una linea di massa. Se abbiamo così insistito sulla distinzione tra dinamica del movimento di massa e di avanguardia è per l’assunzione, leninista, della prima come determinante sostanziale oggettiva e della seconda come propriamente soggettiva, stabilendo che tra i due piani esistono diverse possibili interrelazioni, ma raramente di pura aderenza e, comunque, mai perenni. Per cui l’avanguardia, nel mentre può decidere in modo relativamente autonomo l’intervento verticale, dovrà attenersi a dati oggettivi, dettati dalla situazione “esterna”, nel verificare l’efficacia della sua azione dall’alto sulla base degli spazi aperti all’azione di massa, in ciò consistendo l’essenziale della “linea di massa”. Le due cose stanno insieme, anzi si richiedono: iniziativa dall’alto e promozione dell’azione dal basso concorrono, agendo su piani diversi ed interagendo, a realizzare gli stessi obiettivi tattici e strategici.

Quindi, è importante considerare sia il rapporto di distinzione e di diverso peso specifico dei due piani e, in particolare, che non può esistere “politica dal basso” senza una “politica dall’alto”, sia il fatto fondamentale che tutti e due, nella loro diversità e nella concreta dinamica della lotta di classe, concorrono agli stessi obiettivi tattici e strategici: unità in quanto ad obiettivi, distinzione in quanto a tempi e modi.

Oggi le masse pur essendo disgregate e “passive” sono sempre più distaccate da illusioni sul suddetto baraccone politico borghese. La crisi di consenso e di partecipazione alle istituzioni borghesi si allarga in tutti i paesi occidentali. E quando settori di massa entrano in lotta, dimostrano combattività e determinazione molto alte di fronte a margini di mediazione molto ridotti. Qui sta il salto dialettico avanguardia -masse, più chiaramente che in altri cicli di lotta: sta all’avanguardia, al Partito, sintetizzare la critica complessiva al capitalismo, sia attraverso le grandi questioni messe al centro da una lotta o da una vicenda di particolare rilievo, sia a livello programmatico organico. E basandosi sul fatto che oggi la critica al capitalismo è ben più presente di quanto non si creda, proprio perché è spesso costretta alla clandestinità nell’attuale ricatto permanente dei ferrei rapporti sociali di produzione capitalista, e perché i suoi risvolti sono necessariamente più eversivi in fase di crisi prolungata e stagnante, che non in fase capitalistica ancora espansiva. Il carattere di determinante oggettiva dei movimenti di massa significa anche che essi saranno “sempre limitati” dentro i margini di espressione loro consentiti dal divenire delle situazioni nei rapporti di forza tra le classi dentro l’andamento dei cicli capitalistici. Non saranno mai i movimenti di massa a superare questi limiti, senza il ricorso all’avanguardia: visione storico-politica, programma comunista, capacità d’inscrivere la tattica dentro una strategia d’ampio respiro. D’altra parte però, l’avanguardia tende a superare questi limiti non per se stessa ma nell’interesse generale del proletariato, e quindi tende a trascinare con sé le più ampie masse: movimento che perciò non può essere unilaterale ma risultante di una dialettica attiva tra avanguardia e masse. E movimento che deve basarsi sulla visione più scientifica possibile della fase: vale a dire, col contesto concreto in cui il movimento si inserisce e del “prima” e del “poi” di questo contesto, cioè non visto nell’imbecille moda sociologica, ma nel suo essere un passaggio tra gli altri di un ininterrotto divenire nella base strutturale della società.

Tra queste considerazioni di fase primeggia la contraddittorietà della condizione proletaria, oscillante tra la sua istituzionale negazione di condizione umana ridotta a pura merce forza lavoro (con tutti i riflessi di alienazione e subalternità ideologica alla borghesia) e la negazione di questa negazione, cioè l’emergenza della sua potenzialità rivoluzionaria. Anche questa contraddittorietà è regolata, in ultima analisi, dal rapporto di forza tra le classi entro l’andamento del ciclo capitalistico. Proprio questo è alla base delle attuali grandi potenzialità, perché la stagnazione del ciclo capitalistico in fase di crisi generale da sovrapproduzione, sta incancrenendo sempre più la condizione proletaria, comprimendo i suoi stessi margini di esistenza come pura merce forza lavoro. È questo fatto ben tangibile ovunque, pur a gradi diversi, che spinge i proletari alla lotta, al di là del peso di tante “sconfitte” e dei retaggi ideologici negativi, perché semplicemente oggi non c’è altra via d’uscita che la lotta. Nella crisi i proletari saranno spinti sempre più con le spalle al muro e di conseguenza a rivoltarsi, al di là dei livelli di coscienza espressi.

 

IMPERIALISMO, POLITICA INTERNAZIONALE, INTERNAZIONALISMO PROLETARIO

Siamo in un periodo di crisi capitalista, le varie contromisure messe in atto, gli anticorpi propri del capitalismo, lungi dal risolvere il problema accelerano tale percorso accentuando i processi di immiserimento del proletariato nei vari paesi imperialisti, e la distruzione dei paesi chiamati in via di sviluppo o terzo e quarto mondo. In questo contesto aumenta lo scontro commerciale tra i principali briganti imperialisti, tra di loro e contro i paesi del terzo e quarto mondo. Si evidenzia ogni giorno di più la tendenza alla guerra, oggi giocata nelle aree del mondo sia per interposta persona (basti pensare alle ex colonie), che in modo diretto, si pensi all’Iraq, ed oggi alla Federazione Jugoslava. La caduta del blocco socialimperialista, rende ancora più evidente il ruolo della NATO come gendarme del pianeta e degli USA come nemico principale di qualunque percorso di sviluppo degli equilibri attuali, non solo per i rivoluzionari, ma anche per formazioni neoriformiste o nazionaliste. La globalizzazione e il riesplodere dei conflitti localistici di sapore etnico nazionalistico e/o etnico religioso, nel cuore dell’Europa, sono due aspetti della stessa medaglia dell’epoca imperialista. Leggere il primo come novità che muta la natura imperialistica, e l’altro come un residuo del passato, sarebbe un errore, in essi vi è corrispondenza dialettica. Pongono entrambi nuovi problemi, e ridefinizione di linee d’azione, non mutano l’identificazione della fase che rimane l’epoca dell’imperialismo. Per epoca dell’imperialismo intendiamo quella fase che si è aperta tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente secolo, in cui l’espansione del capitalismo ha messo in evidenza i limiti dei confini dello Stato nazione ed ha spinto obbligatoriamente le grandi potenze capitalistiche (usando per questo scopo anche gli Stati nazione nei quali avevano base ed origine) a conquistare con la violenza le aree del mondo non ancora capitalisticamente sviluppate (il colonialismo) ed a sottomettere anche con la violenza (o tentare di farlo) le altre unità di Stato nazione, rivali e più deboli (essenzialmente le due guerre mondiali).

È quello che chiamiamo l’epoca dell’imperialismo. È ovvio che in questo periodo la lotta delle classi sfruttate assume un carattere marcatamente internazionale, poiché difficilmente possono essere conseguiti risultati concreti, sia in termini puramente economici, che di libertà politiche, che soprattutto di potere politico, se la lotta di classe non si sviluppa tenendo conto dello scacchiere internazionale sul quale l’avversario politico/economico si muove.

Ciò detto, le nazioni così come le contraddizioni nazionali, non scompaiono, e per un radicamento e una possibilità di praticare una politica rivoluzionaria, sono determinanti. La questione della nostra pratica internazionalista, va quindi vista nella dialettica Partito nazionale/politica internazionalista.

Bisogna quindi partire dall’analisi delle contraddizioni tra le classi, dei rapporti di forza, degli interessi in gioco, che si scontrano all’interno degli Stati nazione (nel nostro caso l’Italia) collegarsi con lo scenario internazionale, con la consapevolezza che serve una struttura internazionale dei comunisti, e che sono necessarie alleanze tattiche, ma che le due questioni vanno distinte. Così come vanno distinte la politica estera del Partito, con l’Internazionalismo proletario, che non va inteso come espressione di solidarietà o alleanza tattica, ma come necessità strategica di unire gli sforzi per poter costruire i rapporti di forza necessari favorevoli al proletariato internazionale.

 

ELEMENTI DI ANALISI DI FASE

Possiamo sintetizzare questa fase come quella in cui la borghesia imperialista, per operare un’ulteriore estrazione di plusvalore relativo, attacca a fondo tutta l’infrastruttura dello “stato sociale” o salario indiretto, e tutta la normativa/codice del lavoro, espressioni del precedente rapporto di forza tra le classi. Addirittura da molte parti si confessa la “fine dello stato sociale”, non nel senso di un suo azzeramento ma di forte ridimensionamento e, soprattutto, di sua definitiva subordinazione, di sua riduzione a semplice complemento del rinnovato primato della regola e degli istituti di mercato anche per quei bisogni sociali primari come la previdenza, la salute, la sicurezza. In questo senso il secondo dopoguerra viene ormai archiviato come una “felice” parentesi e si ritorna indietro alla vera giungla capitalista. E questo la dice lunga sulla decadenza del modo di produzione capitalista che ammette di non poter essere motore di progresso per le grandi masse. Questo ci dice anche che le esigenze di estorsione di plusvalore abbattono tutte le frontiere e che la violenza capitalista si ritorce nella sua forma più brutale ora anche dentro le cittadelle imperialiste.

È un passaggio obbligato: le periferie, i popoli oppressi sono ormai talmente spremuti che il capitalismo internazionale è obbligato a mollare un po’ le briglie, a far salire i salari, alleggerire la pressione sulle condizioni proletarie (lo scoppio del sud- est asiatico). La tendenza al rialzo salariale in certi casi, come quello coreano, arriva a raggiungere il movimento inverso in certi paesi imperialisti (come l’Inghilterra). Questo significa dei grossi cambiamenti rispetto ad una certa configurazione dei rapporti tra le classi e della composizione interna del proletariato, pure nei paesi imperialisti.

Come non vedere che in questi ultimi anni si è dato un movimento di gravissimo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del corpo centrale del proletariato? Movimento che si è concretizzato attraverso forme e vie “inedite”: la combinazione di precarizzazione, frantumazione, dispersione sul territorio, supportate dall’informatizzazione dei cicli produttivi e, da un altro lato, la combinazione di immigrazione, mobilità accelerata, delocalizzazione. Tutto ciò ha dato un colpo pesante alla dinamica salariale, determinando un globale arretramento, per cui pure le fasce più protette, l’aristocrazia operaia, si sono viste progressivamente prese in mezzo, accerchiate, fragilizzate (e si pensi alla relativa fragilizzazione persino di strati di quadri intermedi). Oggi anzi siamo all’apoteosi con l’ulteriore e decisiva spinta ai processi di privatizzazione che colpiscono giustappunto settori centrali di aristocrazia operaia.

E per finire, si è dato un movimento (per così dire) di osmosi tra i vari proletariati del mondo, attraverso i tanti fenomeni indotti dall’approfondimento dell’integrazione multinazionale di capitali e Stati per aree e zone di influenza imperialista (le dimensioni bibliche dei flussi migratori, le deportazioni, la disgregazione di interi paesi, e nell’altro senso le delocalizzazioni instabili e le nuove forme di neocolonialismo, non ultima la guerra sotto bandiere “umanitarie”).

 

SULLA SITUAZIONE POLITICA

Il revisionismo, e persino il riformismo (vere espressioni politiche dell’aristocrazia operaia) hanno subito un vero tracollo e partiti come il PCI hanno subito una specie di trasmutazione in partiti “liberal democratici” (se così si possono definire) e pure nella loro rappresentanza sociale che si è spostata molto di più verso ceti piccolo borghesi e di proletariato impiegatizio (senza storia e senza memoria) e soprattutto verso decisivi settori della grande borghesia e borghesia imperialista (sembra che siamo tutti d’accordo sulla preminenza dell’alleanza borghesia imperialista/socialdemocrazia, per lo meno in questa fase).

Questo slittamento della socialdemocrazia ha lasciato scoperto il corpo centrale del proletariato, il quale non aderisce automaticamente ad un’altra frazione borghese. Questo talvolta succede, in particolare nel caso delle forze populiste (come la lega), ma è bene ricordare che queste restano innanzitutto piccolo borghesi, che tra i settori piccolo borghesi minacciati dalla crisi hanno le loro vere truppe di massa e che i settori proletari restano minoritari e politicamente marginali al loro interno (più che mai massa di manovra).

Per contro, fenomeno molto consistente in tutti i paesi imperialisti, è il netto aumento dell’astensione elettorale di stampo proletario. E questo, se non meccanicamente fenomeno, è sicuramente interessante segno di distacco dalla “democrazia formale borghese”.

La tendenza delle democrazie borghesi ad evolvere verso il sistema elettorale “nominale” e mono partitico (all’americana) non può che approfondire questo distacco. E questa tendenza trova a sua volta origine nella contrazione della base sociale dei regimi politici borghesi, in quanto il sistema capitalistico risponde sempre meno all’elementare aspettativa di sviluppo economico-sociale delle grandi masse.

Dunque, ci troviamo in una situazione di disgregazione e confusione del corpo proletario, ma sicuramente anche di contrazione drastica delle possibilità di egemonia dell’aristocrazia operaia!(che, in altre parole, corrisponde alla tendenziale polarizzazione delle classi e complementare riduzione dello spazio per le figure intermedie). I nostri grossi problemi derivano da questa situazione di disgregazione e d’instabilità/messa in mobilità/precarizzazione della classe: qui abbiamo il compito di ricercare, sperimentare, verificare percorsi e modi organizzativi (vecchi e nuovi), per rideterminare aggregazione e politicizzazione. Al tempo stesso ci troviamo in una situazione in cui stanno maturando le condizioni di una nuova polarizzazione di classe e della tendenziale lotta per il potere. Ma bisogna evitare prima di tutti il tipico errore estremista che prende la tendenza per il presente: che la tendenza sia alla guerra di classe non vuol dire che oggi sia guerra. La tendenza alla guerra di classe è una tendenza e, mentre purtroppo è già operante da parte borghese (non solo nel senso di contro rivoluzione preventiva, repressione, ma anche di mobilitazione reazionaria di massa e di spedizioni imperialiste), non è detto che si concretizzi da parte proletaria. È necessario il lavoro da partito perché si concretizzi!

 

PROPOSTE PER UN’INIZIATIVA COMUNE

In una fase come questa, dove grande è la disponibilità delle masse a muoversi ma in cui, per ora, si stanno muovendo politicamente le altre classi, in cui tutti i precedenti equilibri politici sono saltati e la crisi politica della borghesia italiana è ben lontana dal risolversi, in una tale fase bisogna assolutamente puntare alla centralizzazione delle forze d’avanguardia del proletariato ed iniziare a fare politica rivoluzionaria nel modo più conseguente ed utile, tramite l’unità del politico militare, indicando programmaticamente e nei fatti che la via d’uscita agli orrori della crisi capitalistica sta nella rottura rivoluzionaria, nel programma di transizione al socialismo, nella proposta strategica di società comunista.

Per fare ciò pensiamo sia necessario che le forze dell’area comunista avviino un percorso che incontri esperienze pratiche e approfondimenti teorici programmatici comuni. Iniziative che oggi, se si riscontra una progettualità comune, dovrebbero permettere la gestione di una campagna comune, sulla valorizzazione della lotta armata comunista, rispondendo all’esigenza di visibilità che attraversa tutta l’area, al punto che molti compagni e molte avanguardie si chiedono se una area che affronta tale dibattito esista ancora.

Per quanto riguarda la presenza politica dentro i movimenti di massa, anche in questo caso proponiamo di individuare possibili iniziative comuni in dialettica rispetto al livello d’iniziativa complessiva della politica rivoluzionaria.

Se obiettivo principale è la dimostrazione che è possibile e necessario attaccare la borghesia e i suoi progetti politici, che è possibile dare il via ad un processo di costituzione del proletariato in classe indipendente che, rifiutando di lasciarsi trascinare nel mostruoso ingranaggio di crisi e guerre imperialiste, impari a combattere per i propri interessi generali. Non è secondario colpire il singolo padrone, il capo reparto particolarmente “fascista”, le agenzie interinali, non è indifferente favorire pratiche di questo tipo tra i lavoratori. Ma per svolgere questo compito e soprattutto per favorire processi di unità di classe è necessario andare a scuola dalle masse, porsi cioè come obiettivo il radicarsi di una realtà di lotta, di fabbrica come di territorio, evitando il minoritarismo dei vari dogmatici di turno, imparando dalle masse, valutando i rapporti concreti, tappa per tappa, diventando avanguardie riconosciute di queste lotte.

Le esperienze di organizzazione e di resistenza di classe prodottesi in questi anni nelle varie forme (autoconvocati, autorganizzati, strutture sindacali di base, ecc.) e le avanguardie formatesi e consolidatesi nelle stesse, sono la base di partenza per una ripresa non dei movimenti delle masse (che la soggettività non può determinare) ma, all’interno di questi movimenti, dell’autonomia di classe. Sono, cioè la parte più avanzata del proletariato nelle condizioni storicamente prodottesi in Italia.

Oggi per realizzare questa politica, diventa necessario collegarsi con le maggiori esperienze prodotte in questi anni dall’autonomia di classe, sapendo coniugare inchiesta maoista e inchiesta operaia, costruendo insieme sapere rivoluzionario e linea di massa ma, al tempo stesso, presenza politica nei principali poli industriali.

Va in particolar modo, ricercato un rapporto con quelle nuove avanguardie espresse dalla mobilitazione operaia e sociale in questi anni, cogliendo i due aspetti, la necessità di favorire i maggiori percorsi possibili di sviluppo e unità dell’autonomia di classe, e la necessità di reclutamento al fine di costituire cellule comuniste nei principali poli industriali.

Posti per l’essenziale i terreni di pratica comune, per quanto riguarda gli approfondimenti teorici e programmatici comuni proponiamo qui di seguito alcune tesi base di confronto:

 

LINEA DI MASSA

Per “linea di massa” si intende un carattere essenziale della linea complessiva del Partito, in base al quale la linea complessiva del Partito risulta dalla intelligenza delle idee disordinate diffuse tra le masse, la loro sistematizzazione e la loro sottoposizione (se così si può dire) alla verifica di massa. Questa è una questione essenziale della comprensione del problema: “da dove vengono le idee giuste”. Ciò sia che si tratti delle azioni “dall’alto” che dell’iniziativa “dal basso” del Partito; entrambe, infatti, sono sottoposte alla linea di massa.

 

CRISI

Ogni pretesa analisi della crisi, fondata sull’elencazione di “indici obiettivi” appare fatua e volatile, se non è strettamente accompagnata dall’esame dei punti di vista di classe che leggono concretamente (e non in modo vagamente “potenziale”) questi “indici obiettivi”. Che in sostanza il concetto di “crisi economica epocale” è del tutto astratto (cioè politicamente inutilizzabile) se non perviene alla definizione della situazione come rivoluzionaria, prerivoluzionaria o non rivoluzionaria.

La definizione della linea di massa, la definizione dell’avversario principale, la definizione della contraddizione principale, passa quindi attraverso una lettura della realtà che ponga condizione materiale e percezione soggettiva come un tutt’uno, in un essere dialetticamente unitario, non in ipotetici appiattimenti della realtà in cui tutto è dogmaticamente predeterminato.

Nella pratica politica comunista, nell’esistere concreto del Partito, non è sufficiente, infatti, una asettica lettura di dati inconfutabili e un altrettanto inconfutabile predicazione, ma una capacità critica che, a partire da quei dati, in rapporto con le masse, sappia sviluppare una politica capace di far avanzare al meglio le condizioni della soggettività di classe ai suoi vari livelli.

 

PROLETARIATO

Il proletariato non è una massa omogenea, percorsa dalla “sola e semplice” coscienza fra antagonisti e rassegnati, ma da reali contraddizioni materiali che ne disegnano percorsi soggettivi contraddittori con i quali i comunisti devono fare i conti. Che, in sostanza, la definizione di una situazione come prerivoluzionaria o rivoluzionaria dipende, in ultima analisi, dalla possibilità dei settori di classe più colpiti dalla crisi e dove sono più radicate l’organizzazione e le tradizioni di lotta (che, nel nostro paese, vuol dire la classe operaia dei grandi poli industriali e le masse proletarie metropolitane) di diventare egemoni sulle altre molteplici figure sociali, facendo così da miccia all’esplosione, cioè alla mobilitazione e alla lotta (del numero più vasto possibile) dei vari settori proletari e popolari.

 

BORGHESIA

La borghesia non è una classe omogenea espressa essenzialmente dalla borghesia imperialista, ma un campo contraddittorio composto da frazioni diverse, oggi in Italia e nel mondo in particolare fermento, nel quale i comunisti devono saper individuare i vari schieramenti ed interessi per individuare il nemico principale.

 

CENTRALITÀ OPERAIA

L’attuale scomposizione di classe ci pare che la confermi, in negativo: si vedono bene i danni provocati da una precisa strategia capitalistica di ridimensionamento/attacco ai poli industriali che fungevano (e lo sono ancora in parte) da avanguardia di massa. Anzi, attraverso la frantumazione di classe attuale, la borghesia sostiene e preme per l’affermazione di pratiche sociali e teorie “atomizzanti”, che cominciarono nell’80 con “piccolo è bello” per proseguire oggi col “no profit”, “economia sociale”, ecc. Combattendo queste scellerate teorie da “parassitismo sociale”, dobbiamo sostenere tutte le esperienze che cercano di riportare lo scontro nel cuore del sistema capitalistico, rimettendo in questione la produzione, i rapporti di produzione, come centro ineludibile di tutte le contraddizioni: o si attacca il capitalismo o si finisce nei peggiori corporativismi da “sottoprofittatori” dell’imperialismo!

 

LAVORO DI MASSA

Per “lavoro di massa” si intende che il Partito impiega i suoi quadri nelle quotidiane lotte per “il pane ed il sale” (cioè le lotte economiche), secondo il principio: “prima vivere e quindi filosofare”, in tutte le forme storiche in cui si manifestano o possono manifestarsi. Ancora oggi, come dimostrato dall’intera storia del movimento operaio, è a partire da queste lotte, dall’esperienza concreta di uomini e donne sul terreno della difesa della propria esistenza, che si sviluppa quella consapevolezza che porterà agli scioperi politici, sino a fare di alcuni di loro (il più alto numero possibile, si spera) dei comunisti.

 

VIOLENZA DI MASSA

Teniamo presente che si è sviluppata in questi anni una realtà di violenza diffusa, benché ancora marginale, spesso in forme cieche, irrazionali come i fenomeni endemici nelle cinture metropolitane. Questa realtà è comunque importante sia perché corrisponde a quelle fasce crescenti di proletariato che sono condannati a vegetare tra la disoccupazione, il precariato e le attività extralegali, fasce a cui non restano altre forme di espressione che quelle violente; sia perché questo genere di violenza va in cortocircuito all’interno della realtà proletaria, alimentando divisione e degenerazione del tessuto sociale proletario (le bande “etniche”, l’aggressività dei giovani contro i vecchi, la violenza sessista ecc).

Evitando sia il romanticismo della violenza (autonomo, anarcoide), che l’indifferentismo riguardo a fenomeni importanti nell’attuale realtà di classe, si tratta più che mai di agire da partito per dare possibilità di espressione a settori proletari che non ne hanno, per trasformare energia rozza in positivo rivoluzionario.

 

POLITICA DAL BASSO

Per “politica dal basso” si intende che il Partito, tramite le sue cellule nei luoghi di lavoro e sul territorio, attraverso il suo giornale e con vari strumenti di agitazione e propaganda, anche armata, si sforza di mobilitare le masse intorno agli obiettivi tattici (nelle situazioni non rivoluzionarie e rivoluzionarie in sviluppo) concernenti gli equilibri politici e le varie coalizioni che li rendono possibili.

Se per i comunisti, ogni coalizione che regge lo Stato capitalistico è senz’altro nemica, nell’agire concreto della politica comunista, nel processo di accumulo delle forze, non è indifferente che la caduta di un governo avvenga sotto la pressione di altri intriganti della partitocrazia italiana, sotto le pressioni leghiste o sotto le spinte delle masse e l’iniziativa politico/militare dei comunisti.

 

POLITICA DALL’ALTO

Per “politica dall’alto” si intende l’iniziativa politico militare che il Partito conduce, con i suoi propri strumenti e coi suoi propri militanti, contro il governo e i vari “comitati d’affari della borghesia”, contro quello che viene individuato come obiettivo politico tattico su cui concentrare politica dal basso e politica dall’alto.

Nella situazione rivoluzionaria, gli obiettivi politico tattici si spostano su di un livello strategico, ma l’articolazione del lavoro di partito non cambia (o almeno non cambia di molto).

 

POLITICA RIVOLUZIONARIA

I comunisti, il loro Partito, devono intervenire in ogni situazione, anche nelle fasi non rivoluzionarie, a dispetto dei vari attendismi presenti nel movimento rivoluzionario (m-l “volgari”, neo –bordighisti). Nella situazione non rivoluzionaria, così come nella situazione rivoluzionaria in sviluppo, il Partito fa politica dall’alto e dal basso, attacca i partiti borghesi e gli equilibri politici che reggono i governi della borghesia, difende l’interesse di classe, fa crescere l’organizzazione e la coscienza delle masse. In questo modo, il Partito “mette fieno in cascina”, attirando a se le migliori avanguardie, guadagnando l’interesse di parte dei proletari, affinando e approntando il proprio bagaglio teorico che viene continuamente verificato nella realtà.

 

SUL PIANO ORGANIZZATIVO

Ci vogliono due livelli, separati, distinti ed in stretta e continua interazione.

Sul livello di massa:

  1. a) Inchiesta, come metodo generale, permanente e concreto del nostro rapporto alla realtà di massa.
    Inchiesta come un terreno di verifica e di attivazione dei proletari avanzati, di nuove avanguardie. Nel senso maoista: “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, nel senso leninista: “analisi concreta della situazione concreta”. Ciò che rinvia comunque all’aspetto dialettico: nell’inchiesta non esiste solo l’“oggetto” ma anche il soggetto che è tanto più efficace quanto più si avvicina al Partito.
  1. b) Le organizzazioni di massa esistenti. Ripetiamo che poco conta l’etichetta o le pretese “politiche” di queste, l’importante e che siano luoghi di vera esperienza di massa. In questo senso dobbiamo essere attenti sia alle strutture sindacali che a quelle esterne ai sindacati. Esperienze di massa, organizzazione di lotta, autorganizzazione, tutto ciò va considerato attentamente e non tanto in funzione “nostra” (con logica da reclutamento) ma nella sua dinamica propria, rispetto alla quale stabilire di volta in volta la dialettica da Partito. Ciò che si vuol dire è che è importante che la dinamica di massa, in quanto tale, esista, possa esistere, anche se il Partito fa di tutto per orientarla verso la tendenza rivoluzionaria. Insomma aver presente che i Soviet senza Partito non esistono, ma che comunque devono esistere!

Sul livello di partito:

  1. a) La questione essenziale è il riconoscimento degli sviluppi della posizione rivoluzionaria in questi decenni, nella metropoli imperialista. Senza partito armato non c’è politica rivoluzionaria. Bisogna rompere la spirale viziosa che riporta lo scontro di classe negli ambiti del parlamentarismo.
    Da subito il partito deve esplicitarsi per quello che è, e cioè il soggetto politico che opera per aprire la strada ad un processo rivoluzionario, quindi che si organizza, si struttura ed opera in un certo modo. Incentrato su una fase in cui il politico prevale sul militare, utilizza quest’ultimo per due obiettivi fondamentali:
    1) Darsi la propria autonomia: logistica, struttura, rivoluzionari di professione.
    2) Fare politica, intervenendo a modo suo nella lotta politica.
    Puntualmente, anche se con bassa frequenza. Preoccupandosi oggi molto più del radicamento e della gestione, prima e poi, dell’azione. Azione che resta vitale per poter affermare il progetto politico (partito basato sull’unità del politico militare, concretizzazione della via rivoluzionaria), ma che oggi è aspetto “minore” nell’unità del politico militare.
    Quindi si può immaginare un’organizzazione costituita secondo i criteri della clandestinità, ma in cui solo una parte opera militarmente, mentre il grosso deve essere impegnato nella gestione politica, nella copertura, riproduzione, consolidamento della struttura d’insieme (ciò che non toglie che tutti devono essere disponibili a tutto, al di là della momentanea collocazione e secondo uno dei criteri succitati).
  1. b) In altri paesi i comunisti si sono dati coordinamenti. Per esempio in Messico, attorno al PROCUP, un coordinamento di sette gruppi, divisi non solo da sfumature ideologico-politiche, ma anche semplicemente dalla dimensione locale, dalle difficoltà di collegamento e unità. Coordinamento politico militare che poi sfocerà nella formazione dell’attuale ERP.

Con le dovute proporzioni e differenze, non potremmo avviare un coordinamento analogo? Questo potrebbe essere un primo passo: coordinamento politico militare, costituzione di strutture. Ricominciare a strutturare, a costruire la nostra forza e non nell’ottica ’70 di “escalation” (che si noti bene è stato perdente in tanti paesi) ma di contribuire all’avvio di un processo rivoluzionario di lungo periodo, facente perno sulla relazione tra maturazione rivoluzionaria delle masse e azione politica da partito (percorso che resiste in tanti paesi dove questa prospettiva è stata assunta, grazie ad una precisa sintesi ideologico-politica-organizzativa).

 

Aprile 99