Risoluzione della Direzione Strategica, febbraio 1978

PARTE PRIMA

L’imperialismo delle multinazionali

L’imperialismo è guerra

Lo Stato Imperialista delle Multinazionali

Formazione di un personale politico imperialista

Rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo

Lo Stato imperialista delle multinazionali non è fascista né socialdemocratico

La ristrutturazione industriale

Violenza proletaria e controrivoluzione imperialista

Una nuova figura proletaria: il “criminale politico” ovvero il guerrigliero urbano

Il patto di mutua assistenza repressiva tra gli Stati imperialisti

Dal patto di mutua assistenza repressiva all’organizzazione comune di polizia

 

SECONDA PARTE

Gli apparati della controrivoluzione preventiva nel nostro paese

Uscire dalla crisi

Fase e congiuntura

L’attuale congiuntura, passaggio dalla pace armata alla guerra

 

TERZA PARTE

Sulle forme dell’azione di guerriglia nell’attuale congiuntura

Proletariato Metropolitano e Movimento di Resistenza Proletario Offensivo

Classe Operaia

Esercito intellettuale di riserva

La piccola borghesia

Lavoro femminile

Guerriglia e potere proletario

Il partito comunista combattente

I fronti di combattimento

L’Italia è l’anello debole della catena imperialista

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropolitane

Note

 

Risoluzione della Direzione Strategica

 

L’imperialismo delle multinazionali.

Per imperialismo delle multinazionali intendiamo la fase dell’imperialismo in cui domina il capitale monopolistico multinazionale. Il monopolio multiproduttivo-multinazionale, cioè grandi trust, con aziende in vari paesi e investimenti in diversi settori, è ora l’elemento strutturale dominante e la base fondamentale dei movimenti del capitale, non è più quindi l’area nazionale, ma l’area capitalistica nel suo complesso. Se l’elemento costitutivo fondamentale dell’imperialismo è stato sin dal suo sorgere il capitale monopolistico, è però solo con la seconda guerra mondiale che si ha il definitivo affermarsi in tutta l’area capitalistica del capitale monopolistico multinazionale. I grandi gruppi monopolistici possono ora superare definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su tutta l’area e la struttura multinazionale diventa fattore necessario ed indispensabile per ogni ulteriore sviluppo. È infatti grazie ad essa che si possono sfruttare pienamente i diversi saggi di profitto presenti nell’area e realizzare così quegli enormi sovraprofitti che sono il dato caratteristico dell’accumulazione nella fase imperialista. La “multinazionalità” quindi non è semplicemente internazionalizzazione del mercato capitalistico, ma internazionalizzazione del capitale nella sua totalità! Strutture produttive, mercato, rapporti di proprietà ecc. Questo processo di internazionalizzazione del capitale determina all’interno del fronte borghese la dominanza della borghesia imperialista, espressione di classe del capitale monopolistico multinazionale e parallelamente al suo affermarsi vanno consolidandosi anche i suoi strumenti istituzionali di mediazione e di dominio (Trilateral, Stato Imperialista delle Multinazionali, Fmi, Cee…). Dominanza del capitale multinazionale e della borghesia imperialista, non significa però che ogni capitale è in questa fase un capitale multinazionale, ma che ogni altra forma capitalistica, sia essa nazionale o non monopolistica, va ora analizzata nei suoi rapporti di dipendenza organica dal capitale multinazionale: sono i movimenti del capitale multinazionale che determinano in ultima istanza i movimenti di tutti gli altri capitali. Non si ha quindi il superamento delle contraddizioni all’interno del fronte borghese, ma il loro riproporsi sotto forme diverse: con la contraddizione intercapitalistica principale non è più tra capitali nazionali (quindi tra aree nazionali e borghesia nazionali), ma tra grandi gruppi multinazionali (quindi percorrono verticalmente la borghesia imperialista).

Con questo non si vuol negare l’esistenza anche di contraddizioni tra le varie “nazioni” capitalistiche o tra capitale monopolistico e capitale non monopolistico, ma pensiamo che queste contraddizioni siano essenzialmente il riflesso di contraddizioni ben più profonde tra gruppi multinazionali. Le varie aree nazionali infatti sopravvivono ora come retroterra delle multinazionali: per ogni multinazionale, l’area nazionale in cui è nata e si è sviluppata, diventa il suo “punto di forza”, la zona in cui essa gode di un monopolio quasi incontrastato. Quando parliamo di multinazionali infatti sottointendiamo sempre “multinazionali con polo nazionale”, e per questo usiamo le espressioni, a prima vista contraddittorie, “multinazionali americane, tedesche, ecc”. Il capitale non monopolistico, dipendendo organicamente da quello monopolistico, viene certamente con esso in unità contraddittoria, ma non può avere ovviamente la possibilità e la forza materiale di dar luogo ad una espressione politica di queste contraddizioni sotto forma di rottura del fronte imperialista. L’imperialismo delle multinazionali si presenta perciò come un sistema di dominio globale in cui i vari “capitalismi nazionali” sono semplicemente sue articolazioni organiche, e le diverse “aree nazionali” sussistono come espressione geografica della divisione internazionale del lavoro da esso determinata. Possiamo quindi trarre una prima considerazione. In ogni area nazionale il proletariato non si trova a fare i conti con la sua “borghesia nazionale” ma con l’articolazione locale della borghesia imperialista. Questo conferisce, anche nelle metropoli, alla lotta di classe del proletariato il carattere di lotta antimperialista e quindi, più in generale la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli è immediatamente anche guerra di liberazione antimperialistica, guerra di lunga durata. La catena imperialista resta comunque caratterizzata, come abbiamo visto, dal suo sviluppo ineguale, che si manifesta in ogni suo anello attraverso la specificità della sua formazione economico sociale (rapporto tra capitale multinazionale dominante e capitale multinazionale del “polo”, fra capitale monopolistico e non monopolistico, tra borghesia imperialista “interna” e proletariato) per cui la lotta di classe pur in questa sua omogeneità strategica di contenuto e di prospettiva, si presenta ancora con forme specifiche e tempi propri a seconda delle diverse aree nazionali.

 

L’imperialismo è guerra

L’attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all’intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l’imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzitutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo. All’imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva. Infatti rimanere ancora “ristretto” nell’area occidentale, significa per l’imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente). Si pone perciò all’imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (Urss e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto Usa-Urss. Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa, non sono che i primi passi di questo processo. È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All’interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come un urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica o guerra di classe nella metropoli imperialista mondiale. Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre.

Ecco la lezione che Marx trae dalla Comune: “Che dopo la guerra più sconvolgente dei tempi moderni, il vinto ed il vincitore fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti prova, non come pensa Bismarck lo schiacciamento definitivo di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della vecchia società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale: ed è ora dimostrato che questa è una semplice mistificazione dei vari governi, la quale tende a ritardare e ad affossare la lotta delle classi e viene messa da parte non appena questa lotta di classe divampa in guerra civile”.

Inoltre nella crisi che precede la guerra i rapporti di forza sono strategicamente favorevoli alla rivoluzione proletaria. La crisi infatti genera contraddizioni sociali fortissime che determinano uno scontro di classe violentissimo, e nella misura in cui questo scontro di classe si approfondisce e si sviluppa trasformandosi in Guerra di Classe, la borghesia non può porsi sul terreno della guerra imperialista: la crisi diviene così irreversibile acuendo contemporaneamente ancor più il processo di guerra civile in atto. È questa la dialettica che potrà inchiodare lo sviluppo capitalistico. Possiamo perciò formulare la seguente generalizzazione: nella crisi la parola d’ordine della borghesia è “bloccare il processo di guerra civile trasformandolo in guerra imperialista e sconfiggere così la rivoluzione”, quella dei comunisti deve necessariamente essere: “sviluppare il processo di guerra civile in atto ed impedire così la guerra imperialista”.

 

Lo Stato Imperialista delle Multinazionali

  1. a) È necessario innanzitutto fissare alcuni criteri metodologici che stanno alla base della determinazione del concetto di Stato Imperialista. Cominciamo perciò col dire che non crediamo che la sostanza del capitalismo, cioè le sue contraddizioni specifiche si sia modificata nel corso di questo secolo. Si è modificata invece la forma e cioè il modo in cui queste contraddizioni tendono a manifestarsi storicamente. Per spiegarci meglio accenniamo alla divergenza tra Lenin e Bucharin a proposito della natura del capitalismo. A Bucharin che sosteneva che l’imperialismo era un fenomeno completamente nuovo rispetto al capitalismo della libera concorrenza, Lenin così rispondeva: “L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo” cioè alla base dell’imperialismo stanno le stesse contraddizioni del capitalismo: la sostanza è rimasta immutata, solo la forma si è modificata (da “capitalismo privato” a “capitalismo monopolistico di Stato” dalla “libera concorrenza” alla “concorrenza tra monopoli”). Il problema per Lenin non era cioè quello di un superamento delle categorie fondamentali dell’analisi marxista, ma di una loro ridefinizione formale (storico-politica) alla luce della nuova realtà. Parafrasando Lenin, anche noi possiamo dire che: “L’imperialismo delle multinazionali è una sovrastruttura dell’imperialismo” e che, quindi, il nostro compito non è quello di buttare a mare le categorie dell’analisi leninista (“Stato nazione, “catena imperialista”, “l’anello debole”), ma di riconsiderare la forma e, quindi, esplicitarla, che esse assumono nella presente fase politica. Stesso discorso è da fare per le categorie “partito” e “dittatura del proletariato”, la nostra riconsiderazione teorico-pratica del Partito comunista combattente non è infatti altro che la riproduzione della sostanza dell’esperienza leninista, e dei suoi sviluppi con la rivoluzione cinese, nella fase attuale. Per questo ci definiamo “marxisti-leninisti”.
  2. b) Lo Stato Imperialista delle Multinazionali è la sovrastruttura istituzionale “nazionale” corrispondente alla fase dell’imperialismo delle multinazionali. Suoi caratteri essenziali sono: formazione di un personale politico imperialista, rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo, riformismo ed annientamento come forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva.

 

Formazione di un personale politico imperialista

Con lo sviluppo anche nella nostra area, a partire dalla metà degli anni ’50 (dopo il ’57 con la massiccia penetrazione del capitale multinazionale Usa e con il contemporaneo sviluppo del nostro capitale nazionale su scala internazionale), di una struttura economica multinazionale, viene formandosi all’interno della borghesia una frazione di borghesia imperialista. Definiamo borghesia imperialista “interna” quella frazione della classe borghese integrata nel sistema imperialista mondiale, espressione del capitale monopolistico multinazionale ed elemento trainante del processo di ristrutturazione imperialista della nostra area economica e delle relative sovrastrutture politiche e istituzionali.

Nello stesso periodo gli strumenti istituzionali sovranazionali (Fmi, Cee, Nato), mediante i quali la borghesia imperialista vuole imporre la sua strategia globale, acquistano forza ed assumono un grado di potere tale da subordinare e funzionalizzare a sé gli “Stati nazionali” che in questo processo sono così costretti a ridefinirsi nelle loro strutture interne. Questi Stati, ristrutturandosi, si predispongono a svolgere due ruoli fondamentali:

– Cinghia di trasmissione degli interessi economici-strategici globali dell’imperialismo dominante.

– “Normalizzazione dell’area”, vale a dire organizzazione della controrivoluzione preventiva al fine di annichilire ogni “velleità” rivoluzionaria.

Naturalmente queste funzioni, negli anelli economicamente più deboli e politicamente più instabili, diventano decisive e perciò vengono portate avanti dalla borghesia imperialista “interna” utilizzando le pratiche e i modelli repressivi più avanzati già operanti negli anelli più forti e sotto la supervisione dei centri del comando sovranazionale.

“Lo Stato-nazione diventa cinghia di trasmissione del capitale internazionale organizzato contro il popolo. Lo Stato-costituzionale borghese, nel suo processo di evoluzione contraddittoria tra socializzazione della produzione e concentrazione internazionale del capitale deve essere dissolto e sostituito dallo Stato forte o dalla democrazia armata” (Croissant).

Come tutti i processi storici anche questo cammina sulle gambe degli uomini. L’emergere della borghesia imperialista “interna” come frazione dominante della borghesia, ha così un’altra conseguenza: l’affermarsi nelle articolazioni vitali del potere di un personale economico-politico-militare che è la più diretta espressione dei suoi interessi. Questa nuova burocrazia efficiente, intercambiabile, “europea” non viene più selezionata, qualificata dalle vecchie scuole di partito, ma direttamente dai Centri di formazione dei quadri, dalle Fondazioni, dalle Fabbriche dei cervelli predisposte allo scopo dalle grandi multinazionali. Condizione imprescindibile della sua funzione è una presenza egemone negli apparati di dominio che compongono lo Stato o che comunque articolano la sua azione e cioè i fondamentali centri del potere: Governo, Banca d’Italia, Confindustria, Mass-media… Suo compito specifico è invece quello di ricercare e rendere operanti le mediazioni più equilibrate, cioè meno contraddittorie, tra gli interessi capitalistici dominanti e quelli particolari dell’area. Si capisce subito che l’affermarsi della borghesia imperialista e del suo personale non è un processo lineare, infatti questa nuova burocrazia è tutt’ora in lotta per occupare i punti chiave dello Stato e quand’è il caso, scalzare dalle posizioni strategiche quegli uomini che esprimono interessi conflittuali e cioè propri delle altre frazioni della borghesia. Nella nostra area vediamo, ad esempio, come in questi anni si sia venuto formando un personale politico strettamente legato ai circoli imperialistici, il quale, pur concentrandosi in un partito (Dc), è presente in modo egemone in tutti gli altri partiti del cosiddetto “arco costituzionale” (certamente dal Psi al Msi) e tende a far valere la sua presenza in tutti i fondamentali centri del potere.

Vediamo anche che la vittoria di questo personale e naturalmente della frazione di borghesia che lo esprime, non è assolutamente un processo privo di contraddizioni, ma una lotta micidiale tra squali borghesi.

L’affermazione degli interessi complessivi dell’imperialismo passa dunque per una fase transitoria in cui le varie forze borghesi si scontrano e coesistono, rappresentando un elemento interno della crisi dello Stato. E però, questa crisi che travaglia lo Stato, non spinge assolutamente verso la sua disgregazione, bensì alla sua ristrutturazione: questa tendenza crisi-ristrutturazione, mostra che la contraddizione principale del movimento rivoluzionario è quella che lo oppone immediatamente al sistema di potere imperialista su scala mondiale. Affrontare questa contraddizione significa quindi muoversi sul terreno della guerra di classe di lunga durata. Forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato, in Italia, è la Democrazia Cristiana. In questa chiave va letto il durissimo scontro in corso al suo interno e il cosiddetto processo di “rinnovamento”. La crisi di identità che la Dc sta attraversando, in modo particolare dal giugno ’75, è determinata da due processi concomitanti: la crisi-ristrutturazione della strategia mondiale degli Stati imperialistici da un lato, e dall’altro la richiesta di potere del proletariato italiano in vario modo espressa dalle sue componenti politiche sia revisioniste che rivoluzionarie. Nel quadro dell’unità strategica degli Stati imperialisti le maggiori potenze alla testa della catena gerarchica richiedono alla Dc di funzionare da polo politico nazionale della controrivoluzione, ma essa, così com’è attualmente strutturata risulta in larga misura inadatta allo scopo. Dunque si deve rinnovare e ciò vuol dire che deve ridefinirsi chiaramente come filiale nazionale efficiente della più grande multinazionale del crimine che l’umanità abbia mai conosciuto. Solo da una Dc ridefinita nel senso sopraindicato potrà venire la riconversione dello Stato-nazione in anello efficiente della catena imperialista e cioè potranno essere imposte le feroci politiche economiche e le profonde trasformazioni istituzionali in funzione apertamente repressiva, richieste dai partner della catena. Il filo a piombo di tutta la complessa operazione è dunque la politica estera degli Usa, della Rft e dei fondamentali centri motori dell’imperialismo (Fmi, Cee, Nato) nel senso che la politica “interna” di cui la Dc deve farsi promotrice non può essere che una funzione diretta della politica “estera” di quei paesi e di quei centri. Del resto non bisogna dimenticare che anche il Capitale è conscio del carattere non più ciclico delle proprie contraddizioni; che il suo fine è quello di sopravvivere all’interno di questa fase del suo sviluppo. Le teorie sulla “crescita zero” sono state scoperte dalla scienza borghese ormai da qualche tempo. L’irrisolvibilità delle contraddizioni nella sfera economica porta alla ricerca di una “indipendenza” dell’assetto politico-sociale tramite il potenziamento dell’apparato di dominio che si configura come “guerra preventiva” controrivoluzionaria. Vale a dire: lo Stato diviene “soggetto della politica”, come affermano i compagni della Raf. Ma, in questo non bisogna vedere il tentativo di annientare le contraddizioni sociali secondo il meccanismo repressione-passaggio ad una nuova fase di sviluppo, bensì il loro contenimento attraverso l’annientamento di ogni progetto di ricomposizione del conflitto di classe su un programma antagonista. Nelle aspirazioni la legge dello sviluppo diseguale dovrebbe ridimensionare le ripercussioni dell’intensità del conflitto sociale in certe aree della catena imperialista (come l’Italia) con la riduzione del suo peso economico.

In questa prospettiva l’uso dei meccanismi deflattivi, se da un lato non porta segni di ripresa, dall’altro dovrebbe servire a circoscrivere l’attacco alle condizioni economico-sociali di una minor quota della popolazione, la meno privilegiata. Anche la lotta armata, in questo quadro, dovrebbe venire ghettizzata, confinata, come fenomeno endemico, espressione spontanea dell’emarginazione, per esempio, lotta che non veda, oltre gli apparati civili nazionali (produttivi, amministrativi, partitico istituzionali), quelli di guerra preventiva imperialistica. Dice Schmidt: “Tra l’anarchia e la reazione c’è un ampio spazio per qualcosa di ponderato” spiegando a proposito di Italia, Giappone, Germania che “in nessun posto del mondo libero, dopo gli anni ’30 e ’40, il logorio della morale e dell’autorità è stato così grande come in questi tre Paesi… ci vuole molto tempo affinché questi valori possano ridiventare credibili”.

 

Rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo

La rigida centralizzazione dei centri vitali dello Stato nelle mani della borghesia imperialista attraverso la burocrazia è condizione necessaria per la sua ristrutturazione: solo così, infatti, è possibile controllare le tensioni particolari dell’area e risolverle, subordinandole, all’interno del piano imperialistico globale. Per questo nei vari Stati-nazione assistiamo allo svuotamento progressivo del potere del Parlamento e al rafforzamento di quello dell’Esecutivo. Negli Stati-costituzionali borghesi, infatti il Parlamento istituzionalmente è la sede in cui dovrebbe, mediante la “lotta” tra i partiti, affermarsi la sintesi dei vari interessi particolari dell’area di cui questi partiti sono l’espressione; ma come tale esso risulterebbe poco “governabile” dall’imperialismo e quindi strumento inefficiente per la realizzazione della sua politica. L’Esecutivo invece, nella misura in cui è direttamente controllato e formato da personale politico imperialista, è in grado di assolvere molto più efficacemente a questo compito. Assistiamo così ad un capovolgimento dei ruoli: lo Stato non è più come nella tradizione liberal-democratica espressione dei vari partiti, ma ora sono i partiti ad essere “espressione” dello Stato: e l’Esecutivo non è più l’espressione politica dei rapporti di forza interni al Parlamento, ma lo strumento “straniero” degli interessi della borghesia imperialista nell’area nazionale. È lo Stato cioè che ora usa i partiti, li rivitalizza attraverso il finanziamento pubblico e se ne serve per mobilitare e organizzare le masse intorno alla sua politica. Con l’affermazione dello Stato imperialista si compie quindi fino in fondo il processo di statalizzazione della società e come ha scritto Ulrike Meinhof: “…Nella completa compenetrazione di tutti i rapporti dell’imperialismo attraverso il mercato e del processo di statalizzazione della società, attraverso gli apparati statali repressivi ed ideologici non esiste nessun luogo e nessun tempo dove tu potresti dire di qui io parto”.

Ma, nello stesso tempo, proprio il carattere globale, totalizzante e totalitario di questo dominio, crea una frattura insanabile tra “apparati” e “società civile” e l’uno e l’altra si ergono contrapposti nei loro interessi antagonistici. Così da un lato delle lotte proletarie la statalizzazione della società costituisce, suo malgrado, un potente fattore di unificazione e semplificando le mediazioni, anche di accentuazione del loro carattere rivoluzionario e antimperialista.

Nello Stato imperialista riformismo e annientamento sono forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva.

Poiché con la formazione dello Stato imperialista il carattere antagonistico della contraddizione di classe si svela fino in fondo, acuito inoltre dalla contraddizione tra interesse globale dell’imperialismo e interessi particolari dell’area (contraddizione interimperialistica), le forme e gli strumenti del dominio devono necessariamente rafforzarsi e raffinarsi al massimo grado. Istruito dalle lotte presenti e passate dei popoli su scala planetaria, consapevole della sua debolezza strategica e della forza tattica che l’enorme apparato gli conferisce, l’imperialismo delle multinazionali punta all’unico obbiettivo che può prolungargli la sopravvivenza: prevenire ed annientare la rivoluzione prima che essa possa dispiegarsi in tutta la sua potenza e mobilitare tutte le sue forze nel progetto strategico vitale: la controrivoluzione preventiva. Con il riformismo le piccole concessioni alle “aristocrazie” metropolitane, cerca di bloccare la lotta proletaria prima che raggiunga il livello di guardia, per recuperarla, rinserrandola poi all’interno del suo “sviluppo”; contemporaneamente, pacificate le retrovie passa all’annientamento di quella parte di proletariato che non può “comprare” né rinserrare nel suo sviluppo.

Il riformismo non è mai separato dall’annientamento. Non è un’altra cosa. Il riformismo non è una politica della classe operaia, ma una politica dello Stato imperialista contro il proletariato metropolitano. Lo Stato imperialista delle multinazionali si presenta quindi come una struttura riformistico-repressiva altamente integrata e centralizzata. Da una parte abbiamo gli strumenti pacifici il cui scopo è assicurare il consenso delle masse: partiti istituzionali, sindacati, mass-media… Dall’altra gli strumenti militari il cui fine è l’annientamento: nuclei speciali, tribunali speciali, carceri speciali e cioè forze per la repressione generalizzata. Entrambi sono parti coesistenti e funzionali della stessa politica. Entrambi sono forme di uno stesso Stato. Insomma Santillo è il gemello di Lama! Questa coesistenza delle funzioni riformistico-repressive subisce poi, a seconda delle fasi del ciclo economico, delle modificazioni di qualità di una certa importanza, ma non tali da intaccare la sostanza dello Stato imperialista. Così nella fase di espansione economica, lo Stato imperialista mostra soprattutto il volto umano e pacifico del riformismo che però nasconde denti di acciaio. In questa fase regna la pace, ma si tratta di una “pace armata”. Al contrario nella fase di crisi economica appaiono soprattutto le armi e il rapporto Stato-società si militarizza sempre più. Non per questo lo Stato imperialista rinuncia all’uso del riformismo. Solo che ora esso, avendo perduto la sua base materiale si trasforma in “pura ideologia” e tende ad assumere la funzione di “controllore delle masse”, di “polizia antiproletaria”. In questa fase lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione si fa sempre più generalizzato e si entra così in una nuova fase: la guerra!

Il processo di controrivoluzione preventiva che caratterizza il movimento della borghesia imperialista in questa fase impone alle forze rivoluzionarie una nuova elaborazione della strategia per la presa del potere e quindi anche dei principi e delle forme organizzative. Non avendosi più una fase politica separata da quella militare perché nello Stato imperialista riforma e annientamento sono coesistenti e funzionali, l’unica possibilità di praticare il terreno politico dello scontro si dà con il fucile in mano. La strategia insurrezionalista di derivazione terzinternazionalista esce dalla storia e fa il suo ingresso la guerriglia, la guerra di classe di lunga durata. Nella fase che abbiamo definito di “pace armata” (e cioè nella fase di espansione del ciclo in cui è prevalente l’uso degli strumenti riformistici su quelli più apertamente repressivi) dal lato delle forze rivoluzionarie prevale la tattica della propaganda armata mentre nella fase della “guerra” (e cioè nella fase di crisi del ciclo in cui diventano prevalenti gli strumenti di repressione e annientamento dei comportamenti antagonistici della classe) dal lato delle forze rivoluzionarie prevale la pratica della guerra civile rivoluzionaria.

 

Lo Stato imperialista delle multinazionali non è fascista né socialdemocratico

Nel passaggio dalla pace armata alla guerra si fa sempre più diretto e generalizzato lo scontro rivoluzione-controrivoluzione, ma non si ha però come alcuni sostengono, una trasformazione dello Stato democratico in Stato fascista. Ci troviamo invece sempre in presenza di uno Stato che, ristrutturandosi, ha subito delle modificazioni nel peso specifico dei suoi componenti fondamentali: prima gli strumenti pacifico-riformisti avevano il predominio sugli strumenti militari-repressivi, ora invece l’annientamento predomina e subordina a sé la funzione riformista. Fascismo e socialdemocrazia sono state forme politiche oscillanti che il potere della borghesia ha assunto nella fase del capitalismo monopolistico nazionale. Possiamo aggiungere ancora, semplificando al massimo, che fascismo e socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello Stato imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un “regime” originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe. Alcuni definiscono la fase di transizione dalla pace armata alla guerra come processo di fascistizzazione e la forma politica dello Stato in questa fase come “nuovo fascismo”. Queste due categorie, anche se colgono alcuni aspetti del fenomeno, non riescono però a scavare in profondità e introducono così notevoli elementi di confusione.

Innanzitutto il fascismo non è un fenomeno metastorico (cioè al di fuori della storia), ma rappresenta la forma assunta dallo Stato borghese in una data fase di sviluppo delle forze produttive (capitalismo monopolistico a base nazionale) e come tale presenta specificità non riscontrabili nello Stato imperialista delle multinazionali. Dello Stato fascista, lo Stato imperialista recupera, perfezionandolo e mistificandolo, tutto l’apparato della controrivoluzione preventiva, scartandone però tutto il bagaglio angustamente nazionalistico (esasperata coscienza nazionale, autarchia). C’è inoltre un altro aspetto da tener presente: il fascismo ha dovuto conquistare “dall’esterno” il vecchio Stato liberale, rimodellandolo poi sul suo progetto strategico; ora invece la conquista degli apparati da parte del personale politico della borghesia imperialista procede esclusivamente per “linee interne”. Lo Stato imperialista non è dunque fascista. Il concetto di fascistizzazione appare non solo riduttivo ma anche falsante nella misura in cui non ci consente di cogliere il nuovo carattere della “violenza concentrata” né il rapporto organico che essa stringe con le pratiche di integrazione riformista.

Altri in questa fase di transizione credono di scorgere una tendenza alla trasformazione dello Stato in senso socialdemocratico e si chiedono se la socialdemocrazia rappresenti o meno la via d’uscita alla crisi imperialistica, se il Pci si accinga o meno a fare il suo ingresso nell’area di potere. Questo quesito ne contiene in sé un altro, cioè se il Pci sia o meno un partito socialdemocratico. Tra socialdemocrazia e riformismo moderno le differenze sono numerose ed alcune di fondo. La socialdemocrazia è un fenomeno tipico di quelle fasi dello sviluppo capitalistico in cui le crisi seguono ancora un andamento ciclico: uscendo dai periodi di depressione, il capitalismo può, ricorrendo ad una politica riformista, “corrompere gli strati di aristocrazia operaia” che costituiscono la base di massa della socialdemocrazia storica. In altre parole, la possibilità di una ripresa produttiva consente alla borghesia un margine di contrattazione reale con la “destra operaia”: ciò provoca, tra gli altri effetti, l’integrazione dei gruppi dirigenti dei partiti riformisti all’interno del blocco sociale che detiene il potere. L’alleanza tra borghesia e riformismo è dunque di natura sociale, oltre che politica: i socialdemocratici e gli “operai professionali” si schierano a fianco del padrone perché con esso hanno interessi reali comuni (la ripresa dell’accumulazione e la ristrutturazione produttiva) e perché ambiscono a diventare essi stessi padroni con fondate possibilità di riuscire a divenirlo. Inoltre, le particolari caratteristiche dello Stato in questa fase della storia del capitalismo facilitano l’ingresso della socialdemocrazia in quel governo che è da sempre l’anticamera del potere: lo Stato, ancora relativamente autonomo dall’economia, giustifica in qualche misura l’illusione che sia possibile la sua conquista ed il suo utilizzo da parte della classe operaia.

Questi dati oggi non si danno più. La crisi del sistema imperialista non è prevedibile che sfoci in una ripresa dell’accumulazione, sia perché l’economia è entrata in una fase di stagnazione da cui si risolleverà solo con la guerra per una diversa ripartizione dei mercati, sia perché le politiche economiche adottate dagli Stati tendono a restringere, anziché ad ampliare, la base produttiva. Mancano di conseguenza, tanto le basi strutturali (natura e andamento della crisi) quanto quelle soggettive (politiche dei governi e degli Stati) per rendere possibile l’integrazione dei revisionisti in un blocco sociale che persegua una politica di tipo riformistico. O meglio: è ancora possibile che i revisionisti (il loro gruppo dirigente) siano temporaneamente ospitati all’interno del Governo, ma è escluso che esistano le condizioni per integrare strati di aristocrazia operaia o di ceti medi all’interno di un blocco di potere incaricato di gestire un tipo di sviluppo che non si può più dare, stante il carattere imperialistico e multinazionale del capitalismo della nostra epoca. Che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all’operaio professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione del potere d’acquisto dei salari? E comunque, al di là delle contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie che hanno ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale? L’assenza delle condizioni strutturali per la formazione di un nuovo blocco sociale di potere non esclude tutte le caratteristiche di questo rapporto che, d’altra parte, dipendono dalla situazione di classe, oltre che dal livello delle forze produttive. Se a pagare il prezzo dell’ascesa al potere della socialdemocrazia storica furono prima di tutto i contadini dal momento che la ripresa dell’accumulazione avveniva a scapito della campagna, oggi il rapporto preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda sull’individuazione del “proletariato emarginato” come variabile di cui è indispensabile detenere il controllo.

In altre parole, l’operaio professionale “dovrebbe diventare, simultaneamente, un vero e proprio soldato della produzione e funzionare come poliziotto sia nei confronti dei compagni di lavoro, sia soprattutto nei confronti della massa dei proletari marginalizzati della grande metropoli”. Per tutti questi motivi è inevitabile che la politica dei revisionisti perda progressivamente tutti i propri tratti riformistici per assumerne di apertamente repressivi: da progressiva, la funzione del Pci diventa così, di fatto ed indipendentemente dalla volontà dei suoi militanti, conservatrice; finalizzata com’è ad esercitare un rigido controllo sul mercato del lavoro e ad organizzare il consenso attorno ad un progetto di sviluppo economico e sociale che, essendo per la natura dell’imperialismo, incapace di mobilitare e coinvolgere le masse (com’era riuscito a fare ad esempio il fascismo), costringerà sempre di più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e ad imporre forzatamente il consenso, anziché a sollecitarlo e ad interpretarlo. Questo avverrà perché, se l’imperialismo è capitalismo in putrefazione non si dà ulteriore sviluppo delle forze produttive senza sconvolgimento dei rapporti di produzione corrispondenti, ciò significa che la necessità di mantenerli inalterati si dovrà scontrare con la volontà di modificarli e che i partiti riformisti di tradizione operaia, da strumenti per la pace sociale si trasformeranno in altrettanti strumenti per la guerra civile. In questo senso è possibile sostenere che i revisionisti sono al servizio dello Stato imperialista delle multinazionali e che la contraddizione con il revisionismo moderno oltre ad essere antagonistica, va affrontata anche sul piano militare. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che l’imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di produttori. Va tenuto presente, inoltre che, una delle ragioni per cui l’alleanza con il revisionismo moderno è auspicabile per la borghesia, consiste nella possibilità di penetrare più agevolmente nei mercati dell’Est europeo.

Oltre che dei progetti politici delle multinazionali nel loro complesso, il Pci è anche e soprattutto al servizio dello Stato imperialista in quanto imprenditore esso stesso: in questo caso il ruolo del Pci cessa di essere puramente subalterno, per divenire attivo, assumendo i caratteri riformistici di una ipotesi evoluzionistica e gradualistica di transizione al socialismo. La duplicità della funzione e della natura del Pci (da una parte, funzione poliziesca e natura conservatrice, dall’altra, funzione razionalizzatrice e natura riformistica) è probabile stia al fondo dei suoi successi elettorali e della sua “tenuta” in presenza di una lotta di classe che tocca i livelli sempre crescenti di maturità. Se nei confronti dei monopoli e delle multinazionali l’atteggiamento del Pci è indiretto e passa attraverso la mediazione dello Stato, nei confronti dello Stato considerato come capitalista esso stesso, il punto di vista dei revisionisti ha più di un fenomeno teorico e trova giustificazione nel rilievo particolare che ha assunto (già durante il fascismo) e seguita ad assumere l’intervento dello Stato nell’economia italiana.

Alla base delle valutazioni del Pci sta “il recupero delle analisi di Engels e di Lenin sulla natura ambivalente del capitalismo di Stato, cioè è visto da un lato, come punto di massimo sviluppo del capitale e, dall’altro, come punto di sua massima contraddizione (sul quale incidere politicamente), in quanto espressione di una acutizzazione della contraddizione di fondo tra il carattere sempre più sociale della produzione capitalistica e il carattere privato dell’appropriazione del plusvalore”. Da ciò, “una sorta di ottimismo sulla possibilità di “uso” immediato degli strumenti di intervento statale e in particolare dell’impresa pubblica per fini diversi da quelli per cui sono nati”. Muovendo da questi presupposti teorici che ignorano non soltanto i rapporti tra Stato e multinazionali (al punto che i revisionisti giungono a favoleggiare un’alleanza fra classe operaia ed impresa pubblica in funzione antimonopolistica) ma persino gli interessi diretti che lo Stato, in quanto imprenditore, ha nella sfera della produzione, è conseguente che riformismo e repressione divengano facce di una stessa medaglia e che il Pci si riveli uno strumento più o meno decisivo o più o meno accessorio, di divisione della classe operaia, di controllo del mercato del lavoro, di organizzazione del consenso e di repressione dell’autonomia proletaria e della rivoluzione.

All’interno del partito revisionista vive perciò anche una ambiguità tra due tendenze: una che potremmo definire impropriamente “ala sinistra della socialdemocrazia” la quale ha fatto proprio con l’accettazione della Nato anche il sistema di valori occidentali; l’altra che si ispira al “capitalismo di Stato” e che vede il “compromesso” come primo passo tattico in questa direzione. Ciò comporta che il legame tra il partito revisionista e il socialimperialismo sovietico viene a dipendere dalla posizione di maggior forza della seconda corrente rispetto alla prima.

A livello europeo l’ultrarevisionismo cerca di porsi come forza autonoma, forza egemonizzante rispetto ad un’area politica che vede accomunati cani e porci della sinistra della socialdemocrazia passando per i “vari eurocomunismi” per arrivare alle false incitazioni leniniste tipo Portogallo. Esso si pone nei confronti dell’imperialismo come forza interna-esterna, per questo ispira diffidenza a Carter e ai suoi vassalli europei, i quali sarebbero pure tentati di usarlo, ambiziosamente, in funzione catalizzante del “dissenso” nei paesi dell’Est; ma per il momento resta comunque un’arma a doppio taglio. L’unica carta che l’ultrarevisionismo pareva avesse in mano, essere cioè garante della “pacificazione” dell’area meridionale dell’Europa, ha perso gran parte del suo valore in seguito allo sviluppo dei movimenti autonomisti di liberazione (Eta, Ira), alla crescita di forme di guerriglia metropolitana (Raf, Napap, Br) e alla crescita generalizzata dei movimenti autonomi di massa.

L’unità dell’eurocomunismo (dall’agente della Cia, Carrillo, al fratello scemo di De Gaulle, Marchais) è l’unità dell’opportunismo; è l’unità dei rinnegati del marxismo-leninismo, del tradimento delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia.

 

La ristrutturazione industriale

Di pari passo alla riorganizzazione dell’apparato politico militare la ristrutturazione dell’apparato economico marcia sulla strategia dei grandi gruppi multinazionali che hanno come obbiettivo primo quello di riassettare i meccanismi di accumulazione del capitale ormai entrati profondamente in crisi, aumentare i propri profitti, instaurare nuovi livelli di sfruttamento e di controllo sulla classe operaia e nuove forme di dominio sui popoli dei paesi in via di sviluppo, porre il socialimperialismo in posizione di inferiorità e di debolezza.

Per ottenere ciò le multinazionali sono oggi costrette al disperato tentativo di sviluppare i propri mezzi di produzione e la propria base produttiva in due modi principali: il primo è quello di sviluppare su basi tecnologiche più avanzate i propri sistemi di produzione e le produzioni stesse (quindi quelle ad alta intensità di capitale), ciò che dovrebbe permettere loro di ridurre i costi di produzione ed elevare i profitti ed instaurare nuove forme di controllo sulla classe operaia, tende ad approfondire del capitalismo multinazionale, proprio perché in tal modo, nelle metropoli industriali, le forze produttive vengono costantemente compresse. In sostanza, il dilagare della disoccupazione, che è la conseguenza prima della crisi economica è ormai diventato un dato strutturale e progressivo, sia perché la crisi economica tende sempre più ad aggravarsi e si continua ad assistere alla costante chiusura di interi stabilimenti, sia perché l’aggiornamento tecnologico e la riorganizzazione del ciclo produttivo dentro le fabbriche non porta allo sviluppo di una nuova occupazione, ma ad un aumento dello sfruttamento e all’espulsione costante e progressiva di operai. Proprio per queste ragioni, la contraddizione tra proletariato metropolitano e borghesia imperialista tende ad acutizzarsi e maturano sempre più le condizioni di sviluppo della guerra civile.

Il secondo modo che è conseguente al primo, è quello dell’esportazione delle tecnologie e delle produzioni più arretrate (che sono per lo più ad alta intensità di manodopera) nei paesi in via di sviluppo dove ancora sono convenienti, perché qui le multinazionali trovano ancora forza-lavoro a basso costo, se ciò è un mezzo che dovrebbe tendere ad accrescere i profitti delle multinazionali e rappresentare lo strumento fondamentale per la penetrazione e per la costruzione del dominio imperialista sui popoli del terzo mondo, porta con sé il suo aspetto contraddittorio, infatti esso si scontra con le lotte di liberazione dei popoli che sempre più riducono la possibilità delle multinazionali di spadroneggiare tranquillamente nei vari paesi, aumentando dunque l’estensione delle contraddizioni che attanagliano in crisi mortale la borghesia imperialista.

Anche nel nostro paese, dunque, la ristrutturazione economica avviene all’interno della rigida divisione delle aree di produzione e di mercato, attuata a livello internazionale dalle centrali imperialiste, sotto le direttrici e il controllo degli organi sovranazionali (in specifico il Fmi, la Cee).

Essa marcia su quattro direttrici principali:

– Sviluppo e ristrutturazione prioritaria dei nuovi settori trainati a tecnologia più avanzata e cioè, secondo i piani di settore della Cee e in base a quanto stabilito nella “legge di riconversione industriale” essi sono: il nucleare nel campo energetico, gli acciai speciali nel campo siderurgico, l’informatica nel campo dell’elettronica, e ancora la chimica, la cantieristica, le fibre.

– In tutti gli altri settori si ha un generale adeguamento tecnologico, soprattutto attraverso lo sviluppo delle lavorazioni a più alta intensità di capitale: ciò avviene con il massiccio insediamento di sistemi di produzione con macchine superautomatizzate, con l’uso dei robot, con l’enorme utilizzo dell’elettronica (macchine a controllo numerico, cervelli elettronici) nel programmare e controllare automaticamente interi processi produttivi che prima richiedevano decine di operai.

– Sviluppo del settore bellico nel quale in termini strategici, la produzione si espanderà sempre più (il che non vuol dire nuova occupazione), poiché come abbiamo già detto l’imperialismo da un lato si sta preparando alla terza guerra mondiale e dall’altro si trova già impegnato nell’affrontare lo scontro di classe che sempre più si intensifica e si estende nelle sue metropoli. Per questo tutte le fabbriche di produzione bellica hanno una prospettiva di sicura espansione sia per quanto riguarda le produzioni pesanti (aerei, navi da guerra, ecc), sia per quelle di produzioni in funzioni di antiguerriglia: dalle armi, alle molteplici e sofisticate attrezzature elettroniche (cervelli elettronici per l’immagazzinamento dei dati, nuovi sistemi di trasmissione per CC e PS, sistemi di controllo con fotocellule, tv a circuito chiuso, ecc), alle jeep, ai mezzi blindati.

– Riconversione di tutta la piccola e media industria in funzione delle multinazionali e addirittura aggregazione di più fabbriche che vanno a formare interi settori produttivi dei grandi gruppi industriali. Gli esempi sono molti: la Fiat, quando ha iniziato la sua ristrutturazione e selezione alle fabbriche e fabbrichette che lavorano per lei, d’altro canto la stessa holding delle macchine utensili della Fiat (CO.MA.U.) è stata costituita centralizzando sotto un’unica direzione le migliori piccole e medie fabbriche che producono nel settore.

Su questa linea di ristrutturazione i grandi gruppi multinazionali (siano essi con base nazionale che straniera) tendono a superare le proprie contraddizioni politiche e ad accordarsi nella spartizione dei profitti derivanti dai vari settori di produzione. È ovvio che gli sconti per accaparrarsi il controllo di maggiori quantità di settori produttivi non verranno mai eliminati, ma si tratta, almeno in questa fase, di contraddizioni secondarie unificate su un unico progetto strategico: quello imperialista. Non ha più senso dunque parlare di contraddizioni di fondo tra l’industria privata e quella pubblica (PP.SS) come blaterano il Pci e i sindacati per imbastire le loro demagogiche strategie economiche. L’esempio più limpido di ciò si è avuto con la spartizione della torta nucleare che ha fatto definire “pace nucleare” l’accordo raggiunto tra Fiat e Finmeccanica. Infatti il confronto si pone oggi tra multinazionali che hanno gli stessi interessi, sia economici che politici, poiché tanto per le fabbriche private che per quelle a Partecipazione Statale, gli obbiettivi della ristrutturazione, sia tattici che strategici sono i medesimi.

La disoccupazione, la mobilità forsennata della manodopera non specializzata, l’aumento della produttività e quindi dello sfruttamento, la militarizzazione delle fabbriche sono le conseguenze logiche di questo criminale progetto che vengono fatte pesantemente pagare alla classe operaia. Le strutture che nel nostro paese hanno il compito di dirigere e gestire il progetto di ristrutturazione dell’apparato economico sono l’esecutivo attraverso il Cipi (Comitato Internazionale per la Politica Industriale) e la Confindustria. Nel Cipi sono presenti i ministeri economici (Industria, PP.SS, Tesoro, Finanze, Cassa del Mezzogiorno) e il presidente della Banca d’Italia. Questo organismo riconferma una delle tendenze fondamentali nella ristrutturazione imperialista dello Stato, cioè quella della massima unificazione dei centri di direzione del potere; questa tendenza punta ad evitare le contraddizioni, per quanto secondarie, che spesso si verificano tra i vari ministeri, e dare quindi all’esecutivo più compattezza e più decisione nello svolgere la sua funzione a servizio delle multinazionali. Il Cipi ha quindi il compito di dirigere e applicare a livello nazionale le linee della ristrutturazione economica decise dagli organi di dominio sovranazionale, sintetizzando ad un livello superiore i poteri decisionali oggi spezzettati tra i vari ministeri del governo. La Confindustria, come l’esecutivo, è una diretta articolazione degli organi dell’imperialismo però con una funzione diversa: mentre l’esecutivo applica le linee di ristrutturazione economica decise dalle centrali imperialiste, la Confindustria è diventata di fatto centro di iniziativa padronale che elabora le linee politiche della ristrutturazione imperialista nel settore economico per poi proporle al governo e ai sindacati. Per questo essa rappresenta la mente tecnica e il garante politico al servizio delle multinazionali. Per adeguarsi alle nuove esigenze poste dallo sviluppo dell’imperialismo, la Confindustria ha iniziato da tempo una profonda ristrutturazione sia politica che organizzativa che ha avuto come tappa fondamentale quella della costruzione al suo interno di una unità politica sulla linea della borghesia multinazionale, questo obbiettivo lanciato nel ’70 con il famoso rapporto Pirelli, è stato sancito nel ’74 con la presidenza Agnelli ed ha trovato la sua continuità con l’attuale presidenza Carli. Quest’ultimo, pochi mesi dopo il suo insediamento, ha prontamente proposto di unificare la Confindustria con l’Intersind (che rappresenta le PP.SS) e la Confapi (che rappresenta una parte delle piccole imprese) proprio perché “non esistono più fondamentali contraddizioni politiche che giustifichino questa divisione” tra padroni; un primo passo su questa strada è già stato fatto: Confindustria e Intersind tratteranno col sindacato allo stesso tavolo il problema delle festività infrasettimanali abolite con l’accordo del gennaio ’77. Su questa linea la Conf. ha superato il suo vecchio ruolo di “sindacato dei padroni privati” per diventare la struttura che, articolando le direttrici di politica economica delle multinazionali, è capace di unificare sotto di sé le divisioni tra piccoli e grandi padroni, tra industria pubblica e privata, nella programmazione dell’economia sul terreno nazionale in tutti i suoi settori. Essa è infatti la struttura che ha il compito di fare proposte e programmi su tutti i principali problemi di ristrutturazione economica e politica. L’altra funzione fondamentale che la Conf. ha all’interno dello Stato imperialista delle multinazionali è quella di procedere alla costruzione del personale dirigente adeguato a gestire la ristrutturazione del processo produttivo. Rispetto a ciò la Conf. sta sviluppando intensamente la formazione quadri a tutti i livelli attraverso apposite scuole e corsi di formazione, e in parallelo sta procedendo alla attivazione di uffici e centri studi vecchi e nuovi; l’obbiettivo è quello di omogeneizzare tutto il personale dirigente sulla linea politica delle multinazionali, trasformare tutti i padroni e i dirigenti delle industrie in managers che facciano propri i valori dell’efficientismo e dell’imprenditorialità, fornire loro strumenti politici e tecnici per essere preparati a gestire adeguatamente la ristrutturazione economica dello Stato Imperialista delle Multinazionali, Se la Dc è l’asse portante dell’iniziativa globale dell’imperialismo del nostro paese, la Confindustria rappresenta l’asse portante dell’iniziativa imperialista nella ristrutturazione dell’apparato economico.

 

Violenza proletaria e controrivoluzione imperialista

In questa fase storica, a questo punto della crisi, la pratica della violenza rivoluzionaria è l’unica politica che abbia una possibilità reale di affrontare e risolvere la contraddizione antagonistica che oppone proletariato metropolitano e borghesia imperialistica. In questa fase la lotta di classe assume, per iniziativa delle avanguardie rivoluzionarie, la forma della guerra. Proprio questo impedisce al nemico di “normalizzare la situazione” e cioè di riportare una vittoria tattica sul movimento di lotta degli ultimi dieci anni e sui bisogni, le aspettative e le speranze che esso ha generato.

È importante ciò che dice Habash:

“L’incapacità di distruggere la rivoluzione in una determinata fase è di per sé una vittoria per la rivoluzione. Attraverso questa verità, la politica della violenza si cristallizza come una tradizione delle masse, accelera e approfondisce il processo di formazione del partito… si intensifica progressivamente fino a riportare sul nemico una schiacciante vittoria”.

Certo siamo noi a volere la guerra! Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla, lo costringe a muoversi, a vivere sul terreno della guerra: anzi ci proponiamo di fare emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società “democratica” dove in tempi migliori se ne stava comodamente nascosta!

Ma, detto questo, è necessario far chiarezza su un punto: non siamo noi a “creare” la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l’imperialismo nel suo divenire: non è un aspetto ma la sua sostanza. L’imperialismo è controrivoluzione. Far emergere attraverso la pratica della guerriglia questa fondamentale verità è il presupposto necessario della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli. Fatta questa considerazione si capisce allora perché lo Stato imperialista impegni tutte le sue forze per negare alla violenza proletaria qualsiasi valenza politica. Si capisce perché, con metodi diretti o indiretti, esso cerca di annientare qualsiasi forza che non escluda nel modo più assoluto dai suoi metodi di lotta il ricorso a forme di violenza rivoluzionaria.

L’ordine sociale che lo Stato imperialista vorrebbe imporre presuppone la riduzione preventiva e generalizzata degli individui umani a “cose”, in una società di cose retta in tutte le sue regioni dalle leggi del mercato capitalistico. È l’ordine impossibile della soppressione delle contraddizioni, del puro svolgersi quantitativo, dell’immutabile, della morte!

Come una bella attrice al volgere dei suoi anni e delle sue fortune, lo Stato imperialista vorrebbe bloccare il tempo, fermare la storia, ma ciò – nonostante la sua potenza – non è proprio possibile. Anzi, ironia della storia, quanto più la legge del capitale si afferma in tutti gli interstizi della vita sociale e si fa generale, assoluta, tanto più genera, rendendo intollerabile la “qualità della vita”, nuovi bisogni di liberazione e più radicali movimenti di lotta.

Ecco, questa è la contraddizione che sta portando la borghesia imperialista verso la sconfitta e che ci spiega perché essa non può ammettere, né tollerare, contraddizioni e comportamenti di classe antagonistici; perché non può riconoscerli se non come “devianze criminaloidi”, “terrorismo”, “insorgenze irrazionali”, per usare una divertente definizione del ministro, “manifestazioni di follia ideologizzante”.

In questo quadro la pretesa inaccettabile della borghesia imperialista recita così: l’opposizione al regime per essere “politica” e con ciò legittima e tollerata, non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi interamente dentro il cerchio magico tracciato dalle sue leggi, dalle sue convenzioni e dai suoi codici di comportamento sociale “normale”. L’alternativa è: crimine!

Ferma questa pretesa, anche il concetto di “reato politico”, mai negato dalle democrazie liberali, non ha più spazio per esistere. Diventa una contraddizione in termini: le due parti che compongono il concetto non sono forse assolutamente incompatibili? Come dire, gli “atti” politici, in quanto interni a leggi, patti, convenzioni, codici, non possono assumere la forma di reati. Se ciò avviene vuol dire che hanno sconfinato, dunque sono crimini. È fin troppo evidente che se questa tesi venisse accettata dalle classi subalterne ne determinerebbe automaticamente la subordinazione perenne al dominio della borghesia imperialista. Ma non c’è da spaventarsi perché in realtà questa tesi-limite non si dà come storicamente possibile in quanto il modo di produzione capitalistico non potrà mai impedire lo sviluppo delle forze produttive e quindi l’insorgere delle contraddizioni che determinano le condizioni dello scontro rivoluzionario.

 

Una nuova figura proletaria: il “criminale politico” ovvero il guerrigliero urbano

La dichiarata contraddittorietà del concetto di reato politico non porta, come potrebbe sembrare a prima vista, alla sua rimozione: l’obbiettivo della borghesia imperialista non è infatti quello di degradare i militanti rivoluzionari, criminalizzando le loro azioni al basso rango di “criminali comuni”. Vi è si la volontà di “andare fino in fondo all’opera di criminalizzazione della lotta politica, definendo criminali non solo i rivoluzionari, i compagni che lottano con o senza armi alla mano contro il capitale multinazionale, ma tutti coloro che escono dalla sempre più rigida norma giuridica e di comportamento fissata dalla borghesia”; ma l’operazione è assai più complessa e perfida ed è tutt’ora solo confusamente delineata. Infatti se è vero che i militanti rivoluzionari, in quanto interpreti di azioni classificate “criminali”, vengono puniti per questi “crimini” è anche più vero che, avendo essi la pretesa di considerarsi in guerra contro lo Stato, totalizzano una pena speciale, un trattamento speciale; criminali si, ma criminali speciali!

Criminale speciale è sinonimo di “criminale assoluto” o anche “anarco-nichilista” “terrorista”. Ma se questi sono i termini preferiti dagli specialisti della guerra psicologica, la figura politica che essi connotano per gli apparati di repressione è molto meno indeterminata: si tratta del nemico interno.

Negato a parole lo “status” politico del nemico interno viene perfettamente riconosciuto nella sostanza del trattamento differenziato. Anzi, prima di tutto per “ciò che è” e solo in seconda istanza “per ciò che ha fatto”.

La domanda centrale della borghesia imperialista non è più “che cosa hai fatto”, ma diventa “chi sei?” È la tua identità che interessa più di ogni altra cosa perché è questa che deve essere annientata. Il trattamento differenziato in tutte le sue fasi (lotta, processo, prigione) è orientato proprio a questo scopo! Liquidare la tua identità. Identità politica per il militante rivoluzionario significa prima di tutto: partito. È nei principi, nella strategia, nel programma, nella disciplina del Partito che egli autonomamente e liberamente si riconosce. Ed è affermando nella pratica della guerra di classe questo patrimonio proletario che egli viene riconosciuto dal popolo, perché il Partito rivoluzionario è l’espressione più alta della maturità, della coscienza, dell’organizzazione della classe. Nell’azione collettiva di Partito il combattente comunista afferma la sua identità, nella negazione di questa dimensione, attraverso la divisione, l’isolamento sociale, l’isolamento di gruppo ed infine l’annientamento fisico, il porco imperialista cerca di distruggerla.

I tecnici della guerra controrivoluzionaria riducono l’azione collettiva ad una somma di comportamenti individuali, li separano dalle loro motivazioni e tra di loro, così facendo tentano di togliere loro la capacità di rappresentare un messaggio. Quindi criminalizzano, li psichiatrizzano e li colpiscono per distruggerli. I tecnici della guerra controrivoluzionaria negando il diritto all’esistenza, all’antagonismo proletario organizzato, trasfigurano i militanti in singole unità criminali, senza storia né spessore politico. Più che di criminalizzazione bisogna parlare dunque di genocidio politico, perché questa è l’essenza più profonda della controrivoluzione imperialista.

Ma questo attacco al singolo militante, individualizzato e separato, non può riuscire a cogliere, se non da un punto di vista tattico, una vera vittoria sul partito come coscienza collettiva, di classe. Paradossalmente infatti, a mano a mano che la controrivoluzione imperialista vomita la sua violenza, matura la forza rivoluzionaria e sfuggendogli la dimensione di Partito che marca l’azione di ogni militante, pur riuscendo a distruggere singoli militanti, non riuscirà mai a distruggere strategicamente il partito.

Al punto della sua massima forza controrivoluzionaria l’imperialismo svela la propria miseria e la propria debolezza!

 

Il patto di mutua assistenza repressiva tra gli Stati imperialisti

Una conseguenza logica della opposizione rigida tra “crimini” e “politica” e dell’individuazione del guerrigliero urbano come nemico comune di tutti gli Stati imperialisti, è la attuazione di un Patto di mutua assistenza repressiva e di istituzioni trans-nazionali che lo rendono operativo. Questo Patto ha il suo cuore nella “convenzione europea per la repressione del terrorismo”. Ricordiamo perciò sinteticamente il problema.

Il progetto di questa Convenzione è stato messo a punto a partire dall’ottobre ’75 dal Comitato Europeo per i problemi criminali. Nel maggio ’76 “vista l’urgenza del problema” lo stesso Comitato approva una bozza che i 19 Stati membri del Consiglio dei ministri della Comunità discuteranno e approveranno a loro volta il 27 gennaio ’77.

La Convenzione si compone di un breve preambolo e di sedici articoli. Nel preambolo si sostiene che “… gli Stati membri del Consiglio d’Europa… coscienti della crescente inquietudine creata dal moltiplicarsi degli atti del terrorismo; augurandosi che misure efficaci siano prese affinché gli autori di tali atti non sfuggano all’incriminazione e alla punizione; convinti che l’estradizione è un mezzo particolarmente efficace per raggiungere questo risultato hanno raggiunto l’accordo su vari articoli”. Due sono gli articoli decisivi. Nel primo si elencano i reati che non saranno considerati reati politici, o connessi a reati politici, o ispirati da cause politiche. E cioè: reati connessi a sequestri aerei; reati gravi costituiti dall’attentato alla vita, alla integrità fisica o alla libertà delle persone che hanno diritto ad una protezione internazionale, compresi gli agenti diplomatici, e si aggiunge “… il tentativo di commettere uno dei reati su citati o la partecipazione come correo o complice di una persona che commette o cerca di commettere un tale reato”.

Nel secondo, forse temendo che qualcosa potesse sfuggire alla rigidità dell’elenco precedente, gli estensori precisano che “… per la necessità di estradizione… gli Stati membri potranno non considerare politico ogni altro atto grave di violenza diretto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà o i beni delle persone. O anche il solo tentativo di commetterli”. Dunque “…convinti che l’estradizione è un mezzo particolarmente efficace per combattere le manifestazioni del terrorismo internazionale” gli Stati membri della Comunità “si associano in un Patto”. Tecnicamente l’estradizione è un atto amministrativo internazionale di mutua assistenza repressiva mediante il quale uno Stato consegna ad un altro, o riceve da esso, un imputato o condannato per sottoporlo a procedimento penale o all’esecuzione di una condanna.

Politicamente l’estradizione è uno strumento internazionale della guerra di classe contro i rivoluzionari. Questo è il suo aspetto principale. Questo Patto, ufficializzato con la Convenzione, fissa i nuovi livelli raggiunti dal processo di internazionalizzazione dei livelli di repressione, attivi negli Stati dello spezzone europeo della catena imperialista. E cioè fa propri ed estende a livello continentale i contenuti degli impianti repressivi negli Stati più potenti e contemporaneamente affida a nuove istituzioni transnazionali il potere di renderli operanti nell’interesse comune. Questo processo di concentrazione e centralizzazione della repressione imperialista in istituzioni trans-nazionali è strategicamente funzionale alle necessità di intervento omogeneo ed esteso su tutta l’area continentale e standardizzato al livello più alto proprio delle maggiori potenze della catena gerarchica.

Tuttavia non dobbiamo trascurare un fatto: si tratta di una centralizzazione che lascia ancora alle macchine repressive specifiche di ciascun paese margini di intervento e di autonomia relativamente ampi e differenziati. Ciò anche a causa della complessità e disomogeneità delle strutture di classe e delle forze differenti di movimenti rivoluzionari nei diversi paesi, che non consentono un andamento lineare e contemporaneamente alla operazione di ristrutturazione, nella crisi, degli apparati di repressione-controllo.

 

Dal patto di mutua assistenza repressiva all’organizzazione comune di polizia

Il processo di internazionalizzazione delle strategie politiche, dei metodi e delle pratiche della guerra di classe controrivoluzionaria a livello degli Stati europei procede da vari anni. Futile enucleare alcune tappe salienti di questo processo poiché, essendosi svolto con molta discrezione, per non dire “clandestinamente”, gli obbiettivi che esso ha già consolidato non sono ancora stati individuati dal Movimento rivoluzionario nella loro portata strategica. L’esposizione cronologica ci appare la più indicata per fornire una visione d’insieme del problema. (Nota 1)

Il processo di concentrazione e centralizzazione del potere della borghesia imperialista in istituti sovrannazionali-transnazionali, lungi dal risolvere il problema del rilancio dell’accumulazione a livello di sistema aggraverà tutte le contraddizioni interne e per ciò, anche, favorirà lo sviluppo della guerra di classe. Ciò che però interessa mettere in evidenza è che nella nuova situazione che il nemico di classe va costituendo, l’azione rivoluzionaria e la risposta controrivoluzionaria vengono a trovarsi in una relazione non simmetrica e non immediatamente deducibile dalle semplici relazioni di potere (rapporti di forza) in cui apparentemente si trovano dentro i singoli Stati nazionali, che per il proletariato metropolitano la contraddizione classe-Stato assume immediatamente il carattere di contraddizione antimperialista, che questo non vuol dire necessariamente tra classe e apparati sovranazionali ma contraddizione tra classe e determinazioni nazionali del potere imperialista, vale a dire tra classe e Stato imperialista. In breve: anche contro tensioni rivoluzionarie localizzate, interviene (e ciò è possibile proprio per la nuova struttura del potere) sempre tutta intera la forza, la tecnologia e l’intelligenza degli apparati imperialisti. Il “piano Cee per la repressione del terrorismo”, “l’organizzazione comune di polizia”, ecc, non sono semplici atti burocratici dei vari governi o dei vari ministri, ma fatti nuovi che non devono essere sottovalutati perché modificano i termini della guerra.

 

Gli apparati della controrivoluzione preventiva nel nostro paese

L’atto comune contro il terrorismo, stretto più o meno ufficialmente dai partiti del cosiddetto “arco costituzionale” a partire dal gennaio del ’77, è in un certo senso l’elemento necessario che consente l’incastro della iniziativa controrivoluzionaria regionale dentro il piano europeo abbozzato prima con l’impegno politico firmato dai capi di governo della Cee nel giugno ’76, poi con l’accordo poliziesco concordato ai primi di luglio’76 dai ministri degli Interni e, infine, con la convenzione europea per la repressione del terrorismo.

Non a caso Andreotti introducendo il dibattito parlamentare ha fatto un esplicito riferimento alla necessità di un sempre più stretto accordo tra la politica d’ordine continentale e l’iniziativa locale. Lo sviluppo di questa iniziativa è sotto i nostri occhi e anzi più si rafforza la capacità offensiva delle forze rivoluzionarie più esso accelera il suo corso.

Pur seguendo tempi propri, dovuti alla particolarità della situazione italiana, questo processo è perfettamente omogeneo alle tendenze operanti su tutta l’area continentale. Ne considereremo qui cinque direttrici fondamentali.

 

  1. A) I corpi antiguerriglia

La direzione unificata a livello continentale dei processi di riorganizzazione delle forze di polizia (sia sul piano tecnico che della strategia operativa) e la tendenza a creare “forze antiguerriglia” integrate tra i paesi della Cee, sono le principali forme di movimento della controrivoluzione preventiva nell’area europea.

Interessa qui la forma attraverso cui questa tendenza si afferma nel nostro paese. Come abbiamo visto vari corpi antiguerriglia europei trovano nell’esecutivo della Cee la loro espressione politica e nelle riunioni periodiche dei ministri degli Interni (cui partecipano i responsabili delle forze di polizia), oltre che delle commissioni composte da alti funzionari dei diversi ministeri, il loro strumento operativo, ma è la Nato l’organismo politico-militare a cui l’imperialismo affida il ruolo dirigente, sia per quanto riguarda la difesa contro il “nemico esterno” che per l’annientamento del “nemico interno”.

L’integrazione tra “antiguerriglia” e “servizi segreti”- a loro volta controllati continentalmente dalla Nato – lo dimostra ampiamente. In pratica la ristrutturazione dei corpi di polizia procede su due direttrici. Da una parte si sviluppa la collaborazione internazionale, dall’altra si creano le basi per una organizzazione comune. Gli obbiettivi della collaborazione internazionale sono l’innalzamento qualitativo generale della capacità di risposta degli Stati nazionali all’iniziativa rivoluzionaria e l’unificazione della controguerriglia ai livelli più alti raggiunti dagli Stati imperialisti dominanti. Questo non esclude la differenziazione delle tecniche e delle strategie di fronte alle caratteristiche particolari della guerra di classe nelle diverse aree. Al contrario, il “patto di mutua assistenza” tra le forze controrivoluzionarie favorisce la tendenza alla “specializzazione” e la elaborazione di nuove tecniche repressive sia concentrando l’intera forza dell’apparato imperialista contro tensioni rivoluzionarie localizzate, sia riproducendo in forma generalizzata sull’intera area metropolitana i risultati delle esperienze più avanzate. Ciò porta alla diffusione su scala continentale di forme, tecniche, strutture organizzative simili per vari corpi antiguerriglia.

A conferma di come questa tendenza trovi anche nel nostro paese il suo sviluppo operativo occorre individuare le linee di movimento sulle quali il progetto di controrivoluzione preventiva viene articolandosi. È pertanto di significativo interesse – al fine di meglio esplicitare il nostro discorso – osservare i termini in cui si è venuta affermando la ristrutturazione dei servizi segreti, oggetto, sino a qualche tempo fa, di profonde lacerazioni interne che ne riducevano in notevole misura le potenzialità operative. (Contraddizioni che peraltro non sono affatto risolte). Ristrutturazione in chiave efficientista, finalizzata nella sua strategia a compattare e rendere attive tutte le forze attualmente disponibili (in materia di apparati coercitivi) sulla base di un programma di annientamento preventivo di tutte quelle insorgenze che esprimono una tensione rivoluzionaria reale e che costituiscono per ciò stesso una fonte destabilizzatrice del sistema imperialista.

Sono quindi stati costituiti, su modello simile allo “Special Branch” inglese due organismi: il Sismi (servizio informazioni sicurezza militare) ed il Sisde (servizio informazione sicurezza democratica) i quali segnano indubbiamente un salto di qualità rispetto al passato, quando due strutture parallele – per quel che riguarda le attività di controguerriglia – coesistevano all’interno dello stesso Stato, delle quali una faceva capo al ministro degli Interni (Nat-SdS), l’altra direttamente collegata all’apparato militare dei CC (Nuclei investigativi-Dalla Chiesa), ma operanti in modo del tutto disomogeneo e addirittura in aperta rivalità tra loro. Nella nuova riorganizzazione invece, tutte le strutture sono integrate e poste sotto la direzione dell’esecutivo che essendo l’appendice politica, a livello nazionale, dei centri del comando imperialista ne centralizza tutta l’attività. Non stupisce di certo che la Nato abbia “premiato” per bocca di Andreotti un corpo speciale qual è quello dell’Arma dei carabinieri, ponendo alla testa dei nuovi servizi di sicurezza due generali che in essa hanno ricoperto e ricoprono incarichi di considerevole responsabilità: Gen. Santovito e Gen. Grassini, rispettivamente capo del Sismi e del Sisde.

Da sempre infatti i CC sono la punta di diamante della controrivoluzione, e non a caso, essendo parte integrante dell’esercito sono posti di conseguenza sotto il diretto controllo della Nato che potendo disporre in tal modo di un apparato efficiente, dotato dei più sofisticati mezzi della tecnologia moderna, fidato, con una complessa e capillare struttura che abbraccia l’intera area nazionale, ne fa automaticamente l’asse portante di questo progetto. A scapito naturalmente del Corpo di PS il quale, percorso da tutta una serie di contraddizioni interne che ne rendono precario l’equilibrio, è ormai ritenuto di scarsa fidabilità quand’anche non inquinato dai “germi del sovversivismo” (vedi richieste di smilitarizzazione e democratizzazione del corpo). È inevitabile quindi che i suoi margini di autonomia vengano restringendosi di pari passo con l’accentramento di tutti i poteri nelle mani dell’esecutivo. Si tratta di vedere ora questa ristrutturazione nei suoi termini reali a partire dagli obbiettivi che nei tempi brevi essa intende realizzare per poter essere all’altezza dei nuovi compiti che l’incalzare dell’iniziativa rivoluzionaria pone allo Stato imperialista. Questi sono nell’ordine:

  1. a) aggiornamento delle strategie e delle tecniche;
  2. b) adeguamento delle strutture e dei mezzi;
  3. c) rinnovamento dell’istruzione e dell’addestramento;
  4. d) impiego unitario e di coordinamento di tutte le forze antiguerriglia.

Ovviamente i due nuovi servizi hanno funzioni differenziate essendo il Sismi un organismo che assolve essenzialmente a funzioni di spionaggio e controspionaggio militare, mentre il Sisde è preposto a organizzare l’annientamento della guerriglia nelle sue espressioni organizzate, per cui è di quest’ultimo che ci occuperemo più a fondo. È comunque da rilevare che il compito di coordinare l’attività dei due organismi spetta al Cesis (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza) che dipende direttamente dall’Esecutivo e più in particolare dal presidente del Consiglio (che ne nomina i membri) al quale dovrà fornire di volta in volta una analisi di tutti gli elementi e i dati trasmessi dai due servizi, sviluppando al massimo il lavoro di ricerca e di elaborazione dei medesimi, curando inoltre i rapporti di collaborazione-integrazione con servizi analoghi operanti negli altri Stati della catena imperialista. Rispetto alle mansioni che il Sismi e il Sisde svolgono, occorre tener presente che essi funzionano esclusivamente da organi informativi e di direzione delle operazioni di controguerriglia, senza peraltro intervenire specificatamente sul terreno militare che spetterà invece ad alcune sezioni speciali dei vari corpi di PS, CC, GdF. Sono stati soppressi gli uffici politici distaccati nelle varie questure e sostituiti in ciascuna di esse da una “Divisione per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali” (Digos) che a loro volta fanno capo ad un “ufficio centrale” alla direzione generale di PS. Si potrebbe essere indotti a credere che in tal modo la PS resta ugualmente in grado di sviluppare autonomamente i propri piani operativi ma non è così se si considera che il settore dell’informatica (decisivo in questo campo) è ormai, in larga misura, sotto il totale controllo del Sisde e quindi dei CC. Essi hanno visto così accrescere enormemente i loro poteri mantenendo pressoché inalterata la propria “autonomia” (in tal senso hanno già provveduto a costituire dei loro reparti operativi), configurandosi pertanto come corpo strategico della controrivoluzione preventiva in Italia. Sotto la direzione strategica del Sisde operano quindi delle vere e proprie sezioni speciali in funzione di braccio armato dello Stato imperialista. All’interno di queste “sezioni” sono già state create delle speciali “squadre anticommando” composte da uomini selezionati e altamente addestrati per operare in concomitanza con altri reparti simili dei paesi Cee (tipo Gsg-9 tedeschi).

In due occasioni sono state effettuate azioni combinate con passaggio delle frontiere, questo particolare, che rispecchia la logica di guerra applicata all’imperialismo in diverse operazioni “offensive” (Entebbe, Mogadiscio) è un segno indicativo del carattere internazionale che ha già assunto la guerra di classe sul continente. Esso indica la determinazione imperialista di risolvere con un intervento diretto quelle situazioni che squilibrano la stabilità degli anelli deboli della catena.

Il ruolo di questi organi di polizia dello Stato imperialista è quindi quello di “braccio armato” dell’Esecutivo, così come tutti gli apparati di dominio, di costrizione, di consenso forzato e di legittimazione. Tuttavia, l’espressione “Stato di polizia”, da noi usata in precedenti documenti per definire la militarizzazione progressiva delle istituzioni, può creare confusione poiché non riflette esattamente il particolare rapporto che intercorre tra riorganizzazione delle strutture dell’antiguerriglia e crisi-ristrutturazione dello Stato imperialista. La crescita del peso politico di questi corpi speciali e di chi li dirige nel nuovo assetto dello “Stato riformato”, rappresenta solo uno degli aspetti dell’attuale situazione: in realtà ad esso fa riscontro una completa subordinazione di queste forze all’Esecutivo ed alle sue direttive. La concentrazione del potere nelle mani dell’Esecutivo si realizza indirettamente attraverso gli apparati di dominio. Ogni allargamento dei poteri istituzionali delle forze di polizia in generale e dei corpi speciali in particolare comporta in queste condizioni un rafforzamento dell’Esecutivo dal momento che quest’ultimo esercita su di essi un controllo diretto ed assoluto.

Quindi ciò che appare rafforzamento del particolare (apparati di polizia) è in realtà solo una protezione del processo di rafforzamento dell’Esecutivo. Pertanto, gli scontri ricorrenti tra due corpi separati dello Stato quali Polizia e Magistratura – dove la prima rivendica a sé maggiori spazi di autonomia rispetto alla seconda – non vanno interpretati riduttivamente come manifestazioni “corporative”, frutto della lotta tra apparati burocratici. Lo stesso discorso vale per l’impiego delle “circolari interne” (provvedimenti amministrativi) che precludono al Parlamento ogni possibilità d’intervento in questo settore. In effetti, che i vari corpi speciali, nonché quelli di polizia, siano di fatto svincolati dal controllo della Magistratura e del Parlamento, equivale per l’Esecutivo ad una maggiore libertà d’azione. Da una parte abbiamo la riorganizzazione degli apparati repressivi ed il loro rafforzamento per mezzo dell’ampliamento dei poteri e la concentrazione; in tal senso vanno intese le leggi sul fermo di polizia, la possibilità di interrogare i fermati, l’autorizzazione per la chiusura dei “covi”, le intercettazioni autorizzate non più dal magistrato ma dal ministro degli Interni, l’istituzione di un comitato di coordinamento tra le forze di polizia. Dall’altra invece la loro diretta e totale subordinazione agli organi dell’esecutivo di cui la riforma ristrutturazione dei servizi segreti è un esempio quanto mai concreto.

Non è casuale che in tutti gli Stati imperialisti i servizi segreti siano posti al servizio dell’Esecutivo: del primo ministro in Gran Bretagna e Francia, del cancelliere nella Rft, del presidente negli Usa: in Italia il presidente del Consiglio dirige entrambi i servizi per tramite di un Comitato Esecutivo nominato, come abbiamo visto, dal primo ministro stesso, mentre prima della riorganizzazione il Sid dipendeva dal Capo di Stato Maggiore dell’esercito. Questa figura politica diviene così la massima “autorità nazionale di sicurezza” avvalendosi per le sue deliberazioni di uno speciale ufficio: l’Usi (Ufficio Sicurezza Interna) il quale è strettamente collegato alle determinazioni sovrannazionali dal comando imperialista e quindi con la Nato. Infine è ancora il Presidente del Consiglio a decidere in merito alla regolamentazione del “segreto politico-militare”. Dal momento che lo scontro di classe assume i connotati della guerra, anche le funzioni dello Stato si integrano e la distinzione tra politico e militare si risolve in unità. L’esperienza dei vertici interministeriali con la partecipazione di tecnici e militari indica le forme verso cui evolve la struttura di governo dello Stato imperialista: il comitato della crisi come dimensione permanente dell’Esecutivo.

Un discorso a parte merita lo sviluppo di strategie e tecniche antiguerriglia il cui obbiettivo fondamentale è la militarizzazione stabile dei poli metropolitani e l’annientamento delle organizzazioni del movimento di resistenza armata. Le direttrici sulle quali esso marcia sono:

– Utilizzazione dell’informatica; introduzione di tecnica di “intelligence” (psicologia, analisi del linguaggio, criptoanalisi…); applicazione dei modelli di guerra nell’occupazione delle aree metropolitane e negli attacchi antimassa; modelli militari di posti di blocco, squadre speciali per i combattenti urbani, perquisizioni domiciliari regolate da leggi di guerra.

– Strategie di coinvolgimento delle masse nella “gestione” dell’ordine pubblico: utilizzo dei mass-media, dei partiti, dei sindacati, degli enti locali, ecc: come organizzatori del consenso e garanti della vigilanza e della “prevenzione sociale in difesa dello Stato”.

Annientamento politico-militare del movimento di resistenza proletario: questo è l’obbiettivo perseguito dalla controrivoluzione preventiva. Militarizzazione globale della vita sociale, organizzazione del consenso e mobilitazione reazionaria delle masse, sono le forme complementari della guerra che l’imperialismo combatte nel cuore della metropoli.

 

  1. B) Il rafforzamento dei meccanismi e degli strumenti di controllo e prevenzione

Nella guerra imperialista controrivoluzionaria la costruzione di una rete di spionaggio totale preventivo è un fronte di attacco che si fa ogni giorno più importante.

“Ci troviamo di fronte ad un disegno dissennato che non rifugge dall’uso di mezzi e tattiche nei confronti delle quali uno Stato che, proprio per essere democratico, non dispone e non può disporre di mezzi di controllo preventivo totale della vita sociale si trova largamente disarmato…”. Questo lamento di Cossiga non ci deve trarre in inganno, infatti, gli esperti della Trilateral gli suggeriscono che “ci sono dei limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica e questi limiti – aggiungono – sono la condizione di una lunga vita delle democrazie occidentali.” Il problema sul terreno politico è dunque risolto! Si tratta di fissare questi “limiti” e le applicazioni dell’informatica faranno il resto.

Nello Stato imperialista la tendenza è quella di massimizzare i controlli sociali su tutta la popolazione e in particolare impiantare all’interno di ogni istituzione fondamentale speciali sezioni di spionaggio. L’uso dei sistemi informatici, di reti di calcolatori, consente l’attuazione pratica di questo progetto. Per loro tramite il controllo globale dei nemici interni potrà raggiungere livelli mai guadagnati nelle precedenti dittature. E nello stesso tempo l’area dei “nemici interni” tenderà a dilatarsi fino a coincidere con l’intera popolazione. Insomma lo Stato imperialista sta preparando per tutti un regime di libertà vigilata! Già oggi, del resto, varie reti di schedatura catturano in varia misura informazioni su tutti noi. Ricordiamo qui solo le principali:

– Controllo e spionaggio preventivo della forza-lavoro nei centri di produzione e nel terziario attuato da polizia di fabbrica e agenzie private. La centralizzazione dell’informazione viene poi effettuata dalle organizzazioni sindacali e padronali (Confindustria, Intersind) ed eventualmente dai servizi di sicurezza dello Stato; si ricorda a tal proposito “l’edificante” vicenda dello spionaggio Fiat.

– Servizi di informazione sicurezza militare (Sismi). La legittimazione della schedatura globale e preventiva del settore militare è stata così motivata dal solito Andreotti: “La schedatura è una brutta parola che non bisognerebbe usare. Ma facciamo un esempio. Se ci fosse un autonomo o comunque una persona nota per aver fabbricato e detenuto bottiglie molotov non sarebbe proprio il caso di metterlo a guardia di una polveriera…” Così per non correre rischi è meglio controllare tutti!

– Schedature dei gruppi rivoluzionari, delle avanguardie politiche e sindacali, dei partiti politici con particolare riguardo a quelli genericamente di sinistra, degli organismi di base, effettuata dalla divisione per le investigazioni generali, dalla polizia giudiziaria, dal Sisde, ed in particolare dai “corpi speciali antiguerriglia”. Il solo “cervello” del ministero degli Interni memorizza dieci milioni di schede.

– Schedature di tutti i carcerati e di ogni rapporto sociale che ognuno di essi intrattiene. Il ministero di GeG dispone di quattro memorizzatori centrali: due Univac (Corte di Cassazione e schedatura dei dipendenti del ministero), un Honeywell (casellario giudiziario); un Ibm (schedatura dei detenuti).

– Schedatura politica di tutti gli studenti e loro organismi, diretta e centralizzata dal ministero degli Interni attraverso l’ufficio attività assistenziali italiane.

– Schedatura del personale degli impianti strategici civili (ad esempio il personale delle centrali nucleari) e controllo della popolazione di tutta l’area circostante.

E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Non dobbiamo sottovalutare l’applicazione dell’informatica alla repressione della lotta di classe perché essa porta con sé, insieme all’efficienza dei calcolatori, l’ideologia che ci sta dentro ed il personale tecnico-militare che li fa funzionare. Il sistema informativo della polizia Usa si chiama Ibm. E così l’Ibm pubblicizzava questa sua realizzazione: “… Le conoscenze che abbiamo acquisito sull’uso delle informazioni, e che ci permettono di seguire i battiti di un cuore sulla luna sono adesso messe a profitto dalla polizia per far rispettare le leggi”. I sistemi informatici sono monopolio delle multinazionali americane perché oltre a garantire il dominio Usa sull’economia mondiale (il settore elettronico è il settore strategico del capitalismo avanzato), garantiscono la esportazione dei suoi modelli di controllo, di un “modo di far polizia”, ed esportano perciò anche i livelli di repressione più alti maturati nell’anello più forte dell’imperialismo. Infatti l’esportazione di questi “sistemi” non è solo l’esportazione di tecnologia avanzata, ma anche di un “rapporto di produzione” di una precisa “ideologia”. È la schedatura americana che si impone nelle strutture di controllo di tutti gli Stati della catena imperialista. E, proprio per questo è anche la formazione di uno strato di tecnici-poliziotti che dirigono il processo di spionaggio preventivo e totale della popolazione. Una volta c’era la “spia”. Oggi, certo, questo triste mestiere svolge ancora una propria specifica funzione, ma l’organizzazione multipla dei controlli attraverso i “sistemi informatici” estesi in tutti i settori della vita sociale, rappresenta un nemico ancora più insidioso. Queste sono le informazioni su ciascuno di noi, su ciascun militante in generale, che lo Stato imperialista immagazzina, centralizza, e può dunque sfruttare in permanenza per rafforzare il suo dominio? È necessario approfondire la nostra conoscenza dei “modelli antiguerriglia” rispetto ai quali viene organizzata la raccolta delle informazioni, dei “sistemi” impiegati e delle “reti di calcolatori” che essi collegano. È indispensabile conoscere il personale tecnico-militare che dirige e fa funzionare questo specifico settore della guerra. È importante attaccare queste reti di controllo, far saltare le sue maglie, disarticolare questi apparati e ciò a partire dal personale tecnico-militare che li dirige, li istruisce e li fa funzionare contro il proletariato.

 

  1. C) Integrazione delle strutture giudiziarie come braccio dell’esecutivo

La riorganizzazione della Magistratura italiana ha come presupposto fondamentale la riforma del codice di procedura penale. Questa è stata decisa in una riunione congiunta dei ministri della giustizia dei paesi aderenti alla Cee ed ha la funzione di unificare il sistema giuridico italiano con le norme in vigore nei paesi europei ed in particolare con il sistema anglosassone. Nel processo di eliminazione dei residui “liberali” che oggi si configurano come punti deboli delle istituzioni dello Stato, si realizza una ridefinizione dei rapporti tra esecutivo e giudiziario funzionalizzata alla costruzione di un fronte efficiente e privo di variabili contro la guerra di classe rivoluzionaria. L’esecutivo tende ad assumere la forma di “comitato della crisi” per la guerra interna. Questo processo implica il suo diretto controllo su ciascuno degli apparati di coercizione. In questo quadro si comprende come l’Esecutivo intervenga con attacchi organici contro ogni “tendenza autonomista” e non controllabile della magistratura e che perciò si configura come un ostacolo alla sua iniziativa controrivoluzionaria. Il processo qui accennato comporta una ristrutturazione dell’apparato giudiziario che comunque non è privo di contraddizioni.

Il dato più importante è la riorganizzazione verticale dei massimi organi giudiziari attuata con forza dall’Esecutivo attraverso il ministero di GeG. Il senso di questa operazione è quello di dare alla magistratura un assetto organizzativo tale che faciliti il controllo dall’alto, nonché una struttura gerarchica funzionale alla subordinazione dei settori periferici alle direttive del centro. Piegata quindi ogni velleità “autonomista”, la magistratura si presenta come un apparato in cui la volontà dell’Esecutivo si afferma dal centro alle articolazioni per mezzo di alcuni organi dirigenti e strettamente legati tra loro e immediatamente subordinati allo “Stato Maggiore della crisi”.

Il principale di questi organi è il Consiglio Superiore della Magistratura opportunamente riformato tempo addietro con l’inserimento a fianco dei magistrati che lo compongono di un gruppo di “esperti” legati ai maggiori partiti. Esso si caratterizza per la sua funzione determinante nel sistema istituzionale. Per la sua struttura il Csm svolge un ruolo di trasmissione della volontà dell’Esecutivo, è il principale organo di controllo tra Esecutivo e giudiziario. Inoltre la sua qualificazione tecnica ne fa un efficiente strumento di consultazione e di coordinamento per la ristrutturazione della organizzazione giudiziaria e dell’ordinamento giuridico.

Fa testo in questo senso l’intervento del Csm in occasione del processo di Torino dopo l’azione Croce. Il massimo organo della Magistratura assume l’iniziativa della sospensione dei termini di carcerazione preventiva; il governo apparentemente si muove in un secondo tempo ratificando con decreto legge la decisione dei giudici. Formalmente è l’esaltazione dello Stato di diritto ma in realtà, è la massima espressione di dipendenza dalle direttive dell’Esecutivo. Ai primi di maggio Bonifacio propone per la prima volta una serie di incontri tra rappresentanti del governo, Csm e capi degli uffici giudiziari. Obbiettivo: un’indagine con fini operativi sullo stato della Magistratura. A luglio si tiene perfino un convegno sullo stesso argomento in cui il ministro Bonifacio convoca oltre ai membri del Csm altri grossi funzionari dell’amministrazione giudiziaria. È chiaro il fine di questi incontri, a parte il confronto tra le diverse posizioni, è essenzialmente l’affermazione della linea stabilita dal governo. Lo spazio di “autonomia residua” concesso alla magistratura è limitato alle modalità di applicazione di queste direttive: inoltre il Csm si configura come garante della corrispondenza tra l’assetto interno della magistratura e gli obbiettivi contingenti della politica dell’Esecutivo. Si tratta non solo, del controllo sul corretto funzionamento e l’applicazione delle direttive, ma anche del mantenimento dello “status quo” all’interno dell’amministrazione e quindi della ratifica dei provvedimenti disciplinari, ecc.

Per questo il Csm è anche l’organo materiale attraverso cui si realizza il comando dell’Esecutivo sulle strutture giudiziarie. A conferma di ciò è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta dall’Esecutivo. Ancora più pesante è l’iniziativa del vice presidente del Csm Bachelet che su direttiva di Bonifacio e del governo incarica i procuratori generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a “Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine democratico. Infine come ultimo e clamoroso esempio attraverso cui questo disegno prende corpo e si palesa in tutte le sue implicazioni, val la pena qui mettere bene in evidenza la “ragion di Stato” che ha indotto il Csm a decretare, per bocca dei suoi diretti collaboratori, l’assoluzione in favore dei fascisti di On a Roma ed ai loro degni camerati, Servello in testa, a Milano. È evidente come queste assoluzioni siano state “suggerite” al Csm dall’Esecutivo quale contropartita per i servizi resi dai fascisti in altri tempi e in cambio di quelli che ancora dovranno rendere allo Stato imperialista nella loro qualità di forze di completamento, strumenti di controguerriglia psicologica (con Occorsio infatti si tendeva propriamente a gettare lo scompiglio e la confusione nella sinistra rivoluzionaria e fare da contraltare all’azione Coco), sino a rivestire il ruolo di squadre della morte alle dipendenze dei servizi segreti. Emerge quindi chiaramente il legame organico che nel caso specifico unisce Magistratura ed Esecutivo, questo è il dato saliente, ostinarsi a credere nella presunta “autonomia” della Magistratura equivale a porsi su di un piano puramente idealistico, quindi al di fuori di qualsiasi interpretazione della realtà presente. Questo conferma inequivocabilmente una integrazione ed una subordinazione funzionale al progetto politico di cui l’Esecutivo è portavoce.

Naturalmente anche questo processo non è assente da contraddizioni, ma non si tratta, come affermano le correnti democratiche in seno alla Magistratura di una generica contraddizione tra “reazionari” e “progressisti”. Questi ultimi vorrebbero che il Parlamento e le forze politiche che in esso sono rappresentate esercitasse un controllo democratico sulla attività della Magistratura, mentre viceversa i reazionari sostengono la linea dei “corpi separati”. In realtà entrambe queste linee sono perdenti rispetto a quella che identifica il proprio ruolo all’interno della linea di “integrazione delle strutture giudiziarie come braccio dell’Esecutivo”. Questa è attualmente la forza egemone, perno centrale della Magistratura, quali ad esempio: procuratori generali di Corte d’Appello, Capi degli Uffici istruzione.

Parallelamente alla riorganizzazione verticale dei massimi organi giudiziari si afferma la tendenza alla “specializzazione” dei magistrati in particolari settori dell’attività giudiziaria. Questo processo si manifesta nella formazione di nuclei e uffici speciali di magistrati addetti ai procedimenti relativi a reati particolari: “terrorismo”, sequestri di persone… Connessa e complementare a questa è l’iniziativa di concentrare i processi per “terrorismo”, “eversione” e sequestri, nei Tribunali delle città capoluogo di distretto di Corte d’Appello, iniziativa che – per quanto ci riguarda – porta diritto ai tribunali speciali.

Si realizza qui la completa subordinazione ed integrazione del giudice alle direttive delle forze antiguerriglia e inoltre il massimo controllo dell’Esecutivo sulla conduzione e lo sviluppo di indagini che investono le forze che praticano la guerra di classe rivoluzionaria.

 

  1. D) Ristrutturazione del carcerario

Le strutture dei Campi di Concentramento e la riorganizzazione dell’ordinamento carcerario sono parte integrante del disegno di ristrutturazione imperialista dello Stato, non si tratta solo di “adeguamento” degli apparati di dominio controrivoluzionario ad una fase diversa, superiore, della guerra, ma di una condizione di una premessa indispensabile per il salto di qualità che caratterizza nel suo divenire lo Stato imperialista.

L’urgenza e la cura con cui l’esecutivo sta affrontando la questione carceraria dimostra il peso che la borghesia attribuisce a questo settore dello scontro di classe nella fase attuale. La controrivoluzione procede con lugubre metodicità. Essa è impegnata a “normalizzare” le condizioni di ordine all’interno delle carceri, a sbaragliare uno strato di classe attualmente debole e isolato: il proletariato prigioniero. Ma le prospettive sono ben altre. Come abbiamo visto il progetto imperialista si snoda intorno ad un asse principale: la costruzione e il potenziamento di organismi sovranazionali di direzione e controllo. A queste centrali, le potenti multinazionali e la borghesia imperialista che ne è l’espressione, affidano il compito di ristrutturare gli Stati nazionali sul filo di una controrivoluzione preventiva continentale. È in questo quadro generale che va compresa la sempre più stretta integrazione delle strutture militari di repressione e la loro specializzazione in magistratura antiguerriglia, corpi speciali antiguerriglia, carceri speciali e cioè campi di concentramento.

Asinara, Favignana, Fossombrone… si legano direttamente tanto sul piano dei contenuti politici che su quello degli obbiettivi militari, alle strutture di concentramento per i compagni della Raf in Germania ed a quelle per i militanti dell’Ira in Inghilterra. Tanto Stammheim che l’Asinara sono gli esempi verificabili di che cosa intendiamo per ristrutturazione imperialista del settore carcerario in funzione antiguerriglia. Qui come là è l’Esecutivo che si assume direttamente il compito di dirigere e coordinare, tramite una apposita commissione, ciò che in essi accade o che si vorrebbe accadesse.

Controrivoluzione preventiva continentale, campi di concentramento, sono il segno di un salto di qualità avvenuto nella lotta di classe, lo Stato imperialista è costretto a scendere sul terreno diretto della guerra nel confronto con il movimento di resistenza proletario. Si determina il passaggio ad una nuova fase in cui il rapporto tra le due parti resta unicamente definito dalle forme della guerra di classe.

“Le scelte di guerra, come i nuovi campi di concentramento, non sono solo la risposta repressiva ai singoli fenomeni eversivi che si verifica, ma una scelta irreversibile in quanto organica alla ristrutturazione imperialista, che oltre a neutralizzare i comunisti catturati li trasforma in ostaggi. È superfluo far notare che il trattamento riservato ai prigionieri di guerra, esplicitamente, non viene fatto discendere da motivi contingenti e provvisori, ma è la condizione permanente ed immutabile posta dal potere. Non è l’attività del singolo detenuto che conta, bensì la sua figura politica (o anche solo sociale per i “comuni” dato lo scarso grado di integrazione sociale esistente in Italia rispetto agli altri paesi) nella lotta che il proletariato conduce. Questa politica di guerra ha uno scopo unico: l’annientamento del prigioniero di guerra”. Dove l’aspetto dell’annientamento fisico è direttamente funzionale e subordinato all’obbiettivo della distruzione della sua identità politica e personale.

Su tutta l’area metropolitana il combattente antimperialista prigioniero è considerato un ostaggio nelle mani dello Stato che tende a sviluppare nei suoi confronti una duplice azione: da un lato un trattamento orientato alla progressiva distruzione della sua identità politica, volontà, personalità, attraverso l’isolamento individuale o per piccoli gruppi e una continua opera di destabilizzazione verso livelli di pura sopravvivenza; dall’altro, il suo utilizzo propagandistico in funzione deterrente verso le forze rivoluzionarie e proletarie. Su tutta l’area metropolitana a questo trattamento di guerra il movimento rivoluzionario è impegnato a rispondere con azioni di guerra.

È bene fare la massima chiarezza su questo punto. I campi non sono un bubbone in corpo sano, deviazioni delle “norme democratiche”, residui medioevali o casi “deprecabili” di ritardo nell’applicazione della riforma. I campi sono la punta avanzata della riforma. Sono l’altra faccia dei “carceri aperti” e materializzano il suo principio cardine: il trattamento differenziato” (2).

Si determinano, con la istituzione dei campi, nuove condizioni in cui la catena di trasmissione del potere collega direttamente il Campo ai vertici del Ministero di Grazia e Giustizia, degli Interni, della Difesa, le responsabilità politico-militari di ciò che in essi succedeva assegnata in primo luogo all’esecutivo. Questo processo è in pieno svolgimento e non è privo di contraddizioni, Esso infatti si svolge in un sistema istituzionale che contempla il potere legislativo e il potere giudiziario ancora formalmente autonomo e indipendente. La massima dimostrazione di forza dell’Esecutivo coincide quindi con l’evidenziarsi di contraddizioni. Progetto imperialista e strutture istituzionali entrano in conflitto, ed il primo tende a prevaricare ed adattare a sé le seconde. È da questa contraddizione che nasce una “opposizione democratica”. Un settore della borghesia, pur non essendo in antagonismo con gli obbiettivi strategici dell’imperialismo è costretto a lottare per la conservazione degli spazi di potere che occupa nella struttura istituzionale. L’atteggiamento di questa “opposizione democratica” nei confronti della lotta proletaria antimperialista ha un carattere duplice. Da una parte, in quanto componente del quadro imperialista, si fa essa stessa aperta controrivoluzione, non solo come organizzatrice del consenso a livello di massa, ma soprattutto come intermediaria per la mobilitazione del popolo in difesa dello Stato. Dall’altra essa punta al controllo della “spinta a gestire l’opposizione” dopo averla epurata delle componenti “eversive”. E ciò per rafforzare il proprio peso nello scontro politico di potere con gli altri settori della borghesia.

Stante queste condizioni oggettive vi è anche la possibilità di uno scontro tra le componenti della borghesia; la precarietà del quadro politico fondato sull’accordo di maggioranza parlamentare (appena nato e già in crisi) ne fa testo. In pratica però queste contraddizioni possono evolversi solo in conseguenza dell’iniziativa delle forze rivoluzionarie. La lotta di classe costringe le forze politiche a prendere posizione. Nel caso delle “carceri speciali”, una ripresa dell’iniziativa proletaria avrà una duplice conseguenza: disarticolare, con il progetto dei Campi, una punta avanzata della controrivoluzione; approfondire le contraddizioni dello stesso progetto di ristrutturazione dello Stato imperialista che rendono possibile lo sviluppo di uno scontro di potere all’interno del blocco dominante.

Il tentativo di fuga da Favignana ha dimostrato non solo la debolezza politica di questo progetto, ma anche tutta una serie di contraddizioni strutturali che vanno sottolineate. In primo luogo lo scontro latente tra l’organizzazione dei “servizi di sicurezza esterni” – reparti speciali dei CC diretti dal Gen. Dalla Chiesa – e le strutture dell’amministrazione penitenziaria che fanno capo al ministero di GeG. Una contraddizione che ha origine nella struttura istituzionale cioè nella divisione dei compiti e di potere stabilita per tradizione dagli apparati di comando dello Stato.

La creazione di organismi per il coordinamento per la riorganizzazione del settore carcerario, come la Commissione presieduta da Buondonno e Dalla Chiesa (della quale faceva parte il giudice Palma giustiziato dalla nostra Organizzazione), se rappresenta il segno della volontà dell’Esecutivo di superare questi limiti, cioè la tendenza a superare il particolarismo determinato dagli interessi “locali” in funzione di un interesse superiore e generale (quello della difesa dello Stato imperialista), deve fare comunque i conti con questa realtà. Dopo sei mesi di sforzi il ministro non è riuscito ancora a fare di Favignana un “carcere speciale”, e questo perché, prima la direzione e poi le guardie hanno ostacolato e anche sabotato questo progetto. A Nuoro, le guardie hanno minacciato di abbandonare il servizio contro la proposta di istituire un “carcere speciale”. A Trani, durante il sequestro di alcune guardie da parte di detenuti c’è stato uno scontro fisico durissimo tra i CC che pretendevano di entrare con la forza a liberare gli ostaggi e i colleghi dei sequestrati che hanno imposto una soluzione “pacifica”.

Lo stesso tipo di contraddizioni si manifesta negli alti vertici delle gerarchie, come quando contro la nomina di Dalla Chiesa a coordinatore della sicurezza interna-esterna delle carceri si sono schierati l’Ispettore Generale delle carceri Altavista che ha protestato per “la interferenza dei CC nella amministrazione penitenziaria” e addirittura il fu comandante dell’Arma Gen. Mino che si è sentito “scavalcato nelle sue competenze dalle decisioni del governo”. La struttura di comando “parallela” che affianca i direttori delle carceri speciali e che dipende direttamente dagli organi militari dell’esecutivo è stata istituita proprio perché risponde alle esigenze di realizzare un controllo diretto sul trattamento dei prigionieri che parta dal centro, e quindi di sottrarre competenze e potere agli organi locali. In altre parole per contrastare le tendenze particolaristiche (corporative) che a tutti i livelli ostacolano il piano imperialista.

 

  1. E) La mobilitazione reazionaria delle masse attraverso i mass-media

“L’operaio dovrebbe sempre sapere che il giornale borghese (qualunque sia la tinta), è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce in un fatto: combattere la classe lavoratrice”. Così scriveva Gramsci sull’Avanti nel 1916.

La stampa della borghesia ha sempre avuto questa funzione, ma il salto di qualità sta nel fatto che ora la direzione politica reale degli organi di informazione, è stata centralizzata e assunta in prima persona dall’Esecutivo dello Stato imperialista. La Rai, i principali quotidiani e settimanali, sono diventati delle vere e proprie succursali dell’ufficio stampa del Ministero dell’Interno, e i giornalisti, che gestiscono le veline governative che ispirano l’azione controrivoluzionaria, sono veri e propri agenti distaccati di questo Ministero. Il controllo totale sulla stampa non va comunque scambiato con la censura, che di questo è solo un aspetto. Quello assegnato agli organi di stampa è un ruolo attivo, organico e funzionale alla strategia delle multinazionali, è una parte integrante della ristrutturazione dello Stato. Villy Brandt spiega così la funzione dei mass-media dello Stato imperialista: “Immunizzare la società contro la rivoluzione tramite una tranquilla e decisa affermazione della situazione normale”. E precisa: “Il nichilismo criminale può essere combattuto con maggiore efficacia se la paura non diventa oggetto di calcolo politico e giornalistico”. È lo stesso punto di vista esposto da Andreotti. Quest’ultimo infatti ha dichiarato che: “I giornalisti possono aiutarci con successo nel rasserenare gli animi”.

La tesi è molto esplicita: militarizzare i mezzi di comunicazione di massa e i loro tecnici, intruppandoli come funzionari della guerra psicologica sotto la direzione dell’Esecutivo. Agghiacciante ma perfettamente in linea con le direttive della Trilateral Commission. Secondo i cervelli dell’imperialismo infatti la “libertà di stampa” va bene, ma solo in dosi modeste. Essendo possibili “gli abusi” si impone allo Stato la esigenza di: “assicurarsi il diritto e la possibilità di negare le informazioni all’origine;… regolamentare i valori professionali dei giornalisti e, …in casi eccezionali anche procedere alle restrizioni preventive ritenute necessarie”.

Nello Stato imperialista, in cui la famiglia e la scuola perdono a ritmo accelerato gran parte delle loro funzioni integrative tradizionali, i mezzi di comunicazione di massa sono apertamente utilizzati come strumenti fondamentali di socializzazione delle masse (e cioè di trasmissione di “valori, modelli di comportamento di base…”). Per questo la questione del loro controllo è di così fondamentale importanza.

La funzione formativa (formativa del consenso alla politica dell’Esecutivo) tende a subordinare tutte le altre, e la “funzione informativa” si riduce alla costruzione capitolo dopo capitolo, della favoletta da somministrare come una pillola tranquillante alle masse espropriate di ogni controllo e di ogni alternativa.

La liquidazione rassicurante attraverso i mass-media dei comportamenti di classe antagonistici e, indirettamente, delle forze di classe che per loro tramite manifestano i propri bisogni, è la premessa necessaria alla loro liquidazione violenta mediante l’azione dei “corpi speciali” La funzione politica dei mass-media è dunque quella di costruire una mobilitazione permanente in senso reazionario delle masse; di fabbricare l’identificazione di ampi strati proletari con i provvedimenti più repressivi che lo Stato si incarica di attuare; di organizzare il consenso sulla liquidazione, anche fisica, dei nemici interni. Nelle moderne redazioni dei grandi giornali, in cui ogni giorno si scompone e ricompone lo scontro di classe secondo i fini di dominio della borghesia imperialista, siedono i nuovi tecnici della controguerriglia, gli specialisti della guerra psicologica, i funzionari della violenza controrivoluzionaria che spianano il terreno ai killer dei corpi speciali. Sono i fabbricatori di mostri che precedono nella guerra moderna gli annientatori dei militanti rivoluzionari. È in queste redazioni che le cosiddette strategie del low profil (profilo basso), ossia di interventi indiretti contro i movimenti proletari, prendono corpo e si concretizzano in operazioni psicologiche che si propongono di influenzare gli atteggiamenti del proletariato, conquistare “i cuori e le coscienze”, screditare la guerriglia, incoraggiare al suo interno divisioni, insinuare il sospetto, abbattere il morale.

 

Uscire dalla crisi

Il proletariato metropolitano non ha alternative. Per uscire dalla crisi deve porsi e risolvere la questione centrale del potere. Solo distruggendo lo Stato imperialista, instaurando il suo potere la dittatura del proletariato, è possibile staccare “l’anello Italia” dalla catena imperialista, solo rifiutando il posto che ci assegna la divisione imperialistica del lavoro si possono valorizzare a pieno le forze produttive presenti nella nostra area. Uscire dalla crisi vuol dire comunismo! Vuol dire: ricomposizione del lavoro manuale e intellettuale; organizzazione della produzione in funzione dei bisogni del popolo, del “valore d’uso”, e non più del “valore di scambio”, vale a dire dei profitti di un pugno di capitalisti e di multinazionali. Tutto questo oggi è storicamente possibile. Necessario e possibile! È possibile utilizzare l’enorme sviluppo raggiunto dalle forze produttive per liberare finalmente l’uomo dallo sfruttamento bestiale, dal lavoro necessario, dalla miseria, dalla fatica, dalla degradazione sociale in cui lo inchioda l’imperialismo. È possibile stravolgere la crisi imperialista in rottura rivoluzionaria e quest’ultima in punto di partenza di una nuova società che costruisce ed è costruita da uomini sociali, mettendo al suo centro l’espansione e la soddisfazione crescente dei molteplici bisogni di ciascuno e di tutti.

“Solo l’enorme incremento delle forze produttive raggiunto mediante la grande industria permette di distribuire il lavoro fra tutti i membri della società senza eccezioni e perciò di limitare il tempo di lavoro di ciascuno in tale misura che per tutti rimanga un tempo libero sufficiente per partecipare sia teoricamente che praticamente agli affari generali della società. Quindi solo oggi ogni classe dominante e sfruttatrice è diventata superflua anzi è diventata un ostacolo allo sviluppo della società e solo ora essa sarà anche inesorabilmente eliminata per quanto possa essere in possesso della violenza immediata” (Engels).

L’imperialismo delle multinazionali è l’imperialismo che sta percorrendo fino in fondo, ormai senza illusioni la fase storica del suo declino, della sua putrefazione. Non ha più nulla da proporre, da offrire, neppure in termini di ideologia. La mobilitazione reazionaria delle masse in difesa di se stesso che sta alla base della sua affannosa ricerca di consenso non può appoggiarsi in questa fase su alcuna base economica. La controrivoluzione preventiva come soluzione, per ristabilire “la governabilità delle democrazie occidentali”, si smaschera ora come fine in sé. La forza è la sua unica ragione. Siamo di fronte non solo alla rappresentazione esplicita della sconfitta storica dell’imperialismo come modo di produzione capace di espansione infinita progressiva, continua, ma anche alla sostituzione conseguente delle ragioni della forza alle debolezze della sua ragione storica. L’esaurirsi delle sue capacità di sviluppare ancora le forze produttive è un processo irreversibile.

Nessuno sforzo controrivoluzionario per quanto feroce e violento potrà riuscire a bloccarlo, e ciò vuol dire anche che nessuna controrivoluzione, per quanto feroce e violenta, potrà riuscire a vincere in queste condizioni storiche. Dire che l’imperialismo è sulla difensiva non significa dire che è senza unghie, né che il suo rovesciamento avverrà in modo rapido e semplice. Nel momento del suo declino è estremamente crudele e userà ogni arma a sua disposizione per ingannare, dividere, affamare, torturare e assassinare, coloro che lo attaccano. Ma il suo definitivo rovesciamento è inevitabile.

Non è solo a causa delle sue contraddizioni interne che l’imperialismo non trova più le energie e le condizioni per la propria riproduzione e per il proprio sviluppo, ma queste contraddizioni vengono progressivamente esaltate e approfondite dall’impegno su un numero crescente di fronti, tanto ai suoi confini quanto nelle sue metropoli, dalla guerra di liberazione dei popoli e dalla guerra di classe rivoluzionaria del proletariato. È questa guerra che gli impedisce di evolvere in forme diverse da quelle proprie e specifiche della controrivoluzione in ciascun paese; ed è questa controrivoluzione che consente alle forze rivoluzionarie di rafforzarsi, crescere ed infine vincere. La borghesia si affermò perché era espressione di un reale processo di crescita delle forze produttive; la borghesia imperialista perderà perché per affermare se stessa è obbligata a soffocare questa crescita. Una necessità irresistibile rende irresistibile il processo di rivoluzione sociale che stiamo vivendo e tra tutte le forze produttive, noi, l’avanguardia organizzata del proletariato metropolitano, siamo la principale.

 

Fase e congiuntura

Riconoscere l’esistenza oggettiva delle contraddizioni di classe e più precisamente individuare quale tra esse è per noi, in questa fase, principale e quali invece sono oggettivamente secondarie, è un presupposto necessario dell’azione rivoluzionaria. Non si ha lotta rivoluzionaria se non si affronta e combatte il nemico principale. Abbiamo fin qui sostenuto che, in questa fase storica la contraddizione di classe principale è quella che oppone al proletariato metropolitano la borghesia imperialista e che, dunque, quest’ultima è rispetto ad esso e alle sue avanguardie politico-militari il principale nemico da abbattere. Abbiamo visto anche che lo Stato imperialista è una sintesi delle forme molteplici che assume l’iniziativa storica della borghesia imperialista, un concentrato esclusivo dei suoi bisogni, e lo strumento essenziale del suo dominio in tutti i campi.

Dire che in questa fase la borghesia imperialista è il nemico principale, se ci consente di individuare le linee strategiche del nostro movimento, ancora non è però sufficiente per determinare una giusta tattica. Tattica e strategia sono aspetti complementari e necessari alla nostra azione. La guerra di classe nel suo movimento reale fa emergere ad ogni momento determinato l’aspetto principale della controrivoluzione imperialista, ed è questo che chiamiamo congiuntura. La congiuntura non è determinata soggettivamente e univocamente dalle avanguardie armate e crederlo è fonte di astrattezza nell’individuazione della linea di combattimento. La congiuntura è, come la fase, un dato oggettivo dello scontro di classe che le forze rivoluzionarie contribuiscono a determinare essendone a loro volta determinate. Senza una corretta valutazione della congiuntura non vi può essere  perciò una corretta individuazione della tattica, e senza una tattica adeguata nessun avanzamento reale risulta effettivamente possibile. Quali sono gli elementi che è necessario valutare per comprendere la congiuntura e dunque per elaborare una tattica adeguata. Sono tre:

  1. a) il terreno dominante sul quale si muove l’iniziativa controrivoluzionaria della borghesia imperialista;
  2. b) la condizioni particolari e specifiche che caratterizzano il movimento di resistenza offensivo e più in generale gli strati proletari più combattivi;
  3. c) lo stato reale del partito o comunque dell’avanguardia armata.

 

L’attuale congiuntura,passaggio dalla pace armata alla guerra

La congiuntura attuale è caratterizzata dal passaggio dalla fase della “pace armata” a quella della guerra. Questo passaggio viene manifestandosi come un processo estremamente contraddittorio, che contemporaneamente si identifica con la ristrutturazione dello Stato in Stato imperialista delle multinazionali. Si tratta quindi di una congiuntura estremamente importante la cui durata e specificità dipendono dal rapporto che si stabilisce tra rivoluzione e controrivoluzione: non è comunque un processo pacifico, ma nel suo divenire, assume progressivamente la forma della guerra.

Il principio tattico della guerriglia in questa congiuntura è la disarticolazione delle forze del nemico. Disarticolare le forze del nemico significa portare un attacco il cui obbiettivo principale è ancora quello di propagandare la lotta armata e la sua necessità, ma in esso già comincia ad operare anche il principio tattico proprio della fase successiva, la distruzione delle forze del nemico: questo attacco deve propagandare la linea politica dell’avanguardia politico-militare e contemporaneamente disarticolare la nuova forma che lo Stato imperialista va assumendo, deve cioè tendere anche ad inceppare, creare disfunzioni nell’apparato di guerra che la controrivoluzione va approntando. Scopo immediato di questi attacchi è:

  1. a) mettere sistematicamente a nudo il fatto che il governo (Esecutivo) è nello stesso tempo uno strumento di repressione interna e una determinazione nazionale degli interessi dell’imperialismo dominante con in testa gli Usa e la Rft. Obbiettivo questo che potrà essere conseguito sviluppando l’iniziativa su tre fronti:

1 – contro la Dc che dal dopoguerra in poi rappresenta nel nostro paese gli interessi tattici e strategici dell’imperialismo dominante e delle multinazionali;

2 – contro il personale politico imperialista che manovra le strutture centrali dello Stato, strutture che si snodano a partire dai ministeri attraverso un corpo ben distinto di istituzioni economiche, giudiziarie, carcerarie, militari, in tutto il paese;

3 – contro il personale politico imperialista che manovra i “centri vitali” del potere direttamente o indirettamente collegati all’Esecutivo ma formalmente autonomi (dalla Confindustria alle gerarchie di fabbrica, Fondazioni, mass-media);

4 – contro il personale politico imperialista che manovra le filiali locali degli organismi sovranazionali (Trilateral C, Cee, Nato) e che perciò funziona da tramite materiale della catena di trasmissione del potere.

  1. b) Accumulare su questo attacco un vasto e articolato potenziale rivoluzionario consolidandolo nella mobilitazione permanente contro lo Stato imperialista e l’Esecutivo che ne è il cervello e il motore. Da come si risolve lo scontro in questa fase dipendono in larga misura i tempi della guerra ed in ultima analisi anche il suo esito. La disarticolazione delle forze del nemico è quindi l’ultimo periodo della fase della banda armata e introduce progressivamente in quella della guerra civile rivoluzionaria.

Disarticolazione politica e militare delle forze del nemico devono procedere di pari passo, e dal lato delle forze rivoluzionarie questo processo corrisponde attualmente alla costruzione del Partito Comunista Combattente nel movimento di resistenza proletaria, per sviluppare la guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere.

 

Sulle forme dell’azione di guerriglia nell’attuale congiuntura

Ogni fenomeno nel suo divenire si trasforma. Questa trasformazione non è solo “quantitativa”, ma investe anche la sua “qualità”: Questa è una legge generale del materialismo dialettico e perciò vale anche per la guerriglia e le sue forme di combattimento:

1) All’inizio e per forza di cose, operavamo per piccoli nuclei e abbiamo praticato piccole azioni.

2) Poi, crescendo la forza e il radicamento della guerriglia, siamo passati ad azioni più complesse che impegnano contemporaneamente ma sempre in piccole azioni, più nuclei.

3) Oltre ancora la guerriglia si è mossa per campagne e cioè contemporaneamente in più poli sulla stessa linea di combattimento. Questa è una direttrice di crescita della guerriglia. Una seconda direttrice di crescita è stata quella del passaggio da “azioni rapide” (mordi e fuggi) ad “azioni prolungate” (Amerio, Sossi, Costa) ciò ci ha consentito di svolgere una propaganda armata più incisiva e di dimostrare al movimento di resistenza i livelli raggiunti dalla guerriglia nell’organizzazione del potere proletario. Ci ha consentito inoltre di ampliare e moltiplicare le contraddizioni all’interno dello Stato. Una terza direttrice infine è stata quella del rapido concentramento di forze numerose per attaccare il nemico in piccole battaglie (Casale, Coco).

Abbiamo riassunto queste tre direttrici di crescita dell’azione guerrigliera perché sono quelle che fanno emergere con maggiore intensità i contenuti fondamentali della guerriglia. La forza reale della guerriglia dimostra non solo “alzando il tiro” ma soprattutto impostando campagne sempre più articolate (che investono un numero crescente di poli); impegnando il nemico in azioni prolungate che esaltino ed esasperino tutte le sue contraddizioni interne, attaccando le forze nemiche di sorpresa in battaglie via via più consistenti che forniscano alle masse proletarie il margine reale della crescita della forza guerrigliera.

Inoltre la ristrutturazione dello Stato Imperialista delle Multinazionali si caratterizza per la sua estrema militarizzazione e per la concentrazione di forza militare a difesa dei suoi organismi vitali, del proprio personale di direzione, delle sue strutture fondamentali, ecc. Sviluppare l’iniziativa rivoluzionaria per disarticolare politicamente e militarmente questo apparato, comporta l’adozione di nuove tecniche di combattimento che prefigurino e facciano vivere sin da oggi l’aspetto fondamentale della guerra civile dispiegata: l’annientamento delle forze imperialiste. Questo non significa che non esistono più mediazioni adottabili, ma che esse vanno viste in rapporto dialettico con la necessità di incidere “militarmente” per poter incidere “politicamente”.

Compito dell’organizzazione guerrigliera è di passare dalle azioni cosiddette “dimostrative” a quelle che danno al combattimento un inequivocabile significato “distruttivo” della forza nemica. Nessun obbiettivo deve essere difendibile, dai gorilla e dai mercenari del regime, nessun bunker nel quale gli agenti della controrivoluzione si nascondono deve potersi dire “sicuro”. Le tecniche della guerriglia consentono questo, dobbiamo farle nostre ed addestrarci ai nuovi livelli di combattimento che la guerra di classe ci impone.

 

Proletariato Metropolitano e Movimento di Resistenza Proletario Offensivo

Negli ultimi anni e in modo particolare in quello appena trascorso i comportamenti antagonistici della classe si sono radicalizzati ed estesi in misura tale che non ci appare affatto improprio parlare di guerra civile strisciante. Stando ai dati ufficiali, solo nel ’77 sono state compiute oltre duemila azioni offensive e nel solo mese di gennaio ’78 oltre trecentocinquanta. Il tutto distribuito su cinquanta province e un centinaio di città. Chiamiamo Movimento di Resistenza Proletario Offensivo (Mrpo) l’area dei comportamenti di classe antagonistici suscitati dall’inasprimento della crisi economica e politica, chiamiamo Mrpo l’area delle forze, dei gruppi e dei nuclei rivoluzionari che danno un contenuto politico militare alle loro iniziative di lotta anticapitalistica, antimperialista, antirevisionista e per il comunismo. È chiaro che il concetto di Mrpo non riflette un movimento piatto, omogeneo, ma piuttosto un’area di lotta e di “movimenti parziali” molto differenziati e però legati da un comune denominatore: il processo di crisi-ristrutturazione trainato dalla borghesia imperialista. Essendo suscitato da potenti cause economiche e politiche esso cresce e si espande a dispetto di chi lo vorrebbe imbrigliare negli argini di “nuclei combattenti” (oltre cento negli ultimi mesi) esso in realtà è un movimento unitario solidale e duraturo. A questo punto riteniamo sia utile soffermarci brevemente sull’analisi della nuova composizione di classe che, in seguito al processo di crisi-ristrutturazione si è venuta producendo sulla base strutturale, dando origine ad una realtà estremamente composita e variegata nelle sue determinazioni di classe che va sotto il nome di Proletariato Metropolitano (Pm).

Occorre quindi definire organicamente le figure sociali che connotano la soggettività di cui il Mrpo è direttamente espressione tenendo sempre che solo il proletariato – sulla base della sua oggettiva collocazione di classe – è il fattore che introduce nella storia un interesse concreto al rifiuto della proprietà privata dei mezzi di produzione, ponendo in tal modo le premesse per la distruzione del capitalismo e l’instaurazione della sua dittatura. L’insieme degli strati sociali che – in quanto separati o via via esclusi da qualsiasi forma di proprietà – gravitano all’interno del proletariato metropolitano, esprimono ciascuno dei movimenti parziali i quali pur agendo su un piano di autonomia politica relativa, sono però determinati nel loro movimento e nella loro possibilità storica di liberazione da quello che fra tutti rappresenta la forza strategica: la classe operaia. È questo il baricentro, a partire dal quale può sin d’ora, costruirsi l’unità dei vari movimenti parziali, unità che non si dà per aggregazione spontanea dei medesimi ma attraverso il loro allineamento sulla prassi di lotta sviluppata dalla classe operaia. L’unificazione del Mrpo è un processo mediante il quale si realizza la sintesi dialettica degli interessi dei vari movimenti parziali attorno a quelli immediatamente antagonisti della loro componente strategica, e questo processo che non è spontaneo può essere organizzato solamente da un Partito d’avanguardia che assolva ad una funzione d’avanguardia. La classe operaia resta quindi il centro motore del processo rivoluzionario nonché la sua direzione politica, seppure all’interno di essa siano venute producendosi profonde modificazioni che non ne fanno più una realtà omogenea e che pertanto sarà bene esaminare.

 

Classe operaia

Va considerato qui separatamente il contingente dei salariati delle grandi fabbriche urbane e delle piccole e medie industrie.

– Classe operaia delle grandi fabbriche urbane.

Può suddividersi in tre strati:

  1. a) Operaio massa: è quello cioè che lavora alla catena e nei reparti ad alto quoziente di nocività, sottoposto ai ritmi più massacranti, è anche quello meno tutelato nei suoi interessi pur essendo il più produttivo, paga in tal modo lo scotto della sua combattività. Costituisce indubbiamente lo strato più rivoluzionario che ha contribuito e contribuisce in maggior misura allo sviluppo della lotta di classe in tutte le forme in cui si manifesta: legali ed illegali, dal gatto selvaggio al sabotaggio, dalla occupazione delle fabbriche alla dura punizione dei capi, dirigenti, fascisti, sino a diventare il nucleo centrale della lotta armata per il comunismo.
  2. b) Operaio professionale: si tratta per lo più di quei settori di aristocrazia operaia che compongono la figura del lavoro professionale, tuttavia l’introduzione di una tecnologia sempre più avanzata e la progressiva divisione del lavoro ne riducono i ranghi a percentuali poco significative. A voler essere più precisi si può addirittura affermare che l’operaio professionale in quanto tale non esiste più e che il termine, almeno nel contesto attuale, indica piuttosto l’operaio qualificato, che è cosa assai diversa dall’operaio professionale vero e proprio. Infatti se la professionalità sottintende una qualificazione adeguata (intesa come addestramento), la qualificazione per contro, non implica affatto la professionalità, trattandosi semmai di adeguamento delle qualità della forza-lavoro alla nuova composizione organica del capitale. Questo tipo di operaio gode di alcuni “privilegi” quali una relativa stabilità del posto di lavoro, un lavoro qualitativamente superiore, non ripetitivo, non stressante, con possibile autodeterminazione dei ritmi e una parziale autonomia di decisione nelle modalità di lavoro. Ciò fa in modo che sia particolarmente sensibile all’ideologia del lavoro sostenuta dai revisionisti e alla loro politica, costituendone perciò la base sociale; in seno al movimento operaio rappresenta pertanto una tendenza da abbattere, comunque ancora suscettibile – soprattutto con l’acuirsi della crisi – di essere recuperato, per lo meno in certe sue frange, all’iniziativa rivoluzionaria.
  3. c) Aristocrazia operaia: questa coincide con gli strati immediatamente superiori agli operai qualificati (quindi con quel che resta degli operai professionali) e con la burocrazia sindacale improduttiva. Questo segmento di classe, di fronte alle proporzioni che va assumendo lo scontro, viene prefigurandosi sempre più come strumento della controrivoluzione; costoro svolgono ormai apertamente una funzione di supporto alle scelte di politica economica della borghesia imperialista fornendo una base di legittimazione ed esercitando nel contempo un’azione di controllo e spionaggio dentro la fabbrica.

– Operai delle piccole e medie industrie

Sotto molti aspetti presentano delle analogie con l’operaio massa delle grandi fabbriche, ma differentemente da questo trovano maggiori difficoltà ad organizzarsi e a mobilitarsi in quanto più facilmente individuabili perché costretti a muoversi in strutture “compresse” e perciò più controllabili.

– Lavoratori produttivi all’interno della sfera della circolazione: si definiscono lavoratori produttivi all’interno della sfera della circolazione quella parte di essi che è produttiva e conservativa di valori (trasporti, riparazioni) all’interno di questo settore, anche certe sacche di privilegi tipo i portuali – per certi aspetti vere aristocrazie operaie negli anni passati – vengono immancabilmente ridimensionate dalla ristrutturazione attualmente in corso così come pure per quanto concerne i lavoratori produttivi dei servizi.

All’interno del proletariato metropolitano troviamo poi una serie di strati che in parte vanno definiti in modo diverso dal passato. Essi sono:

1) Lavoratori manuali del settore dei servizi: la separazione tra la funzione lavorativa (lavoro manuale complessivo) e il controllo su di essa (lavoro intellettuale complessivo) definisce i rapporti di classe fino a far permanere la struttura del capitalismo al di là del superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo sviluppo di questa separazione crea da un lato una nuova piccola borghesia (uso della “scienza” contro il “lavoro”) ma dall’altro una ampia fascia di lavoratori manuali nei servizi che oltre a subire un rapporto di lavoro salariato si distinguono per i livelli di coscienza che sviluppano nelle loro lotte tanto da farne i migliori alleati della classe operaia, dato che di questa vivono praticamente la stesse condizioni pur non producendo valori (v. ospedalieri).

2) Esercito industriale di riserva: è parte integrante della classe operaia; comprende tradizionalmente tutti quei lavoratori in attesa di essere inseriti nel processo produttivo, pur essendone temporaneamente espulsi. Si ha così una “fluttuazione” che tuttavia nell’attuale fase tende a configurare la disoccupazione come dato strutturale di grosse dimensioni dello Stato imperialista. Mentre la sovrappopolazione fluttuante è costituita dagli operai temporaneamente licenziati o da quelli in cassa integrazione, la sovrappopolazione latente vede oggi al suo interno la disoccupazione giovanile come fenomeno più macroscopico e politicamente più importante. Secondo una recente statistica svolta nei paesi dell’Ocse essa tocca punte del 40% e oltre. Quello che a tutti gli effetti costituisce un vero e proprio esercito ha dato vita in Italia ad un movimento di lotta su posizioni molto radicali, con – anche – forme organizzative permanenti e direttamente collegate con la classe operaia. Tuttavia l’evoluzione delle forme di suddivisione della sovrappopolazione presenta oggi una maggiore complessità rispetto alle forme storiche analizzate nello schema di Marx e ciò si verifica attraverso la formazione di uno strato di operai (e proletari) “marginali” ma non emarginati. Nel caso della sovrappopolazione stagnante descritta da Marx abbiamo non solo un ritorno di lunga durata alla condizione di disoccupato (per es. attualmente gli operai emigrati che tornano al Sud dai poli industriali della Cee) ma anche uno stato di precarietà permanente come nella attuale classe operaia marginale. Questa precarietà non va riferita alla condizione occupazionale individuale dell’operaio, bensì alla stessa unità produttiva in cui l’operaio è inserito. Ma oggi le caratteristiche di questa “area” della produzione sono strutturali, “stabili nella loro precarietà”, potremmo dire, infatti:

– decentramento della produzione rispetto all’azienda monopolistica è l’effetto della tendenza all’aumento del capitale complessivo impiegato per addetto. È un’area marginale presente in tutti i settori dell’economia per quanto in misura maggiore in quelli meno trainanti (dato che la sua funzione non è determinata solo da motivi strutturali ma anche politici); è presente in tutti i paesi a capitalismo avanzato con varie forme d’uso della forza lavoro (dal lavoro stagionale, al part-time, alla piccola fabbrica fino al contratto a termine anche in certe grandi aziende ecc);

– la sua soggezione alla “spontaneità” del mercato consente una maggiore elasticità nell’uso della forza-lavoro contro la caduta tendenziale del saggio di profitto tramite il prolungamento della giornata lavorativa nei periodi di espansione congiunturale (plusvalore assoluto) e comunque il minor costo della forza-lavoro nei periodi recessivi;

– è uno strumento di divisione politica della forza operaia come l’esercito di riserva inteso nel senso tradizionale poiché questo, oltre a regolare l’entità del monte salari, diminuisce la forza contrattuale della fascia operaia meno privilegiata e ricatta in modo “corporativizzante” quella delle grandi aziende.

Rispetto alla sovrappopolazione stagnante descritta da Marx, la differenza di questa sta nel fatto che la sua condizione non è legata al ciclo della crisi ma è la condizione derivante in modo permanente dai rapporti di produzione dell’attuale fase capitalistica. L’unica possibilità di cambiamento offertole come strato non è quella del “rientro” nella stabilità occupazionale alla fine del ciclo, ma semmai quella dell’emarginazione totale dato che non è prevista una fase di rilancio delle forze produttive all’interno dell’attuale modo di produzione. Se dunque parliamo di questa fascia operaia nell’esercito di riserva è solo per comodità di esposizione, mentre la sua collocazione scientifica sta all’esterno di essa: infatti gli operai si trovano in posizione intermedia e oscillante tra la classe operaia occupata stabilmente e l’esercito industriale di riserva, come occupati “in modo diverso”.

3) Gli emarginati: sono coloro che consumano senza lavorare o che comunque sono totalmente espulsi dal processo produttivo, per cui sono privi di una precisa e omogenea identità politica di classe; purtuttavia in questi ultimi anni alcune fasce di emarginati sono venute acquisendo coscienza politica e che trova nel proletariato extralegale e nel proletariato prigioniero una espressione reale di avanguardia che si inscrive a pieno titolo come potente fattore alleato alla classe operaia. Per emarginati intendiamo dunque i consumatori senza salario:

  1. a) Proletariato extralegale: (in cui è compreso anche quello prigioniero). È determinato dall’emarginazione crescente di strati di popolo dal processo produttivo, che ha innescato quel fenomeno che è definito “criminalità di massa” favorita anche dalla mostruosa disparità della ricchezza concentrata nelle mani di pochi. L’impossibilità di trovare un lavoro stabile costringe strati di popolazione a ricorrere a comportamenti illegali che tra l’altro, sono sempre meno estranei anche alla classe operaia.

Citiamo una statistica della città di Roma relativa al 1971, è fatta da borghesi, però consente di constatare gli indiziati di reato suddivisi per lassi: operai e lavoratori sono il 40,13%; studenti 11,71%; pensionati e casalinghe 7,73%; senza professione 15,61%, che danno un astratto del totale degli indiziati di reato pari a 75,18%. È interessante notare che la più alta percentuale di “criminali” proviene dal mondo del lavoro. Il “crimine” diventa per gruppi di proletari il secondo lavoro! Le lotte dei detenuti e la politicizzazione di interi ambienti della “malavita” non sono dunque un fatto strano e mostruoso; non è più possibile considerare soltanto il carcere come veicolo di organizzazione e di lotta, anche se il carcere resta il momento di maggiore socializzazione di questo “segmento” di classe. Del resto, già Lenin nel 1905 notava come in periodo di crisi economico-politica, il banditismo sociale diventa un modo specifico di lotta di certi strati proletari urbani, gettati sul lastrico dell’immiserimento; questo fenomeno tende a diffondersi all’interno della classe operaia ed è assolutamente indispensabile trasformare queste forme di lotta in azioni partigiane, coinvolgendo questi strati nella guerra civile sotto la direzione del Partito Combattente.

  1. b) Assistiti da enti pubblici e privati: (vecchi, handicappati, disadattati, minorati,ecc). Anche i proletari anziani (pensionati) rientrano in questa categoria, in quanto la loro emarginazione dal processo produttivo comporta spesso anche l’emarginazione da tutti i rapporti sociali, pur non essendo rinchiusi in una “istituzione totale” (manicomi, ospizi, ecc), Anche questi strati negli ultimi anni hanno dato vita a lotte estese dimostrando come per il proletariato, in questa società, non ci sia pace fino alla fine.
  2. c) Sottoproletariato tradizionale, quest’ultimo è praticamente costituito da residui di classi disgregate e pur essendo ormai un fenomeno di scarse dimensioni almeno rispetto all’analisi che ne fecero Marx ed Engels, resta però tuttora valido il giudizio che di esso diedero “… putrefazione passiva degli strati più bassi della popolazione suscettibile alle mene della reazione…”. Esso resta pertanto, così come è venuto storicamente confermandosi, il peggiore alleato della classe operaia.

 

Esercito intellettuale di riserva

Definiamo esercito intellettuale di riserva quelle sacche di “lavoro nero” intellettuale quali: lavori occasionali, a termine, ausiliari, o supplettivi. Questa forza-lavoro, per le sue caratteristiche di medio-alta scolarizzazione è di forte instabilità, trova nella società industriale le più svariate collocazioni per cui la sua soggettività si esprime in forma del tutto eterogenea. All’interno di questa area sociale si collocano anche gli studenti i quali non costituiscono una classe a sé, ma riflettono nella scuola tutte le divisioni e le segmentazioni di classe di cui sono espressione. Negli anni passati, in piena espansione economica, a misura in cui aumentava la crescita della composizione organica del capitale – conciliata però in quella fase con l’allargamento della base produttiva – si poneva il problema di una trasformazione di qualità della forza-lavoro, da cui l’esigenza per il capitale di promuovere un processo di scolarizzazione di massa in grado di fornirgli una manodopera scolarizzata, capace di operare cioè in una società industriale avanzata. Ciò ha dato origine alla formazione di una nuova figura sociale proveniente dalle classi subalterne e con un indice di scolarizzazione predeterminato dalle necessità della produzione industriale (scuole tecniche, professionali, corsi serali di qualificazione): lo studente-massa. Questo studente tipo è oggi la componente di maggioranza nelle scuole divenute esse stesse, di fronte all’acuirsi della crisi, delle vere e proprie “aree di parcheggio” per disoccupati potenziali con scarsissime possibilità di assimilazione nel tessuto produttivo. Questa “precarietà” è oggi una tendenza che riflette l’incompatibilità per la borghesia imperialista di poter coniugare la scolarizzazione di massa con la contrazione selvaggia dei livelli occupazionali. La consapevolezza di ciò fa sì che il movimento degli studenti-massa sia oggi una delle forze trainanti, a fianco della classe operaia, del processo rivoluzionario.

 

La piccola borghesia

Pur delimitando il discorso alla composizione di classe del proletariato metropolitano occorre tuttavia considerare anche quelle componenti della piccola borghesia che, nel corso della crisi vengono oggettivamente a gravitare intorno al proletariato. Non a caso il revisionismo con una correlazione ideologica e politica assai disinvolta tende a recuperarla in blocco (vedi politica dei “ceti medi”) ponendola su un piano preferenziale quale alleato delle fasce di aristocrazia operaia e degli operai professionali. Questo strato si articola in:

– Piccola borghesia tradizionale legata alla piccola produzione e alla piccola proprietà (artigiani, piccoli commercianti, contadini, ecc), attualmente è in via di estinzione ma è sempre contraddistinta da una profonda instabilità politica.

– Nuova piccola borghesia. Qui l’analisi deve essere più attenta perché non si tratta più di residui, di modi di produzione superati, ma di un prodotto dell’attuale modo di produzione: il capitalismo maturo. È estremamente stratificata, infatti si estende da fasce di lavori praticamente manuali (vedi i commessi della grande distribuzione, ecc) che subiscono uno sfruttamento e una nocività elevata; al personale insegnante e non della scuola di massa; ai larghi strati impiegatizi (piccola e media burocrazia, statale e privata); fino a giungere ai quadri tecnici di direzione, sorveglianza e organizzazione del lavoro. L’elevata frantumazione interna e la polarizzazione causata dalla lotta di classe disarticola ulteriormente questo strato sociale, la cui collocazione politica, si può riassumere così:

– alleate della classe operaia le fasce inferiori, quelle ancora legate al lavoro manuale;

– oscillanti, con quella caratteristica instabilità della piccola borghesia più tradizionale, gli strati intermedi (insegnanti, impiegati);

– oggettivamente antiproletarie le sue fasce superiori (controllo e organizzazione del lavoro) che tra l’altro sono una componente importante della politica dei revisionisti.

 

Lavoro femminile

Le donne di qualsiasi componente proletaria occupano sempre posizioni inferiori, subordinate e peggio pagate rispetto agli uomini. Inoltre subiscono la schiavitù del lavoro domestico. Il lavoro femminile, anche quello fatto in casa è pertanto antagonista alla società capitalista. Il risveglio delle lotte femminili e dei contenuti impliciti ed espliciti di queste lotte avrà sempre più peso ed importanza nel movimento rivoluzionario. La bestialità dei rapporti di produzione capitalistici e dei loro risvolti sociali ha risvegliato anche questa enorme forza sociale; le armi della critica radicale e la critica radicale delle armi hanno toccato finalmente anche l’ultimo tabernacolo: la sfera della famiglia e dei rapporti uomo-donna, sfera di decisiva e fondamentale importanza per spalancare le porte al cambiamento della vita e del mondo. Possiamo dire che con l’entrata delle donne sulla scena della rivoluzione tutte le forze sono ormai mature e per i porci è veramente l’inizio della fine! Indubbiamente la soggettività dell’Mrpo, come del resto la sua composizione non è omogenea e tra le diverse componenti si svolge una lotta politica e ideologica.

Si tratta di “contraddizioni in seno al popolo” e la loro esistenza non contrasta né esclude uno sbocco strategico unitario.

Noi lottiamo per la ricomposizione soggettiva del Movimento di Resistenza Proletario Offensivo sul programma di attacco allo Stato imperialista e di costruzione del Partito Comunista Combattente.

C’è chi ha detto che il proliferare dei gruppi armati dà fastidio alle Brigate Rosse. Se non fossimo certi che si tratta di un altro attacco degli strateghi della controguerriglia psicologica per tentare di isolare la nostra organizzazione, ci farebbe piacere che il nemico fosse così stupido. In realtà sa bene che la tendenza ad armarsi da parte delle avanguardie proletarie è inarrestabile, che anzi è destinata ad estendersi; quello che lo terrorizza è proprio l’eventualità che si superino i limiti dovuti alla situazione di obiettiva disgregazione in cui nasce la lotta armata, e si coaguli la direzione strategica del processo rivoluzionario e si organizzi in Partito Combattente. Chiaramente l’attacco propagandistico del nemico è rivolto a ritardare il più possibile questa presa di coscienza delle avanguardie di classe, mistificando spudoratamente i termini della proposta politica che la nostra Organizzazione rivolge a tutte le avanguardie. Non siamo i soli a farlo, ma è certo che le Brigate Rosse combattono e lavorano da sempre per la costruzione del Movimento di Resistenza, perché le avanguardie comuniste colgano l’occasione storica che si offre per la realizzazione di una crescita formidabile del processo rivoluzionario. Questo ci riporta ad un’altra questione centrale e sulla quale si fa molta confusione: la costruzione del Partito Combattente. Bisogna togliersi dalla testa al più presto, ed una volta per tutte, che lo sviluppo della lotta armata verso la guerra civile generalizzata, verso la guerra di popolo di lunga durata, possa essere un processo spontaneo. La guerra di classe nasce spontaneamente dalle condizioni specifiche e dalle contraddizioni di classe particolari e generali che il sistema imperialista produce. L’esigenza a resistere alla ristrutturazione scaturisce “naturalmente” all’interno della classe operaia e del proletariato e spinge la sua avanguardia ad armarsi e combattere il decorso della crisi di regime che crea la situazione oggettiva in cui ci troviamo; è l’esistenza di una consistente frangia di proletariato rivoluzionario che ha creato le condizioni della guerra civile strisciante, quale forma reale in cui si è espresso il movimento di resistenza armato. Radicare la lotta armata nel proletariato, costruire la sua capacità di vittoria strategica, non è un processo spontaneo.

Creare le condizioni per un’alternativa di potere, organizzare strategicamente il potenziale rivoluzionario del proletariato è un processo cosciente e forzato operato dall’avanguardia comunista. Si tratta quindi di assumersi il compito e la responsabilità di guidare il proletariato, di porsi alla sua testa ed assumere la direzione, di costruire tutte le articolazioni del potere proletario, se si vuole, come noi vogliamo, che la guerra civile generalizzata sia una tesi vincente e non il solito inutile massacro. La storia del movimento proletario del nostro paese, può essere considerata, in definitiva, la storia delle sue sconfitte; anzi se c’è una costante è proprio quella che quando la lotta diventa guerra di classe e si configura come alternativa di potere, il nemico ha partita vinta se il proletariato non riesce a darsi una direzione ed un’organizzazione strategica.

Questo è oggi propriamente il compito delle avanguardie comuniste ed è la costruzione di questa organizzazione che chiamiamo Partito Combattente.

Noi assumiamo la Prassi Sociale come criterio oggettivo di verità, convinti che tutti i pensieri che si accordano con la realtà oggettiva permettono di ottenere successi, al contrario quelli che non si accordano con questa conducono al fallimento.”Non c’è che una verità: sapere se la si è scoperta o no non dipende da vanterie soggettive, ma dalla prassi oggettiva. Solo la pratica rivoluzionaria di milioni di uomini è il metro per misurare la verità”.

Assumere il criterio della prassi sociale come criterio di verità e perciò anche di validità dell’azione rivoluzionaria ci porta ad affermare questo principio generale: “Quando i proletari conducono una lotta contro la borghesia se agiscono isolatamente o in maniera dispersiva la loro lotta fallisce; vince se essi agiscono unanimemente e nell’unità”. E dunque ci porta anche a rilevare una condizione di debolezza del movimento di resistenza proletario offensivo, vale a dire la notevole dispersione di forze causata dalla collocazione particolaristica di molti nuclei combattenti che concludono la loro azione entro i limiti ristretti delle situazioni specifiche di cui sono espressione.

Molto spesso così l’iniziativa armata stempera la sua efficacia abbattendosi, anche se con forza eccezionale, su contraddizioni oggettivamente secondarie. Pertanto l’iniziativa politico-militare di questi nuclei, oltre a non incidere a fondo sulla controrivoluzione preventiva, fatica a darsi un respiro strategico e a dialettizzarsi sulla questione centrale che il proletariato metropolitano in questa fase deve affrontare: portare un attacco disarticolante alla ristrutturazione imperialista dello Stato.

Lo stabilizzarsi di questa situazione di estrema frammentazione sul piano della soggettività, che alcuni famigerati opportunisti sono giunti perfino a teorizzare, favorisce inevitabilmente il riflusso verso tendenze politiche che hanno come carattere principale lo “spontaneismo armato” e in taluni casi porta alla esaltazione delle condizioni che definiscono la sua debolezza tattica e al rifiuto di svolgere una funzione di avanguardia politico-militare in rapporto agli strati più avanzati del proletariato. L’iniziativa armata rischia così, al punto più basso, di restare imprigionata nelle sue determinazioni puramente “militari” essendo incapace di rappresentare una prospettiva politica di liberazione.

Imbracciare il fucile è una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della guerra di classe rivoluzionaria di lunga durata.

 

Guerriglia e potere proletario

Che cosa significa nella fase attuale della guerra di classe costruire l’organizzazione del potere proletario?

Nella fase in cui la ristrutturazione dello Stato è arrivata a non poter più tollerare nessuna lotta proletaria che esca dagli schemi funzionali dell’accumulo del capitale, nella fase in cui il regime tende ad inglobare, corporativizzandoli, gli strati privilegiati di questa società e le organizzazioni che li rappresentano, nella fase in cui il potere borghese non può e non vuole più accettare mediazioni con l’avanguardia comunista del movimento, e appronta strumenti per annientarla (leggi speciali, polizia speciale, carceri speciali, uno Stato speciale); nella fase in cui ogni momento di organizzazione autonomo del proletariato viene affrontata dal regime con le armi, con un piano di sterminio della resistenza operaia; nella fase in cui la borghesia ha scatenato la guerra controrivoluzionaria, che cosa significa costruire il potere proletario?

Innanzitutto bisogna capire che non ci troviamo di fronte ad un piano di temporanea limitazione delle libertà democratico-borghesi, e cioè alla chiusura di alcuni “spazi legali” dello Stato di diritto, ma più propriamente di fronte allo scatenarsi della reazione controrivoluzionaria imperialista. Non si tratta quindi di lamentarsi per la repressione, ma di andare più in là, di sviluppare la guerra di classe rivoluzionaria. Se le famigerate leggi speciali vengono applicate per annientare l’avanguardia comunista, per chiudere le sedi dell’autonomia, per mandare al confino i suoi militanti, per mettere in stato di assedio i centri urbani, per impedire di portare in piazza la lotta antimperialista, sarebbe un vero e proprio suicidio politico – oltre che fisico – ostinarsi su posizioni legalistiche che se non sono opportunistiche marce indietro, si riducono a puro avventurismo velleitario.

Bisogna prendere coscienza che nella nuova fase l’unica possibilità di sviluppare l’antagonismo e l’iniziativa proletaria si dà con il fucile in mano ed i nuovi compiti delle avanguardie comuniste riguardano l’organizzazione della lotta armata per il comunismo.

Organizzare il potere proletario oggi significa individuare le linee strategiche su cui far marciare lo scontro rivoluzionario, ed articolare ovunque a partire da queste, l’attacco armato contro i centri fondamentali politici, economici, militari, dello Stato imperialista.

Organizzare il potere proletario oggi significa organizzare strategicamente la lotta armata per il comunismo imparando a vivere, a muoversi e combattere nella nuova situazione. Non bisogna spaventarsi di fronte alla ferocia del nemico e sopravvalutare la forza e l’efficacia dei suoi strumenti di annientamento. Si può e si deve vivere clandestinamente in mezzo al popolo perché questa è la condizione di esistenza e di sviluppo della guerra di classe rivoluzionaria nello Stato imperialista. In questo senso parliamo di “contenuto strategico della clandestinità”, di “strumento indispensabile della lotta rivoluzionaria in questa fase” e nello stesso tempo mettiamo in guardia contro ogni altra interpretazione difensiva o mistica che sia. Sulla clandestinità si sono diffusi una molteplicità di falsi concetti o di pregiudizi. C’è chi dà credito alla propaganda del nemico che ripete continuamente che la guerriglia vive rintanata in tenebrosi “covi”, che i guerriglieri comunisti sono misteriosi individui simili a diabolici marziani, perennemente braccati e costantemente in fuga, inavvicinabili insomma dalla “gente comune”. L’innegabile efficacia della guerriglia per costoro deriverebbe da una “mitica” clandestinità che farebbe dei militanti una specie di superuomini. Altri invece hanno stabilito una assurda ed arbitraria equazione: “legalità” uguale a “movimento” e come logico corollario “clandestinità” uguale a “estraneità dal movimento”. Costoro riescono al massimo a pensare alla clandestinità come una valvola di sicurezza per i compagni individuati o per parare in qualche modo i colpi repressivi sferrati dal nemico. Abbiamo citato queste due posizioni estreme perché contengono tutto l’arco delle concezioni “mitiche” o “difensiviste” e profondamente errate della clandestinità. Esse non colgono, se non superficialmente, le caratteristiche della guerra di classe rivoluzionaria di lunga durata.

Guerra di classe, dunque e non di pochi eletti, dove strati sempre maggiori di proletariato si mobilitano e combattono contro il mostro imperialista, il potere proletario, quindi si sviluppa per “linee interne” a questo movimento e l’organizzazione sedimenta e si innerva con la sua avanguardia comunista armata. Ma anche guerra di lunga durata, condotta nelle metropoli dove la forza brutale dell’imperialismo è di massima concentrazione, e dove le forze rivoluzionarie si trovano ad operare in condizioni di “accerchiamento strategico”, mantenere costantemente l’offensiva, consolidare stabilmente l’organizzazione del potere proletario è possibile solo a partire dalla più rigida clandestinità.

Tutta l’esperienza della nostra Organizzazione conferma che solo da questa impostazione è possibile sviluppare strategicamente l’offensiva rivoluzionaria, e che la clandestinità non è affatto un impedimento alla sua articolazione “in mezzo al popolo”, ma che anzi è la condizione indispensabile perché il potere proletario si possa esprimere.

Nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle carceri e ovunque si manifesti l’oppressione imperialista, organizzare il potere proletario significa: portare l’attacco alle determinazioni specifiche dello Stato imperialista e nel contempo costruire l’unità del proletariato metropolitano nel movimento di resistenza proletario offensivo e l’unità dei comunisti del partito comunista combattente!

 

Il partito comunista combattente

Per trasformare il processo di guerra civile strisciante, ancora disperso e disorganizzato, in una offensiva generale, diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare e unificare il movimento di resistenza proletario costruendo il Partito Comunista Combattente. Movimento e Partito non vanno però confusi. Tra essi opera una relazione dialettica, ma non un rapporto di identità: ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l’avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria e organizzazione stabile e infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario. Vuol dire che il percorso corretto che dobbiamo seguire parte dalla classe per arrivare al Partito e parte dal Partito per ritornare ancora, sotto una forma più matura alla classe.

Il Pcc prima di una struttura organizzativa è una avanguardia politico-militare che realmente è davanti a tutti, che traccia la via da percorrere per tutto il movimento, che sa farsi riconoscere per mezzo della sua iniziativa rivoluzionaria dalla parte più avanzata del proletariato.

Agire da Partito vuol dire collocare la propria iniziativa politico-militare all’interno e al punto più alto dell’offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ciascuna congiuntura, ed essere così, di fatto, il punto di unificazione del movimento di resistenza proletario offensivo, la sua prospettiva di potere.

Costruire il Pcc non significa perciò aggregare in modo sommativo o federativo i vari “movimenti parziali” o “gruppi locali”, ma costruire tutte le mediazioni necessarie per far compiere al movimento di resistenza proletario offensivo salti politici e organizzativi, dalla parzialità alla complessità, dal particolare al generale. Per questo è importante condurre nel Mrpo una lotta ideologica e politica contro le tendenze economiciste-spontaneiste che sfociano nel minoritarismo armato e, paradossalmente, nel militarismo. E contemporaneamente contro quelle tendenze burocratico-minoritarie che concepiscono la costruzione del Pcc come un processo di pura crescita organizzativa che si svolge al di fuori del movimento della classe, separato da esso.

Ma affinché questa lotta politica e ideologica non si riduca a sterile polemica essa deve tendere alla unità del movimento: l’avanguardia armata deve cioè ricercare tutte quelle iniziative politico-militari e quelle forme organizzative in grado di stabilire momenti di confronto e di unità seppur ancora parziali e contraddittori, perché solo da questo confronto può nascere la necessaria chiarificazione sul programma, sui principi e sulle forme organizzative del Pcc.

Agire da Partito vuol dire anche dare all’iniziativa armata un duplice carattere: essa deve essere rivolta a disarticolare e a rendere disfunzionale la macchina dello Stato, e nello stesso tempo deve anche proiettarsi nel movimento di massa, essere di indicazione politico-militare per orientare, mobilitare, dirigere ed organizzare il Mrpo verso la guerra civile antimperialista.

Questo ruolo di disarticolazione, di propaganda, e di organizzazione va svolto a tutti i livelli dell’opposizione statale capitalista e a tutti i livelli della composizione di classe. Non esistono quindi livelli di scontro “più alti” o “più bassi”. Esistono invece livelli di scontro che incidono ed intaccano il progetto imperialista, ed organizzano strategicamente il proletario oppure no. Sono questi due elementi che qualificano l’azione armata e non le difficoltà militari che il perseguimento di un determinato obiettivo comporta: è ovvio che quanto più l’attacco vuole essere efficace e disarticolare gli organi centrali dello Stato, tanto più alta deve essere la forza organizzativa da mettere in campo, ma questo è secondario. Strategicamente è tanto importante distruggere gli organi centrali dello Stato, quanto distruggere le sue articolazioni particolari che percorrono tutto il corpo sociale. Strategicamente è tanto importante costruire una capacità organizzata e centralizzata di esercitare il potere proletario quanto costruire le sue articolazioni all’interno della classe operaia e del proletariato metropolitano nelle fabbriche, nei quartieri, dappertutto.

Per questo non c’è contraddizione tra linea di massa e ruolo d’avanguardia, non c’è dicotomia tra una pratica di movimento e l’azione armata.

Ma agire da Partito, nella situazione presente comporta anche un’altra preoccupazione: estendere la presenza della guerriglia in tutti i poli. In particolare si pone all’ordine del giorno la necessità di sfondare la “barriera del Sud”, di collegare nella medesima prospettiva strategica i proletari che risiedono e lottano nei poli nella parte superiore della penisola e quelli che lottano e risiedono nei poli della parte inferiore. Non esiste oggi, come del resto non è mai esistita, una “questione meridionale”. La logica di sviluppo dell’imperialismo delle multinazionali ha unificato oggettivamente il proletariato; tocca ora alla guerriglia unificarlo anche soggettivamente.

Napoli, Taranto, la Sicilia e la Sardegna vivono più intensamente che mai gli effetti devastanti delle contraddizioni economiche, sociali e politiche prodotte dalle “strategie di crisi” imposte dall’imperialismo e dalle multinazionali e non è perciò il caso o il frutto della “rabbia del sottosviluppo” se in questi poli si va organizzando spontaneamente un movimento di resistenza offensivo che non ha precedenti per estensione, intensità, maturità rivoluzionaria. Agire da Partito vuol dire in questa circostanza lavorare per la riunificazione del proletariato, per affermare anche tra le masse proletarie concentrate nei poli del meridione e delle isole la prospettiva strategica della guerra di classe antimperialista per il comunismo.

Le Brigate Rosse non sono il Partito Comunista Combattente ma una avanguardia armata che lavora all’interno del proletariato metropolitano per la sua costruzione. Mentre affermiamo che non c’è identificazione tra Br e Partito Combattente affermiamo con uguale chiarezza che l’avanguardia armata deve “agire da Partito” sin dal suo nascere. Il processo di costruzione politica, programmatica e di fabbricazione organizzativa del Pcc è un processo discontinuo, dialettico, prodotto cosciente di una avanguardia politico-militare che, nel complesso fenomeno della guerra di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che sostiene, e l’adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. Si pone quindi come punto di riferimento essenziale, come “nucleo strategico” del Pcc in costruzione sin dal suo nascere.

È per questo, e non per presunzione che abbiamo inteso fissare nella Risoluzione della Direzione Strategica del novembre ’75, i principi organizzativi che stanno alla base della nostra Organizzazione e che crediamo abbiano un valore strategico. La loro severa e rigorosa verifica nella lotta, nella pratica militare, nella capacità dimostrata di guidare la scontro e di costruire l’organizzazione del proletariato ci porta a riconfermarli senza nessuna incertezza. L’esperienza fin qui fatta ha arricchito complessivamente il patrimonio politico-organizzativo accumulato dalla nostra Organizzazione, che in generale ha saputo evolversi parimenti allo sviluppo della guerra di classe. Nella fase attuale la concezione delle Colonne, dei Comitati Rivoluzionari, delle Brigate, delle forze regolari e irregolari, della clandestinità e compartimentazione, restano capisaldi consolidati e ineliminabili della nostra formulazione organizzativa; per i fronti di combattimento occorre invece una puntualizzazione che al momento della loro formulazione era impossibile, una loro ridefinizione alla luce delle esigenze e dei compiti che nella nuova fase ci si pongono.

 

I fronti di combattimento

Sul piano politico definiamo “Fronti di Combattimento” terreni specifici e settoriali su cui va indirizzato l’attacco rivoluzionario, contro le articolazioni strategiche dello Sim e della borghesia imperialista e su cui è possibile organizzare il potere proletario in un processo di riunificazione del proletariato rivoluzionario. Sul piano organizzativo i Fronti di Combattimento sono stati costituiti dalla nostra Organizzazione per rispondere al bisogno di elaborazione, di omogeneizzazione del programma di lavoro e di lotta in settori specifici. Abbiamo visto come la contraddizione principale è quella che oppone la classe allo Stato Imperialista, come lo scontro si gioca in sostanza tra il potere proletario armato e la controrivoluzione. Abbiamo visto come per l’avanguardia rivoluzionaria la questione della guerra di classe consiste nel prendere la direzione di questo scontro tra rivoluzione e reazione, di tracciare le direttrici sulle quali condurre il movimento nella sua complessità, e nella capacità di realizzare un progetto strategico di attacco “al cuore dello Stato”. Se questo in definitiva vuol dire “partito” ha però delle implicazioni sulle strutture organizzative e sul loro ruolo, sul rapporto e il peso specifico di ciascuna delle varie istanze di direzione e di lavoro. I Fronti, che rispondono all’esigenza di approfondire l’analisi e la definizione dei terreni di scontro nella fase in cui la guerra di classe assume sempre più i connotati di guerra civile dispiegata, diventa lo strumento privilegiato per l’assolvimento dei compiti di direzione politica. Il salto qualitativo in avanti che consente di affrontare la contraddizione più alta dello scontro con lo Stato impone quindi una metodologia di lavoro che possiamo così definire: dal programma strategico (cioè dal punto più alto delle contraddizioni di classe), attraverso i fronti fino alle Brigate.

I Fronti sono così i vettori della linea politica dell’Organizzazione, che entrano in rapporto dialettico con i poli d’intervento (Colonne), dove questi assumono il ruolo di terreno di classe in cui la linea politica generale si media e si articola con la realtà di movimento.

 

L’Italia è l’anello debole della catena imperialista

Le categorie leniniste di “catena imperialista” e “anello debole” determinate da quella esigenza strutturale del capitale che è lo sviluppo ineguale, si esplicitano oggi in modo particolarmente evidente nell’area mediterranea; nel divenire della crisi la linea di demarcazione tra rivoluzione e controrivoluzione non sta più solo ai confini, ma si sposta sempre più verso il centro della metropoli imperialista. Infatti all’interno della catena imperialista mondiale, tutto il Sud Europa e il Nord Africa, rappresentano oggi un punto delicatissimo determinato dall’incrociarsi qui di due contraddizioni, entrambe risolvibili dall’imperialismo solo con la guerra.

La prima è quella tra Nord e Sud, tra sviluppo e “sottosviluppo”, contraddizione destinata a un continuo inevitabile aggravamento dell’approfondirsi della crisi; la seconda è quella tra imperialismo e socialimperialismo, e qui si confrontano in un’area per entrambi vitale, con grossi punti di instabilità e che è, inoltre, il ponte determinante per il controllo del medio oriente, strategico per le sue riserve petrolifere. È questa duplicità di contraddizioni che rende la situazione estremamente fluida, e la presenza diplomatica e militare dell’imperialismo, sempre più massiccia, non dimostra tanto la sua forza, quanto la sua debolezza strategica nel settore. Sui paesi di quest’area si è scaricata una quota rilevante delle contraddizioni maturate dalla crisi del capitale, e questa ha causato la rottura degli equilibri complessivi economici, sociali e politici, preesistenti, generando una accelerazione violenta dello scontro di classe, che in più punti ha raggiunto la fase della guerra civile, strisciante, o anche aperta: (Italia, Turchia, Libano, per es.). L’Italia, poi introverte entrambe le contraddizioni; infatti il sottosviluppo in funzione dello sviluppo è un problema ormai storico, da noi; e oggi il divario tra aree sviluppate e non, tende a crescere non solo proporzionalmente ma anche in termini assoluti, generando contraddizioni sempre più esplosive.

La contraddizione tra imperialismo e socialimperialismo è introvertita qui con la presenza del Partito “Comunista” più forte e del capitalismo di stato più esteso dell’Europa occ. Di tutto questo la strategia di liberazione del proletariato deve tenerne conto. Ultima provincia dell’impero, l’Italia funziona da “culo di sacco”, pattumiera d’Europa e cioè da area alla quale la divisione internazionale assegna una funzione tutt’altro che esaltante: pagare con il lavoro super sfruttato e con la disoccupazione selvaggia del nostro proletariato una quota rilevante dei costi della crisi generale del sistema; funzionare da ammortizzatore rispetto agli “anelli”più forti, fare qui lavori sporchi-pesanti-nocivi-inquinanti-assassini che nessuno, proprio nessuno, vuole più fare. Guerriglia vuol dire anche rifiuto della condizione di “negri-bianchi” dell’imperialismo, rifiuto di una subalternità economica, politica culturale, scientifica, psicologica, che la quinta colonna democristiana ci vuole imporre a qualsiasi costo. Guerriglia vuol dire rifiuto di questa collocazione da “paese di serie B” dentro il sistema democratico occidentale, non per una questione di sciovinismo metropolitano, ma perché rifiutiamo di considerare il nostro futuro dentro i limiti del modo di produzione capitalistico e in complicità con l’imperialismo, che è il peggior nemico dei popoli e del proletariato mondiale. Sconfiggeremo l’imperialismo! E lo faremo insieme a tutte le forze che in tutto il mondo hanno impugnato le armi e cominciato a lottare.

 

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropoli

Sviluppando il suo attacco contro lo Sim la guerriglia si definisce necessariamente anche come fronte metropolitano della guerra di liberazione mondiale contro l’imperialismo.

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale. Internazionalismo proletario vuol dire per noi in primo luogo approfondire lo scontro con la borghesia imperialista della nostra area. Si incaricherà la stessa struttura di dominio, rigidamente centralizzata e integrata, a trasmettere e ad ampliare gli effetti dei nostri attacchi lungo tutta la catena. Ma se ciò è pacifico, è necessario tuttavia chiarire che ciò va inteso nel senso preciso che abbiamo dato alla parola d’ordine: disarticolare il processo di controrivoluzione imperialista portando l’attacco ai centri vitali dello Stato perché, ovviamente qualsiasi attacco di qualsivoglia intensità su contraddizioni secondarie non otterrà alcun effetto in questa direzione.

L’internazionalismo proletario, in secondo luogo, vuol dire prendere atto del processo di generalizzazione della guerriglia sul continente Europa.

La Raf (Frazione Armata Rossa) nella Germania occidentale, i Napap (Nuclei Armati per l’Autonomia Popolare) in Francia, e i movimenti autonomisti a carattere socialista, proprio perché si situano sullo stesso fronte e attaccano le rispettive sezioni nazionali dello stesso nemico,- la borghesia imperialista – costituiscono per la nostra lotta punti di riferimento irrinunciabili rispetto ai quali è necessario sviluppare un massimo storicamente possibile di “collaborazione operativa”, sostegno reciproco, solidarietà.

Per troppo tempo si è sottovalutato questo problema, per troppo tempo si è scambiata la necessaria scelta del punto di partenza “nazionale” dell’iniziativa e dell’organizzazione guerrigliera per una scelta limitativa, questo limite oggi è diventato insopportabile. La crescita e la forza della nostra organizzazione (che va valutata con molto realismo e la dovuta modestia), lo sviluppo poderoso della guerra di classe su tutto il continente europeo, l’indicazione che ci viene dalla parte più avanzata del proletariato internazionale ci impone un nuovo compito: procedere, con ogni iniziativa possibile, all’integrazione politica delle forze e delle Organizzazioni Comuniste che combattono in Europa in una strategia antimperialista.

Va inteso che “integrazione politica” non è “l’internazionale del terrorismo” come vanno strillando gli sfiatati tromboni della guerra psicologica, perché quella c’è già: è la mostruosa macchina sanguinaria dell’imperialismo.

Integrazione politica per noi significa confronto costruttivo, ricerca costante nei programmi tattici e strategici di tutti quei terreni di lotta che saldino nei fatti l’iniziativa rivoluzionaria delle Organizzazioni Comuniste Combattenti Europee, che siano punto di riferimento per tutto il proletariato del nostro continente. Siamo convinti che “rompere l’isolamento”, creare le condizioni per la più vasta azione comune delle Organizzazioni Comuniste Combattenti Europee sarà, per il prossimo periodo, un banco di prova su cui misurare la maturità da esse raggiunta e costituisce la possibilità per un formidabile avanzamento della guerra di classe in Europa.

Del resto, dopo il duplice massacro di Stammheim e Mogadiscio, la dimensione continentale sulla quale calibrare la strategia della guerra di classe rivoluzionaria per il comunismo è apparsa in tutta la sua evidenza a tutte le avanguardie combattenti che sono scese in lotta (in ogni paese d’Europa). Non si è trattato di un moto di semplice solidarietà e neppure di manifestazioni di “orrore e sdegno democratico” nei confronti della “soluzione finale” varata dal governo tedesco. Invece, il carattere essenziale della risposta offensiva si è dato nella individuazione comune a tutte le forze di classe che si sono attivate nei vari paesi, della borghesia imperialista e della sua sezione tedesca come nemico principale dell’intero proletariato metropolitano e delle sue lotte di liberazione per una società comunista. Ovunque e a tutti è apparso immediatamente chiaro il carattere antimperialista e unitario della guerra di classe che pur si svolge in forme specifiche e con tempi propri in ciascun paese. Forme e tempi definiti dallo sviluppo economico e politico ineguale che resta una legge assoluta del capitalismo – come ha dimostrato Lenin – e dalla quale discende la possibilità stessa del trionfo del socialismo, all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese separatamente.

Si è svelato finalmente, il 18 ottobre, che un nuovo internazionalismo proletario offensivo era maturato nella coscienza delle avanguardie combattenti, fuori e contro la retorica asfissiante e truffaldina della sinistra riformista e revisionista.

Alcuni hanno obiettato che questa risposta offensiva non deve essere sopravvalutata perché essa resta pur sempre fondamentalmente “spontanea”. Se le cose stanno così non resta alle Organizzazioni di guerriglia che raccogliere questo impulso, questa indicazione, questo vasto e profondo bisogno e renderlo più maturo, più forte, organizzato.

Internazionalismo proletario, infine, e non come pura e semplice dichiarazione di principio vuol dire per noi metterci al fianco di tutti coloro che lottano in qualsiasi parte del mondo contro l’imperialismo e in particolare nell’area medio-orientale, a fianco dell’eroico popolo palestinese, coscienti come siamo che fino a quando questo orribile mostro non sarà definitivamente annichilito la lotta di liberazione per il comunismo non sarà terminata!

 

Proletari di tutti i paesi uniamoci.

Portare l’attacco allo stato imperialista delle multinazionali.

Disarticolare e distruggere i centri della controrivoluzione imperialista. Creare, organizzare ovunque il potere proletario armato. Riunificare il movimento rivoluzionario nella costruzione del Partito Comunista Combattente.

 

 

 

Nota 1

 

Maggio ’75

– Strasburgo. Convegno dei ministri della giustizia di 18 paesi del Consiglio Europeo per il coordinamento della lotta contro il terrorismo internazionale. Viene raggiunto un accordo per combattere comunemente il terrorismo con l’allargamento e il rafforzamento dei compiti dell’Interpol;

 

Estate ’75

– Milano. Si tiene una riunione bilaterale tra i responsabili dell’antiterrorismo della Rft e quelli italiani;

 

Gennaio ’76

– Una iniziativa per internazionalizzare la lotta al terrorismo è presa dal governo della Rft. In una intervista il ministro degli interni Genscher afferma che: “intende mettere la questione all’ordine del giorno della prossima riunione dei ministri degli esteri della Cee”. Il governo tedesco farà inoltre in modo che il problema venga affrontato anche dall’Onu;

 

Maggio ’76

– I ministri rappresentanti di 9 paesi della Cee firmano un impegno politico per la repressione del terrorismo. I paesi promotori di questa riunione sono la Rft, la Gb e l’Italia. In questo impegno si afferma tra l’altro che: “gli Stati membri della Cee considerano inaccettabile il metodo disumano che consiste nella cattura di ostaggi per esercitare pressioni sui governi, qualunque sia il loro fine politico o no. È nell’interesse di tutti i governi opporsi con energia a tale metodo ed è nell’interesse di tutti i governi cooperare nella lotta contro il flagello del terrorismo. Una volta di più i recenti avvenimenti hanno dimostrato che nessun paese, nessun popolo, nessun governo può sperare di sfuggire agli atti di terrorismo, ai rapimenti ed ai dirottamenti effettuati sul proprio territorio e diretti contro i propri cittadini ed i propri interessi, a meno che tutti i paesi si mettano d’accordo su misure di lotta efficaci. A questo proposito gli Stati membri della Cee dichiarano di essere decisi a cooperare con gli altri paesi al fine di eliminare e impedire la escalation del terrorismo. Si impegnano a tradurre davanti ai tribunali o ad estradare i responsabili della presa degli ostaggi con celerità e senza intralci burocratici. A tal fine credono sia opportuna la elaborazione da parte dei ministri della giustizia della Cee di una “convenzione internazionale”. I capi di governo hanno preso atto delle decisioni che i ministri degli interni della Cee hanno già adottato in materia: invitano tali ministri a continuare”.

 

Giugno ’76

– Bruxelles. I ministri degli esteri della Cee, i capi delle diverse polizie e gli “esperti” dei vari paesi nella repressione del terrorismo decidono di creare una organizzazione comune di polizia. Al termine di questa riunione, che l’Italia aveva sollecitato dopo “l’attentato in cui a Genova un commando di terroristi aveva ucciso il Procuratore Generale Coco e le sue guardie del corpo”, venne diffuso un comunicato in 6 punti. I ministri hanno deciso:

1) di moltiplicare gli scambi di informazioni sulle azioni terroristiche in modo di poter elaborare metodi efficaci per prevenire, fronteggiare, questa forma di criminalità;

2) di impegnarsi nella mutua assistenza in episodi concreti di terrorismo;

3) di procedere a scambi di informazioni sulle tecniche seguite, sulle esperienze di lavoro sulle tecnologie e sulle attrezzature delle forze di polizia dei diversi paesi;

4) di offrire la possibilità ad agenti di polizia di un paese di seguire speciali corsi di addestramento antiterroristico in altri Stati o di compiere viaggi di studio;

5) di cooperare in tutti i settori concernenti la sicurezza interna, inclusa quella dei trasporti aerei, la sicurezza degli impianti nucleari e le misure di protezione civile in caso di catastrofe naturale;

6) di costruire uno speciale gruppo di lavoro composto di alti funzionari di diversi ministeri per esaminare le questioni specifiche di questa forma di collaborazione internazionale.

 

Gennaio ’77

– Strasburgo. Viene approvata la Convenzione Europea per la repressione del terrorismo.

 

Maggio ’77

– Londra. Si riuniscono i 9 ministri degli Interni della Cee parallelamente ad una commissione composta dai capi delle polizie, dai capi dei corpi antiguerriglia e dagli “esperti” della guerra di classe controrivoluzionaria. L’Italia è al centro delle preoccupazioni per lo sviluppo che lo scontro rivoluzionario ha avuto nell’ultimo anno. Vengono confermate le decisioni prese nel giugno ’76 per la costruzione di una organizzazione comune di polizia. In particolare vengono prese decisioni operative sui seguenti punti:

1) formazione di un centro di addestramento continentale dei corpi antiguerriglia che funzionerà in Inghilterra curato particolarmente dai corpi antiguerriglia britannici;

2) creazione di un computer – schedario europeo che: centralizzi tutte le informazioni sui gruppi guerriglieri; sui loro militanti, sulle loro tecniche; centralizzi tutti i dati relativi a sequestri di persona, numeri di serie delle banconote, ecc;

3) concessione a questa polizia di estendere la caccia ai guerriglieri su tutto il territorio continentale senza limiti di frontiera;

4) accordi di scambio di uomini e tecnici antiguerriglia;

5) controllo del traffico delle armi mediante l’unificazione dei provvedimenti tecnici, polizieschi e giuridici su scala continentale. Gli accordi operativi per la realizzazione di queste misure sono affidati a riunioni periodiche dei capi delle polizie che hanno anche il compito di preparare il prossimo vertice dei 9 ministri. La scelta dell’Inghilterra come cuore dell’azione comune antiguerriglia si spiega con l’esperienza che il personale militare di questo paese ha acquistato nella lotta contro l’Ira, lotta che sintetizza tutti gli aspetti della guerriglia nelle metropoli.

 

Giugno ’77

– Il ministro degli Interni Cossiga, subito dopo il vertice di Londra si reca a Madrid per un incontro con il ministro degli Interni spagnolo Martin Villa. In questo incontro, a nome dei 9, riferisce i contenuti del vertice di Londra con l’esplicito proposito di integrare la Spagna nella politica di repressione controrivoluzionaria continentale. L’integrazione della Spagna come “anello forte” della catena imperialista continentale è infatti uno degli obbiettivi dei capifila. Questo obbiettivo è però molto ambizioso e non privo di rischi, perché se da un lato la trasformazione della “Spagna fascista” in “Stato imperialista” è un passaggio importante del processo di integrazione imperialista continentale, dall’altro la forza della guerriglia spagnola può inserirsi a sua volta in un processo continentale e diventare così un punto di forza del processo rivoluzionario.

 

Settembre ’77

– Cossiga si reca a Londra dove concorda con il ministro degli Interni Merlyn Rees l’acquisto di tecnologia repressiva e perfeziona gli accordi già presi nel vertice di giugno. Successivamente quest’ultimo renderà la visita recandosi a Roma.

 

Ottobre ’77

– Durante l’operazione Schlajer e il dirottamento effettuato dal “Commando Martire Hlimeh” e poi anche dopo il massacro del 18 ottobre il personale politico-militare degli stati imperialisti europei si è stretto intorno ai suoi “superiori” tedeschi fornendoci una immagine cruda e disincantata delle linee su cui marcia il processo di integrazione e dei livelli operativi che esso ormai ha raggiunto. Nella misura in cui la guerriglia viene da tutti riconosciuta come comune e principale nemico anche la “lotta al terrorismo per la difesa della società occidentale” diventa di più in più il terreno strategico su cui viene fatta marciare la ristrutturazione imperialista degli Stati che sta alla base della cosiddetta “unità europea”.

Ha dichiarato Schmidt: “la liberazione degli ostaggi è un successo della solidarietà internazionale contro il terrorismo”. E in effetti dagli Usa alla Gran Bretagna tutta la potenza delle pressioni politiche è stata messa in campo a sostegno delle decisioni di intervento prese dal governo tedesco. Questa “solidarietà politica” si è accompagnata a non meno sostanziali “aiuti attivi” sul terreno militare poliziesco e della manipolazione controllo dell’opinione pubblica.

 

Gennaio ’78

– Cossiga si reca a Bonn dove incontra il ministro degli Interni tedesco Maihofer. Al termine dell’incontro viene emesso un comunicato in cui è detto: “I due ministri hanno espresso comune apprezzamento per la stretta e fiduciosa collaborazione che è stata finora realizzata tra i servizi di sicurezza e di polizia dei due paesi, in special modo nel settore della lotta al terrorismo internazionale e hanno preso accordi per la cooperazione operativa in casi concreti.

 

Nota 2

Le caratteristiche del campo:

1) Isolamento. Vale a dire isolamento dall’esterno e controllo militarizzato di ogni contatto o comunicazione (colloqui, posta, avvocati); chiunque intrattenga rapporti è automaticamente inquisito, familiari pedinati o arrestati, avvocati inquisiti o arrestati. Isolamento assoluto dal proletariato prigioniero. Isolamento nel campo per piccoli gruppi. Unica socialità consentita è quella “nucleo di cella”, che viene composto dall’autorità del campo.

2) Obbiettivi del campo. Gli obbiettivi che vengono perseguiti attraverso l’isolamento e i rapporti di forza esistenti in questa situazione sono: destabilizzazione politico-militare dei prigionieri e in tendenza il loro annientamento.

3) Struttura militare del campo. È caratterizzata da:

– Rigidità nella conduzione irreversibile e non controllabile. Infatti la conduzione è funzionalizzata al prigioniero di guerra la cui destabilizzazione è l’unica variabile possibile. In pratica questa possibilità è unicamente legata ad una scelta collaborazionista.

– Integrazione delle strutture militari interne-esterne (personale carcerario, corpi antiguerriglia del Gen. Dalla Chiesa). Va sottolineato che la tendenza di questa integrazione è tutta a favore delle forze antiguerriglia.

– Rapporti di forza militari tra prigionieri da un lato, il personale e le strutture dello Stato dall’altro, completamente a favore dei secondi in proporzione schiacciante.

4) Dimensione politica del campo. Sarebbe un errore cercare un termine di confronto tra il campo e le strutture carcerarie sul territorio nazionale. Siamo di fronte ad un salto qualitativo nel trattamento dei prigionieri. Il campo materializza la tendenza principale e il cuore del “nuovo ordine” carcerario e della “riforma”.Si realizza infatti all’interno di una pianificazione internazionale che vede come punto di riferimento (per l’Italia) e di forza (per l’area continentale) i campi di concentramento per i militanti dell’Ira in Inghilterra e le strutture di Stammheim per i militanti della Raf in Germania.

5) Le contraddizioni. Il nodo fondamentale che caratterizza il “nuovo” ordine carcerario imperialista consiste nella sottrazione, mediante decreti legge, della conduzione delle carceri e del loro controllo al potere legislativo e al potere giudiziario laddove contrastino, anche solo minimamente, con le decisioni dell’esecutivo.

 

Brigate Rosse

 

Febbraio 1978

 

Fonte: Progetto Memoria, Le Parole Scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

2 pensieri su “Risoluzione della Direzione Strategica, febbraio 1978”

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