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Comunicato sull’assalto alla sede di Iniziativa Democratica

Un nucleo armato delle Brigate Rosse ha perquisito e distrutto il covo democristiano di via Monte di Pietà, 15, sede di Iniziativa Democratica, gruppo di provocazione anticomunista, più noto come “banda De Carolis”.

La Democrazia cristiana è il vettore politico principale del progetto di ristrutturazione imperialista dello stato. È il punto di unificazione del fascio di forze reazionarie e controrivoluzionarie che unisce Fanfani a Tanassi, a Sogno, a Pacciardi, ad Almirante ed ai gruppi terroristici.

LA DC È IL NEMICO PRINCIPALE DEL MOMENTO: è il partito organico della borghesia, delle classi dominanti e dell’imperialismo. È il centro politico ed organizzativo della reazione e del terrorismo. È il motore della controrivoluzione globale e la forza portante del fascismo moderno: il fascismo imperialista. Non ci si deve lasciare ingannare dalle “professioni di fede democratica ed antifascista” che talvolta vengono da taluni dirigenti di questo partito, perché esse rispondono al bisogno tattico di mantenere aperta la finta dialettica tra “fascismo” e “antifascismo” che consente alla DC di rastrellare voti, facendo credere che contro il pericolo “fascista” sia meglio la “democrazia riformata” e cioè lo stato imperialista. Il problema delle avanguardie rivoluzionarie è quello di fare chiarezza sull’intero gioco, colpendo covi, collegamenti, connivenze e progetti. La DC non è solo un partito, ma l’anima nera di un regime che da 30 anni opprime le masse popolari ed operaie del paese. Non ha senso dichiarare a parole la necessità di battere il regime e proporre nei fatti un compromesso storico con la DC. Ne ha ancora meno chiacchierare su come riformarla.

LA DC VA LIQUIDATA, BATTUTA E DISPERSA. La disfatta del regime deve trascinare con sé anche questo immondo partito e l’insieme dei suoi dirigenti; come è avvenuto nel ’45 per il regime fascista e per il partito di Mussolini. Liquidare la DC e il suo regime è la premessa indispensabile per giungere ad un’effettiva “svolta storica” nel nostro paese. Questo è il compito principale del momento. Iniziativa Democratica è una centrale reazionaria e controrivoluzionaria molto articolata nelle strutture politiche ed economiche della metropoli milanese. Gli uomini di questa centrale che, secondo il suo leader Massimo De Carolis, rappresenta oggi “la forza più importante nella DC cittadina e regionale, ed il gruppo numericamente più forte nel consiglio comunale,” sono tutti apertamente e scopertamente compromessi con la reazione più bieca…

In questi giorni la banda De Carolis si prepara nel suo covo ad una campagna elettorale indirizzata “a far convergere i voti milanesi verso la DC e nella DC verso i candidati più sicuri.” Con questa azione gli abbiamo anticipato il giudizio che i proletari danno di lui, dei suoi compari e del suo immondo partito. Ma è solo un anticipo. Il resto lo potrà riscuotere direttamente sulle piazze proletarie se proverà a metterci anche un solo piede. Le leggi speciali sull’ordine pubblico volute dalla Democrazia cristiana incitano all’uso delle armi contro la “criminalità politica.” Abbiamo raccolto, per una volta, il suggerimento, colpendo alle gambe uno dei più convinti sostenitori di queste leggi liberticide.

Certo meritava di più, ma in queste cose non c’è fretta. Ad alzare il tiro si fa presto e ad individuare i veri “criminali” pure! PORTARE L’ATTACCO AI COVI DEMOCRISTIANI, CENTRI DI DELINQUENZA POLITICA E COMUNE, DI REAZIONE, DI CONTRORIVOLUZIONE.

BRIGATE ROSSE

15 maggio 1975

Precisiamo che non esiste alcun legame operativo né organizzativo tra Nuclei Armati Proletari (NAP) e le Brigate Rosse. Viva la lotta dei Nuclei Armati Proletari!

Volantino sequestro Idalgo Macchiarini

Venerdì alle ore 19 le Brigate Rosse hanno arrestato, di fronte allo stabilimento della Sit Siemens, il dirigente Idalgo Macchiarini. Dopo averlo processato lo abbiamo consigliato a lasciare al più presto la fabbrica e quindi rilasciato in libertà provvisoria. Alcuni si chiederanno “perché proprio Macchiarini ?”. In fondo pur essendo responsabile dell’organizzazione del lavoro allo stabilimento TR e quindi responsabile dei livelli di sfruttamento che colpiscono oltre 3000 operai e dei provvedimenti disciplinari, egli è solo il n. 3 della linea dura neofascista che da oltre un anno si è affermata nella fabbrica e che vede in Villa (n.1) e Miccinelli (n. 2) i battistrada e in Tortarolo, “pesce più piccolo”, il gregario provocatore. Macchiarini è un brutto cane ringhioso e gli operai lo sanno tutti. Infatti ad ogni corteo interno, tanto per divertirsi un po’, vanno su a dargli qualche calcio nel culo per rispondere nel modo giusto alla sua ridicola aria di sfida. Macchiarini di fatto è un “duro” di quelli che ad ogni passo ripetono “gli operai vanno trattati con la frusta, sennò son sempre lì a rivendicare”. Macchiarini, però è anche un saggio egli sa che le forze reazionarie che fanno capo a quel Piccoli, ministro delle partecipazioni statali e fiero sostenitore della destra nazionale, lo considerano “patrimonio intoccabile della nazione”. Per questo egli, le sostiene con le parole e coi fatti. Macchiarini, per concludere, è quello che si dice un tipico neofascista: un neofascista in camicia bianca cioè una “camicia nera” dei nostri giorni. Macchiarini dunque a suo modo e a suo livello, è un responsabile della guerra che la borghesia ha scatenato su tutti i fronti e su tutti gli aspetti della vita produttiva e sociale delle masse. Per questo abbiamo inteso rendere celebre, “celebrando” la sua mediocrità, questo funzionario della reazione che, a differenza delle SAM (commandos terroristici della provocazione fascista) non butta bombe contro lapidi partigiane e sedi di partiti democratici ma colpisce direttamente, quotidianamente, con metodo la classe operaia al suo cuore: la colpisce nella sua lotta incessante per la sopravvivenza e il potere.

Questo processo proletario a Macchiarini è però anche un avvertimento a tutti gli altri, in qualunque fabbrica o in qualsiasi parte del paese prestino servizio, che: alla guerra rispondiamo con la guerra; alla guerra su tutti i fronti con la guerra su tutti i fronti; alla repressione amata con la guerriglia. Nessuno tra i funzionari della controrivoluzione antioperaia dorma più sonni tranquilli; nella grande città dello sfruttamento non c’è più porta che non si possa aprire con le “forze dell’ordine”(pubbliche e private) per quante numerose possano diventare: nulla possono contro la guerriglia proletaria! Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine uno per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato! Per il comunismo.

Brigate Rosse

3 marzo 1972

 

Risoluzione della Direzione Strategica, febbraio 1978

PARTE PRIMA

L’imperialismo delle multinazionali

L’imperialismo è guerra

Lo Stato Imperialista delle Multinazionali

Formazione di un personale politico imperialista

Rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo

Lo Stato imperialista delle multinazionali non è fascista né socialdemocratico

La ristrutturazione industriale

Violenza proletaria e controrivoluzione imperialista

Una nuova figura proletaria: il “criminale politico” ovvero il guerrigliero urbano

Il patto di mutua assistenza repressiva tra gli Stati imperialisti

Dal patto di mutua assistenza repressiva all’organizzazione comune di polizia

 

SECONDA PARTE

Gli apparati della controrivoluzione preventiva nel nostro paese

Uscire dalla crisi

Fase e congiuntura

L’attuale congiuntura, passaggio dalla pace armata alla guerra

 

TERZA PARTE

Sulle forme dell’azione di guerriglia nell’attuale congiuntura

Proletariato Metropolitano e Movimento di Resistenza Proletario Offensivo

Classe Operaia

Esercito intellettuale di riserva

La piccola borghesia

Lavoro femminile

Guerriglia e potere proletario

Il partito comunista combattente

I fronti di combattimento

L’Italia è l’anello debole della catena imperialista

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropolitane

Note

 

Risoluzione della Direzione Strategica

 

L’imperialismo delle multinazionali.

Per imperialismo delle multinazionali intendiamo la fase dell’imperialismo in cui domina il capitale monopolistico multinazionale. Il monopolio multiproduttivo-multinazionale, cioè grandi trust, con aziende in vari paesi e investimenti in diversi settori, è ora l’elemento strutturale dominante e la base fondamentale dei movimenti del capitale, non è più quindi l’area nazionale, ma l’area capitalistica nel suo complesso. Se l’elemento costitutivo fondamentale dell’imperialismo è stato sin dal suo sorgere il capitale monopolistico, è però solo con la seconda guerra mondiale che si ha il definitivo affermarsi in tutta l’area capitalistica del capitale monopolistico multinazionale. I grandi gruppi monopolistici possono ora superare definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su tutta l’area e la struttura multinazionale diventa fattore necessario ed indispensabile per ogni ulteriore sviluppo. È infatti grazie ad essa che si possono sfruttare pienamente i diversi saggi di profitto presenti nell’area e realizzare così quegli enormi sovraprofitti che sono il dato caratteristico dell’accumulazione nella fase imperialista. La “multinazionalità” quindi non è semplicemente internazionalizzazione del mercato capitalistico, ma internazionalizzazione del capitale nella sua totalità! Strutture produttive, mercato, rapporti di proprietà ecc. Questo processo di internazionalizzazione del capitale determina all’interno del fronte borghese la dominanza della borghesia imperialista, espressione di classe del capitale monopolistico multinazionale e parallelamente al suo affermarsi vanno consolidandosi anche i suoi strumenti istituzionali di mediazione e di dominio (Trilateral, Stato Imperialista delle Multinazionali, Fmi, Cee…). Dominanza del capitale multinazionale e della borghesia imperialista, non significa però che ogni capitale è in questa fase un capitale multinazionale, ma che ogni altra forma capitalistica, sia essa nazionale o non monopolistica, va ora analizzata nei suoi rapporti di dipendenza organica dal capitale multinazionale: sono i movimenti del capitale multinazionale che determinano in ultima istanza i movimenti di tutti gli altri capitali. Non si ha quindi il superamento delle contraddizioni all’interno del fronte borghese, ma il loro riproporsi sotto forme diverse: con la contraddizione intercapitalistica principale non è più tra capitali nazionali (quindi tra aree nazionali e borghesia nazionali), ma tra grandi gruppi multinazionali (quindi percorrono verticalmente la borghesia imperialista).

Con questo non si vuol negare l’esistenza anche di contraddizioni tra le varie “nazioni” capitalistiche o tra capitale monopolistico e capitale non monopolistico, ma pensiamo che queste contraddizioni siano essenzialmente il riflesso di contraddizioni ben più profonde tra gruppi multinazionali. Le varie aree nazionali infatti sopravvivono ora come retroterra delle multinazionali: per ogni multinazionale, l’area nazionale in cui è nata e si è sviluppata, diventa il suo “punto di forza”, la zona in cui essa gode di un monopolio quasi incontrastato. Quando parliamo di multinazionali infatti sottointendiamo sempre “multinazionali con polo nazionale”, e per questo usiamo le espressioni, a prima vista contraddittorie, “multinazionali americane, tedesche, ecc”. Il capitale non monopolistico, dipendendo organicamente da quello monopolistico, viene certamente con esso in unità contraddittoria, ma non può avere ovviamente la possibilità e la forza materiale di dar luogo ad una espressione politica di queste contraddizioni sotto forma di rottura del fronte imperialista. L’imperialismo delle multinazionali si presenta perciò come un sistema di dominio globale in cui i vari “capitalismi nazionali” sono semplicemente sue articolazioni organiche, e le diverse “aree nazionali” sussistono come espressione geografica della divisione internazionale del lavoro da esso determinata. Possiamo quindi trarre una prima considerazione. In ogni area nazionale il proletariato non si trova a fare i conti con la sua “borghesia nazionale” ma con l’articolazione locale della borghesia imperialista. Questo conferisce, anche nelle metropoli, alla lotta di classe del proletariato il carattere di lotta antimperialista e quindi, più in generale la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli è immediatamente anche guerra di liberazione antimperialistica, guerra di lunga durata. La catena imperialista resta comunque caratterizzata, come abbiamo visto, dal suo sviluppo ineguale, che si manifesta in ogni suo anello attraverso la specificità della sua formazione economico sociale (rapporto tra capitale multinazionale dominante e capitale multinazionale del “polo”, fra capitale monopolistico e non monopolistico, tra borghesia imperialista “interna” e proletariato) per cui la lotta di classe pur in questa sua omogeneità strategica di contenuto e di prospettiva, si presenta ancora con forme specifiche e tempi propri a seconda delle diverse aree nazionali.

 

L’imperialismo è guerra

L’attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all’intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l’imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzitutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo. All’imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva. Infatti rimanere ancora “ristretto” nell’area occidentale, significa per l’imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente). Si pone perciò all’imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (Urss e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto Usa-Urss. Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa, non sono che i primi passi di questo processo. È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All’interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come un urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica o guerra di classe nella metropoli imperialista mondiale. Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre.

Ecco la lezione che Marx trae dalla Comune: “Che dopo la guerra più sconvolgente dei tempi moderni, il vinto ed il vincitore fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti prova, non come pensa Bismarck lo schiacciamento definitivo di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della vecchia società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale: ed è ora dimostrato che questa è una semplice mistificazione dei vari governi, la quale tende a ritardare e ad affossare la lotta delle classi e viene messa da parte non appena questa lotta di classe divampa in guerra civile”.

Inoltre nella crisi che precede la guerra i rapporti di forza sono strategicamente favorevoli alla rivoluzione proletaria. La crisi infatti genera contraddizioni sociali fortissime che determinano uno scontro di classe violentissimo, e nella misura in cui questo scontro di classe si approfondisce e si sviluppa trasformandosi in Guerra di Classe, la borghesia non può porsi sul terreno della guerra imperialista: la crisi diviene così irreversibile acuendo contemporaneamente ancor più il processo di guerra civile in atto. È questa la dialettica che potrà inchiodare lo sviluppo capitalistico. Possiamo perciò formulare la seguente generalizzazione: nella crisi la parola d’ordine della borghesia è “bloccare il processo di guerra civile trasformandolo in guerra imperialista e sconfiggere così la rivoluzione”, quella dei comunisti deve necessariamente essere: “sviluppare il processo di guerra civile in atto ed impedire così la guerra imperialista”.

 

Lo Stato Imperialista delle Multinazionali

  1. a) È necessario innanzitutto fissare alcuni criteri metodologici che stanno alla base della determinazione del concetto di Stato Imperialista. Cominciamo perciò col dire che non crediamo che la sostanza del capitalismo, cioè le sue contraddizioni specifiche si sia modificata nel corso di questo secolo. Si è modificata invece la forma e cioè il modo in cui queste contraddizioni tendono a manifestarsi storicamente. Per spiegarci meglio accenniamo alla divergenza tra Lenin e Bucharin a proposito della natura del capitalismo. A Bucharin che sosteneva che l’imperialismo era un fenomeno completamente nuovo rispetto al capitalismo della libera concorrenza, Lenin così rispondeva: “L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo” cioè alla base dell’imperialismo stanno le stesse contraddizioni del capitalismo: la sostanza è rimasta immutata, solo la forma si è modificata (da “capitalismo privato” a “capitalismo monopolistico di Stato” dalla “libera concorrenza” alla “concorrenza tra monopoli”). Il problema per Lenin non era cioè quello di un superamento delle categorie fondamentali dell’analisi marxista, ma di una loro ridefinizione formale (storico-politica) alla luce della nuova realtà. Parafrasando Lenin, anche noi possiamo dire che: “L’imperialismo delle multinazionali è una sovrastruttura dell’imperialismo” e che, quindi, il nostro compito non è quello di buttare a mare le categorie dell’analisi leninista (“Stato nazione, “catena imperialista”, “l’anello debole”), ma di riconsiderare la forma e, quindi, esplicitarla, che esse assumono nella presente fase politica. Stesso discorso è da fare per le categorie “partito” e “dittatura del proletariato”, la nostra riconsiderazione teorico-pratica del Partito comunista combattente non è infatti altro che la riproduzione della sostanza dell’esperienza leninista, e dei suoi sviluppi con la rivoluzione cinese, nella fase attuale. Per questo ci definiamo “marxisti-leninisti”.
  2. b) Lo Stato Imperialista delle Multinazionali è la sovrastruttura istituzionale “nazionale” corrispondente alla fase dell’imperialismo delle multinazionali. Suoi caratteri essenziali sono: formazione di un personale politico imperialista, rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo, riformismo ed annientamento come forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva.

 

Formazione di un personale politico imperialista

Con lo sviluppo anche nella nostra area, a partire dalla metà degli anni ’50 (dopo il ’57 con la massiccia penetrazione del capitale multinazionale Usa e con il contemporaneo sviluppo del nostro capitale nazionale su scala internazionale), di una struttura economica multinazionale, viene formandosi all’interno della borghesia una frazione di borghesia imperialista. Definiamo borghesia imperialista “interna” quella frazione della classe borghese integrata nel sistema imperialista mondiale, espressione del capitale monopolistico multinazionale ed elemento trainante del processo di ristrutturazione imperialista della nostra area economica e delle relative sovrastrutture politiche e istituzionali.

Nello stesso periodo gli strumenti istituzionali sovranazionali (Fmi, Cee, Nato), mediante i quali la borghesia imperialista vuole imporre la sua strategia globale, acquistano forza ed assumono un grado di potere tale da subordinare e funzionalizzare a sé gli “Stati nazionali” che in questo processo sono così costretti a ridefinirsi nelle loro strutture interne. Questi Stati, ristrutturandosi, si predispongono a svolgere due ruoli fondamentali:

– Cinghia di trasmissione degli interessi economici-strategici globali dell’imperialismo dominante.

– “Normalizzazione dell’area”, vale a dire organizzazione della controrivoluzione preventiva al fine di annichilire ogni “velleità” rivoluzionaria.

Naturalmente queste funzioni, negli anelli economicamente più deboli e politicamente più instabili, diventano decisive e perciò vengono portate avanti dalla borghesia imperialista “interna” utilizzando le pratiche e i modelli repressivi più avanzati già operanti negli anelli più forti e sotto la supervisione dei centri del comando sovranazionale.

“Lo Stato-nazione diventa cinghia di trasmissione del capitale internazionale organizzato contro il popolo. Lo Stato-costituzionale borghese, nel suo processo di evoluzione contraddittoria tra socializzazione della produzione e concentrazione internazionale del capitale deve essere dissolto e sostituito dallo Stato forte o dalla democrazia armata” (Croissant).

Come tutti i processi storici anche questo cammina sulle gambe degli uomini. L’emergere della borghesia imperialista “interna” come frazione dominante della borghesia, ha così un’altra conseguenza: l’affermarsi nelle articolazioni vitali del potere di un personale economico-politico-militare che è la più diretta espressione dei suoi interessi. Questa nuova burocrazia efficiente, intercambiabile, “europea” non viene più selezionata, qualificata dalle vecchie scuole di partito, ma direttamente dai Centri di formazione dei quadri, dalle Fondazioni, dalle Fabbriche dei cervelli predisposte allo scopo dalle grandi multinazionali. Condizione imprescindibile della sua funzione è una presenza egemone negli apparati di dominio che compongono lo Stato o che comunque articolano la sua azione e cioè i fondamentali centri del potere: Governo, Banca d’Italia, Confindustria, Mass-media… Suo compito specifico è invece quello di ricercare e rendere operanti le mediazioni più equilibrate, cioè meno contraddittorie, tra gli interessi capitalistici dominanti e quelli particolari dell’area. Si capisce subito che l’affermarsi della borghesia imperialista e del suo personale non è un processo lineare, infatti questa nuova burocrazia è tutt’ora in lotta per occupare i punti chiave dello Stato e quand’è il caso, scalzare dalle posizioni strategiche quegli uomini che esprimono interessi conflittuali e cioè propri delle altre frazioni della borghesia. Nella nostra area vediamo, ad esempio, come in questi anni si sia venuto formando un personale politico strettamente legato ai circoli imperialistici, il quale, pur concentrandosi in un partito (Dc), è presente in modo egemone in tutti gli altri partiti del cosiddetto “arco costituzionale” (certamente dal Psi al Msi) e tende a far valere la sua presenza in tutti i fondamentali centri del potere.

Vediamo anche che la vittoria di questo personale e naturalmente della frazione di borghesia che lo esprime, non è assolutamente un processo privo di contraddizioni, ma una lotta micidiale tra squali borghesi.

L’affermazione degli interessi complessivi dell’imperialismo passa dunque per una fase transitoria in cui le varie forze borghesi si scontrano e coesistono, rappresentando un elemento interno della crisi dello Stato. E però, questa crisi che travaglia lo Stato, non spinge assolutamente verso la sua disgregazione, bensì alla sua ristrutturazione: questa tendenza crisi-ristrutturazione, mostra che la contraddizione principale del movimento rivoluzionario è quella che lo oppone immediatamente al sistema di potere imperialista su scala mondiale. Affrontare questa contraddizione significa quindi muoversi sul terreno della guerra di classe di lunga durata. Forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato, in Italia, è la Democrazia Cristiana. In questa chiave va letto il durissimo scontro in corso al suo interno e il cosiddetto processo di “rinnovamento”. La crisi di identità che la Dc sta attraversando, in modo particolare dal giugno ’75, è determinata da due processi concomitanti: la crisi-ristrutturazione della strategia mondiale degli Stati imperialistici da un lato, e dall’altro la richiesta di potere del proletariato italiano in vario modo espressa dalle sue componenti politiche sia revisioniste che rivoluzionarie. Nel quadro dell’unità strategica degli Stati imperialisti le maggiori potenze alla testa della catena gerarchica richiedono alla Dc di funzionare da polo politico nazionale della controrivoluzione, ma essa, così com’è attualmente strutturata risulta in larga misura inadatta allo scopo. Dunque si deve rinnovare e ciò vuol dire che deve ridefinirsi chiaramente come filiale nazionale efficiente della più grande multinazionale del crimine che l’umanità abbia mai conosciuto. Solo da una Dc ridefinita nel senso sopraindicato potrà venire la riconversione dello Stato-nazione in anello efficiente della catena imperialista e cioè potranno essere imposte le feroci politiche economiche e le profonde trasformazioni istituzionali in funzione apertamente repressiva, richieste dai partner della catena. Il filo a piombo di tutta la complessa operazione è dunque la politica estera degli Usa, della Rft e dei fondamentali centri motori dell’imperialismo (Fmi, Cee, Nato) nel senso che la politica “interna” di cui la Dc deve farsi promotrice non può essere che una funzione diretta della politica “estera” di quei paesi e di quei centri. Del resto non bisogna dimenticare che anche il Capitale è conscio del carattere non più ciclico delle proprie contraddizioni; che il suo fine è quello di sopravvivere all’interno di questa fase del suo sviluppo. Le teorie sulla “crescita zero” sono state scoperte dalla scienza borghese ormai da qualche tempo. L’irrisolvibilità delle contraddizioni nella sfera economica porta alla ricerca di una “indipendenza” dell’assetto politico-sociale tramite il potenziamento dell’apparato di dominio che si configura come “guerra preventiva” controrivoluzionaria. Vale a dire: lo Stato diviene “soggetto della politica”, come affermano i compagni della Raf. Ma, in questo non bisogna vedere il tentativo di annientare le contraddizioni sociali secondo il meccanismo repressione-passaggio ad una nuova fase di sviluppo, bensì il loro contenimento attraverso l’annientamento di ogni progetto di ricomposizione del conflitto di classe su un programma antagonista. Nelle aspirazioni la legge dello sviluppo diseguale dovrebbe ridimensionare le ripercussioni dell’intensità del conflitto sociale in certe aree della catena imperialista (come l’Italia) con la riduzione del suo peso economico.

In questa prospettiva l’uso dei meccanismi deflattivi, se da un lato non porta segni di ripresa, dall’altro dovrebbe servire a circoscrivere l’attacco alle condizioni economico-sociali di una minor quota della popolazione, la meno privilegiata. Anche la lotta armata, in questo quadro, dovrebbe venire ghettizzata, confinata, come fenomeno endemico, espressione spontanea dell’emarginazione, per esempio, lotta che non veda, oltre gli apparati civili nazionali (produttivi, amministrativi, partitico istituzionali), quelli di guerra preventiva imperialistica. Dice Schmidt: “Tra l’anarchia e la reazione c’è un ampio spazio per qualcosa di ponderato” spiegando a proposito di Italia, Giappone, Germania che “in nessun posto del mondo libero, dopo gli anni ’30 e ’40, il logorio della morale e dell’autorità è stato così grande come in questi tre Paesi… ci vuole molto tempo affinché questi valori possano ridiventare credibili”.

 

Rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo

La rigida centralizzazione dei centri vitali dello Stato nelle mani della borghesia imperialista attraverso la burocrazia è condizione necessaria per la sua ristrutturazione: solo così, infatti, è possibile controllare le tensioni particolari dell’area e risolverle, subordinandole, all’interno del piano imperialistico globale. Per questo nei vari Stati-nazione assistiamo allo svuotamento progressivo del potere del Parlamento e al rafforzamento di quello dell’Esecutivo. Negli Stati-costituzionali borghesi, infatti il Parlamento istituzionalmente è la sede in cui dovrebbe, mediante la “lotta” tra i partiti, affermarsi la sintesi dei vari interessi particolari dell’area di cui questi partiti sono l’espressione; ma come tale esso risulterebbe poco “governabile” dall’imperialismo e quindi strumento inefficiente per la realizzazione della sua politica. L’Esecutivo invece, nella misura in cui è direttamente controllato e formato da personale politico imperialista, è in grado di assolvere molto più efficacemente a questo compito. Assistiamo così ad un capovolgimento dei ruoli: lo Stato non è più come nella tradizione liberal-democratica espressione dei vari partiti, ma ora sono i partiti ad essere “espressione” dello Stato: e l’Esecutivo non è più l’espressione politica dei rapporti di forza interni al Parlamento, ma lo strumento “straniero” degli interessi della borghesia imperialista nell’area nazionale. È lo Stato cioè che ora usa i partiti, li rivitalizza attraverso il finanziamento pubblico e se ne serve per mobilitare e organizzare le masse intorno alla sua politica. Con l’affermazione dello Stato imperialista si compie quindi fino in fondo il processo di statalizzazione della società e come ha scritto Ulrike Meinhof: “…Nella completa compenetrazione di tutti i rapporti dell’imperialismo attraverso il mercato e del processo di statalizzazione della società, attraverso gli apparati statali repressivi ed ideologici non esiste nessun luogo e nessun tempo dove tu potresti dire di qui io parto”.

Ma, nello stesso tempo, proprio il carattere globale, totalizzante e totalitario di questo dominio, crea una frattura insanabile tra “apparati” e “società civile” e l’uno e l’altra si ergono contrapposti nei loro interessi antagonistici. Così da un lato delle lotte proletarie la statalizzazione della società costituisce, suo malgrado, un potente fattore di unificazione e semplificando le mediazioni, anche di accentuazione del loro carattere rivoluzionario e antimperialista.

Nello Stato imperialista riformismo e annientamento sono forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva.

Poiché con la formazione dello Stato imperialista il carattere antagonistico della contraddizione di classe si svela fino in fondo, acuito inoltre dalla contraddizione tra interesse globale dell’imperialismo e interessi particolari dell’area (contraddizione interimperialistica), le forme e gli strumenti del dominio devono necessariamente rafforzarsi e raffinarsi al massimo grado. Istruito dalle lotte presenti e passate dei popoli su scala planetaria, consapevole della sua debolezza strategica e della forza tattica che l’enorme apparato gli conferisce, l’imperialismo delle multinazionali punta all’unico obbiettivo che può prolungargli la sopravvivenza: prevenire ed annientare la rivoluzione prima che essa possa dispiegarsi in tutta la sua potenza e mobilitare tutte le sue forze nel progetto strategico vitale: la controrivoluzione preventiva. Con il riformismo le piccole concessioni alle “aristocrazie” metropolitane, cerca di bloccare la lotta proletaria prima che raggiunga il livello di guardia, per recuperarla, rinserrandola poi all’interno del suo “sviluppo”; contemporaneamente, pacificate le retrovie passa all’annientamento di quella parte di proletariato che non può “comprare” né rinserrare nel suo sviluppo.

Il riformismo non è mai separato dall’annientamento. Non è un’altra cosa. Il riformismo non è una politica della classe operaia, ma una politica dello Stato imperialista contro il proletariato metropolitano. Lo Stato imperialista delle multinazionali si presenta quindi come una struttura riformistico-repressiva altamente integrata e centralizzata. Da una parte abbiamo gli strumenti pacifici il cui scopo è assicurare il consenso delle masse: partiti istituzionali, sindacati, mass-media… Dall’altra gli strumenti militari il cui fine è l’annientamento: nuclei speciali, tribunali speciali, carceri speciali e cioè forze per la repressione generalizzata. Entrambi sono parti coesistenti e funzionali della stessa politica. Entrambi sono forme di uno stesso Stato. Insomma Santillo è il gemello di Lama! Questa coesistenza delle funzioni riformistico-repressive subisce poi, a seconda delle fasi del ciclo economico, delle modificazioni di qualità di una certa importanza, ma non tali da intaccare la sostanza dello Stato imperialista. Così nella fase di espansione economica, lo Stato imperialista mostra soprattutto il volto umano e pacifico del riformismo che però nasconde denti di acciaio. In questa fase regna la pace, ma si tratta di una “pace armata”. Al contrario nella fase di crisi economica appaiono soprattutto le armi e il rapporto Stato-società si militarizza sempre più. Non per questo lo Stato imperialista rinuncia all’uso del riformismo. Solo che ora esso, avendo perduto la sua base materiale si trasforma in “pura ideologia” e tende ad assumere la funzione di “controllore delle masse”, di “polizia antiproletaria”. In questa fase lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione si fa sempre più generalizzato e si entra così in una nuova fase: la guerra!

Il processo di controrivoluzione preventiva che caratterizza il movimento della borghesia imperialista in questa fase impone alle forze rivoluzionarie una nuova elaborazione della strategia per la presa del potere e quindi anche dei principi e delle forme organizzative. Non avendosi più una fase politica separata da quella militare perché nello Stato imperialista riforma e annientamento sono coesistenti e funzionali, l’unica possibilità di praticare il terreno politico dello scontro si dà con il fucile in mano. La strategia insurrezionalista di derivazione terzinternazionalista esce dalla storia e fa il suo ingresso la guerriglia, la guerra di classe di lunga durata. Nella fase che abbiamo definito di “pace armata” (e cioè nella fase di espansione del ciclo in cui è prevalente l’uso degli strumenti riformistici su quelli più apertamente repressivi) dal lato delle forze rivoluzionarie prevale la tattica della propaganda armata mentre nella fase della “guerra” (e cioè nella fase di crisi del ciclo in cui diventano prevalenti gli strumenti di repressione e annientamento dei comportamenti antagonistici della classe) dal lato delle forze rivoluzionarie prevale la pratica della guerra civile rivoluzionaria.

 

Lo Stato imperialista delle multinazionali non è fascista né socialdemocratico

Nel passaggio dalla pace armata alla guerra si fa sempre più diretto e generalizzato lo scontro rivoluzione-controrivoluzione, ma non si ha però come alcuni sostengono, una trasformazione dello Stato democratico in Stato fascista. Ci troviamo invece sempre in presenza di uno Stato che, ristrutturandosi, ha subito delle modificazioni nel peso specifico dei suoi componenti fondamentali: prima gli strumenti pacifico-riformisti avevano il predominio sugli strumenti militari-repressivi, ora invece l’annientamento predomina e subordina a sé la funzione riformista. Fascismo e socialdemocrazia sono state forme politiche oscillanti che il potere della borghesia ha assunto nella fase del capitalismo monopolistico nazionale. Possiamo aggiungere ancora, semplificando al massimo, che fascismo e socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello Stato imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un “regime” originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe. Alcuni definiscono la fase di transizione dalla pace armata alla guerra come processo di fascistizzazione e la forma politica dello Stato in questa fase come “nuovo fascismo”. Queste due categorie, anche se colgono alcuni aspetti del fenomeno, non riescono però a scavare in profondità e introducono così notevoli elementi di confusione.

Innanzitutto il fascismo non è un fenomeno metastorico (cioè al di fuori della storia), ma rappresenta la forma assunta dallo Stato borghese in una data fase di sviluppo delle forze produttive (capitalismo monopolistico a base nazionale) e come tale presenta specificità non riscontrabili nello Stato imperialista delle multinazionali. Dello Stato fascista, lo Stato imperialista recupera, perfezionandolo e mistificandolo, tutto l’apparato della controrivoluzione preventiva, scartandone però tutto il bagaglio angustamente nazionalistico (esasperata coscienza nazionale, autarchia). C’è inoltre un altro aspetto da tener presente: il fascismo ha dovuto conquistare “dall’esterno” il vecchio Stato liberale, rimodellandolo poi sul suo progetto strategico; ora invece la conquista degli apparati da parte del personale politico della borghesia imperialista procede esclusivamente per “linee interne”. Lo Stato imperialista non è dunque fascista. Il concetto di fascistizzazione appare non solo riduttivo ma anche falsante nella misura in cui non ci consente di cogliere il nuovo carattere della “violenza concentrata” né il rapporto organico che essa stringe con le pratiche di integrazione riformista.

Altri in questa fase di transizione credono di scorgere una tendenza alla trasformazione dello Stato in senso socialdemocratico e si chiedono se la socialdemocrazia rappresenti o meno la via d’uscita alla crisi imperialistica, se il Pci si accinga o meno a fare il suo ingresso nell’area di potere. Questo quesito ne contiene in sé un altro, cioè se il Pci sia o meno un partito socialdemocratico. Tra socialdemocrazia e riformismo moderno le differenze sono numerose ed alcune di fondo. La socialdemocrazia è un fenomeno tipico di quelle fasi dello sviluppo capitalistico in cui le crisi seguono ancora un andamento ciclico: uscendo dai periodi di depressione, il capitalismo può, ricorrendo ad una politica riformista, “corrompere gli strati di aristocrazia operaia” che costituiscono la base di massa della socialdemocrazia storica. In altre parole, la possibilità di una ripresa produttiva consente alla borghesia un margine di contrattazione reale con la “destra operaia”: ciò provoca, tra gli altri effetti, l’integrazione dei gruppi dirigenti dei partiti riformisti all’interno del blocco sociale che detiene il potere. L’alleanza tra borghesia e riformismo è dunque di natura sociale, oltre che politica: i socialdemocratici e gli “operai professionali” si schierano a fianco del padrone perché con esso hanno interessi reali comuni (la ripresa dell’accumulazione e la ristrutturazione produttiva) e perché ambiscono a diventare essi stessi padroni con fondate possibilità di riuscire a divenirlo. Inoltre, le particolari caratteristiche dello Stato in questa fase della storia del capitalismo facilitano l’ingresso della socialdemocrazia in quel governo che è da sempre l’anticamera del potere: lo Stato, ancora relativamente autonomo dall’economia, giustifica in qualche misura l’illusione che sia possibile la sua conquista ed il suo utilizzo da parte della classe operaia.

Questi dati oggi non si danno più. La crisi del sistema imperialista non è prevedibile che sfoci in una ripresa dell’accumulazione, sia perché l’economia è entrata in una fase di stagnazione da cui si risolleverà solo con la guerra per una diversa ripartizione dei mercati, sia perché le politiche economiche adottate dagli Stati tendono a restringere, anziché ad ampliare, la base produttiva. Mancano di conseguenza, tanto le basi strutturali (natura e andamento della crisi) quanto quelle soggettive (politiche dei governi e degli Stati) per rendere possibile l’integrazione dei revisionisti in un blocco sociale che persegua una politica di tipo riformistico. O meglio: è ancora possibile che i revisionisti (il loro gruppo dirigente) siano temporaneamente ospitati all’interno del Governo, ma è escluso che esistano le condizioni per integrare strati di aristocrazia operaia o di ceti medi all’interno di un blocco di potere incaricato di gestire un tipo di sviluppo che non si può più dare, stante il carattere imperialistico e multinazionale del capitalismo della nostra epoca. Che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all’operaio professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione del potere d’acquisto dei salari? E comunque, al di là delle contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie che hanno ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale? L’assenza delle condizioni strutturali per la formazione di un nuovo blocco sociale di potere non esclude tutte le caratteristiche di questo rapporto che, d’altra parte, dipendono dalla situazione di classe, oltre che dal livello delle forze produttive. Se a pagare il prezzo dell’ascesa al potere della socialdemocrazia storica furono prima di tutto i contadini dal momento che la ripresa dell’accumulazione avveniva a scapito della campagna, oggi il rapporto preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda sull’individuazione del “proletariato emarginato” come variabile di cui è indispensabile detenere il controllo.

In altre parole, l’operaio professionale “dovrebbe diventare, simultaneamente, un vero e proprio soldato della produzione e funzionare come poliziotto sia nei confronti dei compagni di lavoro, sia soprattutto nei confronti della massa dei proletari marginalizzati della grande metropoli”. Per tutti questi motivi è inevitabile che la politica dei revisionisti perda progressivamente tutti i propri tratti riformistici per assumerne di apertamente repressivi: da progressiva, la funzione del Pci diventa così, di fatto ed indipendentemente dalla volontà dei suoi militanti, conservatrice; finalizzata com’è ad esercitare un rigido controllo sul mercato del lavoro e ad organizzare il consenso attorno ad un progetto di sviluppo economico e sociale che, essendo per la natura dell’imperialismo, incapace di mobilitare e coinvolgere le masse (com’era riuscito a fare ad esempio il fascismo), costringerà sempre di più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e ad imporre forzatamente il consenso, anziché a sollecitarlo e ad interpretarlo. Questo avverrà perché, se l’imperialismo è capitalismo in putrefazione non si dà ulteriore sviluppo delle forze produttive senza sconvolgimento dei rapporti di produzione corrispondenti, ciò significa che la necessità di mantenerli inalterati si dovrà scontrare con la volontà di modificarli e che i partiti riformisti di tradizione operaia, da strumenti per la pace sociale si trasformeranno in altrettanti strumenti per la guerra civile. In questo senso è possibile sostenere che i revisionisti sono al servizio dello Stato imperialista delle multinazionali e che la contraddizione con il revisionismo moderno oltre ad essere antagonistica, va affrontata anche sul piano militare. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che l’imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di produttori. Va tenuto presente, inoltre che, una delle ragioni per cui l’alleanza con il revisionismo moderno è auspicabile per la borghesia, consiste nella possibilità di penetrare più agevolmente nei mercati dell’Est europeo.

Oltre che dei progetti politici delle multinazionali nel loro complesso, il Pci è anche e soprattutto al servizio dello Stato imperialista in quanto imprenditore esso stesso: in questo caso il ruolo del Pci cessa di essere puramente subalterno, per divenire attivo, assumendo i caratteri riformistici di una ipotesi evoluzionistica e gradualistica di transizione al socialismo. La duplicità della funzione e della natura del Pci (da una parte, funzione poliziesca e natura conservatrice, dall’altra, funzione razionalizzatrice e natura riformistica) è probabile stia al fondo dei suoi successi elettorali e della sua “tenuta” in presenza di una lotta di classe che tocca i livelli sempre crescenti di maturità. Se nei confronti dei monopoli e delle multinazionali l’atteggiamento del Pci è indiretto e passa attraverso la mediazione dello Stato, nei confronti dello Stato considerato come capitalista esso stesso, il punto di vista dei revisionisti ha più di un fenomeno teorico e trova giustificazione nel rilievo particolare che ha assunto (già durante il fascismo) e seguita ad assumere l’intervento dello Stato nell’economia italiana.

Alla base delle valutazioni del Pci sta “il recupero delle analisi di Engels e di Lenin sulla natura ambivalente del capitalismo di Stato, cioè è visto da un lato, come punto di massimo sviluppo del capitale e, dall’altro, come punto di sua massima contraddizione (sul quale incidere politicamente), in quanto espressione di una acutizzazione della contraddizione di fondo tra il carattere sempre più sociale della produzione capitalistica e il carattere privato dell’appropriazione del plusvalore”. Da ciò, “una sorta di ottimismo sulla possibilità di “uso” immediato degli strumenti di intervento statale e in particolare dell’impresa pubblica per fini diversi da quelli per cui sono nati”. Muovendo da questi presupposti teorici che ignorano non soltanto i rapporti tra Stato e multinazionali (al punto che i revisionisti giungono a favoleggiare un’alleanza fra classe operaia ed impresa pubblica in funzione antimonopolistica) ma persino gli interessi diretti che lo Stato, in quanto imprenditore, ha nella sfera della produzione, è conseguente che riformismo e repressione divengano facce di una stessa medaglia e che il Pci si riveli uno strumento più o meno decisivo o più o meno accessorio, di divisione della classe operaia, di controllo del mercato del lavoro, di organizzazione del consenso e di repressione dell’autonomia proletaria e della rivoluzione.

All’interno del partito revisionista vive perciò anche una ambiguità tra due tendenze: una che potremmo definire impropriamente “ala sinistra della socialdemocrazia” la quale ha fatto proprio con l’accettazione della Nato anche il sistema di valori occidentali; l’altra che si ispira al “capitalismo di Stato” e che vede il “compromesso” come primo passo tattico in questa direzione. Ciò comporta che il legame tra il partito revisionista e il socialimperialismo sovietico viene a dipendere dalla posizione di maggior forza della seconda corrente rispetto alla prima.

A livello europeo l’ultrarevisionismo cerca di porsi come forza autonoma, forza egemonizzante rispetto ad un’area politica che vede accomunati cani e porci della sinistra della socialdemocrazia passando per i “vari eurocomunismi” per arrivare alle false incitazioni leniniste tipo Portogallo. Esso si pone nei confronti dell’imperialismo come forza interna-esterna, per questo ispira diffidenza a Carter e ai suoi vassalli europei, i quali sarebbero pure tentati di usarlo, ambiziosamente, in funzione catalizzante del “dissenso” nei paesi dell’Est; ma per il momento resta comunque un’arma a doppio taglio. L’unica carta che l’ultrarevisionismo pareva avesse in mano, essere cioè garante della “pacificazione” dell’area meridionale dell’Europa, ha perso gran parte del suo valore in seguito allo sviluppo dei movimenti autonomisti di liberazione (Eta, Ira), alla crescita di forme di guerriglia metropolitana (Raf, Napap, Br) e alla crescita generalizzata dei movimenti autonomi di massa.

L’unità dell’eurocomunismo (dall’agente della Cia, Carrillo, al fratello scemo di De Gaulle, Marchais) è l’unità dell’opportunismo; è l’unità dei rinnegati del marxismo-leninismo, del tradimento delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia.

 

La ristrutturazione industriale

Di pari passo alla riorganizzazione dell’apparato politico militare la ristrutturazione dell’apparato economico marcia sulla strategia dei grandi gruppi multinazionali che hanno come obbiettivo primo quello di riassettare i meccanismi di accumulazione del capitale ormai entrati profondamente in crisi, aumentare i propri profitti, instaurare nuovi livelli di sfruttamento e di controllo sulla classe operaia e nuove forme di dominio sui popoli dei paesi in via di sviluppo, porre il socialimperialismo in posizione di inferiorità e di debolezza.

Per ottenere ciò le multinazionali sono oggi costrette al disperato tentativo di sviluppare i propri mezzi di produzione e la propria base produttiva in due modi principali: il primo è quello di sviluppare su basi tecnologiche più avanzate i propri sistemi di produzione e le produzioni stesse (quindi quelle ad alta intensità di capitale), ciò che dovrebbe permettere loro di ridurre i costi di produzione ed elevare i profitti ed instaurare nuove forme di controllo sulla classe operaia, tende ad approfondire del capitalismo multinazionale, proprio perché in tal modo, nelle metropoli industriali, le forze produttive vengono costantemente compresse. In sostanza, il dilagare della disoccupazione, che è la conseguenza prima della crisi economica è ormai diventato un dato strutturale e progressivo, sia perché la crisi economica tende sempre più ad aggravarsi e si continua ad assistere alla costante chiusura di interi stabilimenti, sia perché l’aggiornamento tecnologico e la riorganizzazione del ciclo produttivo dentro le fabbriche non porta allo sviluppo di una nuova occupazione, ma ad un aumento dello sfruttamento e all’espulsione costante e progressiva di operai. Proprio per queste ragioni, la contraddizione tra proletariato metropolitano e borghesia imperialista tende ad acutizzarsi e maturano sempre più le condizioni di sviluppo della guerra civile.

Il secondo modo che è conseguente al primo, è quello dell’esportazione delle tecnologie e delle produzioni più arretrate (che sono per lo più ad alta intensità di manodopera) nei paesi in via di sviluppo dove ancora sono convenienti, perché qui le multinazionali trovano ancora forza-lavoro a basso costo, se ciò è un mezzo che dovrebbe tendere ad accrescere i profitti delle multinazionali e rappresentare lo strumento fondamentale per la penetrazione e per la costruzione del dominio imperialista sui popoli del terzo mondo, porta con sé il suo aspetto contraddittorio, infatti esso si scontra con le lotte di liberazione dei popoli che sempre più riducono la possibilità delle multinazionali di spadroneggiare tranquillamente nei vari paesi, aumentando dunque l’estensione delle contraddizioni che attanagliano in crisi mortale la borghesia imperialista.

Anche nel nostro paese, dunque, la ristrutturazione economica avviene all’interno della rigida divisione delle aree di produzione e di mercato, attuata a livello internazionale dalle centrali imperialiste, sotto le direttrici e il controllo degli organi sovranazionali (in specifico il Fmi, la Cee).

Essa marcia su quattro direttrici principali:

– Sviluppo e ristrutturazione prioritaria dei nuovi settori trainati a tecnologia più avanzata e cioè, secondo i piani di settore della Cee e in base a quanto stabilito nella “legge di riconversione industriale” essi sono: il nucleare nel campo energetico, gli acciai speciali nel campo siderurgico, l’informatica nel campo dell’elettronica, e ancora la chimica, la cantieristica, le fibre.

– In tutti gli altri settori si ha un generale adeguamento tecnologico, soprattutto attraverso lo sviluppo delle lavorazioni a più alta intensità di capitale: ciò avviene con il massiccio insediamento di sistemi di produzione con macchine superautomatizzate, con l’uso dei robot, con l’enorme utilizzo dell’elettronica (macchine a controllo numerico, cervelli elettronici) nel programmare e controllare automaticamente interi processi produttivi che prima richiedevano decine di operai.

– Sviluppo del settore bellico nel quale in termini strategici, la produzione si espanderà sempre più (il che non vuol dire nuova occupazione), poiché come abbiamo già detto l’imperialismo da un lato si sta preparando alla terza guerra mondiale e dall’altro si trova già impegnato nell’affrontare lo scontro di classe che sempre più si intensifica e si estende nelle sue metropoli. Per questo tutte le fabbriche di produzione bellica hanno una prospettiva di sicura espansione sia per quanto riguarda le produzioni pesanti (aerei, navi da guerra, ecc), sia per quelle di produzioni in funzioni di antiguerriglia: dalle armi, alle molteplici e sofisticate attrezzature elettroniche (cervelli elettronici per l’immagazzinamento dei dati, nuovi sistemi di trasmissione per CC e PS, sistemi di controllo con fotocellule, tv a circuito chiuso, ecc), alle jeep, ai mezzi blindati.

– Riconversione di tutta la piccola e media industria in funzione delle multinazionali e addirittura aggregazione di più fabbriche che vanno a formare interi settori produttivi dei grandi gruppi industriali. Gli esempi sono molti: la Fiat, quando ha iniziato la sua ristrutturazione e selezione alle fabbriche e fabbrichette che lavorano per lei, d’altro canto la stessa holding delle macchine utensili della Fiat (CO.MA.U.) è stata costituita centralizzando sotto un’unica direzione le migliori piccole e medie fabbriche che producono nel settore.

Su questa linea di ristrutturazione i grandi gruppi multinazionali (siano essi con base nazionale che straniera) tendono a superare le proprie contraddizioni politiche e ad accordarsi nella spartizione dei profitti derivanti dai vari settori di produzione. È ovvio che gli sconti per accaparrarsi il controllo di maggiori quantità di settori produttivi non verranno mai eliminati, ma si tratta, almeno in questa fase, di contraddizioni secondarie unificate su un unico progetto strategico: quello imperialista. Non ha più senso dunque parlare di contraddizioni di fondo tra l’industria privata e quella pubblica (PP.SS) come blaterano il Pci e i sindacati per imbastire le loro demagogiche strategie economiche. L’esempio più limpido di ciò si è avuto con la spartizione della torta nucleare che ha fatto definire “pace nucleare” l’accordo raggiunto tra Fiat e Finmeccanica. Infatti il confronto si pone oggi tra multinazionali che hanno gli stessi interessi, sia economici che politici, poiché tanto per le fabbriche private che per quelle a Partecipazione Statale, gli obbiettivi della ristrutturazione, sia tattici che strategici sono i medesimi.

La disoccupazione, la mobilità forsennata della manodopera non specializzata, l’aumento della produttività e quindi dello sfruttamento, la militarizzazione delle fabbriche sono le conseguenze logiche di questo criminale progetto che vengono fatte pesantemente pagare alla classe operaia. Le strutture che nel nostro paese hanno il compito di dirigere e gestire il progetto di ristrutturazione dell’apparato economico sono l’esecutivo attraverso il Cipi (Comitato Internazionale per la Politica Industriale) e la Confindustria. Nel Cipi sono presenti i ministeri economici (Industria, PP.SS, Tesoro, Finanze, Cassa del Mezzogiorno) e il presidente della Banca d’Italia. Questo organismo riconferma una delle tendenze fondamentali nella ristrutturazione imperialista dello Stato, cioè quella della massima unificazione dei centri di direzione del potere; questa tendenza punta ad evitare le contraddizioni, per quanto secondarie, che spesso si verificano tra i vari ministeri, e dare quindi all’esecutivo più compattezza e più decisione nello svolgere la sua funzione a servizio delle multinazionali. Il Cipi ha quindi il compito di dirigere e applicare a livello nazionale le linee della ristrutturazione economica decise dagli organi di dominio sovranazionale, sintetizzando ad un livello superiore i poteri decisionali oggi spezzettati tra i vari ministeri del governo. La Confindustria, come l’esecutivo, è una diretta articolazione degli organi dell’imperialismo però con una funzione diversa: mentre l’esecutivo applica le linee di ristrutturazione economica decise dalle centrali imperialiste, la Confindustria è diventata di fatto centro di iniziativa padronale che elabora le linee politiche della ristrutturazione imperialista nel settore economico per poi proporle al governo e ai sindacati. Per questo essa rappresenta la mente tecnica e il garante politico al servizio delle multinazionali. Per adeguarsi alle nuove esigenze poste dallo sviluppo dell’imperialismo, la Confindustria ha iniziato da tempo una profonda ristrutturazione sia politica che organizzativa che ha avuto come tappa fondamentale quella della costruzione al suo interno di una unità politica sulla linea della borghesia multinazionale, questo obbiettivo lanciato nel ’70 con il famoso rapporto Pirelli, è stato sancito nel ’74 con la presidenza Agnelli ed ha trovato la sua continuità con l’attuale presidenza Carli. Quest’ultimo, pochi mesi dopo il suo insediamento, ha prontamente proposto di unificare la Confindustria con l’Intersind (che rappresenta le PP.SS) e la Confapi (che rappresenta una parte delle piccole imprese) proprio perché “non esistono più fondamentali contraddizioni politiche che giustifichino questa divisione” tra padroni; un primo passo su questa strada è già stato fatto: Confindustria e Intersind tratteranno col sindacato allo stesso tavolo il problema delle festività infrasettimanali abolite con l’accordo del gennaio ’77. Su questa linea la Conf. ha superato il suo vecchio ruolo di “sindacato dei padroni privati” per diventare la struttura che, articolando le direttrici di politica economica delle multinazionali, è capace di unificare sotto di sé le divisioni tra piccoli e grandi padroni, tra industria pubblica e privata, nella programmazione dell’economia sul terreno nazionale in tutti i suoi settori. Essa è infatti la struttura che ha il compito di fare proposte e programmi su tutti i principali problemi di ristrutturazione economica e politica. L’altra funzione fondamentale che la Conf. ha all’interno dello Stato imperialista delle multinazionali è quella di procedere alla costruzione del personale dirigente adeguato a gestire la ristrutturazione del processo produttivo. Rispetto a ciò la Conf. sta sviluppando intensamente la formazione quadri a tutti i livelli attraverso apposite scuole e corsi di formazione, e in parallelo sta procedendo alla attivazione di uffici e centri studi vecchi e nuovi; l’obbiettivo è quello di omogeneizzare tutto il personale dirigente sulla linea politica delle multinazionali, trasformare tutti i padroni e i dirigenti delle industrie in managers che facciano propri i valori dell’efficientismo e dell’imprenditorialità, fornire loro strumenti politici e tecnici per essere preparati a gestire adeguatamente la ristrutturazione economica dello Stato Imperialista delle Multinazionali, Se la Dc è l’asse portante dell’iniziativa globale dell’imperialismo del nostro paese, la Confindustria rappresenta l’asse portante dell’iniziativa imperialista nella ristrutturazione dell’apparato economico.

 

Violenza proletaria e controrivoluzione imperialista

In questa fase storica, a questo punto della crisi, la pratica della violenza rivoluzionaria è l’unica politica che abbia una possibilità reale di affrontare e risolvere la contraddizione antagonistica che oppone proletariato metropolitano e borghesia imperialistica. In questa fase la lotta di classe assume, per iniziativa delle avanguardie rivoluzionarie, la forma della guerra. Proprio questo impedisce al nemico di “normalizzare la situazione” e cioè di riportare una vittoria tattica sul movimento di lotta degli ultimi dieci anni e sui bisogni, le aspettative e le speranze che esso ha generato.

È importante ciò che dice Habash:

“L’incapacità di distruggere la rivoluzione in una determinata fase è di per sé una vittoria per la rivoluzione. Attraverso questa verità, la politica della violenza si cristallizza come una tradizione delle masse, accelera e approfondisce il processo di formazione del partito… si intensifica progressivamente fino a riportare sul nemico una schiacciante vittoria”.

Certo siamo noi a volere la guerra! Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla, lo costringe a muoversi, a vivere sul terreno della guerra: anzi ci proponiamo di fare emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società “democratica” dove in tempi migliori se ne stava comodamente nascosta!

Ma, detto questo, è necessario far chiarezza su un punto: non siamo noi a “creare” la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l’imperialismo nel suo divenire: non è un aspetto ma la sua sostanza. L’imperialismo è controrivoluzione. Far emergere attraverso la pratica della guerriglia questa fondamentale verità è il presupposto necessario della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli. Fatta questa considerazione si capisce allora perché lo Stato imperialista impegni tutte le sue forze per negare alla violenza proletaria qualsiasi valenza politica. Si capisce perché, con metodi diretti o indiretti, esso cerca di annientare qualsiasi forza che non escluda nel modo più assoluto dai suoi metodi di lotta il ricorso a forme di violenza rivoluzionaria.

L’ordine sociale che lo Stato imperialista vorrebbe imporre presuppone la riduzione preventiva e generalizzata degli individui umani a “cose”, in una società di cose retta in tutte le sue regioni dalle leggi del mercato capitalistico. È l’ordine impossibile della soppressione delle contraddizioni, del puro svolgersi quantitativo, dell’immutabile, della morte!

Come una bella attrice al volgere dei suoi anni e delle sue fortune, lo Stato imperialista vorrebbe bloccare il tempo, fermare la storia, ma ciò – nonostante la sua potenza – non è proprio possibile. Anzi, ironia della storia, quanto più la legge del capitale si afferma in tutti gli interstizi della vita sociale e si fa generale, assoluta, tanto più genera, rendendo intollerabile la “qualità della vita”, nuovi bisogni di liberazione e più radicali movimenti di lotta.

Ecco, questa è la contraddizione che sta portando la borghesia imperialista verso la sconfitta e che ci spiega perché essa non può ammettere, né tollerare, contraddizioni e comportamenti di classe antagonistici; perché non può riconoscerli se non come “devianze criminaloidi”, “terrorismo”, “insorgenze irrazionali”, per usare una divertente definizione del ministro, “manifestazioni di follia ideologizzante”.

In questo quadro la pretesa inaccettabile della borghesia imperialista recita così: l’opposizione al regime per essere “politica” e con ciò legittima e tollerata, non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi interamente dentro il cerchio magico tracciato dalle sue leggi, dalle sue convenzioni e dai suoi codici di comportamento sociale “normale”. L’alternativa è: crimine!

Ferma questa pretesa, anche il concetto di “reato politico”, mai negato dalle democrazie liberali, non ha più spazio per esistere. Diventa una contraddizione in termini: le due parti che compongono il concetto non sono forse assolutamente incompatibili? Come dire, gli “atti” politici, in quanto interni a leggi, patti, convenzioni, codici, non possono assumere la forma di reati. Se ciò avviene vuol dire che hanno sconfinato, dunque sono crimini. È fin troppo evidente che se questa tesi venisse accettata dalle classi subalterne ne determinerebbe automaticamente la subordinazione perenne al dominio della borghesia imperialista. Ma non c’è da spaventarsi perché in realtà questa tesi-limite non si dà come storicamente possibile in quanto il modo di produzione capitalistico non potrà mai impedire lo sviluppo delle forze produttive e quindi l’insorgere delle contraddizioni che determinano le condizioni dello scontro rivoluzionario.

 

Una nuova figura proletaria: il “criminale politico” ovvero il guerrigliero urbano

La dichiarata contraddittorietà del concetto di reato politico non porta, come potrebbe sembrare a prima vista, alla sua rimozione: l’obbiettivo della borghesia imperialista non è infatti quello di degradare i militanti rivoluzionari, criminalizzando le loro azioni al basso rango di “criminali comuni”. Vi è si la volontà di “andare fino in fondo all’opera di criminalizzazione della lotta politica, definendo criminali non solo i rivoluzionari, i compagni che lottano con o senza armi alla mano contro il capitale multinazionale, ma tutti coloro che escono dalla sempre più rigida norma giuridica e di comportamento fissata dalla borghesia”; ma l’operazione è assai più complessa e perfida ed è tutt’ora solo confusamente delineata. Infatti se è vero che i militanti rivoluzionari, in quanto interpreti di azioni classificate “criminali”, vengono puniti per questi “crimini” è anche più vero che, avendo essi la pretesa di considerarsi in guerra contro lo Stato, totalizzano una pena speciale, un trattamento speciale; criminali si, ma criminali speciali!

Criminale speciale è sinonimo di “criminale assoluto” o anche “anarco-nichilista” “terrorista”. Ma se questi sono i termini preferiti dagli specialisti della guerra psicologica, la figura politica che essi connotano per gli apparati di repressione è molto meno indeterminata: si tratta del nemico interno.

Negato a parole lo “status” politico del nemico interno viene perfettamente riconosciuto nella sostanza del trattamento differenziato. Anzi, prima di tutto per “ciò che è” e solo in seconda istanza “per ciò che ha fatto”.

La domanda centrale della borghesia imperialista non è più “che cosa hai fatto”, ma diventa “chi sei?” È la tua identità che interessa più di ogni altra cosa perché è questa che deve essere annientata. Il trattamento differenziato in tutte le sue fasi (lotta, processo, prigione) è orientato proprio a questo scopo! Liquidare la tua identità. Identità politica per il militante rivoluzionario significa prima di tutto: partito. È nei principi, nella strategia, nel programma, nella disciplina del Partito che egli autonomamente e liberamente si riconosce. Ed è affermando nella pratica della guerra di classe questo patrimonio proletario che egli viene riconosciuto dal popolo, perché il Partito rivoluzionario è l’espressione più alta della maturità, della coscienza, dell’organizzazione della classe. Nell’azione collettiva di Partito il combattente comunista afferma la sua identità, nella negazione di questa dimensione, attraverso la divisione, l’isolamento sociale, l’isolamento di gruppo ed infine l’annientamento fisico, il porco imperialista cerca di distruggerla.

I tecnici della guerra controrivoluzionaria riducono l’azione collettiva ad una somma di comportamenti individuali, li separano dalle loro motivazioni e tra di loro, così facendo tentano di togliere loro la capacità di rappresentare un messaggio. Quindi criminalizzano, li psichiatrizzano e li colpiscono per distruggerli. I tecnici della guerra controrivoluzionaria negando il diritto all’esistenza, all’antagonismo proletario organizzato, trasfigurano i militanti in singole unità criminali, senza storia né spessore politico. Più che di criminalizzazione bisogna parlare dunque di genocidio politico, perché questa è l’essenza più profonda della controrivoluzione imperialista.

Ma questo attacco al singolo militante, individualizzato e separato, non può riuscire a cogliere, se non da un punto di vista tattico, una vera vittoria sul partito come coscienza collettiva, di classe. Paradossalmente infatti, a mano a mano che la controrivoluzione imperialista vomita la sua violenza, matura la forza rivoluzionaria e sfuggendogli la dimensione di Partito che marca l’azione di ogni militante, pur riuscendo a distruggere singoli militanti, non riuscirà mai a distruggere strategicamente il partito.

Al punto della sua massima forza controrivoluzionaria l’imperialismo svela la propria miseria e la propria debolezza!

 

Il patto di mutua assistenza repressiva tra gli Stati imperialisti

Una conseguenza logica della opposizione rigida tra “crimini” e “politica” e dell’individuazione del guerrigliero urbano come nemico comune di tutti gli Stati imperialisti, è la attuazione di un Patto di mutua assistenza repressiva e di istituzioni trans-nazionali che lo rendono operativo. Questo Patto ha il suo cuore nella “convenzione europea per la repressione del terrorismo”. Ricordiamo perciò sinteticamente il problema.

Il progetto di questa Convenzione è stato messo a punto a partire dall’ottobre ’75 dal Comitato Europeo per i problemi criminali. Nel maggio ’76 “vista l’urgenza del problema” lo stesso Comitato approva una bozza che i 19 Stati membri del Consiglio dei ministri della Comunità discuteranno e approveranno a loro volta il 27 gennaio ’77.

La Convenzione si compone di un breve preambolo e di sedici articoli. Nel preambolo si sostiene che “… gli Stati membri del Consiglio d’Europa… coscienti della crescente inquietudine creata dal moltiplicarsi degli atti del terrorismo; augurandosi che misure efficaci siano prese affinché gli autori di tali atti non sfuggano all’incriminazione e alla punizione; convinti che l’estradizione è un mezzo particolarmente efficace per raggiungere questo risultato hanno raggiunto l’accordo su vari articoli”. Due sono gli articoli decisivi. Nel primo si elencano i reati che non saranno considerati reati politici, o connessi a reati politici, o ispirati da cause politiche. E cioè: reati connessi a sequestri aerei; reati gravi costituiti dall’attentato alla vita, alla integrità fisica o alla libertà delle persone che hanno diritto ad una protezione internazionale, compresi gli agenti diplomatici, e si aggiunge “… il tentativo di commettere uno dei reati su citati o la partecipazione come correo o complice di una persona che commette o cerca di commettere un tale reato”.

Nel secondo, forse temendo che qualcosa potesse sfuggire alla rigidità dell’elenco precedente, gli estensori precisano che “… per la necessità di estradizione… gli Stati membri potranno non considerare politico ogni altro atto grave di violenza diretto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà o i beni delle persone. O anche il solo tentativo di commetterli”. Dunque “…convinti che l’estradizione è un mezzo particolarmente efficace per combattere le manifestazioni del terrorismo internazionale” gli Stati membri della Comunità “si associano in un Patto”. Tecnicamente l’estradizione è un atto amministrativo internazionale di mutua assistenza repressiva mediante il quale uno Stato consegna ad un altro, o riceve da esso, un imputato o condannato per sottoporlo a procedimento penale o all’esecuzione di una condanna.

Politicamente l’estradizione è uno strumento internazionale della guerra di classe contro i rivoluzionari. Questo è il suo aspetto principale. Questo Patto, ufficializzato con la Convenzione, fissa i nuovi livelli raggiunti dal processo di internazionalizzazione dei livelli di repressione, attivi negli Stati dello spezzone europeo della catena imperialista. E cioè fa propri ed estende a livello continentale i contenuti degli impianti repressivi negli Stati più potenti e contemporaneamente affida a nuove istituzioni transnazionali il potere di renderli operanti nell’interesse comune. Questo processo di concentrazione e centralizzazione della repressione imperialista in istituzioni trans-nazionali è strategicamente funzionale alle necessità di intervento omogeneo ed esteso su tutta l’area continentale e standardizzato al livello più alto proprio delle maggiori potenze della catena gerarchica.

Tuttavia non dobbiamo trascurare un fatto: si tratta di una centralizzazione che lascia ancora alle macchine repressive specifiche di ciascun paese margini di intervento e di autonomia relativamente ampi e differenziati. Ciò anche a causa della complessità e disomogeneità delle strutture di classe e delle forze differenti di movimenti rivoluzionari nei diversi paesi, che non consentono un andamento lineare e contemporaneamente alla operazione di ristrutturazione, nella crisi, degli apparati di repressione-controllo.

 

Dal patto di mutua assistenza repressiva all’organizzazione comune di polizia

Il processo di internazionalizzazione delle strategie politiche, dei metodi e delle pratiche della guerra di classe controrivoluzionaria a livello degli Stati europei procede da vari anni. Futile enucleare alcune tappe salienti di questo processo poiché, essendosi svolto con molta discrezione, per non dire “clandestinamente”, gli obbiettivi che esso ha già consolidato non sono ancora stati individuati dal Movimento rivoluzionario nella loro portata strategica. L’esposizione cronologica ci appare la più indicata per fornire una visione d’insieme del problema. (Nota 1)

Il processo di concentrazione e centralizzazione del potere della borghesia imperialista in istituti sovrannazionali-transnazionali, lungi dal risolvere il problema del rilancio dell’accumulazione a livello di sistema aggraverà tutte le contraddizioni interne e per ciò, anche, favorirà lo sviluppo della guerra di classe. Ciò che però interessa mettere in evidenza è che nella nuova situazione che il nemico di classe va costituendo, l’azione rivoluzionaria e la risposta controrivoluzionaria vengono a trovarsi in una relazione non simmetrica e non immediatamente deducibile dalle semplici relazioni di potere (rapporti di forza) in cui apparentemente si trovano dentro i singoli Stati nazionali, che per il proletariato metropolitano la contraddizione classe-Stato assume immediatamente il carattere di contraddizione antimperialista, che questo non vuol dire necessariamente tra classe e apparati sovranazionali ma contraddizione tra classe e determinazioni nazionali del potere imperialista, vale a dire tra classe e Stato imperialista. In breve: anche contro tensioni rivoluzionarie localizzate, interviene (e ciò è possibile proprio per la nuova struttura del potere) sempre tutta intera la forza, la tecnologia e l’intelligenza degli apparati imperialisti. Il “piano Cee per la repressione del terrorismo”, “l’organizzazione comune di polizia”, ecc, non sono semplici atti burocratici dei vari governi o dei vari ministri, ma fatti nuovi che non devono essere sottovalutati perché modificano i termini della guerra.

 

Gli apparati della controrivoluzione preventiva nel nostro paese

L’atto comune contro il terrorismo, stretto più o meno ufficialmente dai partiti del cosiddetto “arco costituzionale” a partire dal gennaio del ’77, è in un certo senso l’elemento necessario che consente l’incastro della iniziativa controrivoluzionaria regionale dentro il piano europeo abbozzato prima con l’impegno politico firmato dai capi di governo della Cee nel giugno ’76, poi con l’accordo poliziesco concordato ai primi di luglio’76 dai ministri degli Interni e, infine, con la convenzione europea per la repressione del terrorismo.

Non a caso Andreotti introducendo il dibattito parlamentare ha fatto un esplicito riferimento alla necessità di un sempre più stretto accordo tra la politica d’ordine continentale e l’iniziativa locale. Lo sviluppo di questa iniziativa è sotto i nostri occhi e anzi più si rafforza la capacità offensiva delle forze rivoluzionarie più esso accelera il suo corso.

Pur seguendo tempi propri, dovuti alla particolarità della situazione italiana, questo processo è perfettamente omogeneo alle tendenze operanti su tutta l’area continentale. Ne considereremo qui cinque direttrici fondamentali.

 

  1. A) I corpi antiguerriglia

La direzione unificata a livello continentale dei processi di riorganizzazione delle forze di polizia (sia sul piano tecnico che della strategia operativa) e la tendenza a creare “forze antiguerriglia” integrate tra i paesi della Cee, sono le principali forme di movimento della controrivoluzione preventiva nell’area europea.

Interessa qui la forma attraverso cui questa tendenza si afferma nel nostro paese. Come abbiamo visto vari corpi antiguerriglia europei trovano nell’esecutivo della Cee la loro espressione politica e nelle riunioni periodiche dei ministri degli Interni (cui partecipano i responsabili delle forze di polizia), oltre che delle commissioni composte da alti funzionari dei diversi ministeri, il loro strumento operativo, ma è la Nato l’organismo politico-militare a cui l’imperialismo affida il ruolo dirigente, sia per quanto riguarda la difesa contro il “nemico esterno” che per l’annientamento del “nemico interno”.

L’integrazione tra “antiguerriglia” e “servizi segreti”- a loro volta controllati continentalmente dalla Nato – lo dimostra ampiamente. In pratica la ristrutturazione dei corpi di polizia procede su due direttrici. Da una parte si sviluppa la collaborazione internazionale, dall’altra si creano le basi per una organizzazione comune. Gli obbiettivi della collaborazione internazionale sono l’innalzamento qualitativo generale della capacità di risposta degli Stati nazionali all’iniziativa rivoluzionaria e l’unificazione della controguerriglia ai livelli più alti raggiunti dagli Stati imperialisti dominanti. Questo non esclude la differenziazione delle tecniche e delle strategie di fronte alle caratteristiche particolari della guerra di classe nelle diverse aree. Al contrario, il “patto di mutua assistenza” tra le forze controrivoluzionarie favorisce la tendenza alla “specializzazione” e la elaborazione di nuove tecniche repressive sia concentrando l’intera forza dell’apparato imperialista contro tensioni rivoluzionarie localizzate, sia riproducendo in forma generalizzata sull’intera area metropolitana i risultati delle esperienze più avanzate. Ciò porta alla diffusione su scala continentale di forme, tecniche, strutture organizzative simili per vari corpi antiguerriglia.

A conferma di come questa tendenza trovi anche nel nostro paese il suo sviluppo operativo occorre individuare le linee di movimento sulle quali il progetto di controrivoluzione preventiva viene articolandosi. È pertanto di significativo interesse – al fine di meglio esplicitare il nostro discorso – osservare i termini in cui si è venuta affermando la ristrutturazione dei servizi segreti, oggetto, sino a qualche tempo fa, di profonde lacerazioni interne che ne riducevano in notevole misura le potenzialità operative. (Contraddizioni che peraltro non sono affatto risolte). Ristrutturazione in chiave efficientista, finalizzata nella sua strategia a compattare e rendere attive tutte le forze attualmente disponibili (in materia di apparati coercitivi) sulla base di un programma di annientamento preventivo di tutte quelle insorgenze che esprimono una tensione rivoluzionaria reale e che costituiscono per ciò stesso una fonte destabilizzatrice del sistema imperialista.

Sono quindi stati costituiti, su modello simile allo “Special Branch” inglese due organismi: il Sismi (servizio informazioni sicurezza militare) ed il Sisde (servizio informazione sicurezza democratica) i quali segnano indubbiamente un salto di qualità rispetto al passato, quando due strutture parallele – per quel che riguarda le attività di controguerriglia – coesistevano all’interno dello stesso Stato, delle quali una faceva capo al ministro degli Interni (Nat-SdS), l’altra direttamente collegata all’apparato militare dei CC (Nuclei investigativi-Dalla Chiesa), ma operanti in modo del tutto disomogeneo e addirittura in aperta rivalità tra loro. Nella nuova riorganizzazione invece, tutte le strutture sono integrate e poste sotto la direzione dell’esecutivo che essendo l’appendice politica, a livello nazionale, dei centri del comando imperialista ne centralizza tutta l’attività. Non stupisce di certo che la Nato abbia “premiato” per bocca di Andreotti un corpo speciale qual è quello dell’Arma dei carabinieri, ponendo alla testa dei nuovi servizi di sicurezza due generali che in essa hanno ricoperto e ricoprono incarichi di considerevole responsabilità: Gen. Santovito e Gen. Grassini, rispettivamente capo del Sismi e del Sisde.

Da sempre infatti i CC sono la punta di diamante della controrivoluzione, e non a caso, essendo parte integrante dell’esercito sono posti di conseguenza sotto il diretto controllo della Nato che potendo disporre in tal modo di un apparato efficiente, dotato dei più sofisticati mezzi della tecnologia moderna, fidato, con una complessa e capillare struttura che abbraccia l’intera area nazionale, ne fa automaticamente l’asse portante di questo progetto. A scapito naturalmente del Corpo di PS il quale, percorso da tutta una serie di contraddizioni interne che ne rendono precario l’equilibrio, è ormai ritenuto di scarsa fidabilità quand’anche non inquinato dai “germi del sovversivismo” (vedi richieste di smilitarizzazione e democratizzazione del corpo). È inevitabile quindi che i suoi margini di autonomia vengano restringendosi di pari passo con l’accentramento di tutti i poteri nelle mani dell’esecutivo. Si tratta di vedere ora questa ristrutturazione nei suoi termini reali a partire dagli obbiettivi che nei tempi brevi essa intende realizzare per poter essere all’altezza dei nuovi compiti che l’incalzare dell’iniziativa rivoluzionaria pone allo Stato imperialista. Questi sono nell’ordine:

  1. a) aggiornamento delle strategie e delle tecniche;
  2. b) adeguamento delle strutture e dei mezzi;
  3. c) rinnovamento dell’istruzione e dell’addestramento;
  4. d) impiego unitario e di coordinamento di tutte le forze antiguerriglia.

Ovviamente i due nuovi servizi hanno funzioni differenziate essendo il Sismi un organismo che assolve essenzialmente a funzioni di spionaggio e controspionaggio militare, mentre il Sisde è preposto a organizzare l’annientamento della guerriglia nelle sue espressioni organizzate, per cui è di quest’ultimo che ci occuperemo più a fondo. È comunque da rilevare che il compito di coordinare l’attività dei due organismi spetta al Cesis (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza) che dipende direttamente dall’Esecutivo e più in particolare dal presidente del Consiglio (che ne nomina i membri) al quale dovrà fornire di volta in volta una analisi di tutti gli elementi e i dati trasmessi dai due servizi, sviluppando al massimo il lavoro di ricerca e di elaborazione dei medesimi, curando inoltre i rapporti di collaborazione-integrazione con servizi analoghi operanti negli altri Stati della catena imperialista. Rispetto alle mansioni che il Sismi e il Sisde svolgono, occorre tener presente che essi funzionano esclusivamente da organi informativi e di direzione delle operazioni di controguerriglia, senza peraltro intervenire specificatamente sul terreno militare che spetterà invece ad alcune sezioni speciali dei vari corpi di PS, CC, GdF. Sono stati soppressi gli uffici politici distaccati nelle varie questure e sostituiti in ciascuna di esse da una “Divisione per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali” (Digos) che a loro volta fanno capo ad un “ufficio centrale” alla direzione generale di PS. Si potrebbe essere indotti a credere che in tal modo la PS resta ugualmente in grado di sviluppare autonomamente i propri piani operativi ma non è così se si considera che il settore dell’informatica (decisivo in questo campo) è ormai, in larga misura, sotto il totale controllo del Sisde e quindi dei CC. Essi hanno visto così accrescere enormemente i loro poteri mantenendo pressoché inalterata la propria “autonomia” (in tal senso hanno già provveduto a costituire dei loro reparti operativi), configurandosi pertanto come corpo strategico della controrivoluzione preventiva in Italia. Sotto la direzione strategica del Sisde operano quindi delle vere e proprie sezioni speciali in funzione di braccio armato dello Stato imperialista. All’interno di queste “sezioni” sono già state create delle speciali “squadre anticommando” composte da uomini selezionati e altamente addestrati per operare in concomitanza con altri reparti simili dei paesi Cee (tipo Gsg-9 tedeschi).

In due occasioni sono state effettuate azioni combinate con passaggio delle frontiere, questo particolare, che rispecchia la logica di guerra applicata all’imperialismo in diverse operazioni “offensive” (Entebbe, Mogadiscio) è un segno indicativo del carattere internazionale che ha già assunto la guerra di classe sul continente. Esso indica la determinazione imperialista di risolvere con un intervento diretto quelle situazioni che squilibrano la stabilità degli anelli deboli della catena.

Il ruolo di questi organi di polizia dello Stato imperialista è quindi quello di “braccio armato” dell’Esecutivo, così come tutti gli apparati di dominio, di costrizione, di consenso forzato e di legittimazione. Tuttavia, l’espressione “Stato di polizia”, da noi usata in precedenti documenti per definire la militarizzazione progressiva delle istituzioni, può creare confusione poiché non riflette esattamente il particolare rapporto che intercorre tra riorganizzazione delle strutture dell’antiguerriglia e crisi-ristrutturazione dello Stato imperialista. La crescita del peso politico di questi corpi speciali e di chi li dirige nel nuovo assetto dello “Stato riformato”, rappresenta solo uno degli aspetti dell’attuale situazione: in realtà ad esso fa riscontro una completa subordinazione di queste forze all’Esecutivo ed alle sue direttive. La concentrazione del potere nelle mani dell’Esecutivo si realizza indirettamente attraverso gli apparati di dominio. Ogni allargamento dei poteri istituzionali delle forze di polizia in generale e dei corpi speciali in particolare comporta in queste condizioni un rafforzamento dell’Esecutivo dal momento che quest’ultimo esercita su di essi un controllo diretto ed assoluto.

Quindi ciò che appare rafforzamento del particolare (apparati di polizia) è in realtà solo una protezione del processo di rafforzamento dell’Esecutivo. Pertanto, gli scontri ricorrenti tra due corpi separati dello Stato quali Polizia e Magistratura – dove la prima rivendica a sé maggiori spazi di autonomia rispetto alla seconda – non vanno interpretati riduttivamente come manifestazioni “corporative”, frutto della lotta tra apparati burocratici. Lo stesso discorso vale per l’impiego delle “circolari interne” (provvedimenti amministrativi) che precludono al Parlamento ogni possibilità d’intervento in questo settore. In effetti, che i vari corpi speciali, nonché quelli di polizia, siano di fatto svincolati dal controllo della Magistratura e del Parlamento, equivale per l’Esecutivo ad una maggiore libertà d’azione. Da una parte abbiamo la riorganizzazione degli apparati repressivi ed il loro rafforzamento per mezzo dell’ampliamento dei poteri e la concentrazione; in tal senso vanno intese le leggi sul fermo di polizia, la possibilità di interrogare i fermati, l’autorizzazione per la chiusura dei “covi”, le intercettazioni autorizzate non più dal magistrato ma dal ministro degli Interni, l’istituzione di un comitato di coordinamento tra le forze di polizia. Dall’altra invece la loro diretta e totale subordinazione agli organi dell’esecutivo di cui la riforma ristrutturazione dei servizi segreti è un esempio quanto mai concreto.

Non è casuale che in tutti gli Stati imperialisti i servizi segreti siano posti al servizio dell’Esecutivo: del primo ministro in Gran Bretagna e Francia, del cancelliere nella Rft, del presidente negli Usa: in Italia il presidente del Consiglio dirige entrambi i servizi per tramite di un Comitato Esecutivo nominato, come abbiamo visto, dal primo ministro stesso, mentre prima della riorganizzazione il Sid dipendeva dal Capo di Stato Maggiore dell’esercito. Questa figura politica diviene così la massima “autorità nazionale di sicurezza” avvalendosi per le sue deliberazioni di uno speciale ufficio: l’Usi (Ufficio Sicurezza Interna) il quale è strettamente collegato alle determinazioni sovrannazionali dal comando imperialista e quindi con la Nato. Infine è ancora il Presidente del Consiglio a decidere in merito alla regolamentazione del “segreto politico-militare”. Dal momento che lo scontro di classe assume i connotati della guerra, anche le funzioni dello Stato si integrano e la distinzione tra politico e militare si risolve in unità. L’esperienza dei vertici interministeriali con la partecipazione di tecnici e militari indica le forme verso cui evolve la struttura di governo dello Stato imperialista: il comitato della crisi come dimensione permanente dell’Esecutivo.

Un discorso a parte merita lo sviluppo di strategie e tecniche antiguerriglia il cui obbiettivo fondamentale è la militarizzazione stabile dei poli metropolitani e l’annientamento delle organizzazioni del movimento di resistenza armata. Le direttrici sulle quali esso marcia sono:

– Utilizzazione dell’informatica; introduzione di tecnica di “intelligence” (psicologia, analisi del linguaggio, criptoanalisi…); applicazione dei modelli di guerra nell’occupazione delle aree metropolitane e negli attacchi antimassa; modelli militari di posti di blocco, squadre speciali per i combattenti urbani, perquisizioni domiciliari regolate da leggi di guerra.

– Strategie di coinvolgimento delle masse nella “gestione” dell’ordine pubblico: utilizzo dei mass-media, dei partiti, dei sindacati, degli enti locali, ecc: come organizzatori del consenso e garanti della vigilanza e della “prevenzione sociale in difesa dello Stato”.

Annientamento politico-militare del movimento di resistenza proletario: questo è l’obbiettivo perseguito dalla controrivoluzione preventiva. Militarizzazione globale della vita sociale, organizzazione del consenso e mobilitazione reazionaria delle masse, sono le forme complementari della guerra che l’imperialismo combatte nel cuore della metropoli.

 

  1. B) Il rafforzamento dei meccanismi e degli strumenti di controllo e prevenzione

Nella guerra imperialista controrivoluzionaria la costruzione di una rete di spionaggio totale preventivo è un fronte di attacco che si fa ogni giorno più importante.

“Ci troviamo di fronte ad un disegno dissennato che non rifugge dall’uso di mezzi e tattiche nei confronti delle quali uno Stato che, proprio per essere democratico, non dispone e non può disporre di mezzi di controllo preventivo totale della vita sociale si trova largamente disarmato…”. Questo lamento di Cossiga non ci deve trarre in inganno, infatti, gli esperti della Trilateral gli suggeriscono che “ci sono dei limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica e questi limiti – aggiungono – sono la condizione di una lunga vita delle democrazie occidentali.” Il problema sul terreno politico è dunque risolto! Si tratta di fissare questi “limiti” e le applicazioni dell’informatica faranno il resto.

Nello Stato imperialista la tendenza è quella di massimizzare i controlli sociali su tutta la popolazione e in particolare impiantare all’interno di ogni istituzione fondamentale speciali sezioni di spionaggio. L’uso dei sistemi informatici, di reti di calcolatori, consente l’attuazione pratica di questo progetto. Per loro tramite il controllo globale dei nemici interni potrà raggiungere livelli mai guadagnati nelle precedenti dittature. E nello stesso tempo l’area dei “nemici interni” tenderà a dilatarsi fino a coincidere con l’intera popolazione. Insomma lo Stato imperialista sta preparando per tutti un regime di libertà vigilata! Già oggi, del resto, varie reti di schedatura catturano in varia misura informazioni su tutti noi. Ricordiamo qui solo le principali:

– Controllo e spionaggio preventivo della forza-lavoro nei centri di produzione e nel terziario attuato da polizia di fabbrica e agenzie private. La centralizzazione dell’informazione viene poi effettuata dalle organizzazioni sindacali e padronali (Confindustria, Intersind) ed eventualmente dai servizi di sicurezza dello Stato; si ricorda a tal proposito “l’edificante” vicenda dello spionaggio Fiat.

– Servizi di informazione sicurezza militare (Sismi). La legittimazione della schedatura globale e preventiva del settore militare è stata così motivata dal solito Andreotti: “La schedatura è una brutta parola che non bisognerebbe usare. Ma facciamo un esempio. Se ci fosse un autonomo o comunque una persona nota per aver fabbricato e detenuto bottiglie molotov non sarebbe proprio il caso di metterlo a guardia di una polveriera…” Così per non correre rischi è meglio controllare tutti!

– Schedature dei gruppi rivoluzionari, delle avanguardie politiche e sindacali, dei partiti politici con particolare riguardo a quelli genericamente di sinistra, degli organismi di base, effettuata dalla divisione per le investigazioni generali, dalla polizia giudiziaria, dal Sisde, ed in particolare dai “corpi speciali antiguerriglia”. Il solo “cervello” del ministero degli Interni memorizza dieci milioni di schede.

– Schedature di tutti i carcerati e di ogni rapporto sociale che ognuno di essi intrattiene. Il ministero di GeG dispone di quattro memorizzatori centrali: due Univac (Corte di Cassazione e schedatura dei dipendenti del ministero), un Honeywell (casellario giudiziario); un Ibm (schedatura dei detenuti).

– Schedatura politica di tutti gli studenti e loro organismi, diretta e centralizzata dal ministero degli Interni attraverso l’ufficio attività assistenziali italiane.

– Schedatura del personale degli impianti strategici civili (ad esempio il personale delle centrali nucleari) e controllo della popolazione di tutta l’area circostante.

E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Non dobbiamo sottovalutare l’applicazione dell’informatica alla repressione della lotta di classe perché essa porta con sé, insieme all’efficienza dei calcolatori, l’ideologia che ci sta dentro ed il personale tecnico-militare che li fa funzionare. Il sistema informativo della polizia Usa si chiama Ibm. E così l’Ibm pubblicizzava questa sua realizzazione: “… Le conoscenze che abbiamo acquisito sull’uso delle informazioni, e che ci permettono di seguire i battiti di un cuore sulla luna sono adesso messe a profitto dalla polizia per far rispettare le leggi”. I sistemi informatici sono monopolio delle multinazionali americane perché oltre a garantire il dominio Usa sull’economia mondiale (il settore elettronico è il settore strategico del capitalismo avanzato), garantiscono la esportazione dei suoi modelli di controllo, di un “modo di far polizia”, ed esportano perciò anche i livelli di repressione più alti maturati nell’anello più forte dell’imperialismo. Infatti l’esportazione di questi “sistemi” non è solo l’esportazione di tecnologia avanzata, ma anche di un “rapporto di produzione” di una precisa “ideologia”. È la schedatura americana che si impone nelle strutture di controllo di tutti gli Stati della catena imperialista. E, proprio per questo è anche la formazione di uno strato di tecnici-poliziotti che dirigono il processo di spionaggio preventivo e totale della popolazione. Una volta c’era la “spia”. Oggi, certo, questo triste mestiere svolge ancora una propria specifica funzione, ma l’organizzazione multipla dei controlli attraverso i “sistemi informatici” estesi in tutti i settori della vita sociale, rappresenta un nemico ancora più insidioso. Queste sono le informazioni su ciascuno di noi, su ciascun militante in generale, che lo Stato imperialista immagazzina, centralizza, e può dunque sfruttare in permanenza per rafforzare il suo dominio? È necessario approfondire la nostra conoscenza dei “modelli antiguerriglia” rispetto ai quali viene organizzata la raccolta delle informazioni, dei “sistemi” impiegati e delle “reti di calcolatori” che essi collegano. È indispensabile conoscere il personale tecnico-militare che dirige e fa funzionare questo specifico settore della guerra. È importante attaccare queste reti di controllo, far saltare le sue maglie, disarticolare questi apparati e ciò a partire dal personale tecnico-militare che li dirige, li istruisce e li fa funzionare contro il proletariato.

 

  1. C) Integrazione delle strutture giudiziarie come braccio dell’esecutivo

La riorganizzazione della Magistratura italiana ha come presupposto fondamentale la riforma del codice di procedura penale. Questa è stata decisa in una riunione congiunta dei ministri della giustizia dei paesi aderenti alla Cee ed ha la funzione di unificare il sistema giuridico italiano con le norme in vigore nei paesi europei ed in particolare con il sistema anglosassone. Nel processo di eliminazione dei residui “liberali” che oggi si configurano come punti deboli delle istituzioni dello Stato, si realizza una ridefinizione dei rapporti tra esecutivo e giudiziario funzionalizzata alla costruzione di un fronte efficiente e privo di variabili contro la guerra di classe rivoluzionaria. L’esecutivo tende ad assumere la forma di “comitato della crisi” per la guerra interna. Questo processo implica il suo diretto controllo su ciascuno degli apparati di coercizione. In questo quadro si comprende come l’Esecutivo intervenga con attacchi organici contro ogni “tendenza autonomista” e non controllabile della magistratura e che perciò si configura come un ostacolo alla sua iniziativa controrivoluzionaria. Il processo qui accennato comporta una ristrutturazione dell’apparato giudiziario che comunque non è privo di contraddizioni.

Il dato più importante è la riorganizzazione verticale dei massimi organi giudiziari attuata con forza dall’Esecutivo attraverso il ministero di GeG. Il senso di questa operazione è quello di dare alla magistratura un assetto organizzativo tale che faciliti il controllo dall’alto, nonché una struttura gerarchica funzionale alla subordinazione dei settori periferici alle direttive del centro. Piegata quindi ogni velleità “autonomista”, la magistratura si presenta come un apparato in cui la volontà dell’Esecutivo si afferma dal centro alle articolazioni per mezzo di alcuni organi dirigenti e strettamente legati tra loro e immediatamente subordinati allo “Stato Maggiore della crisi”.

Il principale di questi organi è il Consiglio Superiore della Magistratura opportunamente riformato tempo addietro con l’inserimento a fianco dei magistrati che lo compongono di un gruppo di “esperti” legati ai maggiori partiti. Esso si caratterizza per la sua funzione determinante nel sistema istituzionale. Per la sua struttura il Csm svolge un ruolo di trasmissione della volontà dell’Esecutivo, è il principale organo di controllo tra Esecutivo e giudiziario. Inoltre la sua qualificazione tecnica ne fa un efficiente strumento di consultazione e di coordinamento per la ristrutturazione della organizzazione giudiziaria e dell’ordinamento giuridico.

Fa testo in questo senso l’intervento del Csm in occasione del processo di Torino dopo l’azione Croce. Il massimo organo della Magistratura assume l’iniziativa della sospensione dei termini di carcerazione preventiva; il governo apparentemente si muove in un secondo tempo ratificando con decreto legge la decisione dei giudici. Formalmente è l’esaltazione dello Stato di diritto ma in realtà, è la massima espressione di dipendenza dalle direttive dell’Esecutivo. Ai primi di maggio Bonifacio propone per la prima volta una serie di incontri tra rappresentanti del governo, Csm e capi degli uffici giudiziari. Obbiettivo: un’indagine con fini operativi sullo stato della Magistratura. A luglio si tiene perfino un convegno sullo stesso argomento in cui il ministro Bonifacio convoca oltre ai membri del Csm altri grossi funzionari dell’amministrazione giudiziaria. È chiaro il fine di questi incontri, a parte il confronto tra le diverse posizioni, è essenzialmente l’affermazione della linea stabilita dal governo. Lo spazio di “autonomia residua” concesso alla magistratura è limitato alle modalità di applicazione di queste direttive: inoltre il Csm si configura come garante della corrispondenza tra l’assetto interno della magistratura e gli obbiettivi contingenti della politica dell’Esecutivo. Si tratta non solo, del controllo sul corretto funzionamento e l’applicazione delle direttive, ma anche del mantenimento dello “status quo” all’interno dell’amministrazione e quindi della ratifica dei provvedimenti disciplinari, ecc.

Per questo il Csm è anche l’organo materiale attraverso cui si realizza il comando dell’Esecutivo sulle strutture giudiziarie. A conferma di ciò è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta dall’Esecutivo. Ancora più pesante è l’iniziativa del vice presidente del Csm Bachelet che su direttiva di Bonifacio e del governo incarica i procuratori generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a “Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine democratico. Infine come ultimo e clamoroso esempio attraverso cui questo disegno prende corpo e si palesa in tutte le sue implicazioni, val la pena qui mettere bene in evidenza la “ragion di Stato” che ha indotto il Csm a decretare, per bocca dei suoi diretti collaboratori, l’assoluzione in favore dei fascisti di On a Roma ed ai loro degni camerati, Servello in testa, a Milano. È evidente come queste assoluzioni siano state “suggerite” al Csm dall’Esecutivo quale contropartita per i servizi resi dai fascisti in altri tempi e in cambio di quelli che ancora dovranno rendere allo Stato imperialista nella loro qualità di forze di completamento, strumenti di controguerriglia psicologica (con Occorsio infatti si tendeva propriamente a gettare lo scompiglio e la confusione nella sinistra rivoluzionaria e fare da contraltare all’azione Coco), sino a rivestire il ruolo di squadre della morte alle dipendenze dei servizi segreti. Emerge quindi chiaramente il legame organico che nel caso specifico unisce Magistratura ed Esecutivo, questo è il dato saliente, ostinarsi a credere nella presunta “autonomia” della Magistratura equivale a porsi su di un piano puramente idealistico, quindi al di fuori di qualsiasi interpretazione della realtà presente. Questo conferma inequivocabilmente una integrazione ed una subordinazione funzionale al progetto politico di cui l’Esecutivo è portavoce.

Naturalmente anche questo processo non è assente da contraddizioni, ma non si tratta, come affermano le correnti democratiche in seno alla Magistratura di una generica contraddizione tra “reazionari” e “progressisti”. Questi ultimi vorrebbero che il Parlamento e le forze politiche che in esso sono rappresentate esercitasse un controllo democratico sulla attività della Magistratura, mentre viceversa i reazionari sostengono la linea dei “corpi separati”. In realtà entrambe queste linee sono perdenti rispetto a quella che identifica il proprio ruolo all’interno della linea di “integrazione delle strutture giudiziarie come braccio dell’Esecutivo”. Questa è attualmente la forza egemone, perno centrale della Magistratura, quali ad esempio: procuratori generali di Corte d’Appello, Capi degli Uffici istruzione.

Parallelamente alla riorganizzazione verticale dei massimi organi giudiziari si afferma la tendenza alla “specializzazione” dei magistrati in particolari settori dell’attività giudiziaria. Questo processo si manifesta nella formazione di nuclei e uffici speciali di magistrati addetti ai procedimenti relativi a reati particolari: “terrorismo”, sequestri di persone… Connessa e complementare a questa è l’iniziativa di concentrare i processi per “terrorismo”, “eversione” e sequestri, nei Tribunali delle città capoluogo di distretto di Corte d’Appello, iniziativa che – per quanto ci riguarda – porta diritto ai tribunali speciali.

Si realizza qui la completa subordinazione ed integrazione del giudice alle direttive delle forze antiguerriglia e inoltre il massimo controllo dell’Esecutivo sulla conduzione e lo sviluppo di indagini che investono le forze che praticano la guerra di classe rivoluzionaria.

 

  1. D) Ristrutturazione del carcerario

Le strutture dei Campi di Concentramento e la riorganizzazione dell’ordinamento carcerario sono parte integrante del disegno di ristrutturazione imperialista dello Stato, non si tratta solo di “adeguamento” degli apparati di dominio controrivoluzionario ad una fase diversa, superiore, della guerra, ma di una condizione di una premessa indispensabile per il salto di qualità che caratterizza nel suo divenire lo Stato imperialista.

L’urgenza e la cura con cui l’esecutivo sta affrontando la questione carceraria dimostra il peso che la borghesia attribuisce a questo settore dello scontro di classe nella fase attuale. La controrivoluzione procede con lugubre metodicità. Essa è impegnata a “normalizzare” le condizioni di ordine all’interno delle carceri, a sbaragliare uno strato di classe attualmente debole e isolato: il proletariato prigioniero. Ma le prospettive sono ben altre. Come abbiamo visto il progetto imperialista si snoda intorno ad un asse principale: la costruzione e il potenziamento di organismi sovranazionali di direzione e controllo. A queste centrali, le potenti multinazionali e la borghesia imperialista che ne è l’espressione, affidano il compito di ristrutturare gli Stati nazionali sul filo di una controrivoluzione preventiva continentale. È in questo quadro generale che va compresa la sempre più stretta integrazione delle strutture militari di repressione e la loro specializzazione in magistratura antiguerriglia, corpi speciali antiguerriglia, carceri speciali e cioè campi di concentramento.

Asinara, Favignana, Fossombrone… si legano direttamente tanto sul piano dei contenuti politici che su quello degli obbiettivi militari, alle strutture di concentramento per i compagni della Raf in Germania ed a quelle per i militanti dell’Ira in Inghilterra. Tanto Stammheim che l’Asinara sono gli esempi verificabili di che cosa intendiamo per ristrutturazione imperialista del settore carcerario in funzione antiguerriglia. Qui come là è l’Esecutivo che si assume direttamente il compito di dirigere e coordinare, tramite una apposita commissione, ciò che in essi accade o che si vorrebbe accadesse.

Controrivoluzione preventiva continentale, campi di concentramento, sono il segno di un salto di qualità avvenuto nella lotta di classe, lo Stato imperialista è costretto a scendere sul terreno diretto della guerra nel confronto con il movimento di resistenza proletario. Si determina il passaggio ad una nuova fase in cui il rapporto tra le due parti resta unicamente definito dalle forme della guerra di classe.

“Le scelte di guerra, come i nuovi campi di concentramento, non sono solo la risposta repressiva ai singoli fenomeni eversivi che si verifica, ma una scelta irreversibile in quanto organica alla ristrutturazione imperialista, che oltre a neutralizzare i comunisti catturati li trasforma in ostaggi. È superfluo far notare che il trattamento riservato ai prigionieri di guerra, esplicitamente, non viene fatto discendere da motivi contingenti e provvisori, ma è la condizione permanente ed immutabile posta dal potere. Non è l’attività del singolo detenuto che conta, bensì la sua figura politica (o anche solo sociale per i “comuni” dato lo scarso grado di integrazione sociale esistente in Italia rispetto agli altri paesi) nella lotta che il proletariato conduce. Questa politica di guerra ha uno scopo unico: l’annientamento del prigioniero di guerra”. Dove l’aspetto dell’annientamento fisico è direttamente funzionale e subordinato all’obbiettivo della distruzione della sua identità politica e personale.

Su tutta l’area metropolitana il combattente antimperialista prigioniero è considerato un ostaggio nelle mani dello Stato che tende a sviluppare nei suoi confronti una duplice azione: da un lato un trattamento orientato alla progressiva distruzione della sua identità politica, volontà, personalità, attraverso l’isolamento individuale o per piccoli gruppi e una continua opera di destabilizzazione verso livelli di pura sopravvivenza; dall’altro, il suo utilizzo propagandistico in funzione deterrente verso le forze rivoluzionarie e proletarie. Su tutta l’area metropolitana a questo trattamento di guerra il movimento rivoluzionario è impegnato a rispondere con azioni di guerra.

È bene fare la massima chiarezza su questo punto. I campi non sono un bubbone in corpo sano, deviazioni delle “norme democratiche”, residui medioevali o casi “deprecabili” di ritardo nell’applicazione della riforma. I campi sono la punta avanzata della riforma. Sono l’altra faccia dei “carceri aperti” e materializzano il suo principio cardine: il trattamento differenziato” (2).

Si determinano, con la istituzione dei campi, nuove condizioni in cui la catena di trasmissione del potere collega direttamente il Campo ai vertici del Ministero di Grazia e Giustizia, degli Interni, della Difesa, le responsabilità politico-militari di ciò che in essi succedeva assegnata in primo luogo all’esecutivo. Questo processo è in pieno svolgimento e non è privo di contraddizioni, Esso infatti si svolge in un sistema istituzionale che contempla il potere legislativo e il potere giudiziario ancora formalmente autonomo e indipendente. La massima dimostrazione di forza dell’Esecutivo coincide quindi con l’evidenziarsi di contraddizioni. Progetto imperialista e strutture istituzionali entrano in conflitto, ed il primo tende a prevaricare ed adattare a sé le seconde. È da questa contraddizione che nasce una “opposizione democratica”. Un settore della borghesia, pur non essendo in antagonismo con gli obbiettivi strategici dell’imperialismo è costretto a lottare per la conservazione degli spazi di potere che occupa nella struttura istituzionale. L’atteggiamento di questa “opposizione democratica” nei confronti della lotta proletaria antimperialista ha un carattere duplice. Da una parte, in quanto componente del quadro imperialista, si fa essa stessa aperta controrivoluzione, non solo come organizzatrice del consenso a livello di massa, ma soprattutto come intermediaria per la mobilitazione del popolo in difesa dello Stato. Dall’altra essa punta al controllo della “spinta a gestire l’opposizione” dopo averla epurata delle componenti “eversive”. E ciò per rafforzare il proprio peso nello scontro politico di potere con gli altri settori della borghesia.

Stante queste condizioni oggettive vi è anche la possibilità di uno scontro tra le componenti della borghesia; la precarietà del quadro politico fondato sull’accordo di maggioranza parlamentare (appena nato e già in crisi) ne fa testo. In pratica però queste contraddizioni possono evolversi solo in conseguenza dell’iniziativa delle forze rivoluzionarie. La lotta di classe costringe le forze politiche a prendere posizione. Nel caso delle “carceri speciali”, una ripresa dell’iniziativa proletaria avrà una duplice conseguenza: disarticolare, con il progetto dei Campi, una punta avanzata della controrivoluzione; approfondire le contraddizioni dello stesso progetto di ristrutturazione dello Stato imperialista che rendono possibile lo sviluppo di uno scontro di potere all’interno del blocco dominante.

Il tentativo di fuga da Favignana ha dimostrato non solo la debolezza politica di questo progetto, ma anche tutta una serie di contraddizioni strutturali che vanno sottolineate. In primo luogo lo scontro latente tra l’organizzazione dei “servizi di sicurezza esterni” – reparti speciali dei CC diretti dal Gen. Dalla Chiesa – e le strutture dell’amministrazione penitenziaria che fanno capo al ministero di GeG. Una contraddizione che ha origine nella struttura istituzionale cioè nella divisione dei compiti e di potere stabilita per tradizione dagli apparati di comando dello Stato.

La creazione di organismi per il coordinamento per la riorganizzazione del settore carcerario, come la Commissione presieduta da Buondonno e Dalla Chiesa (della quale faceva parte il giudice Palma giustiziato dalla nostra Organizzazione), se rappresenta il segno della volontà dell’Esecutivo di superare questi limiti, cioè la tendenza a superare il particolarismo determinato dagli interessi “locali” in funzione di un interesse superiore e generale (quello della difesa dello Stato imperialista), deve fare comunque i conti con questa realtà. Dopo sei mesi di sforzi il ministro non è riuscito ancora a fare di Favignana un “carcere speciale”, e questo perché, prima la direzione e poi le guardie hanno ostacolato e anche sabotato questo progetto. A Nuoro, le guardie hanno minacciato di abbandonare il servizio contro la proposta di istituire un “carcere speciale”. A Trani, durante il sequestro di alcune guardie da parte di detenuti c’è stato uno scontro fisico durissimo tra i CC che pretendevano di entrare con la forza a liberare gli ostaggi e i colleghi dei sequestrati che hanno imposto una soluzione “pacifica”.

Lo stesso tipo di contraddizioni si manifesta negli alti vertici delle gerarchie, come quando contro la nomina di Dalla Chiesa a coordinatore della sicurezza interna-esterna delle carceri si sono schierati l’Ispettore Generale delle carceri Altavista che ha protestato per “la interferenza dei CC nella amministrazione penitenziaria” e addirittura il fu comandante dell’Arma Gen. Mino che si è sentito “scavalcato nelle sue competenze dalle decisioni del governo”. La struttura di comando “parallela” che affianca i direttori delle carceri speciali e che dipende direttamente dagli organi militari dell’esecutivo è stata istituita proprio perché risponde alle esigenze di realizzare un controllo diretto sul trattamento dei prigionieri che parta dal centro, e quindi di sottrarre competenze e potere agli organi locali. In altre parole per contrastare le tendenze particolaristiche (corporative) che a tutti i livelli ostacolano il piano imperialista.

 

  1. E) La mobilitazione reazionaria delle masse attraverso i mass-media

“L’operaio dovrebbe sempre sapere che il giornale borghese (qualunque sia la tinta), è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce in un fatto: combattere la classe lavoratrice”. Così scriveva Gramsci sull’Avanti nel 1916.

La stampa della borghesia ha sempre avuto questa funzione, ma il salto di qualità sta nel fatto che ora la direzione politica reale degli organi di informazione, è stata centralizzata e assunta in prima persona dall’Esecutivo dello Stato imperialista. La Rai, i principali quotidiani e settimanali, sono diventati delle vere e proprie succursali dell’ufficio stampa del Ministero dell’Interno, e i giornalisti, che gestiscono le veline governative che ispirano l’azione controrivoluzionaria, sono veri e propri agenti distaccati di questo Ministero. Il controllo totale sulla stampa non va comunque scambiato con la censura, che di questo è solo un aspetto. Quello assegnato agli organi di stampa è un ruolo attivo, organico e funzionale alla strategia delle multinazionali, è una parte integrante della ristrutturazione dello Stato. Villy Brandt spiega così la funzione dei mass-media dello Stato imperialista: “Immunizzare la società contro la rivoluzione tramite una tranquilla e decisa affermazione della situazione normale”. E precisa: “Il nichilismo criminale può essere combattuto con maggiore efficacia se la paura non diventa oggetto di calcolo politico e giornalistico”. È lo stesso punto di vista esposto da Andreotti. Quest’ultimo infatti ha dichiarato che: “I giornalisti possono aiutarci con successo nel rasserenare gli animi”.

La tesi è molto esplicita: militarizzare i mezzi di comunicazione di massa e i loro tecnici, intruppandoli come funzionari della guerra psicologica sotto la direzione dell’Esecutivo. Agghiacciante ma perfettamente in linea con le direttive della Trilateral Commission. Secondo i cervelli dell’imperialismo infatti la “libertà di stampa” va bene, ma solo in dosi modeste. Essendo possibili “gli abusi” si impone allo Stato la esigenza di: “assicurarsi il diritto e la possibilità di negare le informazioni all’origine;… regolamentare i valori professionali dei giornalisti e, …in casi eccezionali anche procedere alle restrizioni preventive ritenute necessarie”.

Nello Stato imperialista, in cui la famiglia e la scuola perdono a ritmo accelerato gran parte delle loro funzioni integrative tradizionali, i mezzi di comunicazione di massa sono apertamente utilizzati come strumenti fondamentali di socializzazione delle masse (e cioè di trasmissione di “valori, modelli di comportamento di base…”). Per questo la questione del loro controllo è di così fondamentale importanza.

La funzione formativa (formativa del consenso alla politica dell’Esecutivo) tende a subordinare tutte le altre, e la “funzione informativa” si riduce alla costruzione capitolo dopo capitolo, della favoletta da somministrare come una pillola tranquillante alle masse espropriate di ogni controllo e di ogni alternativa.

La liquidazione rassicurante attraverso i mass-media dei comportamenti di classe antagonistici e, indirettamente, delle forze di classe che per loro tramite manifestano i propri bisogni, è la premessa necessaria alla loro liquidazione violenta mediante l’azione dei “corpi speciali” La funzione politica dei mass-media è dunque quella di costruire una mobilitazione permanente in senso reazionario delle masse; di fabbricare l’identificazione di ampi strati proletari con i provvedimenti più repressivi che lo Stato si incarica di attuare; di organizzare il consenso sulla liquidazione, anche fisica, dei nemici interni. Nelle moderne redazioni dei grandi giornali, in cui ogni giorno si scompone e ricompone lo scontro di classe secondo i fini di dominio della borghesia imperialista, siedono i nuovi tecnici della controguerriglia, gli specialisti della guerra psicologica, i funzionari della violenza controrivoluzionaria che spianano il terreno ai killer dei corpi speciali. Sono i fabbricatori di mostri che precedono nella guerra moderna gli annientatori dei militanti rivoluzionari. È in queste redazioni che le cosiddette strategie del low profil (profilo basso), ossia di interventi indiretti contro i movimenti proletari, prendono corpo e si concretizzano in operazioni psicologiche che si propongono di influenzare gli atteggiamenti del proletariato, conquistare “i cuori e le coscienze”, screditare la guerriglia, incoraggiare al suo interno divisioni, insinuare il sospetto, abbattere il morale.

 

Uscire dalla crisi

Il proletariato metropolitano non ha alternative. Per uscire dalla crisi deve porsi e risolvere la questione centrale del potere. Solo distruggendo lo Stato imperialista, instaurando il suo potere la dittatura del proletariato, è possibile staccare “l’anello Italia” dalla catena imperialista, solo rifiutando il posto che ci assegna la divisione imperialistica del lavoro si possono valorizzare a pieno le forze produttive presenti nella nostra area. Uscire dalla crisi vuol dire comunismo! Vuol dire: ricomposizione del lavoro manuale e intellettuale; organizzazione della produzione in funzione dei bisogni del popolo, del “valore d’uso”, e non più del “valore di scambio”, vale a dire dei profitti di un pugno di capitalisti e di multinazionali. Tutto questo oggi è storicamente possibile. Necessario e possibile! È possibile utilizzare l’enorme sviluppo raggiunto dalle forze produttive per liberare finalmente l’uomo dallo sfruttamento bestiale, dal lavoro necessario, dalla miseria, dalla fatica, dalla degradazione sociale in cui lo inchioda l’imperialismo. È possibile stravolgere la crisi imperialista in rottura rivoluzionaria e quest’ultima in punto di partenza di una nuova società che costruisce ed è costruita da uomini sociali, mettendo al suo centro l’espansione e la soddisfazione crescente dei molteplici bisogni di ciascuno e di tutti.

“Solo l’enorme incremento delle forze produttive raggiunto mediante la grande industria permette di distribuire il lavoro fra tutti i membri della società senza eccezioni e perciò di limitare il tempo di lavoro di ciascuno in tale misura che per tutti rimanga un tempo libero sufficiente per partecipare sia teoricamente che praticamente agli affari generali della società. Quindi solo oggi ogni classe dominante e sfruttatrice è diventata superflua anzi è diventata un ostacolo allo sviluppo della società e solo ora essa sarà anche inesorabilmente eliminata per quanto possa essere in possesso della violenza immediata” (Engels).

L’imperialismo delle multinazionali è l’imperialismo che sta percorrendo fino in fondo, ormai senza illusioni la fase storica del suo declino, della sua putrefazione. Non ha più nulla da proporre, da offrire, neppure in termini di ideologia. La mobilitazione reazionaria delle masse in difesa di se stesso che sta alla base della sua affannosa ricerca di consenso non può appoggiarsi in questa fase su alcuna base economica. La controrivoluzione preventiva come soluzione, per ristabilire “la governabilità delle democrazie occidentali”, si smaschera ora come fine in sé. La forza è la sua unica ragione. Siamo di fronte non solo alla rappresentazione esplicita della sconfitta storica dell’imperialismo come modo di produzione capace di espansione infinita progressiva, continua, ma anche alla sostituzione conseguente delle ragioni della forza alle debolezze della sua ragione storica. L’esaurirsi delle sue capacità di sviluppare ancora le forze produttive è un processo irreversibile.

Nessuno sforzo controrivoluzionario per quanto feroce e violento potrà riuscire a bloccarlo, e ciò vuol dire anche che nessuna controrivoluzione, per quanto feroce e violenta, potrà riuscire a vincere in queste condizioni storiche. Dire che l’imperialismo è sulla difensiva non significa dire che è senza unghie, né che il suo rovesciamento avverrà in modo rapido e semplice. Nel momento del suo declino è estremamente crudele e userà ogni arma a sua disposizione per ingannare, dividere, affamare, torturare e assassinare, coloro che lo attaccano. Ma il suo definitivo rovesciamento è inevitabile.

Non è solo a causa delle sue contraddizioni interne che l’imperialismo non trova più le energie e le condizioni per la propria riproduzione e per il proprio sviluppo, ma queste contraddizioni vengono progressivamente esaltate e approfondite dall’impegno su un numero crescente di fronti, tanto ai suoi confini quanto nelle sue metropoli, dalla guerra di liberazione dei popoli e dalla guerra di classe rivoluzionaria del proletariato. È questa guerra che gli impedisce di evolvere in forme diverse da quelle proprie e specifiche della controrivoluzione in ciascun paese; ed è questa controrivoluzione che consente alle forze rivoluzionarie di rafforzarsi, crescere ed infine vincere. La borghesia si affermò perché era espressione di un reale processo di crescita delle forze produttive; la borghesia imperialista perderà perché per affermare se stessa è obbligata a soffocare questa crescita. Una necessità irresistibile rende irresistibile il processo di rivoluzione sociale che stiamo vivendo e tra tutte le forze produttive, noi, l’avanguardia organizzata del proletariato metropolitano, siamo la principale.

 

Fase e congiuntura

Riconoscere l’esistenza oggettiva delle contraddizioni di classe e più precisamente individuare quale tra esse è per noi, in questa fase, principale e quali invece sono oggettivamente secondarie, è un presupposto necessario dell’azione rivoluzionaria. Non si ha lotta rivoluzionaria se non si affronta e combatte il nemico principale. Abbiamo fin qui sostenuto che, in questa fase storica la contraddizione di classe principale è quella che oppone al proletariato metropolitano la borghesia imperialista e che, dunque, quest’ultima è rispetto ad esso e alle sue avanguardie politico-militari il principale nemico da abbattere. Abbiamo visto anche che lo Stato imperialista è una sintesi delle forme molteplici che assume l’iniziativa storica della borghesia imperialista, un concentrato esclusivo dei suoi bisogni, e lo strumento essenziale del suo dominio in tutti i campi.

Dire che in questa fase la borghesia imperialista è il nemico principale, se ci consente di individuare le linee strategiche del nostro movimento, ancora non è però sufficiente per determinare una giusta tattica. Tattica e strategia sono aspetti complementari e necessari alla nostra azione. La guerra di classe nel suo movimento reale fa emergere ad ogni momento determinato l’aspetto principale della controrivoluzione imperialista, ed è questo che chiamiamo congiuntura. La congiuntura non è determinata soggettivamente e univocamente dalle avanguardie armate e crederlo è fonte di astrattezza nell’individuazione della linea di combattimento. La congiuntura è, come la fase, un dato oggettivo dello scontro di classe che le forze rivoluzionarie contribuiscono a determinare essendone a loro volta determinate. Senza una corretta valutazione della congiuntura non vi può essere  perciò una corretta individuazione della tattica, e senza una tattica adeguata nessun avanzamento reale risulta effettivamente possibile. Quali sono gli elementi che è necessario valutare per comprendere la congiuntura e dunque per elaborare una tattica adeguata. Sono tre:

  1. a) il terreno dominante sul quale si muove l’iniziativa controrivoluzionaria della borghesia imperialista;
  2. b) la condizioni particolari e specifiche che caratterizzano il movimento di resistenza offensivo e più in generale gli strati proletari più combattivi;
  3. c) lo stato reale del partito o comunque dell’avanguardia armata.

 

L’attuale congiuntura,passaggio dalla pace armata alla guerra

La congiuntura attuale è caratterizzata dal passaggio dalla fase della “pace armata” a quella della guerra. Questo passaggio viene manifestandosi come un processo estremamente contraddittorio, che contemporaneamente si identifica con la ristrutturazione dello Stato in Stato imperialista delle multinazionali. Si tratta quindi di una congiuntura estremamente importante la cui durata e specificità dipendono dal rapporto che si stabilisce tra rivoluzione e controrivoluzione: non è comunque un processo pacifico, ma nel suo divenire, assume progressivamente la forma della guerra.

Il principio tattico della guerriglia in questa congiuntura è la disarticolazione delle forze del nemico. Disarticolare le forze del nemico significa portare un attacco il cui obbiettivo principale è ancora quello di propagandare la lotta armata e la sua necessità, ma in esso già comincia ad operare anche il principio tattico proprio della fase successiva, la distruzione delle forze del nemico: questo attacco deve propagandare la linea politica dell’avanguardia politico-militare e contemporaneamente disarticolare la nuova forma che lo Stato imperialista va assumendo, deve cioè tendere anche ad inceppare, creare disfunzioni nell’apparato di guerra che la controrivoluzione va approntando. Scopo immediato di questi attacchi è:

  1. a) mettere sistematicamente a nudo il fatto che il governo (Esecutivo) è nello stesso tempo uno strumento di repressione interna e una determinazione nazionale degli interessi dell’imperialismo dominante con in testa gli Usa e la Rft. Obbiettivo questo che potrà essere conseguito sviluppando l’iniziativa su tre fronti:

1 – contro la Dc che dal dopoguerra in poi rappresenta nel nostro paese gli interessi tattici e strategici dell’imperialismo dominante e delle multinazionali;

2 – contro il personale politico imperialista che manovra le strutture centrali dello Stato, strutture che si snodano a partire dai ministeri attraverso un corpo ben distinto di istituzioni economiche, giudiziarie, carcerarie, militari, in tutto il paese;

3 – contro il personale politico imperialista che manovra i “centri vitali” del potere direttamente o indirettamente collegati all’Esecutivo ma formalmente autonomi (dalla Confindustria alle gerarchie di fabbrica, Fondazioni, mass-media);

4 – contro il personale politico imperialista che manovra le filiali locali degli organismi sovranazionali (Trilateral C, Cee, Nato) e che perciò funziona da tramite materiale della catena di trasmissione del potere.

  1. b) Accumulare su questo attacco un vasto e articolato potenziale rivoluzionario consolidandolo nella mobilitazione permanente contro lo Stato imperialista e l’Esecutivo che ne è il cervello e il motore. Da come si risolve lo scontro in questa fase dipendono in larga misura i tempi della guerra ed in ultima analisi anche il suo esito. La disarticolazione delle forze del nemico è quindi l’ultimo periodo della fase della banda armata e introduce progressivamente in quella della guerra civile rivoluzionaria.

Disarticolazione politica e militare delle forze del nemico devono procedere di pari passo, e dal lato delle forze rivoluzionarie questo processo corrisponde attualmente alla costruzione del Partito Comunista Combattente nel movimento di resistenza proletaria, per sviluppare la guerra di classe di lunga durata per la conquista del potere.

 

Sulle forme dell’azione di guerriglia nell’attuale congiuntura

Ogni fenomeno nel suo divenire si trasforma. Questa trasformazione non è solo “quantitativa”, ma investe anche la sua “qualità”: Questa è una legge generale del materialismo dialettico e perciò vale anche per la guerriglia e le sue forme di combattimento:

1) All’inizio e per forza di cose, operavamo per piccoli nuclei e abbiamo praticato piccole azioni.

2) Poi, crescendo la forza e il radicamento della guerriglia, siamo passati ad azioni più complesse che impegnano contemporaneamente ma sempre in piccole azioni, più nuclei.

3) Oltre ancora la guerriglia si è mossa per campagne e cioè contemporaneamente in più poli sulla stessa linea di combattimento. Questa è una direttrice di crescita della guerriglia. Una seconda direttrice di crescita è stata quella del passaggio da “azioni rapide” (mordi e fuggi) ad “azioni prolungate” (Amerio, Sossi, Costa) ciò ci ha consentito di svolgere una propaganda armata più incisiva e di dimostrare al movimento di resistenza i livelli raggiunti dalla guerriglia nell’organizzazione del potere proletario. Ci ha consentito inoltre di ampliare e moltiplicare le contraddizioni all’interno dello Stato. Una terza direttrice infine è stata quella del rapido concentramento di forze numerose per attaccare il nemico in piccole battaglie (Casale, Coco).

Abbiamo riassunto queste tre direttrici di crescita dell’azione guerrigliera perché sono quelle che fanno emergere con maggiore intensità i contenuti fondamentali della guerriglia. La forza reale della guerriglia dimostra non solo “alzando il tiro” ma soprattutto impostando campagne sempre più articolate (che investono un numero crescente di poli); impegnando il nemico in azioni prolungate che esaltino ed esasperino tutte le sue contraddizioni interne, attaccando le forze nemiche di sorpresa in battaglie via via più consistenti che forniscano alle masse proletarie il margine reale della crescita della forza guerrigliera.

Inoltre la ristrutturazione dello Stato Imperialista delle Multinazionali si caratterizza per la sua estrema militarizzazione e per la concentrazione di forza militare a difesa dei suoi organismi vitali, del proprio personale di direzione, delle sue strutture fondamentali, ecc. Sviluppare l’iniziativa rivoluzionaria per disarticolare politicamente e militarmente questo apparato, comporta l’adozione di nuove tecniche di combattimento che prefigurino e facciano vivere sin da oggi l’aspetto fondamentale della guerra civile dispiegata: l’annientamento delle forze imperialiste. Questo non significa che non esistono più mediazioni adottabili, ma che esse vanno viste in rapporto dialettico con la necessità di incidere “militarmente” per poter incidere “politicamente”.

Compito dell’organizzazione guerrigliera è di passare dalle azioni cosiddette “dimostrative” a quelle che danno al combattimento un inequivocabile significato “distruttivo” della forza nemica. Nessun obbiettivo deve essere difendibile, dai gorilla e dai mercenari del regime, nessun bunker nel quale gli agenti della controrivoluzione si nascondono deve potersi dire “sicuro”. Le tecniche della guerriglia consentono questo, dobbiamo farle nostre ed addestrarci ai nuovi livelli di combattimento che la guerra di classe ci impone.

 

Proletariato Metropolitano e Movimento di Resistenza Proletario Offensivo

Negli ultimi anni e in modo particolare in quello appena trascorso i comportamenti antagonistici della classe si sono radicalizzati ed estesi in misura tale che non ci appare affatto improprio parlare di guerra civile strisciante. Stando ai dati ufficiali, solo nel ’77 sono state compiute oltre duemila azioni offensive e nel solo mese di gennaio ’78 oltre trecentocinquanta. Il tutto distribuito su cinquanta province e un centinaio di città. Chiamiamo Movimento di Resistenza Proletario Offensivo (Mrpo) l’area dei comportamenti di classe antagonistici suscitati dall’inasprimento della crisi economica e politica, chiamiamo Mrpo l’area delle forze, dei gruppi e dei nuclei rivoluzionari che danno un contenuto politico militare alle loro iniziative di lotta anticapitalistica, antimperialista, antirevisionista e per il comunismo. È chiaro che il concetto di Mrpo non riflette un movimento piatto, omogeneo, ma piuttosto un’area di lotta e di “movimenti parziali” molto differenziati e però legati da un comune denominatore: il processo di crisi-ristrutturazione trainato dalla borghesia imperialista. Essendo suscitato da potenti cause economiche e politiche esso cresce e si espande a dispetto di chi lo vorrebbe imbrigliare negli argini di “nuclei combattenti” (oltre cento negli ultimi mesi) esso in realtà è un movimento unitario solidale e duraturo. A questo punto riteniamo sia utile soffermarci brevemente sull’analisi della nuova composizione di classe che, in seguito al processo di crisi-ristrutturazione si è venuta producendo sulla base strutturale, dando origine ad una realtà estremamente composita e variegata nelle sue determinazioni di classe che va sotto il nome di Proletariato Metropolitano (Pm).

Occorre quindi definire organicamente le figure sociali che connotano la soggettività di cui il Mrpo è direttamente espressione tenendo sempre che solo il proletariato – sulla base della sua oggettiva collocazione di classe – è il fattore che introduce nella storia un interesse concreto al rifiuto della proprietà privata dei mezzi di produzione, ponendo in tal modo le premesse per la distruzione del capitalismo e l’instaurazione della sua dittatura. L’insieme degli strati sociali che – in quanto separati o via via esclusi da qualsiasi forma di proprietà – gravitano all’interno del proletariato metropolitano, esprimono ciascuno dei movimenti parziali i quali pur agendo su un piano di autonomia politica relativa, sono però determinati nel loro movimento e nella loro possibilità storica di liberazione da quello che fra tutti rappresenta la forza strategica: la classe operaia. È questo il baricentro, a partire dal quale può sin d’ora, costruirsi l’unità dei vari movimenti parziali, unità che non si dà per aggregazione spontanea dei medesimi ma attraverso il loro allineamento sulla prassi di lotta sviluppata dalla classe operaia. L’unificazione del Mrpo è un processo mediante il quale si realizza la sintesi dialettica degli interessi dei vari movimenti parziali attorno a quelli immediatamente antagonisti della loro componente strategica, e questo processo che non è spontaneo può essere organizzato solamente da un Partito d’avanguardia che assolva ad una funzione d’avanguardia. La classe operaia resta quindi il centro motore del processo rivoluzionario nonché la sua direzione politica, seppure all’interno di essa siano venute producendosi profonde modificazioni che non ne fanno più una realtà omogenea e che pertanto sarà bene esaminare.

 

Classe operaia

Va considerato qui separatamente il contingente dei salariati delle grandi fabbriche urbane e delle piccole e medie industrie.

– Classe operaia delle grandi fabbriche urbane.

Può suddividersi in tre strati:

  1. a) Operaio massa: è quello cioè che lavora alla catena e nei reparti ad alto quoziente di nocività, sottoposto ai ritmi più massacranti, è anche quello meno tutelato nei suoi interessi pur essendo il più produttivo, paga in tal modo lo scotto della sua combattività. Costituisce indubbiamente lo strato più rivoluzionario che ha contribuito e contribuisce in maggior misura allo sviluppo della lotta di classe in tutte le forme in cui si manifesta: legali ed illegali, dal gatto selvaggio al sabotaggio, dalla occupazione delle fabbriche alla dura punizione dei capi, dirigenti, fascisti, sino a diventare il nucleo centrale della lotta armata per il comunismo.
  2. b) Operaio professionale: si tratta per lo più di quei settori di aristocrazia operaia che compongono la figura del lavoro professionale, tuttavia l’introduzione di una tecnologia sempre più avanzata e la progressiva divisione del lavoro ne riducono i ranghi a percentuali poco significative. A voler essere più precisi si può addirittura affermare che l’operaio professionale in quanto tale non esiste più e che il termine, almeno nel contesto attuale, indica piuttosto l’operaio qualificato, che è cosa assai diversa dall’operaio professionale vero e proprio. Infatti se la professionalità sottintende una qualificazione adeguata (intesa come addestramento), la qualificazione per contro, non implica affatto la professionalità, trattandosi semmai di adeguamento delle qualità della forza-lavoro alla nuova composizione organica del capitale. Questo tipo di operaio gode di alcuni “privilegi” quali una relativa stabilità del posto di lavoro, un lavoro qualitativamente superiore, non ripetitivo, non stressante, con possibile autodeterminazione dei ritmi e una parziale autonomia di decisione nelle modalità di lavoro. Ciò fa in modo che sia particolarmente sensibile all’ideologia del lavoro sostenuta dai revisionisti e alla loro politica, costituendone perciò la base sociale; in seno al movimento operaio rappresenta pertanto una tendenza da abbattere, comunque ancora suscettibile – soprattutto con l’acuirsi della crisi – di essere recuperato, per lo meno in certe sue frange, all’iniziativa rivoluzionaria.
  3. c) Aristocrazia operaia: questa coincide con gli strati immediatamente superiori agli operai qualificati (quindi con quel che resta degli operai professionali) e con la burocrazia sindacale improduttiva. Questo segmento di classe, di fronte alle proporzioni che va assumendo lo scontro, viene prefigurandosi sempre più come strumento della controrivoluzione; costoro svolgono ormai apertamente una funzione di supporto alle scelte di politica economica della borghesia imperialista fornendo una base di legittimazione ed esercitando nel contempo un’azione di controllo e spionaggio dentro la fabbrica.

– Operai delle piccole e medie industrie

Sotto molti aspetti presentano delle analogie con l’operaio massa delle grandi fabbriche, ma differentemente da questo trovano maggiori difficoltà ad organizzarsi e a mobilitarsi in quanto più facilmente individuabili perché costretti a muoversi in strutture “compresse” e perciò più controllabili.

– Lavoratori produttivi all’interno della sfera della circolazione: si definiscono lavoratori produttivi all’interno della sfera della circolazione quella parte di essi che è produttiva e conservativa di valori (trasporti, riparazioni) all’interno di questo settore, anche certe sacche di privilegi tipo i portuali – per certi aspetti vere aristocrazie operaie negli anni passati – vengono immancabilmente ridimensionate dalla ristrutturazione attualmente in corso così come pure per quanto concerne i lavoratori produttivi dei servizi.

All’interno del proletariato metropolitano troviamo poi una serie di strati che in parte vanno definiti in modo diverso dal passato. Essi sono:

1) Lavoratori manuali del settore dei servizi: la separazione tra la funzione lavorativa (lavoro manuale complessivo) e il controllo su di essa (lavoro intellettuale complessivo) definisce i rapporti di classe fino a far permanere la struttura del capitalismo al di là del superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo sviluppo di questa separazione crea da un lato una nuova piccola borghesia (uso della “scienza” contro il “lavoro”) ma dall’altro una ampia fascia di lavoratori manuali nei servizi che oltre a subire un rapporto di lavoro salariato si distinguono per i livelli di coscienza che sviluppano nelle loro lotte tanto da farne i migliori alleati della classe operaia, dato che di questa vivono praticamente la stesse condizioni pur non producendo valori (v. ospedalieri).

2) Esercito industriale di riserva: è parte integrante della classe operaia; comprende tradizionalmente tutti quei lavoratori in attesa di essere inseriti nel processo produttivo, pur essendone temporaneamente espulsi. Si ha così una “fluttuazione” che tuttavia nell’attuale fase tende a configurare la disoccupazione come dato strutturale di grosse dimensioni dello Stato imperialista. Mentre la sovrappopolazione fluttuante è costituita dagli operai temporaneamente licenziati o da quelli in cassa integrazione, la sovrappopolazione latente vede oggi al suo interno la disoccupazione giovanile come fenomeno più macroscopico e politicamente più importante. Secondo una recente statistica svolta nei paesi dell’Ocse essa tocca punte del 40% e oltre. Quello che a tutti gli effetti costituisce un vero e proprio esercito ha dato vita in Italia ad un movimento di lotta su posizioni molto radicali, con – anche – forme organizzative permanenti e direttamente collegate con la classe operaia. Tuttavia l’evoluzione delle forme di suddivisione della sovrappopolazione presenta oggi una maggiore complessità rispetto alle forme storiche analizzate nello schema di Marx e ciò si verifica attraverso la formazione di uno strato di operai (e proletari) “marginali” ma non emarginati. Nel caso della sovrappopolazione stagnante descritta da Marx abbiamo non solo un ritorno di lunga durata alla condizione di disoccupato (per es. attualmente gli operai emigrati che tornano al Sud dai poli industriali della Cee) ma anche uno stato di precarietà permanente come nella attuale classe operaia marginale. Questa precarietà non va riferita alla condizione occupazionale individuale dell’operaio, bensì alla stessa unità produttiva in cui l’operaio è inserito. Ma oggi le caratteristiche di questa “area” della produzione sono strutturali, “stabili nella loro precarietà”, potremmo dire, infatti:

– decentramento della produzione rispetto all’azienda monopolistica è l’effetto della tendenza all’aumento del capitale complessivo impiegato per addetto. È un’area marginale presente in tutti i settori dell’economia per quanto in misura maggiore in quelli meno trainanti (dato che la sua funzione non è determinata solo da motivi strutturali ma anche politici); è presente in tutti i paesi a capitalismo avanzato con varie forme d’uso della forza lavoro (dal lavoro stagionale, al part-time, alla piccola fabbrica fino al contratto a termine anche in certe grandi aziende ecc);

– la sua soggezione alla “spontaneità” del mercato consente una maggiore elasticità nell’uso della forza-lavoro contro la caduta tendenziale del saggio di profitto tramite il prolungamento della giornata lavorativa nei periodi di espansione congiunturale (plusvalore assoluto) e comunque il minor costo della forza-lavoro nei periodi recessivi;

– è uno strumento di divisione politica della forza operaia come l’esercito di riserva inteso nel senso tradizionale poiché questo, oltre a regolare l’entità del monte salari, diminuisce la forza contrattuale della fascia operaia meno privilegiata e ricatta in modo “corporativizzante” quella delle grandi aziende.

Rispetto alla sovrappopolazione stagnante descritta da Marx, la differenza di questa sta nel fatto che la sua condizione non è legata al ciclo della crisi ma è la condizione derivante in modo permanente dai rapporti di produzione dell’attuale fase capitalistica. L’unica possibilità di cambiamento offertole come strato non è quella del “rientro” nella stabilità occupazionale alla fine del ciclo, ma semmai quella dell’emarginazione totale dato che non è prevista una fase di rilancio delle forze produttive all’interno dell’attuale modo di produzione. Se dunque parliamo di questa fascia operaia nell’esercito di riserva è solo per comodità di esposizione, mentre la sua collocazione scientifica sta all’esterno di essa: infatti gli operai si trovano in posizione intermedia e oscillante tra la classe operaia occupata stabilmente e l’esercito industriale di riserva, come occupati “in modo diverso”.

3) Gli emarginati: sono coloro che consumano senza lavorare o che comunque sono totalmente espulsi dal processo produttivo, per cui sono privi di una precisa e omogenea identità politica di classe; purtuttavia in questi ultimi anni alcune fasce di emarginati sono venute acquisendo coscienza politica e che trova nel proletariato extralegale e nel proletariato prigioniero una espressione reale di avanguardia che si inscrive a pieno titolo come potente fattore alleato alla classe operaia. Per emarginati intendiamo dunque i consumatori senza salario:

  1. a) Proletariato extralegale: (in cui è compreso anche quello prigioniero). È determinato dall’emarginazione crescente di strati di popolo dal processo produttivo, che ha innescato quel fenomeno che è definito “criminalità di massa” favorita anche dalla mostruosa disparità della ricchezza concentrata nelle mani di pochi. L’impossibilità di trovare un lavoro stabile costringe strati di popolazione a ricorrere a comportamenti illegali che tra l’altro, sono sempre meno estranei anche alla classe operaia.

Citiamo una statistica della città di Roma relativa al 1971, è fatta da borghesi, però consente di constatare gli indiziati di reato suddivisi per lassi: operai e lavoratori sono il 40,13%; studenti 11,71%; pensionati e casalinghe 7,73%; senza professione 15,61%, che danno un astratto del totale degli indiziati di reato pari a 75,18%. È interessante notare che la più alta percentuale di “criminali” proviene dal mondo del lavoro. Il “crimine” diventa per gruppi di proletari il secondo lavoro! Le lotte dei detenuti e la politicizzazione di interi ambienti della “malavita” non sono dunque un fatto strano e mostruoso; non è più possibile considerare soltanto il carcere come veicolo di organizzazione e di lotta, anche se il carcere resta il momento di maggiore socializzazione di questo “segmento” di classe. Del resto, già Lenin nel 1905 notava come in periodo di crisi economico-politica, il banditismo sociale diventa un modo specifico di lotta di certi strati proletari urbani, gettati sul lastrico dell’immiserimento; questo fenomeno tende a diffondersi all’interno della classe operaia ed è assolutamente indispensabile trasformare queste forme di lotta in azioni partigiane, coinvolgendo questi strati nella guerra civile sotto la direzione del Partito Combattente.

  1. b) Assistiti da enti pubblici e privati: (vecchi, handicappati, disadattati, minorati,ecc). Anche i proletari anziani (pensionati) rientrano in questa categoria, in quanto la loro emarginazione dal processo produttivo comporta spesso anche l’emarginazione da tutti i rapporti sociali, pur non essendo rinchiusi in una “istituzione totale” (manicomi, ospizi, ecc), Anche questi strati negli ultimi anni hanno dato vita a lotte estese dimostrando come per il proletariato, in questa società, non ci sia pace fino alla fine.
  2. c) Sottoproletariato tradizionale, quest’ultimo è praticamente costituito da residui di classi disgregate e pur essendo ormai un fenomeno di scarse dimensioni almeno rispetto all’analisi che ne fecero Marx ed Engels, resta però tuttora valido il giudizio che di esso diedero “… putrefazione passiva degli strati più bassi della popolazione suscettibile alle mene della reazione…”. Esso resta pertanto, così come è venuto storicamente confermandosi, il peggiore alleato della classe operaia.

 

Esercito intellettuale di riserva

Definiamo esercito intellettuale di riserva quelle sacche di “lavoro nero” intellettuale quali: lavori occasionali, a termine, ausiliari, o supplettivi. Questa forza-lavoro, per le sue caratteristiche di medio-alta scolarizzazione è di forte instabilità, trova nella società industriale le più svariate collocazioni per cui la sua soggettività si esprime in forma del tutto eterogenea. All’interno di questa area sociale si collocano anche gli studenti i quali non costituiscono una classe a sé, ma riflettono nella scuola tutte le divisioni e le segmentazioni di classe di cui sono espressione. Negli anni passati, in piena espansione economica, a misura in cui aumentava la crescita della composizione organica del capitale – conciliata però in quella fase con l’allargamento della base produttiva – si poneva il problema di una trasformazione di qualità della forza-lavoro, da cui l’esigenza per il capitale di promuovere un processo di scolarizzazione di massa in grado di fornirgli una manodopera scolarizzata, capace di operare cioè in una società industriale avanzata. Ciò ha dato origine alla formazione di una nuova figura sociale proveniente dalle classi subalterne e con un indice di scolarizzazione predeterminato dalle necessità della produzione industriale (scuole tecniche, professionali, corsi serali di qualificazione): lo studente-massa. Questo studente tipo è oggi la componente di maggioranza nelle scuole divenute esse stesse, di fronte all’acuirsi della crisi, delle vere e proprie “aree di parcheggio” per disoccupati potenziali con scarsissime possibilità di assimilazione nel tessuto produttivo. Questa “precarietà” è oggi una tendenza che riflette l’incompatibilità per la borghesia imperialista di poter coniugare la scolarizzazione di massa con la contrazione selvaggia dei livelli occupazionali. La consapevolezza di ciò fa sì che il movimento degli studenti-massa sia oggi una delle forze trainanti, a fianco della classe operaia, del processo rivoluzionario.

 

La piccola borghesia

Pur delimitando il discorso alla composizione di classe del proletariato metropolitano occorre tuttavia considerare anche quelle componenti della piccola borghesia che, nel corso della crisi vengono oggettivamente a gravitare intorno al proletariato. Non a caso il revisionismo con una correlazione ideologica e politica assai disinvolta tende a recuperarla in blocco (vedi politica dei “ceti medi”) ponendola su un piano preferenziale quale alleato delle fasce di aristocrazia operaia e degli operai professionali. Questo strato si articola in:

– Piccola borghesia tradizionale legata alla piccola produzione e alla piccola proprietà (artigiani, piccoli commercianti, contadini, ecc), attualmente è in via di estinzione ma è sempre contraddistinta da una profonda instabilità politica.

– Nuova piccola borghesia. Qui l’analisi deve essere più attenta perché non si tratta più di residui, di modi di produzione superati, ma di un prodotto dell’attuale modo di produzione: il capitalismo maturo. È estremamente stratificata, infatti si estende da fasce di lavori praticamente manuali (vedi i commessi della grande distribuzione, ecc) che subiscono uno sfruttamento e una nocività elevata; al personale insegnante e non della scuola di massa; ai larghi strati impiegatizi (piccola e media burocrazia, statale e privata); fino a giungere ai quadri tecnici di direzione, sorveglianza e organizzazione del lavoro. L’elevata frantumazione interna e la polarizzazione causata dalla lotta di classe disarticola ulteriormente questo strato sociale, la cui collocazione politica, si può riassumere così:

– alleate della classe operaia le fasce inferiori, quelle ancora legate al lavoro manuale;

– oscillanti, con quella caratteristica instabilità della piccola borghesia più tradizionale, gli strati intermedi (insegnanti, impiegati);

– oggettivamente antiproletarie le sue fasce superiori (controllo e organizzazione del lavoro) che tra l’altro sono una componente importante della politica dei revisionisti.

 

Lavoro femminile

Le donne di qualsiasi componente proletaria occupano sempre posizioni inferiori, subordinate e peggio pagate rispetto agli uomini. Inoltre subiscono la schiavitù del lavoro domestico. Il lavoro femminile, anche quello fatto in casa è pertanto antagonista alla società capitalista. Il risveglio delle lotte femminili e dei contenuti impliciti ed espliciti di queste lotte avrà sempre più peso ed importanza nel movimento rivoluzionario. La bestialità dei rapporti di produzione capitalistici e dei loro risvolti sociali ha risvegliato anche questa enorme forza sociale; le armi della critica radicale e la critica radicale delle armi hanno toccato finalmente anche l’ultimo tabernacolo: la sfera della famiglia e dei rapporti uomo-donna, sfera di decisiva e fondamentale importanza per spalancare le porte al cambiamento della vita e del mondo. Possiamo dire che con l’entrata delle donne sulla scena della rivoluzione tutte le forze sono ormai mature e per i porci è veramente l’inizio della fine! Indubbiamente la soggettività dell’Mrpo, come del resto la sua composizione non è omogenea e tra le diverse componenti si svolge una lotta politica e ideologica.

Si tratta di “contraddizioni in seno al popolo” e la loro esistenza non contrasta né esclude uno sbocco strategico unitario.

Noi lottiamo per la ricomposizione soggettiva del Movimento di Resistenza Proletario Offensivo sul programma di attacco allo Stato imperialista e di costruzione del Partito Comunista Combattente.

C’è chi ha detto che il proliferare dei gruppi armati dà fastidio alle Brigate Rosse. Se non fossimo certi che si tratta di un altro attacco degli strateghi della controguerriglia psicologica per tentare di isolare la nostra organizzazione, ci farebbe piacere che il nemico fosse così stupido. In realtà sa bene che la tendenza ad armarsi da parte delle avanguardie proletarie è inarrestabile, che anzi è destinata ad estendersi; quello che lo terrorizza è proprio l’eventualità che si superino i limiti dovuti alla situazione di obiettiva disgregazione in cui nasce la lotta armata, e si coaguli la direzione strategica del processo rivoluzionario e si organizzi in Partito Combattente. Chiaramente l’attacco propagandistico del nemico è rivolto a ritardare il più possibile questa presa di coscienza delle avanguardie di classe, mistificando spudoratamente i termini della proposta politica che la nostra Organizzazione rivolge a tutte le avanguardie. Non siamo i soli a farlo, ma è certo che le Brigate Rosse combattono e lavorano da sempre per la costruzione del Movimento di Resistenza, perché le avanguardie comuniste colgano l’occasione storica che si offre per la realizzazione di una crescita formidabile del processo rivoluzionario. Questo ci riporta ad un’altra questione centrale e sulla quale si fa molta confusione: la costruzione del Partito Combattente. Bisogna togliersi dalla testa al più presto, ed una volta per tutte, che lo sviluppo della lotta armata verso la guerra civile generalizzata, verso la guerra di popolo di lunga durata, possa essere un processo spontaneo. La guerra di classe nasce spontaneamente dalle condizioni specifiche e dalle contraddizioni di classe particolari e generali che il sistema imperialista produce. L’esigenza a resistere alla ristrutturazione scaturisce “naturalmente” all’interno della classe operaia e del proletariato e spinge la sua avanguardia ad armarsi e combattere il decorso della crisi di regime che crea la situazione oggettiva in cui ci troviamo; è l’esistenza di una consistente frangia di proletariato rivoluzionario che ha creato le condizioni della guerra civile strisciante, quale forma reale in cui si è espresso il movimento di resistenza armato. Radicare la lotta armata nel proletariato, costruire la sua capacità di vittoria strategica, non è un processo spontaneo.

Creare le condizioni per un’alternativa di potere, organizzare strategicamente il potenziale rivoluzionario del proletariato è un processo cosciente e forzato operato dall’avanguardia comunista. Si tratta quindi di assumersi il compito e la responsabilità di guidare il proletariato, di porsi alla sua testa ed assumere la direzione, di costruire tutte le articolazioni del potere proletario, se si vuole, come noi vogliamo, che la guerra civile generalizzata sia una tesi vincente e non il solito inutile massacro. La storia del movimento proletario del nostro paese, può essere considerata, in definitiva, la storia delle sue sconfitte; anzi se c’è una costante è proprio quella che quando la lotta diventa guerra di classe e si configura come alternativa di potere, il nemico ha partita vinta se il proletariato non riesce a darsi una direzione ed un’organizzazione strategica.

Questo è oggi propriamente il compito delle avanguardie comuniste ed è la costruzione di questa organizzazione che chiamiamo Partito Combattente.

Noi assumiamo la Prassi Sociale come criterio oggettivo di verità, convinti che tutti i pensieri che si accordano con la realtà oggettiva permettono di ottenere successi, al contrario quelli che non si accordano con questa conducono al fallimento.”Non c’è che una verità: sapere se la si è scoperta o no non dipende da vanterie soggettive, ma dalla prassi oggettiva. Solo la pratica rivoluzionaria di milioni di uomini è il metro per misurare la verità”.

Assumere il criterio della prassi sociale come criterio di verità e perciò anche di validità dell’azione rivoluzionaria ci porta ad affermare questo principio generale: “Quando i proletari conducono una lotta contro la borghesia se agiscono isolatamente o in maniera dispersiva la loro lotta fallisce; vince se essi agiscono unanimemente e nell’unità”. E dunque ci porta anche a rilevare una condizione di debolezza del movimento di resistenza proletario offensivo, vale a dire la notevole dispersione di forze causata dalla collocazione particolaristica di molti nuclei combattenti che concludono la loro azione entro i limiti ristretti delle situazioni specifiche di cui sono espressione.

Molto spesso così l’iniziativa armata stempera la sua efficacia abbattendosi, anche se con forza eccezionale, su contraddizioni oggettivamente secondarie. Pertanto l’iniziativa politico-militare di questi nuclei, oltre a non incidere a fondo sulla controrivoluzione preventiva, fatica a darsi un respiro strategico e a dialettizzarsi sulla questione centrale che il proletariato metropolitano in questa fase deve affrontare: portare un attacco disarticolante alla ristrutturazione imperialista dello Stato.

Lo stabilizzarsi di questa situazione di estrema frammentazione sul piano della soggettività, che alcuni famigerati opportunisti sono giunti perfino a teorizzare, favorisce inevitabilmente il riflusso verso tendenze politiche che hanno come carattere principale lo “spontaneismo armato” e in taluni casi porta alla esaltazione delle condizioni che definiscono la sua debolezza tattica e al rifiuto di svolgere una funzione di avanguardia politico-militare in rapporto agli strati più avanzati del proletariato. L’iniziativa armata rischia così, al punto più basso, di restare imprigionata nelle sue determinazioni puramente “militari” essendo incapace di rappresentare una prospettiva politica di liberazione.

Imbracciare il fucile è una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della guerra di classe rivoluzionaria di lunga durata.

 

Guerriglia e potere proletario

Che cosa significa nella fase attuale della guerra di classe costruire l’organizzazione del potere proletario?

Nella fase in cui la ristrutturazione dello Stato è arrivata a non poter più tollerare nessuna lotta proletaria che esca dagli schemi funzionali dell’accumulo del capitale, nella fase in cui il regime tende ad inglobare, corporativizzandoli, gli strati privilegiati di questa società e le organizzazioni che li rappresentano, nella fase in cui il potere borghese non può e non vuole più accettare mediazioni con l’avanguardia comunista del movimento, e appronta strumenti per annientarla (leggi speciali, polizia speciale, carceri speciali, uno Stato speciale); nella fase in cui ogni momento di organizzazione autonomo del proletariato viene affrontata dal regime con le armi, con un piano di sterminio della resistenza operaia; nella fase in cui la borghesia ha scatenato la guerra controrivoluzionaria, che cosa significa costruire il potere proletario?

Innanzitutto bisogna capire che non ci troviamo di fronte ad un piano di temporanea limitazione delle libertà democratico-borghesi, e cioè alla chiusura di alcuni “spazi legali” dello Stato di diritto, ma più propriamente di fronte allo scatenarsi della reazione controrivoluzionaria imperialista. Non si tratta quindi di lamentarsi per la repressione, ma di andare più in là, di sviluppare la guerra di classe rivoluzionaria. Se le famigerate leggi speciali vengono applicate per annientare l’avanguardia comunista, per chiudere le sedi dell’autonomia, per mandare al confino i suoi militanti, per mettere in stato di assedio i centri urbani, per impedire di portare in piazza la lotta antimperialista, sarebbe un vero e proprio suicidio politico – oltre che fisico – ostinarsi su posizioni legalistiche che se non sono opportunistiche marce indietro, si riducono a puro avventurismo velleitario.

Bisogna prendere coscienza che nella nuova fase l’unica possibilità di sviluppare l’antagonismo e l’iniziativa proletaria si dà con il fucile in mano ed i nuovi compiti delle avanguardie comuniste riguardano l’organizzazione della lotta armata per il comunismo.

Organizzare il potere proletario oggi significa individuare le linee strategiche su cui far marciare lo scontro rivoluzionario, ed articolare ovunque a partire da queste, l’attacco armato contro i centri fondamentali politici, economici, militari, dello Stato imperialista.

Organizzare il potere proletario oggi significa organizzare strategicamente la lotta armata per il comunismo imparando a vivere, a muoversi e combattere nella nuova situazione. Non bisogna spaventarsi di fronte alla ferocia del nemico e sopravvalutare la forza e l’efficacia dei suoi strumenti di annientamento. Si può e si deve vivere clandestinamente in mezzo al popolo perché questa è la condizione di esistenza e di sviluppo della guerra di classe rivoluzionaria nello Stato imperialista. In questo senso parliamo di “contenuto strategico della clandestinità”, di “strumento indispensabile della lotta rivoluzionaria in questa fase” e nello stesso tempo mettiamo in guardia contro ogni altra interpretazione difensiva o mistica che sia. Sulla clandestinità si sono diffusi una molteplicità di falsi concetti o di pregiudizi. C’è chi dà credito alla propaganda del nemico che ripete continuamente che la guerriglia vive rintanata in tenebrosi “covi”, che i guerriglieri comunisti sono misteriosi individui simili a diabolici marziani, perennemente braccati e costantemente in fuga, inavvicinabili insomma dalla “gente comune”. L’innegabile efficacia della guerriglia per costoro deriverebbe da una “mitica” clandestinità che farebbe dei militanti una specie di superuomini. Altri invece hanno stabilito una assurda ed arbitraria equazione: “legalità” uguale a “movimento” e come logico corollario “clandestinità” uguale a “estraneità dal movimento”. Costoro riescono al massimo a pensare alla clandestinità come una valvola di sicurezza per i compagni individuati o per parare in qualche modo i colpi repressivi sferrati dal nemico. Abbiamo citato queste due posizioni estreme perché contengono tutto l’arco delle concezioni “mitiche” o “difensiviste” e profondamente errate della clandestinità. Esse non colgono, se non superficialmente, le caratteristiche della guerra di classe rivoluzionaria di lunga durata.

Guerra di classe, dunque e non di pochi eletti, dove strati sempre maggiori di proletariato si mobilitano e combattono contro il mostro imperialista, il potere proletario, quindi si sviluppa per “linee interne” a questo movimento e l’organizzazione sedimenta e si innerva con la sua avanguardia comunista armata. Ma anche guerra di lunga durata, condotta nelle metropoli dove la forza brutale dell’imperialismo è di massima concentrazione, e dove le forze rivoluzionarie si trovano ad operare in condizioni di “accerchiamento strategico”, mantenere costantemente l’offensiva, consolidare stabilmente l’organizzazione del potere proletario è possibile solo a partire dalla più rigida clandestinità.

Tutta l’esperienza della nostra Organizzazione conferma che solo da questa impostazione è possibile sviluppare strategicamente l’offensiva rivoluzionaria, e che la clandestinità non è affatto un impedimento alla sua articolazione “in mezzo al popolo”, ma che anzi è la condizione indispensabile perché il potere proletario si possa esprimere.

Nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle carceri e ovunque si manifesti l’oppressione imperialista, organizzare il potere proletario significa: portare l’attacco alle determinazioni specifiche dello Stato imperialista e nel contempo costruire l’unità del proletariato metropolitano nel movimento di resistenza proletario offensivo e l’unità dei comunisti del partito comunista combattente!

 

Il partito comunista combattente

Per trasformare il processo di guerra civile strisciante, ancora disperso e disorganizzato, in una offensiva generale, diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare e unificare il movimento di resistenza proletario costruendo il Partito Comunista Combattente. Movimento e Partito non vanno però confusi. Tra essi opera una relazione dialettica, ma non un rapporto di identità: ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l’avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria e organizzazione stabile e infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario. Vuol dire che il percorso corretto che dobbiamo seguire parte dalla classe per arrivare al Partito e parte dal Partito per ritornare ancora, sotto una forma più matura alla classe.

Il Pcc prima di una struttura organizzativa è una avanguardia politico-militare che realmente è davanti a tutti, che traccia la via da percorrere per tutto il movimento, che sa farsi riconoscere per mezzo della sua iniziativa rivoluzionaria dalla parte più avanzata del proletariato.

Agire da Partito vuol dire collocare la propria iniziativa politico-militare all’interno e al punto più alto dell’offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ciascuna congiuntura, ed essere così, di fatto, il punto di unificazione del movimento di resistenza proletario offensivo, la sua prospettiva di potere.

Costruire il Pcc non significa perciò aggregare in modo sommativo o federativo i vari “movimenti parziali” o “gruppi locali”, ma costruire tutte le mediazioni necessarie per far compiere al movimento di resistenza proletario offensivo salti politici e organizzativi, dalla parzialità alla complessità, dal particolare al generale. Per questo è importante condurre nel Mrpo una lotta ideologica e politica contro le tendenze economiciste-spontaneiste che sfociano nel minoritarismo armato e, paradossalmente, nel militarismo. E contemporaneamente contro quelle tendenze burocratico-minoritarie che concepiscono la costruzione del Pcc come un processo di pura crescita organizzativa che si svolge al di fuori del movimento della classe, separato da esso.

Ma affinché questa lotta politica e ideologica non si riduca a sterile polemica essa deve tendere alla unità del movimento: l’avanguardia armata deve cioè ricercare tutte quelle iniziative politico-militari e quelle forme organizzative in grado di stabilire momenti di confronto e di unità seppur ancora parziali e contraddittori, perché solo da questo confronto può nascere la necessaria chiarificazione sul programma, sui principi e sulle forme organizzative del Pcc.

Agire da Partito vuol dire anche dare all’iniziativa armata un duplice carattere: essa deve essere rivolta a disarticolare e a rendere disfunzionale la macchina dello Stato, e nello stesso tempo deve anche proiettarsi nel movimento di massa, essere di indicazione politico-militare per orientare, mobilitare, dirigere ed organizzare il Mrpo verso la guerra civile antimperialista.

Questo ruolo di disarticolazione, di propaganda, e di organizzazione va svolto a tutti i livelli dell’opposizione statale capitalista e a tutti i livelli della composizione di classe. Non esistono quindi livelli di scontro “più alti” o “più bassi”. Esistono invece livelli di scontro che incidono ed intaccano il progetto imperialista, ed organizzano strategicamente il proletario oppure no. Sono questi due elementi che qualificano l’azione armata e non le difficoltà militari che il perseguimento di un determinato obiettivo comporta: è ovvio che quanto più l’attacco vuole essere efficace e disarticolare gli organi centrali dello Stato, tanto più alta deve essere la forza organizzativa da mettere in campo, ma questo è secondario. Strategicamente è tanto importante distruggere gli organi centrali dello Stato, quanto distruggere le sue articolazioni particolari che percorrono tutto il corpo sociale. Strategicamente è tanto importante costruire una capacità organizzata e centralizzata di esercitare il potere proletario quanto costruire le sue articolazioni all’interno della classe operaia e del proletariato metropolitano nelle fabbriche, nei quartieri, dappertutto.

Per questo non c’è contraddizione tra linea di massa e ruolo d’avanguardia, non c’è dicotomia tra una pratica di movimento e l’azione armata.

Ma agire da Partito, nella situazione presente comporta anche un’altra preoccupazione: estendere la presenza della guerriglia in tutti i poli. In particolare si pone all’ordine del giorno la necessità di sfondare la “barriera del Sud”, di collegare nella medesima prospettiva strategica i proletari che risiedono e lottano nei poli nella parte superiore della penisola e quelli che lottano e risiedono nei poli della parte inferiore. Non esiste oggi, come del resto non è mai esistita, una “questione meridionale”. La logica di sviluppo dell’imperialismo delle multinazionali ha unificato oggettivamente il proletariato; tocca ora alla guerriglia unificarlo anche soggettivamente.

Napoli, Taranto, la Sicilia e la Sardegna vivono più intensamente che mai gli effetti devastanti delle contraddizioni economiche, sociali e politiche prodotte dalle “strategie di crisi” imposte dall’imperialismo e dalle multinazionali e non è perciò il caso o il frutto della “rabbia del sottosviluppo” se in questi poli si va organizzando spontaneamente un movimento di resistenza offensivo che non ha precedenti per estensione, intensità, maturità rivoluzionaria. Agire da Partito vuol dire in questa circostanza lavorare per la riunificazione del proletariato, per affermare anche tra le masse proletarie concentrate nei poli del meridione e delle isole la prospettiva strategica della guerra di classe antimperialista per il comunismo.

Le Brigate Rosse non sono il Partito Comunista Combattente ma una avanguardia armata che lavora all’interno del proletariato metropolitano per la sua costruzione. Mentre affermiamo che non c’è identificazione tra Br e Partito Combattente affermiamo con uguale chiarezza che l’avanguardia armata deve “agire da Partito” sin dal suo nascere. Il processo di costruzione politica, programmatica e di fabbricazione organizzativa del Pcc è un processo discontinuo, dialettico, prodotto cosciente di una avanguardia politico-militare che, nel complesso fenomeno della guerra di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che sostiene, e l’adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. Si pone quindi come punto di riferimento essenziale, come “nucleo strategico” del Pcc in costruzione sin dal suo nascere.

È per questo, e non per presunzione che abbiamo inteso fissare nella Risoluzione della Direzione Strategica del novembre ’75, i principi organizzativi che stanno alla base della nostra Organizzazione e che crediamo abbiano un valore strategico. La loro severa e rigorosa verifica nella lotta, nella pratica militare, nella capacità dimostrata di guidare la scontro e di costruire l’organizzazione del proletariato ci porta a riconfermarli senza nessuna incertezza. L’esperienza fin qui fatta ha arricchito complessivamente il patrimonio politico-organizzativo accumulato dalla nostra Organizzazione, che in generale ha saputo evolversi parimenti allo sviluppo della guerra di classe. Nella fase attuale la concezione delle Colonne, dei Comitati Rivoluzionari, delle Brigate, delle forze regolari e irregolari, della clandestinità e compartimentazione, restano capisaldi consolidati e ineliminabili della nostra formulazione organizzativa; per i fronti di combattimento occorre invece una puntualizzazione che al momento della loro formulazione era impossibile, una loro ridefinizione alla luce delle esigenze e dei compiti che nella nuova fase ci si pongono.

 

I fronti di combattimento

Sul piano politico definiamo “Fronti di Combattimento” terreni specifici e settoriali su cui va indirizzato l’attacco rivoluzionario, contro le articolazioni strategiche dello Sim e della borghesia imperialista e su cui è possibile organizzare il potere proletario in un processo di riunificazione del proletariato rivoluzionario. Sul piano organizzativo i Fronti di Combattimento sono stati costituiti dalla nostra Organizzazione per rispondere al bisogno di elaborazione, di omogeneizzazione del programma di lavoro e di lotta in settori specifici. Abbiamo visto come la contraddizione principale è quella che oppone la classe allo Stato Imperialista, come lo scontro si gioca in sostanza tra il potere proletario armato e la controrivoluzione. Abbiamo visto come per l’avanguardia rivoluzionaria la questione della guerra di classe consiste nel prendere la direzione di questo scontro tra rivoluzione e reazione, di tracciare le direttrici sulle quali condurre il movimento nella sua complessità, e nella capacità di realizzare un progetto strategico di attacco “al cuore dello Stato”. Se questo in definitiva vuol dire “partito” ha però delle implicazioni sulle strutture organizzative e sul loro ruolo, sul rapporto e il peso specifico di ciascuna delle varie istanze di direzione e di lavoro. I Fronti, che rispondono all’esigenza di approfondire l’analisi e la definizione dei terreni di scontro nella fase in cui la guerra di classe assume sempre più i connotati di guerra civile dispiegata, diventa lo strumento privilegiato per l’assolvimento dei compiti di direzione politica. Il salto qualitativo in avanti che consente di affrontare la contraddizione più alta dello scontro con lo Stato impone quindi una metodologia di lavoro che possiamo così definire: dal programma strategico (cioè dal punto più alto delle contraddizioni di classe), attraverso i fronti fino alle Brigate.

I Fronti sono così i vettori della linea politica dell’Organizzazione, che entrano in rapporto dialettico con i poli d’intervento (Colonne), dove questi assumono il ruolo di terreno di classe in cui la linea politica generale si media e si articola con la realtà di movimento.

 

L’Italia è l’anello debole della catena imperialista

Le categorie leniniste di “catena imperialista” e “anello debole” determinate da quella esigenza strutturale del capitale che è lo sviluppo ineguale, si esplicitano oggi in modo particolarmente evidente nell’area mediterranea; nel divenire della crisi la linea di demarcazione tra rivoluzione e controrivoluzione non sta più solo ai confini, ma si sposta sempre più verso il centro della metropoli imperialista. Infatti all’interno della catena imperialista mondiale, tutto il Sud Europa e il Nord Africa, rappresentano oggi un punto delicatissimo determinato dall’incrociarsi qui di due contraddizioni, entrambe risolvibili dall’imperialismo solo con la guerra.

La prima è quella tra Nord e Sud, tra sviluppo e “sottosviluppo”, contraddizione destinata a un continuo inevitabile aggravamento dell’approfondirsi della crisi; la seconda è quella tra imperialismo e socialimperialismo, e qui si confrontano in un’area per entrambi vitale, con grossi punti di instabilità e che è, inoltre, il ponte determinante per il controllo del medio oriente, strategico per le sue riserve petrolifere. È questa duplicità di contraddizioni che rende la situazione estremamente fluida, e la presenza diplomatica e militare dell’imperialismo, sempre più massiccia, non dimostra tanto la sua forza, quanto la sua debolezza strategica nel settore. Sui paesi di quest’area si è scaricata una quota rilevante delle contraddizioni maturate dalla crisi del capitale, e questa ha causato la rottura degli equilibri complessivi economici, sociali e politici, preesistenti, generando una accelerazione violenta dello scontro di classe, che in più punti ha raggiunto la fase della guerra civile, strisciante, o anche aperta: (Italia, Turchia, Libano, per es.). L’Italia, poi introverte entrambe le contraddizioni; infatti il sottosviluppo in funzione dello sviluppo è un problema ormai storico, da noi; e oggi il divario tra aree sviluppate e non, tende a crescere non solo proporzionalmente ma anche in termini assoluti, generando contraddizioni sempre più esplosive.

La contraddizione tra imperialismo e socialimperialismo è introvertita qui con la presenza del Partito “Comunista” più forte e del capitalismo di stato più esteso dell’Europa occ. Di tutto questo la strategia di liberazione del proletariato deve tenerne conto. Ultima provincia dell’impero, l’Italia funziona da “culo di sacco”, pattumiera d’Europa e cioè da area alla quale la divisione internazionale assegna una funzione tutt’altro che esaltante: pagare con il lavoro super sfruttato e con la disoccupazione selvaggia del nostro proletariato una quota rilevante dei costi della crisi generale del sistema; funzionare da ammortizzatore rispetto agli “anelli”più forti, fare qui lavori sporchi-pesanti-nocivi-inquinanti-assassini che nessuno, proprio nessuno, vuole più fare. Guerriglia vuol dire anche rifiuto della condizione di “negri-bianchi” dell’imperialismo, rifiuto di una subalternità economica, politica culturale, scientifica, psicologica, che la quinta colonna democristiana ci vuole imporre a qualsiasi costo. Guerriglia vuol dire rifiuto di questa collocazione da “paese di serie B” dentro il sistema democratico occidentale, non per una questione di sciovinismo metropolitano, ma perché rifiutiamo di considerare il nostro futuro dentro i limiti del modo di produzione capitalistico e in complicità con l’imperialismo, che è il peggior nemico dei popoli e del proletariato mondiale. Sconfiggeremo l’imperialismo! E lo faremo insieme a tutte le forze che in tutto il mondo hanno impugnato le armi e cominciato a lottare.

 

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropoli

Sviluppando il suo attacco contro lo Sim la guerriglia si definisce necessariamente anche come fronte metropolitano della guerra di liberazione mondiale contro l’imperialismo.

La guerriglia è la forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale. Internazionalismo proletario vuol dire per noi in primo luogo approfondire lo scontro con la borghesia imperialista della nostra area. Si incaricherà la stessa struttura di dominio, rigidamente centralizzata e integrata, a trasmettere e ad ampliare gli effetti dei nostri attacchi lungo tutta la catena. Ma se ciò è pacifico, è necessario tuttavia chiarire che ciò va inteso nel senso preciso che abbiamo dato alla parola d’ordine: disarticolare il processo di controrivoluzione imperialista portando l’attacco ai centri vitali dello Stato perché, ovviamente qualsiasi attacco di qualsivoglia intensità su contraddizioni secondarie non otterrà alcun effetto in questa direzione.

L’internazionalismo proletario, in secondo luogo, vuol dire prendere atto del processo di generalizzazione della guerriglia sul continente Europa.

La Raf (Frazione Armata Rossa) nella Germania occidentale, i Napap (Nuclei Armati per l’Autonomia Popolare) in Francia, e i movimenti autonomisti a carattere socialista, proprio perché si situano sullo stesso fronte e attaccano le rispettive sezioni nazionali dello stesso nemico,- la borghesia imperialista – costituiscono per la nostra lotta punti di riferimento irrinunciabili rispetto ai quali è necessario sviluppare un massimo storicamente possibile di “collaborazione operativa”, sostegno reciproco, solidarietà.

Per troppo tempo si è sottovalutato questo problema, per troppo tempo si è scambiata la necessaria scelta del punto di partenza “nazionale” dell’iniziativa e dell’organizzazione guerrigliera per una scelta limitativa, questo limite oggi è diventato insopportabile. La crescita e la forza della nostra organizzazione (che va valutata con molto realismo e la dovuta modestia), lo sviluppo poderoso della guerra di classe su tutto il continente europeo, l’indicazione che ci viene dalla parte più avanzata del proletariato internazionale ci impone un nuovo compito: procedere, con ogni iniziativa possibile, all’integrazione politica delle forze e delle Organizzazioni Comuniste che combattono in Europa in una strategia antimperialista.

Va inteso che “integrazione politica” non è “l’internazionale del terrorismo” come vanno strillando gli sfiatati tromboni della guerra psicologica, perché quella c’è già: è la mostruosa macchina sanguinaria dell’imperialismo.

Integrazione politica per noi significa confronto costruttivo, ricerca costante nei programmi tattici e strategici di tutti quei terreni di lotta che saldino nei fatti l’iniziativa rivoluzionaria delle Organizzazioni Comuniste Combattenti Europee, che siano punto di riferimento per tutto il proletariato del nostro continente. Siamo convinti che “rompere l’isolamento”, creare le condizioni per la più vasta azione comune delle Organizzazioni Comuniste Combattenti Europee sarà, per il prossimo periodo, un banco di prova su cui misurare la maturità da esse raggiunta e costituisce la possibilità per un formidabile avanzamento della guerra di classe in Europa.

Del resto, dopo il duplice massacro di Stammheim e Mogadiscio, la dimensione continentale sulla quale calibrare la strategia della guerra di classe rivoluzionaria per il comunismo è apparsa in tutta la sua evidenza a tutte le avanguardie combattenti che sono scese in lotta (in ogni paese d’Europa). Non si è trattato di un moto di semplice solidarietà e neppure di manifestazioni di “orrore e sdegno democratico” nei confronti della “soluzione finale” varata dal governo tedesco. Invece, il carattere essenziale della risposta offensiva si è dato nella individuazione comune a tutte le forze di classe che si sono attivate nei vari paesi, della borghesia imperialista e della sua sezione tedesca come nemico principale dell’intero proletariato metropolitano e delle sue lotte di liberazione per una società comunista. Ovunque e a tutti è apparso immediatamente chiaro il carattere antimperialista e unitario della guerra di classe che pur si svolge in forme specifiche e con tempi propri in ciascun paese. Forme e tempi definiti dallo sviluppo economico e politico ineguale che resta una legge assoluta del capitalismo – come ha dimostrato Lenin – e dalla quale discende la possibilità stessa del trionfo del socialismo, all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese separatamente.

Si è svelato finalmente, il 18 ottobre, che un nuovo internazionalismo proletario offensivo era maturato nella coscienza delle avanguardie combattenti, fuori e contro la retorica asfissiante e truffaldina della sinistra riformista e revisionista.

Alcuni hanno obiettato che questa risposta offensiva non deve essere sopravvalutata perché essa resta pur sempre fondamentalmente “spontanea”. Se le cose stanno così non resta alle Organizzazioni di guerriglia che raccogliere questo impulso, questa indicazione, questo vasto e profondo bisogno e renderlo più maturo, più forte, organizzato.

Internazionalismo proletario, infine, e non come pura e semplice dichiarazione di principio vuol dire per noi metterci al fianco di tutti coloro che lottano in qualsiasi parte del mondo contro l’imperialismo e in particolare nell’area medio-orientale, a fianco dell’eroico popolo palestinese, coscienti come siamo che fino a quando questo orribile mostro non sarà definitivamente annichilito la lotta di liberazione per il comunismo non sarà terminata!

 

Proletari di tutti i paesi uniamoci.

Portare l’attacco allo stato imperialista delle multinazionali.

Disarticolare e distruggere i centri della controrivoluzione imperialista. Creare, organizzare ovunque il potere proletario armato. Riunificare il movimento rivoluzionario nella costruzione del Partito Comunista Combattente.

 

 

 

Nota 1

 

Maggio ’75

– Strasburgo. Convegno dei ministri della giustizia di 18 paesi del Consiglio Europeo per il coordinamento della lotta contro il terrorismo internazionale. Viene raggiunto un accordo per combattere comunemente il terrorismo con l’allargamento e il rafforzamento dei compiti dell’Interpol;

 

Estate ’75

– Milano. Si tiene una riunione bilaterale tra i responsabili dell’antiterrorismo della Rft e quelli italiani;

 

Gennaio ’76

– Una iniziativa per internazionalizzare la lotta al terrorismo è presa dal governo della Rft. In una intervista il ministro degli interni Genscher afferma che: “intende mettere la questione all’ordine del giorno della prossima riunione dei ministri degli esteri della Cee”. Il governo tedesco farà inoltre in modo che il problema venga affrontato anche dall’Onu;

 

Maggio ’76

– I ministri rappresentanti di 9 paesi della Cee firmano un impegno politico per la repressione del terrorismo. I paesi promotori di questa riunione sono la Rft, la Gb e l’Italia. In questo impegno si afferma tra l’altro che: “gli Stati membri della Cee considerano inaccettabile il metodo disumano che consiste nella cattura di ostaggi per esercitare pressioni sui governi, qualunque sia il loro fine politico o no. È nell’interesse di tutti i governi opporsi con energia a tale metodo ed è nell’interesse di tutti i governi cooperare nella lotta contro il flagello del terrorismo. Una volta di più i recenti avvenimenti hanno dimostrato che nessun paese, nessun popolo, nessun governo può sperare di sfuggire agli atti di terrorismo, ai rapimenti ed ai dirottamenti effettuati sul proprio territorio e diretti contro i propri cittadini ed i propri interessi, a meno che tutti i paesi si mettano d’accordo su misure di lotta efficaci. A questo proposito gli Stati membri della Cee dichiarano di essere decisi a cooperare con gli altri paesi al fine di eliminare e impedire la escalation del terrorismo. Si impegnano a tradurre davanti ai tribunali o ad estradare i responsabili della presa degli ostaggi con celerità e senza intralci burocratici. A tal fine credono sia opportuna la elaborazione da parte dei ministri della giustizia della Cee di una “convenzione internazionale”. I capi di governo hanno preso atto delle decisioni che i ministri degli interni della Cee hanno già adottato in materia: invitano tali ministri a continuare”.

 

Giugno ’76

– Bruxelles. I ministri degli esteri della Cee, i capi delle diverse polizie e gli “esperti” dei vari paesi nella repressione del terrorismo decidono di creare una organizzazione comune di polizia. Al termine di questa riunione, che l’Italia aveva sollecitato dopo “l’attentato in cui a Genova un commando di terroristi aveva ucciso il Procuratore Generale Coco e le sue guardie del corpo”, venne diffuso un comunicato in 6 punti. I ministri hanno deciso:

1) di moltiplicare gli scambi di informazioni sulle azioni terroristiche in modo di poter elaborare metodi efficaci per prevenire, fronteggiare, questa forma di criminalità;

2) di impegnarsi nella mutua assistenza in episodi concreti di terrorismo;

3) di procedere a scambi di informazioni sulle tecniche seguite, sulle esperienze di lavoro sulle tecnologie e sulle attrezzature delle forze di polizia dei diversi paesi;

4) di offrire la possibilità ad agenti di polizia di un paese di seguire speciali corsi di addestramento antiterroristico in altri Stati o di compiere viaggi di studio;

5) di cooperare in tutti i settori concernenti la sicurezza interna, inclusa quella dei trasporti aerei, la sicurezza degli impianti nucleari e le misure di protezione civile in caso di catastrofe naturale;

6) di costruire uno speciale gruppo di lavoro composto di alti funzionari di diversi ministeri per esaminare le questioni specifiche di questa forma di collaborazione internazionale.

 

Gennaio ’77

– Strasburgo. Viene approvata la Convenzione Europea per la repressione del terrorismo.

 

Maggio ’77

– Londra. Si riuniscono i 9 ministri degli Interni della Cee parallelamente ad una commissione composta dai capi delle polizie, dai capi dei corpi antiguerriglia e dagli “esperti” della guerra di classe controrivoluzionaria. L’Italia è al centro delle preoccupazioni per lo sviluppo che lo scontro rivoluzionario ha avuto nell’ultimo anno. Vengono confermate le decisioni prese nel giugno ’76 per la costruzione di una organizzazione comune di polizia. In particolare vengono prese decisioni operative sui seguenti punti:

1) formazione di un centro di addestramento continentale dei corpi antiguerriglia che funzionerà in Inghilterra curato particolarmente dai corpi antiguerriglia britannici;

2) creazione di un computer – schedario europeo che: centralizzi tutte le informazioni sui gruppi guerriglieri; sui loro militanti, sulle loro tecniche; centralizzi tutti i dati relativi a sequestri di persona, numeri di serie delle banconote, ecc;

3) concessione a questa polizia di estendere la caccia ai guerriglieri su tutto il territorio continentale senza limiti di frontiera;

4) accordi di scambio di uomini e tecnici antiguerriglia;

5) controllo del traffico delle armi mediante l’unificazione dei provvedimenti tecnici, polizieschi e giuridici su scala continentale. Gli accordi operativi per la realizzazione di queste misure sono affidati a riunioni periodiche dei capi delle polizie che hanno anche il compito di preparare il prossimo vertice dei 9 ministri. La scelta dell’Inghilterra come cuore dell’azione comune antiguerriglia si spiega con l’esperienza che il personale militare di questo paese ha acquistato nella lotta contro l’Ira, lotta che sintetizza tutti gli aspetti della guerriglia nelle metropoli.

 

Giugno ’77

– Il ministro degli Interni Cossiga, subito dopo il vertice di Londra si reca a Madrid per un incontro con il ministro degli Interni spagnolo Martin Villa. In questo incontro, a nome dei 9, riferisce i contenuti del vertice di Londra con l’esplicito proposito di integrare la Spagna nella politica di repressione controrivoluzionaria continentale. L’integrazione della Spagna come “anello forte” della catena imperialista continentale è infatti uno degli obbiettivi dei capifila. Questo obbiettivo è però molto ambizioso e non privo di rischi, perché se da un lato la trasformazione della “Spagna fascista” in “Stato imperialista” è un passaggio importante del processo di integrazione imperialista continentale, dall’altro la forza della guerriglia spagnola può inserirsi a sua volta in un processo continentale e diventare così un punto di forza del processo rivoluzionario.

 

Settembre ’77

– Cossiga si reca a Londra dove concorda con il ministro degli Interni Merlyn Rees l’acquisto di tecnologia repressiva e perfeziona gli accordi già presi nel vertice di giugno. Successivamente quest’ultimo renderà la visita recandosi a Roma.

 

Ottobre ’77

– Durante l’operazione Schlajer e il dirottamento effettuato dal “Commando Martire Hlimeh” e poi anche dopo il massacro del 18 ottobre il personale politico-militare degli stati imperialisti europei si è stretto intorno ai suoi “superiori” tedeschi fornendoci una immagine cruda e disincantata delle linee su cui marcia il processo di integrazione e dei livelli operativi che esso ormai ha raggiunto. Nella misura in cui la guerriglia viene da tutti riconosciuta come comune e principale nemico anche la “lotta al terrorismo per la difesa della società occidentale” diventa di più in più il terreno strategico su cui viene fatta marciare la ristrutturazione imperialista degli Stati che sta alla base della cosiddetta “unità europea”.

Ha dichiarato Schmidt: “la liberazione degli ostaggi è un successo della solidarietà internazionale contro il terrorismo”. E in effetti dagli Usa alla Gran Bretagna tutta la potenza delle pressioni politiche è stata messa in campo a sostegno delle decisioni di intervento prese dal governo tedesco. Questa “solidarietà politica” si è accompagnata a non meno sostanziali “aiuti attivi” sul terreno militare poliziesco e della manipolazione controllo dell’opinione pubblica.

 

Gennaio ’78

– Cossiga si reca a Bonn dove incontra il ministro degli Interni tedesco Maihofer. Al termine dell’incontro viene emesso un comunicato in cui è detto: “I due ministri hanno espresso comune apprezzamento per la stretta e fiduciosa collaborazione che è stata finora realizzata tra i servizi di sicurezza e di polizia dei due paesi, in special modo nel settore della lotta al terrorismo internazionale e hanno preso accordi per la cooperazione operativa in casi concreti.

 

Nota 2

Le caratteristiche del campo:

1) Isolamento. Vale a dire isolamento dall’esterno e controllo militarizzato di ogni contatto o comunicazione (colloqui, posta, avvocati); chiunque intrattenga rapporti è automaticamente inquisito, familiari pedinati o arrestati, avvocati inquisiti o arrestati. Isolamento assoluto dal proletariato prigioniero. Isolamento nel campo per piccoli gruppi. Unica socialità consentita è quella “nucleo di cella”, che viene composto dall’autorità del campo.

2) Obbiettivi del campo. Gli obbiettivi che vengono perseguiti attraverso l’isolamento e i rapporti di forza esistenti in questa situazione sono: destabilizzazione politico-militare dei prigionieri e in tendenza il loro annientamento.

3) Struttura militare del campo. È caratterizzata da:

– Rigidità nella conduzione irreversibile e non controllabile. Infatti la conduzione è funzionalizzata al prigioniero di guerra la cui destabilizzazione è l’unica variabile possibile. In pratica questa possibilità è unicamente legata ad una scelta collaborazionista.

– Integrazione delle strutture militari interne-esterne (personale carcerario, corpi antiguerriglia del Gen. Dalla Chiesa). Va sottolineato che la tendenza di questa integrazione è tutta a favore delle forze antiguerriglia.

– Rapporti di forza militari tra prigionieri da un lato, il personale e le strutture dello Stato dall’altro, completamente a favore dei secondi in proporzione schiacciante.

4) Dimensione politica del campo. Sarebbe un errore cercare un termine di confronto tra il campo e le strutture carcerarie sul territorio nazionale. Siamo di fronte ad un salto qualitativo nel trattamento dei prigionieri. Il campo materializza la tendenza principale e il cuore del “nuovo ordine” carcerario e della “riforma”.Si realizza infatti all’interno di una pianificazione internazionale che vede come punto di riferimento (per l’Italia) e di forza (per l’area continentale) i campi di concentramento per i militanti dell’Ira in Inghilterra e le strutture di Stammheim per i militanti della Raf in Germania.

5) Le contraddizioni. Il nodo fondamentale che caratterizza il “nuovo” ordine carcerario imperialista consiste nella sottrazione, mediante decreti legge, della conduzione delle carceri e del loro controllo al potere legislativo e al potere giudiziario laddove contrastino, anche solo minimamente, con le decisioni dell’esecutivo.

 

Brigate Rosse

 

Febbraio 1978

 

Fonte: Progetto Memoria, Le Parole Scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Risoluzione della Direzione Strategica, aprile 1975

IMPERIALISMO E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO

“Gli Stati Uniti hanno scelto di essere il nemico mortale di tutti i governi di popolo, di tutte le mobilitazioni della coscienza socialista scientifica ovunque nel mondo, di tutti i movimenti antimperialistici della terra. La loro storia negli ultimi 50 e più anni, le caratteristiche intrinseche delle loro strutture fondamentali, la loro dinamica politica, economica e militare fanno degli Stati Uniti il prototipo della controrivoluzione fascista internazionale.” (George L. Jackson)

Iniziamo questa relazione con una citazione del grande combattente afroamericano assassinato dai gorilla imperialisti nel carcere di San Quentin perché essa nella sua essenzialità coglie il cuore di una questione per noi fondamentale: la questione dell’imperialismo. I termini generali del problema li possiamo riassumere come segue. L’imperialismo è un sistema di dominio mondiale al cui centro stanno gli Stati Uniti, al centro dei quali stanno le grandi compagnie multinazionali ed i loro interessi. Questo sistema si è negli anni articolato e stratificato per aree funzionali di produzione e consumo che sono nello stesso tempo aree politiche e militari. I paesi del “Vecchio Continente” compongono una importante area economica, politica e militare dell’imperialismo. Questa area, da un punto di vista capitalistico sostanzialmente omogenea,in termini strategici viene definita “sistema democratico occidentale”. Negli ultimi tempi, dopo la lotta di liberazione vittoriosa del Vietnam e della Cambogia, dopo la crisi di Cipro e del Medio Oriente, questo “sistema”, insieme al Giappone è diventato il banco di prova dell’intero sistema imperialista. Ciò vuol dire che è in Europa principalmente che sempre più si giocherà la permanenza e lo stravolgimento degli equilibri mondiali sanciti dalla seconda guerra mondiale. L’unità economica, politica e militare sotto il segno atlantico di quest’area in altri termini è decisiva per gli Stati Uniti. E lo è a tal punto che non è affatto azzardato sostenere che dal punto di vista “amerikano” (che non è solo quello degli USA ma anche quello dei suoi alleati atlantici), il “sistema democratico occidentale” costituisce in questa congiuntura una totalità strategica (politica, economica, militare) che non ammette mutilazioni e che non tollera modifiche di sostanza. L’Italia, in quanto componente organica di questo sistema e dunque del sistema mondiale imperialista capeggiato dagli USA, si trova in una posizione estremamente importante perché:

– con la crisi di regime che la travaglia, costituisce un fattore di crisi dell’intero schieramento imperialista;

– per la grande influenza che ha il Pci costituisce un punto di forza dello schieramento social-imperialista e dopo i recenti fatti portoghesi ciò non va affatto trascurato;

– per la forza non trascurabile del movimento rivoluzionario può trasformarsi in un’area rivoluzionaria dirompente dell’Europa.

Questa situazione è oltremodo eccellente per le forze rivoluzionarie del nostro paese perché a livello mondiale l’imperialismo è scosso da violente convulsioni e tutto fa pensare che il peggio non è ancora venuto. La crisi che attraversa, senza dubbio è la più grave dopo la seconda guerra mondiale, è nello stesso tempo economica, politica e militare. Economica perché è crisi ciclica di sovraproduzione in presenza di un’inflazione galoppante e di un disordine finanziario e monetario mai registrato. Politica poiché scatena i fattori di instabilità di alcuni regimi subalterni e attivizza la lotta operaia, proletaria e rivoluzionaria delle classi oppresse tanto negli Usa che in Europa. Militare poiché determina uno scollamento crescente della Nato e la defezione di alcuni importanti paesi. Forza scatenante della crisi sono state le lotte dei popoli e delle classi che con determinazione rivoluzionaria hanno opposto una resistenza ideologica, politica e armata alle sue pretese egemoniche planetarie.

Più precisamente le contraddizioni che hanno costretto l’imperialismo alla “crisi”, alla difensiva e dunque ad entrare nella fase storica della sua dissoluzione sono tre:

– i paesi che lottano per la loro liberazione e per il comunismo;

– il social-imperialismo sovietico anch’esso interessato al controllo di aree strategiche, al rastrellamento di materie prime, a nuovi mercati e sbocchi per i suoi investimenti;

– le lotte operaie e il decollo di guerriglie proletarie nei suoi centri industriali e metropolitani.

È la complessa dialettica tra queste contraddizioni che spinge irreversibilmente verso una ridefinizione dei rapporti di forza tra imperialismo, social-imperialismo e forze rivoluzionarie e che dunque alimenta, nel mondo capitalista occidentale in generale, e in Italia in particolare, condizioni oggettivamente favorevoli alla crescita dell’iniziativa apertamente rivoluzionaria. Sta alle classi rivoluzionarie e alle loro avanguardie politiche e militari cogliere l’occasione. Sul teatro europeo l’imperialismo reagisce alla sua crisi rincorrendo tre obiettivi fondamentali:

– favorire un processo di controrivoluzione globale e aperta contro ogni forza a lui antagonista;

– ridimensionare all’interno di ogni paese la forza della classe operaia e ristabilire rapporti di forza favorevoli alle classi dirigenti locali “sicuramente atlantiche”;

– scoraggiare le velleità autonomistiche che si sono fatte strada in alcuni paesi per ricondurli sotto l’”ala americana”. Manovre economiche e servizi segreti lavorano assiduamente in questa prospettiva. L’uso della “crisi petrolifera” è solo l’ultimo esempio anche se alla prova dei fatti si è dimostrata un’arma a doppio taglio. Perché se da un lato l’inflazione selvaggia, la recessione produttiva e il pericolo di una vera e propria depressione hanno consentito il ricatto politico (“se volete colmare il disavanzo del deficit petrolifero e rimettere in sesto, almeno in parte, le bilance dei pagamenti coi nostri prestiti dovete liquidare senza incertezze le spinte “comuniste” che erodono alla base la stabilità dei regimi politici”); dall’altro hanno acutizzato tensioni di classe e così favorito le spinte rivoluzionarie. Appare chiaro tuttavia che “crisi dell’imperialismo” nell’immediato non vuol dire “crollo”, ma controrivoluzione globale imperialista e cioè:

  1. a) ristrutturazione dei modelli economici di base;
  2. b) ristrutturazione delle funzioni economiche entro una divisione internazionale del lavoro e dei mercati rigidamente pianificata;
  3. c) riadeguamento delle strutture istituzionali, statali e militari dei regimi meno stabili e più minacciati entro la cornice dell’ordine imperialista.

Affermare che l’Italia è l’anello debole del “sistema democratico occidentale” vuol dunque anche dire che è il paese in cui la controrivoluzione si scatenerà più forte e l’intero sistema imperialista si assumerà la responsabilità di questo processo. Ciò significa che il proletariato italiano a misura in cui s’intensifica la guerra di classe nel paese, non si troverà a “fare i conti” solo col suo nemico interno, bensì con l’intera organizzazione economica, politica e militare dell’imperialismo. Si vuol dire, più in generale, che la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è immediatamente anche guerra di liberazione anti-imperialista, perché l’emancipazione di un popolo in un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono “vie nazionali” al comunismo, perché non esiste nella nostra epoca la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista. Di fronte alla richiesta di potere che sta alla base dei movimenti di forze comuniste che operano sul continente europeo, la controrivoluzione imperialista assume una specificità differente solo per forma e per intensità: non per qualità. Che differenza c’è tra la Cdu e la Dc? Strauss non è certo diverso da Fanfani! Per questo insieme di motivi l’internazionalismo proletario è la nostra prima bandiera di lotta; l’area continentale è lo scenario d’insieme entro il quale vanno studiate “le leggi della condotta della guerra che influiscono sulla situazione di insieme della guerra”; il territorio nazionale è il teatro operativo della nostra guerriglia; i poli di classe industriali e metropolitani i punti di forza e di irradiamento della guerra civile rivoluzionaria.

 

ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI DI REGIME

Premesso che la crisi è il risultato della contraddizione che ha opposto le forze produttive ai rapporti di produzione capitalistici e cioè dell’antagonismo espresso con continuità dalle lotte operaie degli ultimi sei anni, vediamone la specificità economica.

La crisi economica attuale presenta tre caratteri principali:

– È crisi di sovraproduzione o meglio di sottoconsumo: dopo la forte espansione degli anni 1950–1960 (miracolo economico) siamo entrati in una fase caratterizzata da un forte squilibrio tra quantità di merci prodotte o producibili e assorbimento del mercato. Questo è l’aspetto storico dell’attuale crisi.

– È crisi in presenza di un forte aumento dei costi delle materie prime, tra cui il petrolio. Questo ha come effetto che, nella misura in cui il prezzo del macchinario aumenta, in conseguenza dell’aumento di prezzo sia delle materie prime che lo compongono, sia delle materie ausiliarie al suo funzionamento, proporzionalmente diminuisce il saggio medio di profitto. L’aumento del costo delle materie prime produce inoltre la riduzione o l’arresto dell’intero processo di riproduzione del capitale, sia perché il ricavato della vendita delle merci è insufficiente a riprodurre tutti gli elementi costitutivi della merce stessa, sia perché viene resa impossibile la continuazione del processo riproduttivo su una scala corrispondente all’allargamento tecnico di esso.

– È crisi in presenza di una forte caduta di saggio medio di profitto. Questo è l’aspetto specifico della crisi economica attuale.

È importante analizzare le conseguenze che questa forte caduta di saggio medio di profitto ha prodotto e produrrà sulla struttura economica e politica del sistema. Se la caduta tendenziale del saggio medio di profitto è una caratteristica fondamentale del processo capitalistico (in quanto tende sempre più ad aumentare il capitale costante in rapporto al capitale variabile) in Italia in questo ultimo decennio (1966–1974) questa caduta tendenziale ha subito un notevole processo di accelerazione dovuto soprattutto al sorgere prepotente dell’industria chimica, come industria imperialista multinazionale (Montedison). L’industria chimica è caratterizzata infatti da un saggio di plusvalore elevato (cioè valori alti della produttività per ogni singolo operaio), ma da un saggio medio di profitto bassissimo. Questo porta a far sì che è sempre più difficile per il capitalista chimico reperire all’interno del processo di produzione stesso i capitali necessari alle ristrutturazioni tecnologiche e quindi deve ricorrere all’indebitamento. Ma data la grande quantità di capitale finanziario, diventa sempre più difficile rastrellare questi fondi all’interno del mercato finanziario privato (finanziarie private e azionariato) per cui deve ricorrere ai prestiti statali. In tal modo nasce per il capitalista chimico la necessità di stabilire buoni rapporti con l’apparato statale per ottenere questi prestiti alle condizioni più vantaggiose.

Di qui a trasformare l’apparato statale in una struttura strettamente funzionale alle sue esigenze di sviluppo, il passo è breve ed anzi assolutamente necessario. Lo Stato assume quindi, in campo economico, le funzioni di una grossa banca al servizio dei grandi gruppi imperialistici multinazionali.

Dal modo in cui lo Stato-banca rastrella “a livello sociale” questi capitali necessari (che non sono altro che plusvalore complessivo “assegnato” alle multinazionali) nasce il forte processo inflazionistico caratteristico dello sviluppo capitalistico attuale nella fase dominata dai grandi gruppi imperialisti multinazionali. È chiaro che il processo qui esemplificato per il settore chimico, vale per ogni altro settore in cui domina la struttura capitalistica multinazionale (cioè vale per la Montedison, come per la Fiat, come per la Pirelli) e vale per ogni funzione dello Stato (economia, politica, militare). Lo Stato diventa espressione diretta dei grandi gruppi imperialistici multinazionali, con polo nazionale. Lo Stato diventa cioè funzione specifica dello sviluppo capitalistico nella fase dell’imperialismo delle multinazionali; diventa: Stato Imperialista delle Multinazionali. Il capitalismo italiano quindi cerca di usare la crisi attuale per costruire lo Stato imperialista delle multinazionali. Cioè anche in Italia si tenta di percorrere il modello americano–tedesco.

 

MODIFICAZIONI SUL TESSUTO DI CLASSE

Vediamo le conseguenze che la caduta del saggio medio di profitto produce sulla struttura di classe. Nei settori dove il saggio di profitto ha valori estremamente bassi, si nota una diminuzione assoluta di forza lavoro utilizzata. Ad esempio per la Montedison, nel periodo 1966–1971, nel settore chimico, si hanno investimenti in impianti fissi per 600 miliardi, con un notevole aumento rispetto agli anni precedenti ed una diminuzione di forza lavoro da 70.761 a 70.661 unità. Questa tendenza è più che confermata anche negli ultimi 4 anni. D’altra parte il sistema capitalistico in quanto anche produttore di merce forza lavoro, produce un forte aumento della popolazione complessiva. Basti pensare che all’inizio del 1800 la popolazione della terra era calcolata intorno ad 1 miliardo di unità; con l’avvento del sistema capitalistico si ha in 150 anni una quadruplicazione della popolazione mondiale (attualmente siamo intorno ai 4 miliardi ).

Da tutto ciò si può trarre una generalizzazione: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto produce una diminuzione della forza lavoro utilizzata in rapporto alla popolazione complessiva: cioè di fronte ad un aumento costante della popolazione complessiva non si ha proporzionalmente un aumento della forza lavoro utilizzata. Abbiamo detto in precedenza che l’aspetto specifico della crisi economica attuale è la forte caduta del saggio medio di profitto. Quindi si può sostenere che l’attuale crisi produrrà una notevole diminuzione della forza lavoro utilizzata in rapporto alla popolazione complessiva. Questo fenomeno avverrà in modo sempre più accelerato e sarà una caratteristica stabile del nostro sviluppo economico. Tutto ciò produce e produrrà sul tessuto di classe modificazioni stabili che si possono così schematizzare. Rispetto alla popolazione complessiva si avrà:

  1. a) una diminuzione continua di salariati con occupazione stabile;
  2. b) un aumento “dell’esercito di riserva” (serbatoio in cui attingere nei momenti di espansione), cioè dei salariati con occupazione instabile (vedi attualmente l’uso della cassa integrazione);
  3. c) un aumento di quella parte di popolazione che sarà espulsa in modo definitivo dal processo capitalista (gli emarginati). Quest’ultimo fenomeno finora non si era manifestato in termini acuti grazie all’emigrazione che ha significato per tutto un certo periodo lo sbocco alla sovraproduzione di forza lavoro. Attualmente, data la forte caduta a livello internazionale del saggio medio di profitto, questa valvola di sfogo non può più funzionare. Gli emigrati tornano a casa per ripopolare le fila dei disoccupati e dei sottoccupati e cioè, in definitiva, degli emarginati.

Rispetto ai comportamenti di classe si può così ipotizzare:

– Salariati con occupazione stabile. Una parte di questi riflette il livello di coscienza immediata che è di difesa della loro condizione di salariati (equo salario). Costoro formano la base materiale del riformismo. Un’altra parte, ed è lo strato più produttivo, quello in cui lo sfruttamento si accentua sempre più (l’operaio della catena), sviluppa una coscienza rivoluzionaria, cioè l’abolizione del lavoro salariato e la distruzione della società capitalistica.

– Emarginati. Gli emarginati sono un prodotto della società capitalistica nella sua attuale fase di sviluppo ed il loro numero è in continuo aumento. Sono utilizzati dalla società capitalistica, in quanto società dei consumi, come consumatori. Sono però consumatori senza salario. Da questa contraddizione nasce la “criminalità”. L’utilizzo “economico” della criminalità da parte del capitalismo sta nel fatto che essa contribuisce alla distruzione delle merci necessaria per continuare il ciclo. Per intenderci si potrebbero benissimo costruire automobili a prova di ladro, ma ciò va contro gli interessi della Fiat. Una parte degli emarginati riflette a livello immediato la coscienza borghese: estremo individualismo, aspirazione ad un sempre maggior “consumo”. Un’altra parte riflette la coscienza rivoluzionaria di abolizione della loro condizione di emarginati, da cui l’abolizione della società fondata sul lavoro salariato.

– Esercito di riserva. Per quanto riguarda l’esercito di riserva i livelli di coscienza sono dati dall’intreccio dei livelli di coscienza riscontrabili all’interno dei salariati con occupazione stabile e degli emarginati.

 

IL PROGETTO POLITICO DEMOCRISTIANO

Se gli anni 1970–1974 sono stati caratterizzati da forti contraddizioni all’interno della borghesia (per esemplificare scontro Montedison–FIAT ), contraddizioni che hanno spaccato verticalmente la struttura dello Stato, dei partiti, delle forze sindacali, il periodo attuale sembra caratterizzato da una raggiunta fase di “armistizio” fra i vari gruppi capitalistici italiani: cioè di fronte all’acutizzarsi della crisi, i vari gruppi capitalistici hanno serrato le fila. Armistizio non significa però fine delle contraddizioni all’interno del fronte borghese, significa semplicemente un congelamento momentaneo di queste contraddizioni, congelamento che si manifesta attraverso un raggiunto accordo (anch’esso di carattere momentaneo) sulla spartizione di potere fra i più forti gruppi borghesi. In questa chiave sono da interpretarsi l’accordo raggiunto al vertice della Confindustria nella primavera 1974 (Agnelli presidente e Cefis vicepresidente), l’unità stabilitasi intorno a Fanfani delle più forti correnti Dc (Fanfaniani, Dorotei, Andreottiani, ecc.), l’attuale composizione e funzione del governo Moro. Sarebbe comunque un errore pensare che le contraddizioni che dividono il fronte della borghesia siano contraddizioni di carattere antagonista. Esse sono semplicemente varianti tattiche dello stesso progetto: la costruzione dello Stato Imperialista delle Multinazionali. L’essenza del conflitto intercapitalistico sta semplicemente in questo: quale sarà il gruppo imperialista multinazionale che guidando il progetto di costruzione dello Stato Imperialista, si assicurerà la fetta più grossa di potere. Il progetto politico della Dc, che trova in questo momento il suo più autorevole interprete in Fanfani, mira a fare della Dc stessa l’asse portante di questo progetto dello Stato Imperialista. Ponendosi in ogni momento come gestore dell’ “armistizio” raggiunto, la Dc cerca di essere l’elemento di continua mediazione dialettica fra gli interessi dei vari gruppi capitalisti.

Nelle intenzioni della Dc si dovrà realizzare così, all’interno di un processo caratterizzato da contraddizioni nello schieramento borghese e da un forte scontro tra borghesia e proletariato, la costruzione “pezzo su pezzo” dello Stato Imperialista e alla fine di questo processo una completa integrazione tra Dc e Stato Imperialista. È chiaro che questo processo però non avverrà in modo certamente pacifico,ma andrà assumendo sempre più i caratteri della “guerra civile”. Questo anche, e soprattutto, per la profonda crisi di egemonia che costringe la borghesia, le sue rappresentanze politiche e le istituzioni dello Stato a risolvere sempre più le contraddizioni di classe per mezzo della forza, utilizzando cioè l’intero apparato di coercizione e solo quello. Più in particolare il progetto politico democristiano, apertamente sostenuto anche da Tanassi, da Sogno e da Almirante, si propone di costruire intorno al blocco integralista della Dc un più vasto e articolato “blocco storico” apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale alla costruzione dello Stato Imperialista. Le elezioni amministrative di giugno e ancor più le prossime elezioni politiche sono giocate in questa prospettiva di lungo periodo. E così pure i “temi” dominanti della propaganda politica in queste sinistre campagne elettorali non hanno un carattere contingente come dimostrano di credere i revisionisti, ma sono anch’essi una tappa della costruzione “pezzo su pezzo” dello Stato Imperialista. Emblematica, al riguardo, è la questione dell’ “ordine pubblico” e della guerra alla “criminalità politica” che più che a guadagnare voti, punta alla militarizzazione preventiva del territorio e della lotta di classe ovvero è direttamente strumentale alla necessità di ricostruire un quadro di valori di massa che consentano la ristrutturazione e la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nella prospettiva della guerra civile controrivoluzionaria. Perché questa è la strada, l’unica strada che la Democrazia Cristiana indica e percorre per far fronte alla crisi di Regime. Al di là delle apparenze “conciliari”, ciò che la Dc vuole è uno scontro aperto fra le forze rivoluzionarie e progressive ed il blocco storico controrivoluzionario. Essa cerca una spaccatura verticale che emargini ed annienti le forze ostili alla ristrutturazione imperialista dello Stato di Regime. Essa si propone di garantire ai padroni delle multinazionali imperialiste:

1) il rafforzamento delle strutture e dell’organico militari nei due sensi di una funzionalizzazione ai progetti Nato e della specializzazione antiguerriglia contro la sovversione interna;

2) La creazione di una “magistratura di regime” e l’irrigidimento dei provvedimenti penali su quei capitoli particolarmente inerenti alla guerra di classe, dalle norme sulla detenzione delle armi, a quella sulla carcerazione preventiva, al fermo di polizia, al confino, alle pene esemplari per i militari rivoluzionari;

3) L’adozione di misure “preventive” come la militarizzazione delle grandi città, delle istituzioni degli uomini più esposti del regime. E più in generale, proprio per realizzare questi obbiettivi col minor numero di contraddizioni essa punta ad una precisa riforma costituzionale, all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e ad un decisivo aumento di potere dell’Esecutivo: in breve alla cosiddetta “Repubblica Presidenziale”. Ristrutturare lo Stato per battere il movimento operaio sul terreno della guerra civile: questa è l’essenza del progetto politico democristiano.

 

IL PATTO CORPORATIVO

Il tentativo di costruire legami corporativi tra la classe imprenditoriale del regime e le organizzazioni sindacali dei lavoratori è funzionale più di quanto si creda alla formazione dello Stato Imperialista. Agnelli, in quanto portavoce dell’intero padronato, lo aveva anticipato nel suo primo discorso da Presidente della Confindustria, quando sostenne la necessità di “addivenire ad un patto sociale che, a 30 anni dall’aprile ’45, ridefinisca gli obiettivi nazionali del popolo italiano in vista degli anni ’80 e ’90. Non si tratta però di un patto tra sindacati–imprenditori–governo”.

Lo ha ribadito anche quest’anno: “La durezza della crisi economica, le sue complicazioni di ordine sociale e l’esigenza di un sollecito ritorno allo sviluppo, prospettano all’organizzazione industriale obbiettivi di carattere generale che sono in larga parte comuni alle organizzazioni dei lavoratori. Ritengo che sindacati e rappresentanza imprenditoriale si trovino davanti al medesimo problema: quello della costruzione di un quadro generale fatto di scelte e indirizzi che non favoriscano il consumo passivo, la rendita e l’accumulazione parassitaria, bensì l’iniziativa e la capacità”. Secondo Agnelli dunque le maggiori forze industriali multinazionali del Paese si dovrebbero assumere una responsabilità più diretta nella gestione del potere fissando una serie di principi politici e soluzioni tecniche per realizzare una gestione “concordata” della crisi oggi, e della ripresa domani con le Confederazioni sindacali e con il Governo. Ciò che ci interessa è che il “patto sociale” viene giustificato non in funzione “anticongiunturale”, dunque come accordo tattico, ma come esigenza avanzata e perciò come progetto di stabilizzazione per gli anni ’80! L’operazione di ingabbiamento che esso presuppone può essere definito: incorporazione organica della classe operaia dentro il capitale e dentro lo Stato. Essa segue la logica che la classe operaia per salvare se stessa, deve salvare il padrone; per salvare il padrone deve salvare lo Stato; per salvare lo Stato, deve assumersi i costi economici della riconversione produttiva ed i sacrifici della ristrutturazione imperialista. È una logica miserabile e vale la pena di tenerne conto solo perché essa è fatta propria dai vertici sindacali e da quelli del Partito Comunista. La falsità delle argomentazioni portate a giustificazione del “patto corporativo” sta in questo:

– si identifica l’interesse operaio con l’interesse di sviluppo del grande capitale multinazionale e l’interesse delle multinazionali con l’interesse nazionale;

– si contrabbanda per disposizione riformistica l’esigenza di riconversione produttiva del grande capitale.

Il “patto corporativo” riferito alla fabbrica vuole nascondere una realtà che da anni le avanguardie operaie chiamano “fascismo di fabbrica” e cioè una ristrutturazione del ciclo e dell’organizzazione del lavoro con i suoi risvolti di:

  1. a) Rottura della rigidità della forza–lavoro (mobilità: distruzione sistematica dei nuclei di avanguardia; maggior utilizzo degli impianti; intensificazione dello sfruttamento).
  2. b) Militarizzazione dell’apparato di dominio (corporativizzazione dei dirigenti, dei quadri, dei capi; sindacalismo giallo; utilizzo dei fascisti per i “lavori sporchi”; spionaggio). Rispetto alla lotta operaia una conseguenza decisiva del “patto” è dunque una più moderna concezione della repressione: sindacalista e poliziotto, spionaggio padronale e controllo sindacale si fondono in un unico disegno di annientamento dell’autonomia e dell’antagonismo. Un esempio è la tendenza, già dimostratasi in molte fabbriche dove la lotta autonoma è particolarmente incisiva,che vede gli esecutivi sindacali e le direzioni del personale impegnati a collaborare per l’identificazione dei “provocatori” con l’obiettivo specifico della loro eliminazione mediante licenziamento o denuncia alla magistratura. In sostanza, questa proposta corporativa è decisamente reazionaria. Essa prefigura una dittatura feroce nei confronti delle forze di classe rivoluzionarie, e a misura in cui essa si afferma in fabbrica, tende a proiettarsi sul terreno politico generale chiudendo ogni spazio alla guerra di classe rivoluzionaria.

 

IL “COMPROMESSO STORICO”

Nella sinistra ufficiale non vi è comprensione delle profonde trasformazioni strutturali e politiche che si stanno compiendo per opera della Dc e della Confindustria all’interno della controrivoluzione globale imperialista.

Soprattutto il Pci dimostra la sua incapacità ad indicare una strategia di classe alternativa. La linea ribadita al XIV Congresso ne è una dimostrazione definitiva. La “strategia” del Compromesso Storico affonda i suoi presupposti in due incomprensioni decisive: il carattere guerrafondaio dell’imperialismo, e il carattere reazionario e imperialista della Dc. Berlinguer, questo Kautskj in sedicesimo, indica come tendenza a livello mondiale e scorge perfino conferme dal comportamento degli Usa, la politica della “coesistenza” e della “cooperazione” giungendo a profetizzare “un sistema di cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità”. Non c’è antagonismo per Berlinguer tra imperialismo, social–imperialismo e rivoluzione, ma contraddizioni in via di soluzione “pacifica” e “civile”. La realtà lo smentisce.

La tendenza generale oggi nel mondo è quella che indicano i compagni cinesi: è la rivoluzione. Imperialismo e social–imperialismo si trovano sempre più spesso in aperta contraddizione e le guerre di liberazione dei popoli conoscono nuove vittorie. Così è in Vietnam, in Cambogia o per altro verso in Portogallo. Anche per quel che riguarda l’Italia l’idillio filocapitalistico di Berlinguer non ha limiti di pudore. Con una operazione teorica assai lontana dal materialismo storico e dialettico, egli propone il “ compromesso con le masse popolari cattoliche” ovvero, fuor di perifrasi, con la Democrazia Cristiana di cui trascura o addirittura nega il carattere imperialista, antinazionale e antipopolare che da trent’anni fa di questo partito l’anima e il cervello di tutte le spinte più reazionarie e fasciste che si registrano con intensità sempre crescente nel Paese. A tal punto si diserta dal marxismo e dal leninismo, si sconfina dall’analisi di classe che la contraddizione principale viene ormai presentata come contraddizione tra “democratici” e “antidemocratici” dove i primi sono tutti coloro che agiscono nell’area costituzionale, e i secondi tutti gli altri, non importa se fascisti, rivoluzionari od operai che perseguono obiettivi di lotta “particolaristici” o “corporativi”.

La funzione che il Pci si assegna dunque è quella di recuperare all’interno del “sistema democratico” tutte le spinte antagoniste del proletariato stravolgendole in termini riformisti. Il “compromesso storico” infatti non presuppone un antagonismo strategico rispetto al programma di realizzazione dello Stato imperialista (nello Stato imperialista “democristiano” ci saranno un po’ più poliziotti; in quello del Pci un po’ meno, ma solo perché ognuno dovrà essere poliziotto di se stesso), ma si presenta semplicemente come diversa formula per la gestione del potere di quel potere. Il “compromesso storico” non corrispondente ad un bisogno politico di classe, ma più riduttivamente ad un tornaconto opportunista di uno strato di classe che dal rafforzamento del sistema imperialista, realizza alcuni miserabili vantaggi. Per questo il Pci si oppone ormai violentemente al movimento rivoluzionario e alle forze di classe da cui quest’ultimo trae forza ed alimento.

Per questo i disegni revisionisti verranno certamente sconfitti. Non bisogna tuttavia sottovalutare la funzione ambivalente che nei tempi brevi la linea del “compromesso storico” svolge entro la crisi di regime:

– da un lato costituisce un potente fattore di crisi politica del regime; incute terrore ed accelera contraddizioni nei settori più conservatori e più reazionari;

– dall’altro evita che il Paese diventi ingovernabile, e cioè ostacola lo sviluppo della guerra di classe. Perché ciò significa che, mentre i settori conservatori o reazionari preoccupati dalla piega degli avvenimenti progettano e alimentano disegni di sopravvivenza apertamente controrivoluzionari, larghi settori del movimento operaio e popolare rimangono catturati nella trappola paralizzante della linea del “compromesso”. E questa linea, congelando le forze di classe ritarda ed ostacola la presa di coscienza a livello di massa della necessità della guerra, e questo proprio nel momento in cui la situazione è assai favorevole per le forze rivoluzionarie. Quando si dimentica che sono gli sfruttati che devono volere la guerra, si è scelto per la pace del padrone!

 

PORTARE L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO

La nostra linea, entro questo quadro generale di progetti e di contraddizioni resta quella di unificare e rovesciare ogni manifestazione parziale dell’antagonismo proletario in un attacco convergente al “cuore dello Stato”. Essa prende l’avvio della considerazione del tutto evidente che è lo Stato imperialista nel suo farsi a garantire ed imporre il progetto complessivo di ristrutturazione e dunque anche i progetti particolari, e che perciò al di fuori del rapporto classe operaia – Stato, non si dà, come del resto non è mai data, lotta rivoluzionaria. Obiettivo intermedio è il collasso e la crisi definitiva del regime democristiano, premessa necessaria per una “svolta storica” per il comunismo. Compito principale dell’azione rivoluzionaria in questa fase è dunque la massima disarticolazione politica possibile tanto del regime, che dello Stato. E cioè il massimo sviluppo possibile di contraddizioni tra le istituzioni e all’interno di ognuna di esse, tra i diversi progetti tattici di soluzione della crisi e all’interno di ciascuno di essi. Il passaggio ad una fase più avanzata di disarticolazione militare dello Stato e del Regime è prematuro e dunque sbagliato per due ordini di motivi:

1) La crisi politica del regime è molto avanzata, ma ancora non siamo vicini al “ punto di tracollo”.

2) L’accumulazione di forze rivoluzionarie sul terreno della lotta armata seppure ha visto negli ultimi due anni una grande accelerazione, ancora non è tale per espansione sul territorio e per maturità politica e militare da consentire il passaggio ad una nuova fase della guerra.

La distruzione del nemico e la mobilitazione politica e militare delle forze popolari non possono che andare di pari passo. Il rafforzamento del potere proletario è in altri termini condizione e premessa del passaggio alla fase più avanzata della disarticolazione militare del regime e dello Stato nemico.

 

LA GUERRIGLIA URBANA

La guerriglia urbana gioca un ruolo decisivo nell’azione di disarticolazione politica del Regime e dello Stato. Essa colpisce direttamente il nemico e spiana la strada al movimento di resistenza. È intorno alla guerriglia che si costruisce ed articola il movimento di resistenza e l’area dell’autonomia e non viceversa. Allargare quest’area vuol dire in primo luogo sviluppare l’organizzazione della guerriglia, la sua capacità politica e di fuoco.

Sono sbagliate tutte quelle posizioni che vedono la crescita della guerriglia come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semilegale della cosiddetta “autonomia”.

È bene far chiarezza su questo punto. Entro quella che viene definita “area dell’autonomia” si ammucchiano e stratificano posizioni diversissime. Alcuni, che definiscono la loro collocazione all’interno dello scontro di classe per via “soggettiva”, si riconoscono parte di questa area più per imporre al suo interno bisogni e problemi ad essa e cioè per “recuperarla sul terreno della politica” che a favorirne la progressiva definizione rivoluzionaria,strategica, tattica ed organizzativa. A nostro giudizio l’intera questione va affrontata a partire dallo strato di classe che più di ogni altro subisce l’intensificazione dello sfruttamento conseguente ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica. Teoria rivoluzionaria è teoria dei bisogni politici–militari, di “liberazione”, di questo strato di classe. Solo esso infatti esprime in potenza, se non ancora in coscienza (che vuol dire organizzazione), l’universalità degli interessi di classe. Solo intorno ai suoi bisogni possono essere organizzati e assunti i bisogni degli strati sociali emarginati dal processo di ristrutturazione e possono essere battuti i propositi revisionisti, riformisti o corporativi di quella parte di classe operaia che trova tornaconto, anche se miserabile, nel rafforzamento del sistema di dominio imperialista. Le “assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato di classe poiché esprimono, oggi, una interpretazione molto parziale e soprattutto settoriale dei suoi bisogni.

Al loro sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo di sacco di quell’impostazione. Ciò che le predispone a questo pericolo è il “feticcio della legalità” e cioè l’incapacità di uscire dalla falsa contrapposizione tra “legalità” e “illegalità”. In altre parole le assemblee autonome non riescono a porre la questione della organizzazione a partire dai bisogni politici reali e così finiscono per delimitare questi ultimi entro il tipo di organizzazione legale che si sono date. Tagliando il piede per farlo entrare nella scarpa! Alcuni, maggiormente consapevoli della contraddizione in cui si dibattono, giungono ad ammettere un dualismo d’organizzazione e così a riproporre l’improponibile teoria del “braccio armato” nell’antica logica fallimentare terzinternazionalista. Ma, pena l’estinzione della loro funzione rivoluzionaria, esse in questa nuova situazione devono fare un salto dialettico se vogliono rimanere aderenti all’assunto fondamentale di organizzare sul terreno della guerra di classe l’antagonismo proprio dello strato “oggettivamente” rivoluzionario. Fuori di questa prospettiva non c’è che minoritarismo o subalternità al revisionismo.

La guerriglia urbana organizza il “nucleo strategico” del movimento di classe, non il braccio armato. Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare ed agire militarmente e dare il primo posto alla politica. Essa svolge la sua iniziativa rivoluzionaria secondo una linea di massa politico – militare. Linea di massa per la guerriglia non vuol dire, come qualcuno fraintende “organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata”, o perlomeno non vuol dire questo in questo momento. Nell’immediato, l’aspetto fondamentale della questione rimane la costruzione del Partito Combattente come reale interprete dei bisogni politici e militari dello strato di classe “oggettivamente” rivoluzionario e l’articolazione di organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra rivoluzionaria. La differenza non è da poco e vale la pena di esplicitarla poiché essa nasconde una divergenza sulla questione dell’organizzazione che non è secondaria. La sostanza della divergenza sta nel fatto che la prima tesi appiattisce fino a dissolverla l’organizzazione nel “movimento”, che nello stesso tempo viene gonfiato fino a raggiungere dimensioni mitiche; la seconda concepisce organizzazione e movimento come realtà nettamente distinte e in perenne dialettica tra loro. Il Partito Combattente è partito di quadri combattenti. È dunque reparto avanzato e armato della classe operaia e perciò nello stesso tempo distinto e parte organica di essa. Il movimento è una realtà complessa e disomogenea in cui coesistono e si combattono molteplici livelli di coscienza. È impensabile, e soprattutto impossibile, “organizzare” questa molteplicità di livelli di coscienza “sul terreno della lotta armata”.Vuoi perché questo terreno, pur essendo strategico, non è ancora quello principale; vuoi perché il nucleo che costituisce il Partito Combattente, e cioè le Br, non ha certamente maturato le capacità politiche, militari e organizzative necessarie allo scopo. Non si tratta di “organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata”, ma di radicare l’organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe. Questo rimane il principale obbiettivo del Partito Combattente in costituzione in questa fase. Per l’insieme di motivi che abbiamo discusso il livello di scontro adeguato a questa fase resta quello della propaganda armata.

Gli obiettivi principali dell’azione di propaganda armata sono tre:

– creare il maggior numero possibile di contraddizioni politiche all’interno dello schieramento nemico e cioè disarticolarlo, disfunzionarlo;

– battere la pista al movimento di resistenza praticando terreni di scontro spesso sconosciuti ma non per questo meno essenziali;

– organizzare lo strato di classe avanzato nel Partito e in organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra.

La propaganda armata realizzata attraverso l’azione di guerriglia indica una fase della guerra di classe e non come qualcuno ritiene una “forma di lotta”. A questa fase segue quella della “guerra civile guerreggiata”, in cui compito principale dell’avanguardia armata, sarà quello di disarticolare, anche militarmente, la macchina burocratica e militare dello Stato e spezzarla. L’assalto al carcere di Casale per la liberazione di un compagno chiarisce il concetto nel senso che questa azione di propaganda armata:

– ha prodotto una disarticolazione profonda dello Stato: ribaltamento della campagna di propaganda con cui tentava di darci per “spaccati”; vanificazione dei progetti democristiani di un “processo esemplare” sotto le elezioni; accentuazioni delle contraddizioni tra magistratura e CC, tra magistratura di Milano e di Torino, tra alti gradi e bassi gradi della magistratura; tra Dc e altre forze politiche e via elencando;

– ha battuto la pista al movimento di resistenza nei due sensi di aver realizzato una parola di ordine del programma rivoluzionario (liberazione dei prigionieri politici) e perciò aver creato un clima di fiducia nella massa dei prigionieri politici oltre che tra le avanguardie rivoluzionarie; aver esplorato un nuovo terreno di scontro ed aver tratto indicazioni ed esperienza che nei prossimi tempi risulteranno decisivi;

– ha creato le premesse reali per organizzare l’avanguardia rivoluzionaria rinchiusa nelle carceri del regime su un programma rivoluzionario di attacco allo Stato.

Ora evidentemente tocca al Partito combattente dentro e fuori dalle carceri trasformare le premesse in strutture, le potenzialità rivoluzionarie liberate in potere proletario armato. Su quale terreno deve svilupparsi la nostra iniziativa tattica? Essi sono definiti in tre parole d’ordine fondamentali:

1) Spezzare i legami corporativi tra la classe dirigente industriale e le organizzazioni dei lavoratori.

2) Battere la Dc centro politico e organizzativo della reazione e del terrorismo.

3) Colpire lo Stato nei suoi anelli più deboli.

 

Spezzare i legami corporativi tra la classe dirigente industriale e le organizzazioni dei lavoratori.

Sul terreno della lotta operaia il nodo da sciogliere, e dunque anche il punto centrale del programma di lotta, è il “patto corporativo”: il rapporto Confindustria Confederazioni Governo come asse portante della ristrutturazione capitalistica e come elemento fondamentale dello Stato corporativo imperialista delle multinazionali. È molto importante, ma non è sufficiente in questa prospettiva, intensificare i movimenti autonomi di lotta contro ogni aspetto della ristrutturazione così come ci appare “immediatamente” con la Cassa integrazione, la mobilità del lavoro, i licenziamenti e l’intensificazione forsennata dello sfruttamento. Questi livelli di scontro vanno nella direzione giusta e assumono un carattere offensivo nella misura in cui riescono a rompere la “gabbia” sindacale e a mettere in scacco, cioè a minare, la capacità di controllo delle Confederazioni. Ma l’attacco deve essere esteso soprattutto alla struttura politico – militare del comando; perché la Confindustria riformata è il maggior centro dell’iniziativa padronale; perché essa si serve delle organizzazioni “sindacali” dei dirigenti, dei quadri, dei capetti e degli operai con la testa da padrone come cinghie di trasmissione della nuova ideologia e come centri di organizzazione corporativa.

Disarticolare a fondo questa “cinghia” esplicitandone struttura, modo, funzionamento e legami con i centri di potere politico e col disegno generale, è una esigenza immediata della lotta rivoluzionaria. Finora abbiamo condotto l’epurazione a livello della produzione. Da oggi in avanti si rende necessario investire anche livelli amministrativi, dirigenziali o direttamente padronali più ampi. Disarticolare questa trama vuol dire farne saltare la funzione politica e militare. Infatti la tendenza corporativa nel suo farsi, porta con sé l’esigenza e l’organizzazione della repressione violenta dell’antagonismo di classe e cioè di chi non accetta il suicidio revisionista. Di conseguenza la funzione del comando va sempre più specializzandosi anche in questa direzione. La raccolta di informazioni sui nuclei di avanguardia operaia, lo spionaggio politico, l’infiltrazione, la provocazione e ogni altro genere di lavoro controrivoluzionario vengono portati a nuovi livelli di efficienza. Si tratta di non lasciarli funzionare, di anticiparli, neutralizzarli e punire con la durezza opportuna chiunque si assuma la responsabilità del loro funzionamento.

 

BATTERE LA DC CENTRO POLITICO E ORGANIZZATIVO DELLA REAZIONE E DEL TERRORISMO

Sul terreno politico è la Dc che va combattuta e battuta perché essa è il vettore principale del progetto di ristrutturazione imperialista dello Stato e il punto di unificazione del fascio di forze reazionarie e controrivoluzionarie che unisce Fanfani a Tanassi, a Sogno, a Pacciardi, ad Almirante, ai gruppi terroristici. La Dc è il nemico principale.

Essa è il partito organico della borghesia, della classe dominante e dell’imperialismo. È il centro politico e organizzativo della reazione e del terrorismo. È il motore della controrivoluzione globale e la forma portante del fascismo moderno: il fascismo imperialista. Non ci si deve lasciar ingannare dalle professioni di fede “democratica e antifascista” che talvolta vengono da taluni dirigenti di questo partito, perché esse rispondono al bisogno tattico di mantenere aperta la finta dialettica tra “fascismo” e “antifascismo” che consente alla Dc di rastrellare voti facendo credere che contro il pericolo “fascista” sia meglio la “democrazia riformata”,e cioè la Stato imperialista. Il problema delle avanguardie rivoluzionarie è quello di fare chiarezza sull’intero gioco colpendo collegamenti, connivenze e progetti. La Dc non è solo un partito ma l’anima nera di un regime che da 30 anni opprime le masse operaie popolari del Paese. Non ha senso comune dichiarare la necessità di battere il regime e proporre nei fatti un “compromesso storico” con la Dc. Ne ha ancora meno chiacchierare su come “riformarla”. La Democrazia Cristiana va liquidata, battuta e dispersa. La disfatta del regime deve trascinare con sé anche questo immondo partito e l’insieme dei suoi dirigenti. Com’è avvenuto nel ’45 per il regime fascista e per il partito di Mussolini. Liquidare la Dc e il suo regime è la premessa indispensabile per giungere ad un’effettiva “svolta storica” nel nostro paese.

Questo è il compito principale del momento!

 

COLPIRE LO STATO NEI SUOI ANELLI PIU’ DEBOLI

La questione dello Stato è quella che più ci differenzia dalle forze revisioniste e pararevisioniste che lavorano a perfezionare questa macchina antiproletaria.

Con Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao anche noi diciamo che: “Spezzare la macchina burocratica e militare dello Stato è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione proletaria”.

La lotta contro il corporativismo, il fascismo e il regime non può essere disgiunta dall’azione diretta contro le istituzioni dello Stato e rivolta, in questa fase, alla loro massima disarticolazione politica.

“Disarticolazione politica” e non “erosione propagandistica della credibilità democratica” perché questo Stato in via di ristrutturazione è già lo Stato della guerra civile. Per questo è necessario conseguire risultati sul terreno della liberazione dei compagni detenuti politici; della rappresaglia contro la struttura militare delle carceri, contro l’antiguerriglia in tutte le sue articolazioni; contro la magistratura di regime, contro quei settori del giornalismo che si distinguono nella “guerra psicologica”.

L’attualità di questa prospettiva è più che dimostrata dai livelli raggiunti dall’azione controrivoluzionaria nei nostri confronti e nei confronti di tutte quelle forze che si sono mobilitate sul terreno della guerra di classe, e dagli eccellenti risultati politici che sono seguiti all’operazione Sossi (peraltro non conclusa) e all’assalto al carcere di Casale Monferrato.

A queste linee si uniformerà la nostra presenza nel movimento rivoluzionario e la nostra iniziativa di guerriglia e di costruzione del potere proletario. Ma un’ultima cosa è importante aggiungere: è necessario superare ogni tensione particolaristica e ogni spirito di setta. Noi crediamo nella necessità di “unirsi al popolo per unire il popolo” nella guerra di classe per il comunismo. E in questa prospettiva combattiamo e lottiamo per l’unità del movimento rivoluzionario.

Lotta armata per il comunismo.

Leggi, fai circolare, passa all’azione con le Brigate Rosse.

 

Brigate Rosse

Aprile 1975

 

Fonte: Progetto Memoria, Le Parole Scritte, Sensibili alle Foglie, Roma 1996.

 

Direzione Strategica, ottobre 1980

Conquistare le masse alla lotta armata per il comunismo.

Costruire gli strumenti di potere proletario armato: il Partito Comunista Combattente e gli Organismi di massa rivoluzionari.

 

Sommario:

La crisi del modo di produzione diventa controrivoluzione preventiva

1 ) Dalla progettazione all’attuazione del piano controrivoluzionario.

2) Congiuntura e ristrutturazione.

3) L’unica transizione possibile è per il comunismo.

4) Organizzare le masse sul terreno della lotta armata per il comunismo. Costruire i nuclei clandestini di resistenza.

5) La guerriglia nella fase di passaggio dalla propaganda armata alla guerra civile antimperialista.

 

 

LA CRISI DEL MODO DI PRODUZIONE DIVENTA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA

Nell’analisi che abbiamo svolto in questi anni abbiamo spesso parlato della crisi irreversibile che colpisce il modo di produzione capitalistico, e abbiamo anche spiegato che questa crisi non significa crollo automatico del modo di produzione stesso. Abbiamo invece visto come le vecchie “crisi cicliche” del capitale si siano fatte sempre più frequenti e più profonde, sino a giungere alla fase attuale, caratterizzata da un intreccio simultaneo, persino all’interno delle stesse aree e degli stessi settori, di crisi di sviluppo in un insieme sempre più contraddittorio e lacerante.

Siamo convinti che tutto ciò sia il segno che il modo di produzione capitalistico è storicamente giunto alla fase della sua crisi ultima, e dunque al punto in cui comincia la sua estinzione. Come un dinosauro morente, la sua agonia sarà lunga, e i suoi colpi di coda tremendi. Ma la rivoluzione lo ucciderà. Alla radice della crisi sta il meccanismo stesso dell’accumulazione capitalistica. Per questo essa non può essere curata in alcun modo, ed è mortale.

Il capitale accumulato riesce ad essere valorizzato – e cioè a funzionare appunto come capitale – con difficoltà sempre maggiori. Un numero sempre più ristretto di produttori diretti, di forza lavoro viva, è costretto infatti a valorizzare un capitale morto (macchine, materie prime, ecc. ecc.) sempre più grande. E d’altra parte forze produttive immense sono castrate, costrette a svilupparsi solo nei modi e nella misura compatibili con le leggi del profitto. Oggi i rapporti di produzione capitalistici – rapporti tra le classi, rapporti tra uomini – strangolano lo sviluppo delle forze produttive; oggi la crisi storica del modo di produzione basato sui valori di scambio si scatena a livello planetario. Solo i capitali più grandi e aggressivi riescono a sopravvivere, divorando quelli più piccoli, mentre l’intero sviluppo capitalistico nella sua fase di declino è costretto a basarsi sulla conquista di sempre più larghe posizioni di monopolio di settori produttivi e di aree di mercato; a centralizzarsi su scala sempre più vasta oltre i confini degli Stati nazionali; a catturare lo Stato per usarne tutta la forza a sostegno delle traballanti leggi dell’accumulazione. Ma all’orizzonte, come al solito in tempi di crisi del capitale, c’è l’unica medicina che sin qui si è mostrata veramente efficace: la guerra imperialista. Del resto, il mondo è già in guerra, e ogni giorno più velocemente precipita verso la guerra. Solo “producendo per distruggere, distruggendo per poter produrre”, nella forma esasperata della guerra imperialista, il capitale multinazionale può sperare ormai di ritardare la sua fine. Contemporaneamente, sul piano interno, si realizza una strategia indivisibile di tutte le frazioni della borghesia intorno alla sua frazione dominante, quella imperialista, per un attacco rinnovato in forme sempre più sistematiche e feroci alle condizioni di vita delle masse proletarie, spremendo da una parte di esse il massimo plusvalore,e condannando l’altra alla precaria marginalità del lavoro nero e all’emarginazione totale. L’accentuarsi delle contraddizioni capitalistiche su scala internazionale si rovescia all’interno nelle forme congiunte dello sfruttamento e della crisi economica, entro un progetto complessivo di controrivoluzione preventiva che si traduce in una filosofia molto semplice: più i padroni e i loro servi si scannano tra loro nel mondo, più si devono unire contro i proletari di casa loro. La controrivoluzione preventiva è l’aspetto dominante di una strategia nella quale si riassumono la tendenza alla guerra imperialista sul piano internazionale e la ristrutturazione sul piano interno. Essa significa che su ogni strato proletario si abbatte la repressione, che le conquiste di un decennio di lotte operaie vengono messe in discussione, che si allarga la disoccupazione, che aumenta la stratificazione proletaria. Il “nuovo modo di produrre” mostra che l’unico sviluppo possibile del capitale è quello della sua miseria e della sua violenza. La repressione assume un carattere “strutturale” : non è in proporzione diretta, consequenziale alle singole lotte. La Thatcher in Inghilterra e Cossiga e i suoi successori in Italia, al di là delle diverse storie della soggettività di classe nei due paesi, devono reagire con la stessa durezza ad ogni esigenza proletaria.

Ma la crisi dei capitalisti non è la crisi dei proletari. Se infatti per i capitalisti crisi vuol dire guerra imperialista e controrivoluzione preventiva, per i proletari la lotta armata per il comunismo si afferma e vive come la strategia che, attraverso una precipitazione rivoluzionaria della crisi, porta al superamento del modo di produzione capitalistico. La crisi deve dunque essere analizzata non solo dal punto di vista del capitale, ma anche da quello della rivoluzione proletaria, la sola che potrà seppellire la vecchia società che muore, è che già oggi costruisce, nella lotta, l’unico futuro possibile: il comunismo.

 

1) Dalla progettazione all’attuazione del piano controrivoluzionario

Negli anni passati, sotto l’incalzare della crisi dell’imperialismo sul piano internazionale dovuta essenzialmente alle contraddizioni insolubili insite in questo sistema, sotto la sferza di un movimento di classe ben fermo a non subirne passivamente gli effetti disastrosi, la borghesia italiana ha cercato di definire un piano di ristrutturazione rivolto non già ad attivare i meccanismi di un improbabile, ulteriore sviluppo, ma a mantenere inalterate le possibilità del suo dominio. La crisi non ha possibilità di sbocchi positivi nell’ambito del sistema economico – politico – militare imperialista nel senso che, comunque la si rigiri, questo sistema è diventato il vicolo cieco in cui non può passare un allargamento della base produttiva, un’avanzata dello sviluppo economico. Di qui l’impossibilità di un superamento degli elementi congeniti che costituiscono la crisi stessa, che anzi tendono ad aumentare e ad acuirsi nella loro gravità. Lo stato di crisi permanente è la condizione alla quale la borghesia stessa è da tempo rassegnata senza illusioni. Ma la crisi di per sé non genera un crollo catastrofico ed istantaneo, genera solo un sistema di vita sempre più miserevole e barbaro per milioni di proletari. Come pure crisi permanente non significa immobilismo della borghesia, tutt’altro. Significa che la borghesia, senza più prospettive di evoluzione, si affanna e si agita in una rincorsa perenne delle contraddizioni di classe, con l’unico scopo di poterle controllare e di ritardarne l’esplosione. Questa rincorsa, per quanto affannosa, non è mai inconsulta e priva di logica, ma assume la logica di una ristrutturazione continua e radicale, di un piano articolato entro cui si definisce il modo in cui in una determinata fase le contraddizioni di classe vengono affrontate.

La ristrutturazione non va confusa con il riformismo, il quale, anzi, in questa fase celebra il proprio funerale, ma rappresenta il tentativo disperato e senza soluzione di continuità di agire cambiando continuamente le carte in tavola nei meccanismi interni dell’accumulazione del capitale, al fine di scompaginare continuamente la composizione di classe. Ma il risultato è sempre uno solo: a un temporaneo tamponamento delle contraddizioni in qualche settore di classe corrisponde inevitabilmente l’allargamento e l’approfondimento in altri. Al temporaneo strangolamento della capacità o possibilità di movimento di qualche componente di classe – che successivamente si ripresenterà in modo ancor più radicale – corrisponde un allargarsi dell’area sociale investita dagli effetti della crisi, inducendo alla mobilitazione e alla lotta nuove frange del proletariato.

Crisi – ristrutturazione di classe sono così legati da una indissolubile dialettica, ed è lo stadio di maturazione raggiunto da ciascuno di essi, nell’intima connessione con gli altri, che configura la fase di scontro e la congiuntura politica. Se guardiamo un attimo al periodo appena trascorso, si vede che la borghesia era alla ricerca di un piano complessivo, di una ristrutturazione globale per battere tutto ciò che il ciclo di lotte degli anni settanta aveva prodotto, e si attrezzava per un attacco frontale all’insieme dei livelli politici e organizzativi raggiunti dalla classe, ivi compresa la guerriglia nascente. Le direttrici fondamentali di tutto ciò sono state dettate dalle centrali imperialiste internazionali, e hanno seguito i criteri di costruzione di quello che abbiamo chiamato “Stato imperialista delle multinazionali”, dai connotati caratteristici che individuavamo in “crescente militarizzazione, crescente centralizzazione nell’esecutivo, strategie economiche dell’imperialismo”, ecc. L’elaborazione di questo piano non avveniva in astratto ma si calava nella realtà italiana, con la peculiarità delle sue contraddizioni, costituite in particolare dalla composizione di classe e dagli equilibri politici che ne derivano, e quindi con tutte le tendenze contrastanti che l’imposizione ferrea del progetto imperialista non poteva non produrre. In sostanza, la fase di cui stiamo parlando è quella contraddistinta da un ciclo di lotte, all’interno delle quali è nata la guerriglia, a cui si è contrapposta una “preparazione” della controrivoluzione imperialista, lanciata in un piano complessivo di ristrutturazione economico–politico–militare.

Ora diciamo che la fase è cambiata. Vuol dire che ci troviamo a un punto della dialettica – scontro tra crisi – ristrutturazione – movimento di classe diverso da quello precedente. Ci troviamo ora in presenza di un’attuazione accelerata del piano controrivoluzionario. Si può constatare che per la borghesia non si tratta più di omogeneizzare le linee di tendenza al proprio interno per ricondurle tutte nei binari pensati ed imposti dal capitale monopolistico e dalle centrali multinazionali, ma di dar corso e attuazione nella realtà italiana alle direttive che da queste vengono imposte. Ad esempio, rilevavamo che il sistema politico italiano era alla ricerca di una ridefinizione delle forze proiettate nella strategia imperialista, controllate ed immediatamente utilizzabili ai fini degli interessi degli imperialisti. Si presentava quindi la necessità di far emergere in ciascun partito della borghesia il personale politico adatto allo scopo, di qualificare per ciascun partito il ruolo dipendente dalle linee generali dell’imperialismo e ad esse vincolarne l’azione, di sfrondare il regime dalle forze centrifughe che ne ritardavano il compattamento, di liberarsi dei “compromessi” con chi non era in grado di adeguarvisi rapidamente. Ora questo scopo è raggiunto, e la cricca delle nuove alleanze di governo ne è la dimostrazione. Diventa ora importante comprendere non solo le direttrici generali del progetto imperialista, ma penetrare nel bozzolo che lo ha incubato per anni, cogliere il modo concreto in cui si sta attuando, cogliere tutte le implicazioni politiche economiche militari per la classe, perché il passaggio dello scontro da una fase a un’altra ha proprio questo punto di partenza: l’accelerata attuazione del progetto di controrivoluzione attraverso la forzosa applicazione di un progetto di ristrutturazione che oggi, dalle sperimentazioni, dai tentativi, dalle esortazioni – dalle idee e dalle chiacchiere, insomma – passa alla veemente, inflessibile attuazione delle cose concrete. Questo incide profondamente nella composizione della classe e nelle sue condizioni di vita. Vediamo per prima cosa che l’attuazione delle politiche economiche imperialiste investe come un rullo compressore tutto l’insieme delle componenti di classe proletaria, nessuna esclusa, ciascuna toccata pesantemente nella sua specificità, e senza la possibilità di sottrarsi, nel suo proprio ambito, a un confronto diretto con la globalità del piano nemico. Vengono così a dilatarsi i confini sociali in cui si esplica l’aggressione padronale, per cui componenti proletarie fino ad ora parzialmente privilegiate dalle possibilità della ridistribuzione del reddito, si ritrovano ora a essere oggetto di un attacco tremendo, il bersaglio su cui calano i fendenti della crisi. Si è dunque allargato nel proletariato il fronte delle componenti che, schiacciate dalla crisi e dalla ristrutturazione, si presentano come dato ineliminabile, in contrapposizione di interessi, di bisogni, di potere con la borghesia. Ci si trova così di fronte ad un solo dilemma: o accettare lo scontro globale rivoluzionario, o subire senza speranze. Il dato nuovo è proprio questo. La crisi si abbatte su strati proletari allargati (diversi dalla classe operaia) che già da oggi vivono in termini antagonistici e oggettivamente rivoluzionari la ristrutturazione capitalistica: al Nord come al Sud, nella piccola come nella grande fabbrica, nel quartiere ghetto come nelle corsie di un ospedale.

Si dà quindi oggi la possibilità, storicamente reale, che il movimento rivoluzionario sia movimento di grandi masse, che la ribellione prodotta da questo stato di cose si trasformi in guerra rivoluzionaria. Tutte le questioni che in questi ultimi anni l’avanguardia comunista aveva sollevato e affrontato sono divenute parte del vissuto proletario, contraddizione viva, concreta, verificabile (e parimenti insopportabile) dei soggetti politici e sociali subalterni e sfruttati in questa società. La strategia imperialista individuata, smascherata, denunciata dalle avanguardie, è oggi per grandi masse di proletari la realtà quotidiana, la cruda esistenza di ogni giorno. Il ritmo incalzante della ristrutturazione fa esplodere l’inconciliabilità tra esigenze del capitale e bisogni proletari, per cui ogni istanza proletaria, seppur minima, seppur parziale, non è più né assorbibile né cavalcabile dal capitale, ma mette immediatamente in crisi la globalità del piano e la sua attuabilità, con la conseguenza che lo scontro diventa altrettanto immediatamente scontro di potere. Questo è l’altro dato che caratterizza la fase: nell’attuale situazione il proletariato, comunque ponga il soddisfacimento dei propri bisogni immediati, non essendo questi riconducibili nella loro generalità, all’interno del piano di ristrutturazione, si colloca subito in modo sovversivo, e ogni reale momento di lotta diventa momento di frattura politicamente insanabile.

Per contro, si apre la possibilità di una saldatura ora a un livello enormemente più alto fra strategia rivoluzionaria di lungo periodo e scontro di classe nell’immediato, tra programma comunista e pratica di massa, tra lotta per il potere e lotta per gli obiettivi immediati. Non solo questo, ma si sono create le condizioni perché si produca e si concretizzi un nuovo livello politico organizzativo delle “articolazioni del potere proletario”. Si dà cioè nelle attuali condizioni la possibilità che lo scontro espresso dal movimento di resistenza proletario (che, ricordiamo, è un movimento di massa, è l’insieme dei comportamenti della classe antagonisti alla ristrutturazione) sedimenti in modo cosciente e irreversibile gli organismi rivoluzionari delle masse, anelli indispensabili del sistema del potere proletario. La strategia della lotta armata può trovare oggi una nuova, ricca e formidabile articolazione. Che questa possibilità esista, è confermato anche dal modo con cui la strategia della lotta armata viene oggi vissuta dalla parte più combattiva del proletariato. La lotta armata non è più solo il punto di riferimento costituito dall’avanguardia combattente nella lotta contro lo Stato; l’indicazione strategica per la presa del potere, la prefigurazione della forza e della potenza del movimento di massa rivoluzionario, un’ipotesi politica da verificare e che deve dimostrare di essere credibile. Non è più solo questo, e non ha più questi limiti, ma è divenuta la pratica necessaria e possibile per vaste masse di proletari, per non subire, per continuare a lottare. Diceva un operaio Montedison (uno dei tanti) a un allibito intervistatore in occasione della processione sindacale per l’esecuzione di Gori: “Abbiamo speso tante energie, le abbiamo provate tutte in tanti anni di lotta, senza cambiare nulla su questi problemi di Marghera: comincio a pensare che la strada giusta sia quest’altra, e che bisogna fare come loro”. Il problema di cui parlava è quello che fa di Marghera una camera a gas per una popolazione di 150 mila persone, e le fabbriche della zona altrettanti mattatoi per gli operai che ci lavorano. “La strada giusta” a cui si riferiva è la lotta armata e “loro” sono le Br. Questo per dire che oggi la lotta armata non viene vista come qualcosa con cui simpatizzare o verso cui emotivamente e istintivamente applaudire, ma come la strategia “giusta” per combattere sui problemi concreti e immediati, come la pratica capace di modificare i rapporti di forza tra proletariato e borghesia. La lotta armata è diventata necessaria per milioni di proletari, per i quali non si pone più il problema di solidarizzare con le Occ (e su questo le discriminanti sono nettissime), ma di appropriarsi di una linea capace di rompere l’accerchiamento soffocante del nemico, di demolire, nelle piccole come nelle grandi cose, le insopportabili condizioni della propria vita.

Se tutto ciò caratterizza il passaggio alla fase attuale, accorre cogliere nel contempo, senza la benché minima approssimazione, le peculiarità dell’attuale congiuntura politica. Senza cogliere le particolarità della congiuntura non è possibile dare efficacia alla nostra proposta, non è possibile essere realmente dialettici rispetto all’organizzazione e alla lotta delle masse. Cosa bisogna considerare per valutare la congiuntura politica? Come dice la Ds ’78, gli elementi da tenere in considerazione sono tre:

– il terreno dominante su cui si muove l’iniziativa controrivoluzionaria della borghesia imperialista;

– le condizioni particolari e specifiche che caratterizzano il movimento di resistenza offensivo, e in particolare gli strati proletari più combattivi;

– lo stato reale del partito, o comunque dell’avanguardia armata.

Dobbiamo quindi analizzare questi tre elementi, così come ci si presentano qui e oggi, con estrema esattezza, anche se non dobbiamo cristallizzare il nostro giudizio come in una fotografia, ma vederne il loro possibile sviluppo.

 

2) Congiuntura e ristrutturazione

  1. a) La ristrutturazione industriale

L’attuazione delle politiche economiche, in Italia, segue con monotona coerenza le direttive delle centrali imperialiste. L’Italia, in quanto anello debole della catena imperialista, assume su di sé gli aspetti più contraddittori e laceranti della crisi internazionale. In altre parole, al nostro paese spettano i lavori più schifosi, e i capitalisti italiani saranno quelli con l’acqua alla gola più di tutti. Perciò la recessione, provocata dal fatto che il crollo degli investimenti, l’inflazione e la disoccupazione sono ormai delle costanti, si sta traducendo a partire dall’autunno in una offensiva senza precedenti contro i proletari. Ma in tutti i settori tira aria di crisi. In alcuni le cose vanno a gonfie vele: quelli legati all’industria bellica. È questo il campo strategico della ristrutturazione industriale: sempre più l’economia diventa economia di guerra. L’unica produzione che apparentemente non crea ulteriori fattori di crisi economica è quella destinata a distruggere e ad essere distrutta. L’industria bellica vera e propria e quella parte di settori ad essa collegati (nell’elettronica, nel nucleare, in alcune componenti meccaniche, ecc.) hanno avuto un enorme sviluppo proprio in questi anni, tanto che l’Italia è il quarto paese nella graduatoria mondiale dei paesi esportatori di armi. Naturalmente, questa presenza sul mercato mondiale degli armamenti è subordinata alle direttive generali dell’imperialismo americano, che opera un rigido controllo politico su questo settore, e “indirizza” la produzione italiana di armi – nella quale è direttamente presente con uomini e capitali suoi – secondo le esigenze del momento: per es. è noto che dall’America è arrivato il “via” all’Italia per il massiccio rifornimento di armi all’Iraq, proprio poco tempo prima che cominciasse la guerra con l’Iran. Alla regolamentazione americana della produzione di guerra e della sua esportazione, deve corrispondere, per i capitalisti nostrani, un adeguamento della struttura produttiva secondo queste finalità. Essendo l’industria italiana fortemente caratterizzata da una tecnologia medio-alta, essa si trova già in una posizione di vantaggio per assolvere a questo compito. Ma, perciò deve realizzare attraverso la ristrutturazione una differenziazione produttiva che “ricicli” in funzione della produzione di armamenti una parte sempre più rilevante degli impianti. Si tratta cioè di specializzare all’interno di ciascun settore industriale un ciclo per la produzione di guerra, separandolo, potenziandolo e costruendovi sopra una organizzazione del lavoro dalle caratteristiche sempre più “militari”. Oggi infatti la produzione bellica percorre verticalmente tutto l’apparato industriale italiano, dalla siderurgia alla meccanica fine, dall’industria dell’auto all’elettronica, per finire, recentemente, alla chimica e alla farmaceutica. Accanto alle fabbriche esclusivamente dedite alla produzione bellica, assistiamo allo sviluppo in ogni grossa azienda sia privata che di Stato, di reparti organicamente progettati per dare vita alla produzione di armi: questo accade su scala sempre più ampia alla Fiat, per es., all’Ansaldo, alla Borletti, alla Gte, ecc. Tutto ciò, potendo e dovendo differenziare la produzione a questo fine, è una vera manna dal cielo per i capitalisti più in crisi. Si veda il caso della Fiat che, in crisi nel settore dell’auto, trova in quello bellico una grossa valvola di sfogo, così come la trova la cantieristica, che si ristruttura quasi esclusivamente per la produzione di navi da guerra, e lascia così la maggior parte della classe operaia occupata nel settore alla mercé dei più selvaggi piani di ristrutturazione e riduzione del personale. Data la tendenza accelerata alla guerra dell’imperialismo, e l’enorme quantità di risorse buttate nella corsa agli armamenti, si capisce dunque bene come questo settore sia e sarà sempre più privilegiato negli investimenti. Ma ciò, in quanto destinato in ultima analisi alla distruzione non solo di merci ma anche di capitali, porta fatalmente non già a risolvere ma a ingenerare ulteriori fattori di crisi, nel quadro della crisi generale dell’imperialismo. Il ruolo dell’anello debole Italia, dal punto di vista economico e politico, si traduce nel suo opposto dal punto di vista militare, data la sua posizione geopolitica. L’intera economia italiana si subordina allora all’esigenza Nato di trasformare il fianco Sud dell’alleanza in un fondamentale cardine strategico. È un tema che dobbiamo approfondire, nel senso che già oggi la lotta di classe in Italia vive dentro questi rapporti di forza, e si trova dunque nella necessità obiettiva di qualificarsi sempre più in senso antimperialista, all’interno di una nuova strategia internazionalista del proletariato.

La vastità dei temi che solleva l’analisi della ristrutturazione imperialista sta in realtà alla base della definizione di un programma politico di congiuntura. Non vogliamo affrontare qui complessivamente questo programma, ma fissare i punti essenziali, i terreni prioritari per quanto parziali, sui quali cominciare a costruirlo, secondo una linea politica corretta.

Nella fase dell’attuazione del progetto controrivoluzionario, i centri dello scontro, laddove si giocano le mosse iniziali e fondamentali di una lunga partita, sono i luoghi concreti in cui si verifica l’oppressione del proletariato: le grandi fabbriche, per quanto riguarda l’aspetto generale dello scontro, e le galere (e la politica della detenzione in genere) per quanto riguarda il cuore della politica dell’apparato statale.

Avevamo individuato nel piano Pandolfi il piano economico nazionale che, con la più grande coerenza, aderiva alle esigenze dell’imperialismo. Ed è tuttora su di esso che l’economia italiana s’incanala, per rimanere nel novero dei paesi cosiddetti forti. Il piano si diceva triennale, ma a ben vedere sembra che abbia tempi d’attuazione da qui all’eternità. Le sue chiarezze senza mezze misure diventano attacco selvaggio all’intero proletariato, per tamponare le numerose falle di un sistema produttivo destinato a svolgere le mansioni più umili e sporche nella divisione internazionale del lavoro dominata dagli americani. Si dovrà produrre solo ciò che non turba l’egemonia politica ed economica dei veri e forti padroni del carrozzone imperialista. È questo l’imperativo politico che nel piano viene accolto e rispettato con servilismo nella definizione dei tagli di interi settori produttivi, nel saccheggio e nella distruzione di capacità del sistema industriale italiano. La chimica, la siderurgia, il ciclo dell’auto, la gran parte dell’elettronica, ecc., seguono tutti questo filo a piombo. Il crollo degli investimenti e il restringimento della base produttiva vengono sostituiti da due parole magiche: efficienza e produttività.

In termini più propriamente economici ciò significa forzare i meccanismi dell’accumulazione del capitale spingendo oltre ogni limite i confini dello sfruttamento proletario. Il taglio della spesa pubblica, l’aggressione continua ai salari reali, la razionalizzazione dei settori produttivi, ecc., sono le mosse che vengono attuate dentro il disegno padronale per raggiungere questi obiettivi. Gli effetti che si riversano da tutto ciò sul proletariato sono oggi ben visibili nella realtà quotidiana: espulsione di classe operaia occupata e conseguente dilatazione del numero di disoccupati che vanno ad ingrossare le file dell’esercito industriale di riserva, o di un’emarginazione ormai stabile. La mancanza di un reddito investe ora in modo di gran lunga superiore elementi di classe stritolati, soprattutto al Sud, da una condizione di vita sempre più misera. I ritmi di lavoro non sono mai sufficientemente elevati, c’è sempre qualcosa di più da spremere sia dal lavoro operaio produttivo che da quello dei servizi, come rimedio universale in sostituzione del crollo degli investimenti.

Non c’è un solo settore produttivo o improduttivo in cui la nocività non sia in vertiginoso aumento. In casi sempre più numerosi come nel ciclo chimico o nel siderurgico o nel lavoro ospedaliero, si è arrivati a non avere garantita neppure la sopravvivenza. Con gli attuali rapporti di produzione, e con l’attuale classe dominante, l’opera dell’uomo sull’ambiente non sviluppa un potenziamento delle risorse umane e naturali, ma la loro distruzione in un rapporto definitivamente stravolto.

L’insieme di queste contraddizioni si è riversato negli anni scorsi sulla classe operaia delle piccole fabbriche e sui lavoratori dei settori produttivi, dove era più facile per il capitale muoversi fin da subito con estrema disinvoltura.

Ma in ciò occorre vedere la conferma di quel che nel piano viene chiaramente ribadito: la centralità della grande impresa multinazionale. Questo non significa affatto che la grande impresa viene preservata dagli effetti della crisi, ma soltanto privilegiata dalla ristrutturazione, e che a pagare per primi i costi della crisi sono quei settori che, a differenza della grande impresa, sono meno adeguati ai rigidi schemi della divisione internazionale del lavoro. Ma se l’intervento previsto dal piano in molti casi è stato attuato con la mano del chirurgo, per la grande impresa si opera con la mannaia del macellaio. È Agnelli naturalmente che si è assunto l’incarico del capofila. L’offensiva scatenata contro la classe operaia Fiat, l’accordo capestro sui licenziamenti mascherati siglato con le confederazioni sindacali, dovrebbero essere le pietre miliari di un vero e proprio massacro politico della classe operaia. La capitolazione dei vertici sindacali che ha concluso la vertenza ci dà la misura di che razza di vicolo cieco sia la politica sindacalista-revisionista, e a quale suicidio essa inevitabilmente conduca (suicidio, fra l’altro che non risparmierà neppure i bonzi che ne sono gli apologeti): ma ci dà anche la misura della reale integrazione degli apparati del revisionismo nostrano con lo Sim. Naturalmente, non si tratta più di ottenere il coinvolgimento del Pci attraverso la formula morotea della solidarietà nazionale, né di consentire margini seppur minimi di contrattazione sindacale, ma di mettere la firma di Lama in calce ai piani di Agnelli.

C’è da dire che questa offensiva il padronato italiano l’ha preparata con molta cura, e attraverso tappe facilmente identificabili: 61 licenziamenti esemplari della Fiat, che hanno di fatto dichiarato illegale ogni forma di lotta; lo sterminio di un’intera fascia di avanguardie operative, vera struttura portante del Mpro, accompagnato dall’arresto di centinaia di compagni; le migliaia di licenziamenti attuati silenziosamente quest’estate per assenteismo, per arrivare infine, allo scontro aperto generale di quest’autunno.

Ma è vero che per i padroni le cose stanno andando tutte così lisce? Non ci sembra proprio. La reazione operaia contro la stangata governativo-sindacale di luglio, la lotta e la coscienza di classe espressa alla Fiat davanti ai cancelli e sotto i palchi dei bonzi sindacali non sono solo una pesante ipoteca su questo progetto, ma costituiscono la materializzazione di un movimento di resistenza che nessuno si illude di avere battuto. Al contrario, la tenacia, la forza, la mobilitazione con cui la classe operaia resiste alla ristrutturazione sono l’esaltante premessa di un nuovo ciclo di lotte, durante il quale il potere proletario armato si estenderà e si rafforzerà. Quelle che oggi agli opportunisti appaiono come delle irrimediabili sconfitte, segnano invece la presa di coscienza per migliaia di operai della necessità della lotta armata per il comunismo, e della necessità di progredire e organizzarsi, per non farsi schiacciare. Anche questa volta i padroni e i loro lacchè sperano di aver vinto, ma anche questa volta si bruceranno le dita.

Se la disperata ricerca di margini di profitto porta a un attacco che si configura ormai nei termini dell’annientamento politico, non bisogna pensare che esso non abbia una tattica, attraverso una molteplicità di strumenti che non va sottovalutata. La ristrutturazione delle fabbriche è oggi il centro dell’iniziativa antiproletaria, e pertanto oggetto degli sforzi congiunti delle forze controrivoluzionarie. Essa cioè non si limita a ridimensionare alcuni settori e potenziarne altri, secondo la maggior composizione organica di capitale che quel tipo di produzione ha in sé, ma è una precisa strategia complessiva che attraversa ogni settore dell’economia industriale in profondità, nell’organizzazione del lavoro, nelle forme della composizione di classe, anche se tutto questo provoca non poche contraddizioni in campo borghese.

La centralità politica della grande impresa, dato il suo carattere multinazionale, ha avuto la sua verifica attraverso la contrazione del mercato interno, volta a favorire l’inserimento dell’intera economia industriale nel mercato internazionale. Questa è una delle principali conseguenze della ricerca di maggior “valore aggiunto” delle merci nell’attuale crisi. Questa politica economica è diventata unitaria, (abbracciando settori avanzati e arretrati, grandi e piccole aziende) grazie all’ampliamento della struttura creditizia. Lo sviluppo del capitale bancario e industriale è andato oltre la fusione diretta di capitale bancario e industriale, verso forme sempre più sofisticate di controllo dei vari momenti produttivi da parte dello Stato-banca e delle grandi imprese. Finanziarie e Consorzi non si limitano a condizionare le scelte di mercato, contribuendo a modellare quest’ultimo, ma più in profondità definiscono spesso persino gli organici, la scelta del prodotto, la sua quantità nelle singole aziende in crisi, ecc. Da un lato questa struttura accentua i conflitti interborghesi (vedi la lotta contro il carattere anarchico dell’economia sommersa, lo scannamento tra borghesia privata e di Stato, ecc.), ma dall’altro ha consentito, sulla classe, che l’attacco all’occupazione diventasse il perno della ristrutturazione, in una regia sapientemente differenziata. L’attacco all’occupazione, per i modi in cui viene condotto, si traduce in un processo continuo di stratificazione del proletariato, il quale è costretto a mutare le forme specifiche della sua composizione di classe. Per fare un esempio: parallelamente alla temporanea sospensione dei licenziamenti Fiat, sono stati sospesi una serie di crediti al mondo consortile delle piccole e medie aziende. Il che significa un ulteriore aumento di licenziamenti in questo comparto oltre a quelli previsti dalla Gepi, che come tutti sanno è un ente di salvataggio.

Sviluppo del controllo da parte del capitale finanziario (di Stato e privato insieme) e attacco all’occupazione oltre a essere aspetti legati sono momenti di fondamentale importanza in questa fase ormai irreversibile dello sviluppo capitalistico, quando la possibilità di investimento non dipende da possibilità reali di allargamento della base produttiva, ma dalla adattabilità alla sopravvivenza attraverso l’accumulo di tecnologia e la capacità di super sfruttamento. Sotto questo profilo, i settori di classe che non vivono gli aspetti più stridenti della ristrutturazione sono quelli appartenenti alla produzione considerata trainante, ad alta tecnologia. Ma in Italia questi settori occupano una parte ridotta dell’intero apparato industriale, dato il tipo particolare del nostro sviluppo capitalistico. Essi godono dei migliori appannaggi (data la larga presenza di capitale di Stato, che monopolizza, per es. il settore nucleare), e occupano una classe operaia numericamente ristretta, con occupazione relativamente stabile e con una reale capacità professionale, adeguata alla tecnologia moderna. Perciò, questi settori sono tanto importanti nell’analisi per capire l’evoluzione della ristrutturazione in generale, quanto poco indicativi della dinamica della lotta di classe.

Centro dell’attacco della borghesia imperialista e cuore della lotta di classe in Italia sono gli operai che lavorano nei settori a tecnologia “media”. Si tratta dei settori che caratterizzano la maggior parte dello sviluppo capitalistico italiano, non solo fino ad oggi, ma anche nel nostro futuro di paese di serie B. Si va dall’auto alla cantieristica civile, che sono settori strutturalmente a tecnologia media, al tipo di chimica o di siderurgia o persino di elettronica (civile) che l’Italia deve produrre, non potendo aspirare a mete più raffinate, per le quali dipende dai brevetti stranieri. Tutta questa produzione è quella in cui è concentrata la maggior parte della classe operaia delle grandi fabbriche, oltre che il maggior numero di operai in assoluto. Ed è prevalentemente in mano alle multinazionali private. Lo scontro tra borghesia privata e di Stato racchiude un conflitto di potere che ha questa base strutturale.

La necessità di elevare la composizione del capitale fisso rispetto alla situazione precedente. Ciò infatti significherebbe allargare la base produttiva in vista di un’espansione del mercato: insomma, ignorare la crisi, l’economicità, il buon senso. Si realizzano allora le seguenti condizioni:

– diminuzione degli occupati in rapporto al capitale fisso esistente;

– riadeguamento dell’organizzazione della produzione alla nuova quantità di forza-lavoro impiegata (con relativi investimenti in questo senso);

– conseguente rafforzamento dell’autorità della produzione come “piano”, che si contrappone al singolo operaio nel mantenere i nuovi livelli di sfruttamento.

Oggi, come vediamo, il primo punto non si dà più con lo stillicidio dei licenziamenti nelle piccole fabbriche e il blocco del turn-over generalizzato, ma come un’ondata di licenziamenti, epicentro di un attacco economico politico e militare che riguarda l’intera stratificazione proletaria e la sua capacità di lotta, a partire dai suoi punti più alti. Parallelamente, lo sviluppo dell’automazione vuole espropriare con l’esasperata parcellizzazione del lavoro manuale, ogni possibilità della classe di contrapporsi al capitale, a partire dal potere “contrattuale” costituito dalla conoscenza del processo produttivo complesso; e vuole realizzare la possibilità materiale di sfruttare ancora di più la forza lavoro viva. La rivoluzione industriale dell’informatica applica non solo agli impianti, ma ormai anche a molti prodotti finiti, i microprocessori, che immettono in un unico pezzo quello che era il frutto meccanico di un insieme di mansioni operaie professionalizzate.

Due sono le cose di questo processo sulla composizione di classe in questi settori (e quindi per la maggior parte, e la più combattiva, della classe operaia). Da un lato si diffonde ancor più la figura di classe più espropriata e sfruttata, che abbiamo definito “operaio massa”. Pensare all’operaio massa come l’addetto alle catene o alle “vecchie giostre” o ai “ tappeti” e cose simili, legate ai compiti dell’assemblaggio, è quanto di più riduttivo si possa pensare. Da tempo ormai, con l’estendersi dell’informatica, ogni macchina utensile può trasformare il suo addetto in operaio di massa anche nelle piccole fabbriche riciclate nella produzione della “scelta europea”. Causa di questo processo è l’uso sempre più massiccio della scienza come forza produttiva contrapposta al lavoro manuale, per mantenere gli attuali rapporti di produzione. Il corrispettivo della diffusione dell’operaio massa è perciò con tutta naturalezza l’aumento a dismisura delle funzioni di controllo. In parole povere alle vecchie divisioni basate sulla professionalità si va oggi sostituendo una nuova forma di divisione, in cui il piano del capitale nella produzione appare in tutta la sua ostilità come controllo sul lavoro parcellizzato. Non solo i capi si trasformano in puri sbirri, ma le stesse aristocrazie operaie di vecchio tipo vengono via via sostituite da una nuova aristocrazia che si distingue dal fatto che nelle sue varie funzioni (sindacali e professionali) tocca sempre meno l’utensile per limitarsi a guardare quelli che lo usano: e quindi è improduttiva e non operaia. Mai come per questi strati di operai massa la presunta neutralità dello sviluppo delle forze produttive, sbandierata dai revisionisti, è apparsa in tutta la sua assurdità. Le forze produttive a partire da quel che oggi è la classe operaia, sono plasmate secondo gli attuali rapporti di produzione, che appaiono in tutta la loro ferocia.

Accanto a questi strati di classe se ne affiancano oggi altri di settori a bassa tecnologia nelle piccole e medie fabbriche, e i lavoratori dei servizi. Il rastrellamento di una massa maggiore di plusvalore relativo nelle aziende a tecnologia media diventa, dove la tecnologia è più bassa, ricerca di un maggior plusvalore assoluto. La riduzione dei costi di lavoro non potendo però avvenire tramite il prolungamento permanente della giornata lavorativa, avviene attraverso lo “spremere al massimo quanto serve”. L’industria di questi settori trasforma i suoi addetti in operai massa precari, la cui stabilità occupazionale sottostà ai minimi cambiamenti di “umore” del mercato, secondo le esigenze del giro grosso delle grandi imprese. Il carattere “indotto” di questo mondo non deriva più, cioè, solo dal fatto che in esso è concentrata la produzione della componentistica per le grandi imprese, perché è la sua stessa esistenza che è “indotta” come fenomeno direttamente dipendente dal sistema integrato dalla grande impresa attraverso i meccanismi della intermediazione finanziaria. Come già vediamo in tendenza nella Direzione Strategica del 1978, la precarietà non riguarda più il singolo operaio, ma la stessa unità produttiva in cui l’operaio è inserito, come valvola di sfogo del sistema delle multinazionali. Abbiamo messo i lavoratori dei servizi alla stessa stregua di questi strati operai pur non essendo produttivi, per un motivo molto semplice: nella politica fiscale dello Stato essi rientrano ormai nella voce “taglio della spesa pubblica”. Lo Stato, nella sua veste di imprenditore nei settori trainanti, nella sua veste di capitalista collettivo che deve mediare con le esigenze delle multinazionali private, di finanziatore di sbirri ecc, non può che rifarsi sotto questa voce. I lavoratori dei servizi perdono ogni residua sembianza di strati proletari privilegiati, sono destinati anch’essi a subire uno sfruttamento sempre maggiore, in un numero sempre minore.

La ristrutturazione economica, e in particolare quella dell’apparato industriale, persegue quindi l’intento di accumulare capitale e di attivare i meccanismi che a questo sono funzionali.

Ma questo naturalmente ai capitalisti non basta. Essi sanno che devono sconfiggere la resistenza proletaria, che il successo del loro piano è subordinato alla sconfitta del movimento di classe. Tutto il piano di ristrutturazione infatti è formato da due condizioni politiche: mobilità e militarizzazione.

La mobilità è il principio che guida ogni mossa, anche la più piccola, della ristrutturazione. Significa che, nel progettare la chiusura di una fabbrica, lo smembramento di un reparto, la modifica di un qualsiasi processo produttivo, l’obiettivo che i padroni tentano di raggiungere è quello di smembrare la composizione di classe, con una stratificazione in cui sia sempre più difficile l’identificazione proletaria e la possibilità di riunificare il proletariato. Per i capitalisti il proletariato serve “mobile” perché possa essere duttile e malleabile. Il restringimento della base produttiva segue certamente le esigenze economiche del capitale, ma nel modo di raggiungerlo deve ottenere lo scopo di impedire l’unità di classe, di frantumare l’organizzazione autonoma, di annichilire preventivamente la crescita e lo sviluppo della coscienza e della lotta proletaria.

I licenziamenti non vogliono dire soltanto buttare un sacco di gente sul lastrico. Vogliono dire anche modificare profondamente la composizione dell’intero proletariato. Vuol dire rendere disponibile, perché ricattata, priva di reddito, una fetta sempre maggiore di proletari al lavoro nero, saltuario, precario. Si realizza così una dispersione della potenzialità proletaria nei mille rivoli del lavoro supersfruttato. Ogni movimento di capitale, ogni licenziamento, ogni spostamento di reparto, ogni capillare manovra è rivolta ad intaccare la composizione politica della classe, ed è per questo che la mobilità va combattuta come il peggiore dei nemici. Ed è per questo che la resistenza proletaria quando si misura su questo terreno è offensiva.

È scontro di potere in una prospettiva di superamento delle divisioni di classe.

La militarizzazione è l’altro aspetto caratterizzante della ristrutturazione economica, che nel sistema produttivo raggiunge il massimo della sua applicazione. Tutto il complesso progetto, settore per settore, di automatizzazione della produzione tende a porre sotto un rigido controllo di tipo militare gli operai. Vale a dire: l’automazione ha come obiettivo quello di legare l’uomo alla macchina, in modo che sia quest’ultima a determinare i ritmi e le cadenze. Si cerca così di rendere “oggettivo” il rapporto uomo-macchina e di annullare definitivamente la soggettività dell’operaio. L’organizzazione del lavoro punta, attraverso l’applicazione di sistemi avanzati, a vincolare senza la possibilità di potersene sottrarre, i comportamenti operai, la loro possibilità di interazione col loro lavoro, al meccanismo autonomo e determinante della catena produttiva. La speranza è che così facendo venga eliminata quella “fastidiosa “ microconflittualità che la resistenza opera pratica tutti i giorni.

Ogni forma del processo produttivo, dell’organizzazione del lavoro, per quanto mistificata e lubrificata dalla demagogia padron-sindacale, è guidata da questo perfido intento: sottoporre in ogni luogo di lavoro, in ogni reparto, in ogni linea, la classe operaia ad un “nuovo modo di fare la produzione”, ad una nuova organizzazione che abbia in sé la capacità di castrare la soggettività operaia.

Parallelamente a questi meccanismi oggettivi (insiti cioè nel processo produttivo) agiscono altri di tipo soggettivo. Sono i molteplici strumenti di controllo, aperti e sputtanati, quali i capi, i guardiani, i sindacalisti, i carabinieri sulle linee, i Digos, le schede di identificazione personale (applicazione superlativa dell’informatica per il controllo, per seguire in ogni istante i comportamenti individuali degli operai) le telecamere ovunque, ecc. È così che una fabbrica, un ospedale, uno scalo ferroviario assomigliano sempre più ad un campo di concentramento, militarizzato a tal punto che il consenso operaio diventa superfluo mentre decisiva è l’impostazione militare.

Si può dire che gli unici “investimenti” fatti negli ultimi tre anni dai capitalisti vanno unicamente in questa direzione. Se la mobilità è l’arma che crea la stratificazione, la militarizzazione è quella che nella stratificazione persegue l’annientamento. Questo è valido in ogni settore di classe: all’informatica impiegata per il controllo nella grande fabbrica corrisponde l’impiego del blindato e la carica della polizia nella piccola; all’assedio permanente nei quartieri ghetto corrispondono le pistolettate omicide dei posti di blocco.

La militarizzazione è la linea strategica della borghesia per mantenere sempre più forzatamente e violentemente le condizioni dello sfruttamento, e per distruggere nel proletariato ciò che è virtualmente possibile.

Combatterla è compito primario delle forze rivoluzionarie.

Combatterla, mobilitando il movimento di resistenza, per disarticolare e distruggere in ogni dove gli strumenti con cui si attua, va nel senso della guerra civile per il Comunismo e della costruzione del potere proletario.

Lo scontro fra la strategia padronale e gli interessi immediati del proletariato vive dunque in termini di assoluto antagonismo. L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro non riguarda aspetti congiunturali (di mercato o di repressione di una singola lotta), ma vuole caratterizzare i termini essenziali di una intera fase storica. All’interno di una complessa strategia economica e politica, il capitale intende cioè, di fronte alla crisi, “rimodellare” le forze produttive nell’illusione di rendere esterni i suoi rapporti di produzione. E’ per questo che l’attacco agli interessi immediati del proletariato prende anche i connotati dell’annientamento politico. Ma è anche per questo dunque che dal punto di vista operaio, la lotta immediata non può porsi in termini rivendicativi ma diventa scontro di potere.

Da questa possibilità deriva la necessità dell’organizzazione comunista di unificare queste lotte all’interno di un programma di transizione al comunismo. Occupazione, intensificazione dello sfruttamento, nuove forme di controllo e divisione, sono oggi terreni immediati sui quali bisogna saper individuare i nodi strategici del piano meridionale.

Infatti dietro l’attacco differenziato all’occupazione emerge il carattere politico di ogni licenziamento. Carattere politico perché se per i padroni costituisce il punto centrale per una nuova stratificazione delle forze produttive, per i proletari lottare su questo terreno diventa l’articolazione specifica di un programma mirante a lavorare tutti per lavorare meno. Dunque assumere questa parola d’ordine a livello generale può determinare un elemento di unità per tutti i lavoratori, produttivi e improduttivi, può impedire che, per la sua complessa natura, la lotta contro la stratificazione proletaria (blocco del turnover, accordi separati, cassa integrazione prolungata, mobilità, precarietà ecc) si disperda in mille rivoli.

Ogni licenziamento è politico! Nessun licenziamento rimarrà impunito!

La macchina che segna i pezzi, la scheda perforata che determina il lavoro operaio, il capo sbirro, il sindacalista spia, sono gli aspetti più immediatamente visibili, gli ostacoli più diretti di ogni lotta contro la repressione e lo sfruttamento. Lottare contro queste cose vuol dire ormai mettere in discussione una divisione esasperata tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che avendo sempre meno qualsiasi giustificazione storica, si presenta sempre più come pura imposizione.

Controllare i controllori! Sabotare e colpire l’apparato di controllo: i suoi mezzi, le sue strutture, i suoi uomini! Individuare, isolare e colpire le spie e gli infiltrati!

Riduzione degli organici, nuove forme di divisione nell’organizzazione del lavoro, in connubio con le tecniche di automazione, tese a far dipendere sempre più l’operaio dalla macchina, sono i mezzi che materializzano l’intensificarsi dello sfruttamento. In questo quadro la nocività non è solo frutto di impianti o produzioni arretrate, ma esattamente l’opposto. Nelle mille forme in cui si manifesta la resistenza operaia allo sfruttamento essa deve assumere al suo interno l’obiettivo che: nessun reparto nocivo deve funzionare!

Questa parola d’ordine non mira ad ottenere qualche miglioria dell’ambiente di lavoro o il pagamento di qualche indennità in più, ma a colpire il cuore delle multinazionali nelle loro scelte strategiche, ad affermare potere proletario armato per imporre le finalità collettive della produzione, a ribaltare l’attuale rapporto uomo – natura in una società diversa.

Sabotare con tutti i mezzi l’intensificazione dello sfruttamento! Annientare i massacratori del proletariato!

 

  1. La ristrutturazione dello Stato.
  2. Lo Stato espressione della Borghesia imperialista.

Quando i rapporti di produzione strozzano l’ulteriore espansione delle forze produttive, quando cioè si produce il fenomeno della crisi generale del modo di produzione, la “politica” è costretta a tirare fuori i denti, e ad assumere un ruolo determinante. È la realtà economica, naturalmente, che provoca questa accentuazione del momento politico, determinato in ultima istanza dal livello esplosivo delle contraddizioni fondamentali. Tra parentesi diciamo che questa affermazione non ha nulla di poco ortodosso dal punto di vista marxista: il prevalere del “politico” in alcuni momenti storici non ha nulla a che vedere con la sua presunta autonomia!

L’essenza della posizione dominante dello Stato nella fase di crisi generale sta nella molteplicità dei meccanismi economici, politici, sociali, giuridici, ideologici e militari che pone in essere e fa operare in ogni ambito della società borghese in funzione della sua conservazione, cioè della conservazione dei rapporti capitalistici ormai superati.

Il carattere strutturale della crisi non fa che potenziare il ruolo dello Stato quale rappresentante dell’interesse delle multinazionali. Se l’allargamento delle funzioni dello Stato, che sempre più deve intervenire per controbattere la tendenza alla crisi insita nel modo di produzione capitalistico, porta alla crisi della forma–Stato stessa, ciò non significa affatto che questa crisi ne diminuisca il ruolo. All’opposto, essa spinge lo Stato a un salto di qualità. Lo Stato diventa espressione politica reale della borghesia imperialista, perde l’aspetto di rappresentante complessivo dell’intera borghesia e assume definitivamente la forma di Stato Imperialista delle Multinazionali, in quanto aumenta sempre più, in questa fase, l’influenza sostanziale che nel processo di formazione delle decisioni strategiche viene esercitata dalla frazione monopolistica multinazionale del capitale. Lo Stato diventa la determinazione operativa delle centrali imperialiste, e passa decisamente all’attuazione del progetto controrivoluzionario. La politica dello Stato italiano è oggi l’applicazione puntuale delle direttive economiche del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e delle direttive politico–militari della Nato, sotto la guida dell’imperialismo americano.

Al di là delle apparenze di un quadro di democrazia parlamentare che viene formalmente e opportunamente mantenuto, da una parte, il personale politico imperialista si concentra nei Ministeri e Istituti chiave dello Stato (Ministero del tesoro, Banca d’Italia,…) così come negli anelli del comando padronale (Confindustria, Intersind,…), i cui funzionari vengono oggi a costituire il nerbo dell’imperialismo, e dall’altra i CC diventano l’esercito antiproletario in tutta la complessità delle sue funzioni integrate nella strategia globale della Nato.

Nella metamorfosi della forma dello Stato non possiamo vedere certo lo sviluppo di una politica socio–assistenziale, come gli scienziati sociali borghesi si affannano a dimostrare, cioè una politica volta a porre rimedio alle contraddizioni dello sviluppo capitalistico attraverso una serie di interventi molteplici ed integrati nel sociale, quanto lo svilupparsi e il consolidarsi di una politica “social–militare”. Lo Stato si determina come Stato della controrivoluzione preventiva, con la funzione di garantire i presupposti stessi dell’accumulazione e, contemporaneamente, di difenderli con la forza delle armi.

Da Stato per il controllo sociale tende a trasformarsi in Stato per la guerra.

Ma esso non riesce più a risolvere la questione decisiva: la governabilità del sistema, perché nessun esecutivo, per quanto onnipotente, riuscirà mai a mettere d’accordo le richieste degli strati sociali supersfruttati, marginalizzati dalla riduzione della base produttiva, privati di realistico futuro, con le leggi dell’accumulazione capitalistica. Proprio per questo le contraddizioni che l’intervento dello Stato produce nei confronti della borghesia e all’interno delle sue diverse frazioni andranno adeguatamente considerate, per individuarne i punti deboli e portare con più efficacia il nostro attacco. Non devono però esser sopravvalutate, se non si vogliono correre tragici errori nella valutazione della congiuntura. Vediamo le polemiche furibonde di alcuni settori dell’industria privata verso la concorrenza dello Stato, o più ancora sull’entità e sulla distribuzione della spesa pubblica. Vediamo le lotte selvagge che si sviluppano per il controllo del sistema bancario. Vediamo come si sbranano i partiti tra di loro… Ma queste contraddizioni riguardano sempre un aspetto particolare, una delle facce dello Stato, mai quella principale: quella rivolta al mantenimento degli attuali rapporti di produzione attraverso meccanismi molteplici, in cui il momento essenziale è costituito dal “no” al proletariato su tutta la linea (dalle sue esigenze immediate a quelle strategiche). Attorno a questo obiettivo principale la borghesia, in questa congiuntura, si trova più che mai compatta!

Il “farsi Stato” di ogni frazione della classe borghese risponde proprio a questa esigenza irrinunciabile, e caratterizza l’attuale congiuntura. Il farsi Stato di queste frazioni non significa infatti che esse diventano tutte stupidamente subalterne a ciò che dice il governo, ma avviene all’opposto una ridefinizione profonda del ruolo di tutte le istituzioni economiche, sociali e politiche della società borghese. Da rappresentanti degli interessi di questa o quella parte sociale, tutti ricomposti e unificati nello Stato attraverso l’istituzione parlamentare, esse oggi hanno un ruolo rovesciato. Si sono trasformate negli apparati della coercizione indiretta (non militare) dello Stato: apparati civili per il consenso e per l’esecuzione della controrivoluzione nei vari ambiti.

Attraverso una logica contraddittoria quanto inesorabile, il “cuore dello Stato” ossia la strategia politica della borghesia imperialista, diventa sempre più controparte immediata dei proletari.

 

  1. Il ruolo della Dc, partito–regime

In Italia affrontare un problema dello Stato significa affrontare il problema della Dc, perché la Dc materializza in sé tutto quanto dobbiamo combattere e distruggere. Questo partito in più di trent’anni ha saputo compenetrarsi con il potere in tutte le sue articolazioni, in tutte le sue forme, tanto da diventare il potere, da identificarsi con la struttura economica, politica, militare dello Stato stesso. Al punto che distruggere la Dc significa distruggere l’intero sistema politico–istituzionale che la borghesia italiana, con l’aiuto determinante dell’imperialismo americano ha costruito dal dopoguerra ad oggi.

La Dc è diventata così il partito-regime che si è impadronito dello Stato, che ha modellato a sua immagine e somiglianza, che ne ha fatto lo strumento del suo potere. Quando si dice che la Dc materializza in sé tutto quanto dobbiamo combattere e distruggere si dice proprio questo. Il proletariato nella sua lotta di ogni giorno è proprio la Dc che si trova continuamente di fronte. E se la trova di fronte nell’insieme delle sue varie funzioni, strettamente intrecciate una nell’altra: quella di partito-imprenditore, di partito-banca, di partito-Stato,che tutti assieme definiscono appunto la sua natura intrinseca di vero e proprio partito-regime.

La Dc è partito-imprenditore essendo il partito che ha pilotato l’intero processo di sviluppo industriale in Italia nel dopoguerra, ponendosi come il partito del grande capitale privato. Nello stesso tempo controlla, attraverso il sistema delle Partecipazioni Statali, il capitale pubblico. Dentro la Dc è dunque organizzata la grande borghesia monopolistica di Stato, intimamente legata al capitale multinazionale ed estremamente attiva su piano della penetrazione imperialistica del capitale italiano nei paesi del terzo mondo. È questa frazione della borghesia che guida in Italia i processi di ristrutturazione che coinvolgono tutta una serie di settori decisivi, quali il siderurgico, il cantieristico, l’energetico, l’elettronico… Questa borghesia, attraverso il controllo dell’industria di Stato, è in grado di controllare e orientare lungo la via della ristrutturazione parti consistenti dell’industria privata, assumendosi una funzione trainante. Ma, in quanto partito–imprenditore, la Dc copre una molteplicità di figure, organizzando politicamente parte della piccola industria (Confapi), della borghesia agraria e rurale (Confagricoltura), e dell’artigianato. Inoltre, una delle più salde roccaforti del suo potere sta nel controllo pressoché totale che essa ha delle camere di commercio, attraverso le quali può estendere il suo potere in tutte le articolazioni e gli aspetti del meccanismo economico.

Ai fini di questa posizione di dominio, è tuttavia essenziale l’altra funzione della Dc quella di partito-banca.

Il sistema delle banche è saldamente nel suo pugno, e non c’è lotta per quanto feroce che la Dc non sia disposta a mantenere pur di mantenerlo. Attraverso il controllo del credito, gli uomini-banca della Dc esercitano un enorme potere nei confronti dell’intera struttura produttiva, tanto più che la Dc non controlla solo gli Istituti centrali, laddove, in accordo strettissimo con gli istituti del capitale multinazionale, si decidono le politiche monetarie e finanziarie, ma controlla pure tutta la rete capillare delle Casse di Risparmio. Così solo la Dc è in grado di omogeneizzare sulle linee portanti della ristrutturazione l’intera borghesia italiana, costituendone l’esempio propulsore e unificante.

Ma infine la Dc è anche partito-Stato. Cioè è il partito in cui si raccoglie la maggior parte del personale politico imperialista che costituisce il nerbo dello Stato, annidato nei Ministeri, negli Uffici studi, nelle Commissioni che a livello nazionale e internazionale, mettono a punto le strategie della controrivoluzione preventiva. Abbiamo sempre visto nella Dc l’asse portante del progetto, la forza che polarizzava un quadro politico in formazione, forte, omogeneo, adeguato alle esigenze ferree della ristrutturazione. Ma ora la Dc è qualcosa di più e di diverso.

È la struttura politica attorno alla quale si è cementato il nuovo livello di stabilizzazione del quadro politico, il partito che ha richiamato attorno a sé un coacervo di componenti politiche coalizzate nella applicazione (e non più solo nella elaborazione) del piano controrivoluzionario. Ha selezionato il personale di questa coalizione che ha assunto in toto la direzione del progetto stesso, raggiungendo così un grado di operatività di gran lunga più elevato del precedente, relegando ad un livello molto secondario le contraddizioni interne alla normale dialettica del potere. Questo noi dobbiamo saper vedere, al di là delle lotte intestine e dei balletti che ogni volta accompagnano la formazione e l’immancabile successiva caduta dei vari governi.

È il personale specializzato di questo partito – Stato che ha messo insieme quella specie di Bibbia controrivoluzionaria che è il piano Pandolfi, e che si prepara a gestire la controrivoluzione preventiva, cioè l’insieme delle politiche di controllo sociale e di militarizzazione che possono permettere l’attuazione del piano stesso. Non c’è alcun aspetto che questi uomini-Stato trascurano; quand’è in gioco il dominio della loro classe, quando la resistenza proletaria e l’attacco delle avanguardie rivoluzionarie smaschera fino in fondo il volto livido e reazionario dei loro progetti. E non c’è oggi Ministero, banca o direzione aziendale in cui la Dc non sia presente e attiva, per condurre in prima persona questa offensiva.

La Dc è l’asse portante dell’attuazione della controrivoluzione imperialista che dobbiamo attaccare e distruggere.

Questa linea deve tenere conto delle forme concrete con cui gli uomini di questo partito esercitano le loro funzioni di personale politico imperialista, organizzandosi nei diversi gruppi e consorterie che rappresentano all’interno dello Stato e dei suoi apparati altrettante frazioni del capitale monopolistico multinazionale. È a partire da qui che si può definire una linea selettiva di attacco alla Dc veramente efficace, cioè in grado di produrre contraddizioni strategiche.

L’attacco va portato contro quegli uomini e quelle strutture che, all’interno del partito, dello Stato, dell’apparato produttivo, sono espressioni delle consorterie dominanti della borghesia imperialista, e che attraverso di esse svolgono funzioni centrali di comando, gestione ed elaborazione. Proprio perché la Dc è il partito che da un lato raccoglie gran parte del personale specializzato delle consorterie dominanti, e dall’altro ne costituisce un fondamentale veicolo di potere politico, attaccarla vuol dire attaccare il cuore dello Stato. Disarticolare e annientare la Dc è il presupposto per la disarticolazione e la distruzione dello Stato.

Attaccare la Dc per attaccare le consorterie dominanti!

Colpire gli uomini della Dc che nel partito, negli apparati dello Stato, nel sistema produttivo guidano il processo di ristrutturazione imperialista!

Isolare e disarticolare i terminali periferici attraverso i quali il potere e il controllo sociale della Dc si esercita!

 

  1. Il Partito Comunista Italiano, ovvero il partito dello Stato dentro la classe operaia

Oggi non si possono analizzare i processi di ristrutturazione dello Stato senza considerare il ruolo che in essi assumono il Pci e il sindacato. Non è il caso di raccontare qui la triste parabola del revisionismo, che milioni di proletari hanno davanti agli occhi. Il risultato è un Pci che con Berlinguer ha finalmente e definitivamente riconosciuto la centralità del potere della Dc in Italia; che concepisce la sua politica in esclusiva funzione di alleanza con la Dc, che ha accettato fino alle sue ultime conseguenze politiche e militari l’integrazione dell’Italia nello schieramento imperialista; che si è fatto portatore, all’interno della classe operaia, delle più sottili e perfide istanze di controllo sociale per conto della borghesia imperialista; che è diventato, nei quartieri e nelle fabbriche, il miglior alleato di CC e poliziotti, che cerca di cancellare, in nome del suo “farsi Stato”, ogni memoria e ogni coscienza di classe nelle masse proletarie. Il Pci, in effetti, da tempo e in forma esplicita, ha fatto proprie le esigenze di larghi strati di piccola e media borghesia, e si sforza in ogni modo di imporle alla sua base proletaria, insieme a tutte le istanze di efficienza e di razionalizzazione capitalistica dell’apparato produttivo.

 

Il Pci e il potere economico.

All’interno dell’industria di Stato, un grande numero di esperti e manager trovano nel Pci il loro referente politico. Da costoro partono ambiziosi e particolareggiati progetti di ristrutturazione capitalistica dell’apparato produttivo (vedi per es. il ruolo di Castellano e della sua banda nella ristrutturazione del gruppo Ansaldo), e le più pericolose politiche di contenimento delle esigenze proletarie, sacrificate ai miti della efficienza e produttività. Inoltre, il Pci dedica un impegno particolare per conquistarsi la piena fiducia dei piccoli e medi industriali – proprio quelli che spesso sfruttano in modo più bestiale il lavoro operaio! – ai quali offre la propria consulenza e la propria alleanza, con la promessa rassicurante della pace sociale. Ed è inoltre imprenditore in proprio, organizzando i suoi “padroncini” sopratutto nella Lega delle Cooperative e occupando una posizione di monopolio nell’intermediazione degli scambi tra l’Italia e i paesi dell’est europeo. Così, il Pci è una delle principali forze che direttamente collaborano alla ristrutturazione della grande industria di Stato, e in forme più immediate con quella privata, ed è diventato, a livello di territorio, il partito dei “padroncini”, cioè delle peggiori sanguisughe del proletariato.

 

Il Pci e lo Stato.

Le strategie di potere del Pci passano in gran parte attraverso il controllo degli enti locali, che, imitando e sopravanzando persino la Dc, esso trasforma in propri feudi e centri di aggregazione clientelare. Attraverso di essi, inoltre, il Pci si infiltra in tutta una serie di centri decisionali e comincia a mettere piede nel mondo della finanza, e allaccia rapporti sempre più stretti con le strutture periferiche, ma non per questo meno delicate e importanti, dello Stato. A livello centrale, l’attenzione che il Pci dedica al problema dello Stato, e del suo inserimento in esso, è testimoniata dalla mole di lavoro svolto dalla sua Sezione problemi dello Stato, che si è sempre più decisamente posta sulla via della guerra controrivoluzionaria, qualificandosi come vera e propria agenzia al servizio della borghesia imperialista. È soprattutto di lì, infatti, che viene impostata e coordina (…) rivoluzionarie, e la schedatura delle frange più antagoniste del proletariato metropolitano, in supporto dichiarato alle operazioni della Digos e dei CC. Al proposito, è importante osservare come già da molto tempo il Pci abbia compiuto opera di centrismo nella polizia e nella magistratura (Caselli, Calogero, Vigna e soci, stanno lì a dimostrarlo), riproducendo in qualche modo, anche se in scala ridotta, la stessa tattica di compenetrazione nei corpi dello Stato già messa in atto dalla Dc. In questo modo, anche il Pci persegue l’obiettivo di farsi partito-Stato, anche se è perfettamente consapevole che ciò comporta una perenne, strutturale subalternità strategica alla Dc. Entro i margini di questa subalternità, tuttavia, il Pci cerca in tutti i modi di allargare, attraverso i servizi che è in grado di rendere alla borghesia (e che vorrebbe vedere meglio compensati!), la sua area di influenza. In ciò è stato in parte ripagato, perché la sua avanzata elettorale a metà degli anni ’70 non è affatto dovuta all’aumento dei voti operai, ma a quelli di strati sempre più ampi di borghesia, rassicurati dalla sua politica di “diga” nei confronti del proletariato e una diga che si presentava tanto più efficace, in quanto costruita in parte all’interno del proletariato stesso. Ma proprio questo è l’elemento di contraddizione che paralizza il Pci, lo rende privo di una strategia complessiva e credibile, lo rende ostaggio nelle mani della Dc.

 

Il Pci e la classe.

Il punto essenziale per capire la posizione del Pci, la sua strategia, le ragioni della sua tenuta elettorale (nonostante le recenti sconfitte, che gli vengono proprio da parte operaia e proletaria!) e della sua indubbia capacità di controllo sulla classe operaia sta in una precisa analisi di classe. È giusto dire che il Pci ha sempre avuto il suo punto di forza nella classe operaia per via delle sue radici storiche, ma certo non è oggi sufficiente limitarsi a questo. Su chi il Pci esercita la sua egemonia e perché? Intanto, non solo e non tanto su strati di piccola e media borghesia in quanto tali, e non su quelli che abbiamo chiamato i “padroncini” che solo in base a calcoli di convenienza immediata possono accertarne l’alleanza. In realtà su un piano generale si può affermare invece che il Pci rappresenta tutti gli strati oggettivamente interessati alla funzione principale che esso intende esercitare: la funzione di controllo all’interno del processo produttivo complessivo.

Puntualizziamo due cose:

1) dato lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive e la loro complessità, questa funzione di controllo è di fondamentale importanza; copre un arco vastissimo di ruoli e permette al suo interno ampie e differenziate possibilità di carriera; resta in ogni caso legata al mondo della produzione, rispetto al quale si pone come l’indispensabile cerniera che lo lega alle direttive generali del capitale;

2) gli strati sociali interessati a questa funzione sono assai ampi, e seppure di diversa provenienza definiscono oggi l’area di quella che possiamo chiamare “nuova piccola borghesia”, alla quale fornisce, nell’ambito di quella funzione di controllo, concrete possibilità di mobilità e prestigio sociale, e un’ideologia di tipo tecnocratico, basata sul mito della razionalità produttiva, dell’efficienza, della ristrutturazione, dello sviluppo.

Le ragioni della sua presa sugli strati dell’aristocrazia operaia sono, in questo modo, assai chiare. È il Pci che nella sua quotidiana politica di fabbrica aiuta l’operaio professionalizzato a fare il salto da produttore a controllore della produzione, facendogli contemporaneamente compiere il “salto di classe” che lo stacca dal proletariato per inserirlo in quella “borghesia tecnico-burocratica” che rappresenta nei confronti della produzione il punto di vista del capitale.

Questa politica, condotta insieme dal partito e dal sindacato (non è un mistero il gioco delle parti tra i due, né il fatto che si costruiscono piattaforme rivendicative ad esclusivo vantaggio dell’aristocrazia operaia!), ottiene una serie di risultati:

1) collabora in forma diretta alla nuova organizzazione del lavoro richiesta dalle direttive generali della ristrutturazione. Su questo argomento, berlingueriani e sindacalisti sono in prima fila a fare “proposte costruttive”: solo che vanno a farle agli operai per conto della direzione!

2) spacca la classe, favorendo processi di scomposizione continua che la indeboliscono e la lasciano disarmata di fronte al procedere inesorabile dei processi di ristrutturazione;

3) lascia, in ultima analisi, il proletariato senza alcuna vera rappresentanza politica, neppure a livello degli interessi più immediati, e anzi lo divide cacciandone una parte sempre più grande in una condizione di marginalità, corrompendone un’altra parte con speranze di “carriera” o almeno di sistemazione stabile, reprimendo infine quanti resistono in nome dell’antagonismo e dell’unità di classe. Con il risultato di volgersi anche contro una parte di sé, perché il Pci non esita certo a coinvolgere nella rete dei sospetti di “terrorismo” quella parte della sua base che resta nonostante tutto tenacemente comunista, e consegnarla, alla prima occasione, al potere.

Quella del Pci è una linea politica precisa, che trova riscontro in un largo arco di forze e di interessi, e che dunque ha avuto la sua parte di successo. Tuttavia, essa deve pur sempre giustificarsi in nome di qualcosa che non siano le pure e semplici esigenze del capitale, deve fornire una prospettiva sociale e politica complessiva. Qualche anno fa si trattava delle riforme di struttura, che si sono poi miserevolmente ridotte agli elementi di socialismo, fino a diventare oggi efficienza produttiva (cioè sfruttamento), ristrutturazione e pace sociale.

Cosa è successo? È successo che la crisi capitalistica ha distrutto le basi stesse dell’utopia socialdemocratica del Pci, utopia che non è altro che il cemento ideologico degli strati sociali che esso rappresenta. Le condizioni economiche che potevano illudere circa una gestione democratica e riformista dell’apparato produttivo sono il segno di un tempo che fu! La crisi ha distrutto ogni margine all’ideologia riformista, sì che pian piano al Pci non è rimasto che aspirare alla gestione e alla conservazione dell’esistente, quale esso sia e a qualsiasi prezzo. E ciò ha rivelato fino in fondo la natura subalterna della sua strategia di potere. All’interno del sistema dominato dal capitale multinazionale, questa subalternità politica non è altro infatti che il riflesso della subalternità sostanziale e oggettiva del ruolo occupato dallo strato sociale che si riconosce nel Pci. Un conto è controllare un processo produttivo, e un conto è possederlo e dominarlo!

In altre parole, la funzione di controllo non è che un servizio reso ai padroni: in questo caso, in definitiva alle multinazionali imperialiste.

Una prospettiva incerta e limitata di potere all’ombra della Dc, al servizio della borghesia imperialista, sotto l’ombrello protettivo delle atomiche della Nato: ecco qui tutta la prospettiva strategica del Pci!

Ma nei confronti del proletariato, i revisionisti, pur svolgendo un lavoro subalterno, contribuiscono in modo fondamentale all’allargamento dell’iniziativa controrivoluzionaria. Al di là delle divergenze con la Dc, che resta l’esecutore centrale, essi si sono costituiti in apparato civile per il consenso alla controrivoluzione, lavorando alla costruzione di un blocco sociale a sostegno dello Stato imperialista, da opporre all’avanzata del processo rivoluzionario. Di più, infiltrati come sono all’interno della classe operaia, essi sono in grado di rovesciare su di essa con un grado elevatissimo di pericolosità, la loro politica. Sono i quadri del Pci che spiano, schedano, denunciano. Già da tempo hanno consegnato alla direzione, in tutte le fabbriche italiane, l’elenco dei sospetti “terroristi” e dei loro “fiancheggiatori”. Ora, sono impegnati a tenere aggiornate le liste! E lo stesso sporco lavoro di spionaggio fanno nei quartieri, in stretto contatto con i politicanti della Dc e con ogni genere di sbirri.

Il proletariato deve dunque attaccare il Pci con la massima decisione, e secondo un’opportuna strategia politica. Questa strategia deve distinguere le due funzioni principali lungo le quali il Pci conduce le sue azioni:

1) quella che ne fa un partito dello Stato e dentro lo Stato;

2) quella che svolge nei confronti delle masse.

La prima funzione ha un carattere strategico, e si identifica negli uomini del Pci organicamente integrati nelle strutture dello Stato: magistrati, alti funzionari e manager, amministratori locali, economisti, esperti vari, giornalisti, consulenti e merda simile. Questi uomini sono le cerniere di collegamento tra le istituzioni statali e il Pci: in quanto tali, sono riconosciuti e politicamente indefinibili agli occhi del proletariato. Il loro annientamento militare è immediatamente anche il loro annientamento politico. E si può stare certi che neppure un proletario piangerà per loro!

La seconda funzione presenta problemi più complessi. Dobbiamo infatti considerare che gran parte degli agenti del revisionismo vive ancora in mezzo alle masse, e, appoggiandosi soprattutto a un apparato di partito diffuso e capillare, riesce in qualche modo a legittimarsi come loro rappresentante politico, e a strappare, anche se sempre più raramente, la loro immediata fiducia. È prioritario dunque che la guerriglia faccia chiarezza politica nelle lotte, isolandoli, screditandoli, mettendoli alla gogna, svelando le loro trame e le loro complicità, e cioè, in una parola, li sconfigga politicamente prima che militarmente. Naturalmente, la dialettica tra i due piani è decisiva, nel senso che il primo terreno di attacco è condizione politica assolutamente necessaria del secondo, in quanto ne costituisce l’aspetto strategico. Battere i revisionisti e il loro progetto di controrivoluzione sociale preventiva è condizione necessaria per la conquista delle masse sul terreno della guerra civile antimperialista, e per la costruzione del potere proletario armato.

Se nelle file della borghesia imperialista le iene berlingueriane credono che una tessera in tasca sia un passaporto d’impunità, si sbagliano: verranno annientate senza pietà!

Attaccare i revisionisti che si nascondono tra le masse: smascherarli, isolarli, sollevare contro di loro l’intero proletariato.

 

  1. La strategia di guerra in mano ai militari.

Nella controrivoluzione preventiva aumenta, con l’avanzare della crisi e l’estendersi del movimento rivoluzionario, il peso numerico e politico degli apparati diretti della coercizione statale (corpi militari, magistratura, carceri) nella amministrazione delle condizioni di vita del proletariato.

Questo processo, come abbiamo visto è affiancato dal parallelo trasformarsi in apparati indiretti della coercizione statale dei partiti, sindacati, ecc, va oltre lo scopo di annientare le forze comuniste combattenti, perché dà già corpo alle strutture ed ai metodi per la distruzione politica dell’intero proletariato, ossia della lotta di classe in ogni sua forma.

Non essendoci ancora la guerra civile, questa “sproporzione” che trasforma gli apparati coercitivi in un vero e proprio apparato per la guerra, ha due principali motivi:

1) le contraddizioni interimperialistiche, gravissime oggi in particolare in Medio Oriente, aumentano l’importanza dei paesi mediterranei aderenti alla Nato, ed in primo luogo dell’Italia che assume il ruolo di bastione, anello centrale su cui si impernia la strategia militare dell’alleanza atlantica: la linea oltre la quale non si arretra. L’Italia deve essere, per l’imperialismo americano, una base sicura e pacifica in cui tenere la sede dei vari comandi Nato per le forze terrestri e navali del Sud Europa, e in cui organizzare un potente retroterra logistico donde partire per esercitare il dominio sull’area e per fare, se necessario, la guerra (l’Italia è ormai diventata la portaerei del mediterraneo);

2) l’estendersi e il rafforzarsi della forza guerrigliera e la possibilità che intorno ad essa si coaguli e si organizzi l’antagonismo proletario che il meccanismo della crisi riproduce e approfondisce.

Ma la guerriglia in Italia ha già vinto la sua prima e fondamentale battaglia, affermando nei fatti la lotta armata come unica strategia possibile per la conquista del potere proletario. Inoltre, essa ha in sé la capacità di proiettarsi in un contesto internazionale e di collegare la propria azione a quella di tutte le forze e movimenti rivoluzionari che operano nell’area mediterranea.

Lo Stato Imperialista delle Multinazionali è costretto allora a proseguire la politica del dominio col mezzo della guerra per prevenire quella proletaria: ciò determina una assunzione di peso politico da parte dei militari e trasforma sempre più la controrivoluzione preventiva in strategia di guerra in mano ai militari. Tutti i settori della coercizione diretta diventano una struttura integrata posta sotto un comando politico-militare centralizzato. Essendo in atto un tendenziale processo di guerra, il comando passa ai militari.

 

I CC e l’apparato per la guerra civile.

I militari alla testa della strategia di guerra sono i CC per tre ragioni storiche: la loro struttura è quella di un esercito professionale; la loro finalità è l’ordine pubblico; la loro collocazione nell’Esercito si accompagna a funzioni specifiche integrate alla Nato. A questo si aggiunga la “fedeltà” ottenuta attraverso una rigorosa selezione. I CC sono oggi un vero e proprio esercito antiproletario, forte di 90.000 uomini, e il loro vertice è già lo stato maggiore di un apparato per la guerra civile, perché non solo ha la possibilità di usare tutte le sue truppe nello sviluppo della guerra antiproletaria (vedi le campagne orchestrate su tutto il territorio nazionale sotto il Comando Supremo Centrale di Roma), ma realizza e gestisce una tale complessità di compiti e funzioni integrate che:

– ha bisogno di una totale indipendenza giuridica che separi, come in tutte le guerre, gli apparati militari, nelle loro strutture e operazioni, dai vincoli civili;

– deve ricorrere a questo scopo a un personale “militarizzato” dentro la società: una magistratura di guerra, un personale carcerario per prigionieri di guerra, ecc.

E questo sia per la necessaria copertura formale, che per condurre le operazioni non solo appoggiandosi alle proprie strutture, ma dovunque sia necessario sul territorio nazionale;

– deve avere a disposizione un personale poliziesco, che anche se autonomo, come la Pubblica Sicurezza, la Finanza, i Vigili Urbani… i portinai, abbia una conoscenza specifica e sia introdotto in tutte le realtà sociali in cui devono svilupparsi i suoi interventi;

– deve costruirsi una rete capillare di collaboratori per la raccolta delle informazioni e per promuovere le campagne politiche che “ preparano” le operazioni di terrorismo di massa;

– deve garantirsi il controllo della controguerriglia psicologica che non si basi solo sull’asservimento dei giornali, ma sia centralizzato a partire dagli uffici stampa dei Comandi e delle caserme.

Questo apparato si articola in tre livelli principali:

1) al vertice la struttura speciale costituita dallo stato maggiore “occulto” della guerra, dal nucleo originario oggi molto allargato e altamente professionalizzato, dell’antiguerriglia e dei magistrati di guerra impegnati per settore o per territorio nella lotta alle Occ;

2) un secondo livello che chiameremo di antiguerriglia allargata, costituita dal sistema Digos-Ucigos del Ministero degli Interni, dai nuclei dei CC, di PS, di polizia Giudiziaria, dalle Guardie di Finanza, dai Vigili Urbani, che nelle varie Procure e Sezioni Istruttorie si “interessano” di terrorismo;

3) infine la struttura ordinaria con la relativa truppa, che ormai è struttura di servizio delle altre due.

Ma prima di descriverli meglio vogliamo chiarire cos’è una struttura integrativa.

I vari settori coercitivi militari e civili, ora integrati, hanno più rapporti tra loro all’interno del singolo livello, soprattutto nella struttura speciale, di quanti non ne abbiano tra i diversi livelli uomini e strutture dello stesso settore. L’esempio più lampante è quello dell’uomo di truppa: un normale agente di PS avrà più rapporti con un suo collega CC durante i vari superblocchi, perquisizioni, ecc, di quanti non ne abbia realmente con un suo collega di PS che faccia l’antiguerrigliero più o meno occulto. Il magistrato di guerra ha più rapporti con gli sbirri del suo livello, che con gli altri magistrati. A differenza degli altri, egli non si trova davanti al “fatto compiuto” quando i CC fanno le loro azioni di guerra (vedi per esempio i diversi rapporti della magistratura genovese e del “pool torinese” rispetto alla strage di Via Fracchia a Genova). Altri casi sono meno lampanti: se un sindacalista partecipa all’ormai stranota “assemblea contro il terrorismo” con i relativi magistrati e poliziotti portati in fabbrica, egli non deve necessariamente sapere di fare parte di una campagna orchestrata da un livello superiore, dove i passi successivi saranno operazioni di “terrorismo di massa” e quindi la creazione di strutture antiterroristiche locali con quel che segue.

La struttura integrata consente una capacità di direzione politica da parte del vertice che va oltre l’aspetto immediato, che resta in gran parte occulta, e che consente agli altri livelli di muoversi in un ambito di formale autonomia.

La struttura speciale. È quella che lotta a tempo pieno per annientare le Occ. Si muove con una strategia unitaria a livello nazionale e internazionale che ha modi e tempi propri, indipendenti in larga parte dalla realtà esteriore percepibile delle lotte speciali. È la struttura dominante al di sopra delle altre, di cui si serve, in quanto braccio armato dell’esecutivo centrale e dell’imperialismo. A questo proposito va ulteriormente precisato:

– il vertice della struttura è saldamente in mano ai CC.

Oltre al decreto di dicembre che ha dato la divisione Pastrengo a Dalla Chiesa, la riorganizzazione dei servizi segreti Sismi e Sisde è avvenuta mettendo a capo di entrambi due generali dei CC; e per un generale dei CC è stato inventato un nuovo compito di consigliere militare del Rimbambito Nazionale (il quale però fa parte della struttura ordinaria quale comiziante “antiterrorista” sulle piazze del paese);

– la politica imperialista ha fatto un passo avanti, oltre che con il ruolo assunto dalla Nato nelle vicende interne, con una legislazione europea che dall’uniformazione in materia controrivoluzionaria è passata a fissare spazi giudiziari comuni al di là delle singole frontiere. È come tale che la struttura speciale non risponde a nessun livello giuridico formale dello “Stato democratico”, e si muove secondo una prospettiva indipendente. Quindi, in una logica più rigida militarmente e più clandestina degli altri livelli è il settore strategico degli apparati controrivoluzionari del Sim. La sua funzione particolare è quella di condurre “operazioni speciali” vale a dire quelle operazioni che sul piano militare e su quello politico fissano le linee strategiche della controguerriglia. Se per es. il problema è quello di organizzare la delazione, sarà questa struttura a dare il via, costruendo e guidando un’opportuna campagna. Se è necessario fare un salto di qualità nella repressione in fabbrica, sarà sempre questa a guidare l’arresto di centinaia di operai come è accaduto alla Fiat.

I suoi mercenari sono quelli che per primi hanno sperimentato e affinato nel corso di questi dieci anni, le tecniche antiguerriglia. Oggi la loro pratica assassina e la loro sadica scienza vengono generalizzate ai livelli nuovi che lo Stato fa scendere in campo nella guerra di classe contro il proletariato e le sue avanguardie.

L’antiguerriglia allargata. È la struttura che lotta contro le forze rivoluzionarie e il proletariato avendo di mira intere aree sociali caratterizzate da un insieme di comportamenti antagonistici che abbiamo definito Mpro. È questo il nuovo livello che scende in campo in armi contro il proletariato: è su questo terreno che è indispensabile estendere il combattimento, perché è la struttura portante della controrivoluzione preventiva nell’attuale congiuntura, nel senso che legittima ogni tipo di azione contro i proletari in lotta e agisce preventivamente colpendo a cerchi sempre più allargati, non più con lo scopo di “togliere l’acqua al pesce” (cioè soffocare la guerriglia), ma di bloccare e spegnere l’oggettiva spinta rivoluzionaria che il proletariato esprime ad ogni livello.

Questa forma di antiguerriglia allargata è il nuovo strumento terroristico e di annientamento dell’imperialismo che si muove nella forma di una legalità formale, ogni volta teatralmente ribadita. Le differenze che si notano nei modi di operare tra i nuclei di Dalla Chiesa o Digos, per es., o tra le squadre giudiziarie dei due corpi, sono il riflesso di un’altra caratteristica della controguerriglia. Per quanto influenzata dalla struttura speciale, l’antiguerriglia è dotata di un certo grado di autonomia politica ed esecutiva, per una maggiore aderenza alla realtà politica e sociale, sulla quale vengono portate le iniziative.

La struttura ordinaria. Le sue funzioni ordinarie sono ormai relegate a cose secondarie o a demagogiche operazioni di giustizia formale. È al servizio dei due livelli precedenti, e come tale viene utilizzata ogni volta che se ne presenta il bisogno. Possiamo dire che siamo in presenza di un uso speciale sempre più largo della struttura ordinaria. A parte la funzione storica del personale carcerario, e l’uso della truppa quando la vastità dell’operazione lo richiede, si è avuto l’incremento di:

– funzioni preventive fuori dal lavoro investigativo specializzato, come il controllo delle fabbriche, le scorte e la militarizzazione del territorio. È per es. un luogo comune che le città sono “squadrate” da volanti che non hanno solo il compito di fermarsi se succede qualcosa, ma soprattutto di “cercare”, “guardare”, ecc;

– campagne terroristiche a livello di massa (perquisizioni, rastrellamento, blocchi regionali delle vie di comunicazione,ecc );

– intervento repressivo dove non esiste iniziativa armata o non ci sono “grossi problemi”, almeno per ora (per es. blindati o cariche in piccole fabbriche in loco, caccia agli occupanti di case, repressione di lotte di massa al Sud, ecc);

– fornitura, oltre che di uomini e mezzi, di strutture “speciali” in cui si disseminano gli antiguerriglieri per le loro iniziative più infami (isolamento e torture in piccole caserme decentrate, ristrutturate a questo scopo, per es.).

 

La magistratura

La magistratura merita un cenno a parte, per analizzare l’evoluzione che ha subito in funzione degli sviluppi della controrivoluzione preventiva. I magistrati sono ormai definitivamente distribuiti nei livelli indicati dell’apparato per la guerra, in base ad una divisione per compiti e all’esperienza che hanno accumulato negli anni.

Al primo livello sta un ristretto “pool” di magistrati di guerra (ben noti alle forze rivoluzionarie!) organicamente collegati ai militari nella strategia di annientamento delle Occ, completamente svincolati da qualsiasi obbligo nei confronti delle istituzioni giudiziarie ordinarie. Questi magistrati sono totalmente integrati nella struttura speciale e si possono ritenere parte dello stato maggiore occulto della guerra.

Al secondo livello sta un vasto strato di sostituti procuratori, giudici istruttori e pretori antioperai, che è alla testa della campagna di criminalizzazione del Mpro che nei tribunali giudicanti ha già distribuito secoli e secoli di galera a migliaia di militanti, e che nelle fabbriche e nei quartieri ha fatto eseguire migliaia di licenziamenti e di sgomberi di case.

Oggi vi è uno sviluppo ulteriore: visto che la gestione del prigioniero al momento della cattura è parte integrante della strategia di guerra, i magistrati non si limitano a svolgere la funzione passiva di copertura giuridica delle pratiche di tortura non riconosciute formalmente dalla borghesia, ma hanno un ruolo attivo prestabilendo per queste pratiche un tempo variabile secondo il soggetto e secondo le caratteristiche dell’operazione. In altre parole, questo preludio alla istituzionalizzazione della tortura scientifica, che non vuole lasciare alternative tra l’annientamento da un lato e il cedimento e la delazione dall’altro, diventa l’intera e reale istruttoria. E così non è un caso che dietro alla struttura speciale, nelle sue operazioni più ambiziose, ci siano sempre figure di giudici istruttori. Proprio per la funzione strategica che deve svolgere, è in questo livello che, ultimamente, il potere ha concentrato il massimo degli sforzi di ristrutturazione in senso efficientista della magistratura, fino a progettare la concentrazione della “lotta al terrorismo” in una serie di grandi procure e sezioni istruttorie metropolitane, che dovranno avere il ruolo di guida e battistrada dell’intero processo di criminalizzazione del movimento rivoluzionario.

Da ultimo, va sottolineato che esiste una mente politica, il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), che rappresenta la cinghia di trasmissione con l’esecutivo, e che stabilisce le direttive del processo di ristrutturazione della magistratura, attraverso la costituzione di Commissioni di studio, gruppi di lavoro, e la gestione, in collaborazione con vari centri studi nazionali e internazionali, di convegni in cui vengono gettate le basi delle strategie di intervento future, e garantite ogni volta le necessarie coperture scientifiche a ogni pratica d’annientamento. L’importanza del Csm è tale – si tratta di governo della magistratura! – che la sua direzione è sempre stata saldamente in mano alla Dc (da Bosco a Bachelet a Ziletti).

Attaccare lo Stato, rompere l’accerchiamento!

Il “cuore dello Stato”, oltre ad essere una controparte sempre più immediata dei bisogni proletari, vive in una prospettiva di guerra civile, come “accerchiamento politico-militare” delle masse. Attaccare lo Stato vuol dire, in questa congiuntura, rompere l’accerchiamento: in pratica vuol dire qualificare sempre più la propaganda armata come punto di forza di una possibile iniziativa di massa.

In questo senso, l’azione e il programma guerrigliero escono da una logica relativamente “simbolica” dal punto di vista militare, e assumono un carattere “distruttivo”. Non sono ancora, come nella guerra civile dispiegata, azioni dirette ad abbattere definitivamente il sistema di comando e di oppressione, pur essendo azioni di distruzione reale che vengono portate avanti selettivamente secondo priorità politiche: quelle volte, appunto, a rafforzare direttamente la possibile iniziativa di massa. Il programma guerrigliero vive dunque ancora politicamente in una fase di disarticolazione del nemico, e non di distruzione. E questo vale anche nell’attacco all’apparato di guerra dello Stato (sia militare, sia giudiziario, sia carcerario), in cui occorre seguire un progetto di disarticolazione lungo i tre livelli che abbiamo individuato. Il primo livello, quello speciale, è il nemico principale, quello che fa la guerra alle Occ e guida le tappe della guerra civile: va attaccato, ma non è nell’attuale congiuntura “disarticolabile” in concreto. Tuttavia contro di esso – il cuore strategico militare dello Stato imperialista – e contro il personale altamente professionalizzato che lo sostituisce va diretto e concentrato ogni sforzo per un annientamento senza mediazioni.

Ma accanto a questo obiettivo strategico, che le Occ devono saper praticare con continuità ed efficacia adeguate, pena la loro possibilità di crescita e la stessa sopravvivenza, l’obiettivo generale di questa congiuntura rispetto all’apparato militare nel suo complesso è quello di aprire una spaccatura fra il personale antiguerriglia e quello che si rifiuta di svolgere compiti che lo pongono come antagonista diretto del proletariato e delle Occ. Se dunque l’obiettivo strategico è quello di colpire l’apparato di guerra dello Stato nei suoi gangli vitali, bisogna anche condurre con costanza un’opera di annientamento selettivo che privilegi l’antiguerriglia, e non attacchi come tale la struttura ordinaria se non nell’esercizio di particolari funzioni antiproletarie.

La politica è sempre al primo posto. Nel cuore dello Stato non vediamo dunque una somma di apparati da distruggere, ma l’essenza della strategia politica della borghesia imperialista e, all’interno di essa, dobbiamo saper cogliere gli elementi di oggettiva debolezza. Lo schieramento nemico è ormai chiaramente definito in una politica di guerra, in cui ridistribuisce le sue forze politiche, sociali e militari. Ma tutto ciò avviene alla luce di un programma studiato preventivamente, che si deve ancora misurare con un’iniziativa rivoluzionaria adeguata, con un’iniziativa cioè che al tempo stesso crea le condizioni per rafforzare lo schieramento proletario, e perciò centuplica i suoi effetti.

Chi, da un punto di vista obiettivo, è più isolabile dalla popolazione: i Betassa che stanno nei reparti, o le caserme dei CC che torturano e arrestano i proletari? Intorno a chi è più facile fare terra bruciata?

 

  1. La controrivoluzione preventiva nel carcerario

Nel settore carcerario la controrivoluzione preventiva ha assunto le forme della strategia differenziata, cioè, in altre parole, di un processo di ristrutturazione continua, nel quale lo Stato imperialista gioca fino in fondo la sua capacità di colpire in modo articolato l’intero movimento di classe, e di predisporre, in base a una precisa linea strategica, gli strumenti per condurre una guerra di classe che, in modo lento e contraddittorio ma irreversibile, sta assumendo sempre più chiaramente i tratti della guerra civile dispiegata.

In questo senso, la strategia differenziata è insieme progetto e sperimentazione. È la manifestazione della capacità del personale politico imperialista, incaricato della sua gestione, di cogliere di volta in volta la specificità dello scontro in atto, e di rispondere con tempestività ed efficienza all’attacco delle forze rivoluzionarie. In questa fase di transizione alla guerra civile, la strategia differenziata è volta a selezionare gli obiettivi e le forme degli apparati della controrivoluzione preventiva in presenza della contraddizione principale che si presenta oggi alla borghesia imperialista: l’impossibilità di arrestare la vita e la crescita della guerriglia. Solo di qui si può capire come l’elemento trainante della strategia differenziata sia appunto la controrivoluzione preventiva, che in questi anni ha fatto, e non poteva non fare, il salto di qualità verso l’affidamento ai militari della condotta complessiva della guerra. La delega ai militari dell’arma dei CC ha lo scopo di concentrare le forze e i mezzi di un intero esercito per tentare di stroncare l’affermarsi della guerriglia e il suo consolidarsi all’interno di sempre più ampi strati di classe. E ha lo scopo, in ordine ai fini che l’imperialismo si propone nella nostra area, di preparare gli uomini e gli strumenti della guerra civile.

Storicamente, in Italia, questa strategia di guerra in mano ai militari si è coagulata materialmente la prima volta nel 77, con l’istituzione delle cosiddette “carceri speciali”, cioè di un circuito carcerario relativamente autonomo, posto sotto il diretto controllo dell’esercito. Quella scelta si collocava all’interno di una strategia di lungo respiro: nel quadro, cioè, di una strategia di guerra. E oggi siamo di fronte alla realtà di uno Stato che proprio in questi anni, affrontando un processo di ristrutturazione continua e affinando i meccanismi della differenziazione, ha costituito un apparato carcerario in grado non solo di contenere o reprimere, entro margini più larghi che in passato, le lotte interne, ma anche di sopportare in tendenza il peso di una guerra civile. Se negli anni passati il potere aveva inseguito le lotte dei proletari prigionieri, oggi con la ristrutturazione del settore le ha sopravanzate.

Se analizziamo a grandi linee le fasi della ristrutturazione, possiamo cogliere meglio i termini di questo passaggio. La strategia differenziata, nella sua prima fase, ha assunto soprattutto l’aspetto immediato di una differenziazione del trattamento dei prigionieri per controllarne e regolamentarne la massa. La separazione fisica delle avanguardie politiche si presentava come condizione per la pacificazione del carcere, come condizione per ristabilire il controllo sociale sui prigionieri provenienti dagli strati disgregati del proletariato metropolitano che, durante una lunga stagione di rivolte, avevano incrinato dalle fondamenta l’intero sistema carcerario italiano. Dalla parte del proletariato, ciò non è del resto che la conseguenza del fatto che l’Italia è il paese europeo nel quale la guerriglia si è radicata in modo irreversibile, in cui più alto è il livello e la qualità politica e militare dello scontro. L’importanza del carcere non sta dunque solo nel fatto che esso rappresenta un nodo centrale nel rapporto di guerra che sempre più oppone il proletariato allo Stato imperialista. Il primo e assolutamente fondamentale elemento che occorre considerare in tutta la sua ricchezza e complessità per impostare una corretta analisi del settore carcerario, e per dare forma a una corrispondente linea di combattimento, è dunque il rapporto complessivo tra rivoluzione e controrivoluzione, così come si è storicamente determinato e come vive nella presente congiuntura.

All’interno di questo quadro, i rapporti di forza esterni si legano dialetticamente con i rapporti di forza espressi dentro il carcere dalle lotte del proletariato prigioniero, e solo in questo legame la linea di combattimento può trovare adeguata definizione. Ma essa deve anche sapersi articolare rispetto alla complessità di un settore della controrivoluzione che lo Stato imperialista sottopone a processi di ristrutturazione continua, differenziandolo sempre più al suo interno. Il carcere, infatti, nel disegno strategico dello Stato, deve rispondere a molti compiti: la regolamentazione di grandi masse proletarie; l’annientamento selettivo e scientifico di avanguardie comuniste combattenti; la diffusione del terrore e di un’immagine di onnipotenza; lo studio e la raccolta di dati sulla guerriglia, come in un laboratorio affidato a una nuova razza di specialisti in tecniche di controspionaggio e d’annientamento.

 

Il circuito delle carceri speciali e le avanguardie politico-militari del proletariato metropolitano.

Il circuito delle carceri speciali (con i suoi accessori, i bracci speciali all’interno dei grandi giudiziari metropolitani) ha la funzione di annientare politicamente uno strato di proletari che rappresenta di fatto l’avanguardia politico-militare del proletariato metropolitano. Questo circuito è oggi l’anello forte del carcerario, perché il potere l’ha costruito e organizzato in totale separazione dalle altre carceri e l’ha distribuito nelle zone più sicure dall’attacco delle forze rivoluzionarie, e perché in esso si è venuto sempre più concentrando il carattere di strategia di guerra in mano ai militari proprio della strategia differenziata.

La stratificazione dei prigionieri è il prodotto delle lotte del proletariato metropolitano, ed è così composta:

– uno strato di avanguardie storicamente formatesi dentro il carcere, in espansione negli ultimi anni, e in gran parte allineata alla scelta della lotta armata;

– uno strato di militanti delle Occ e di avanguardie provenienti da diverse esperienze di lotta armata, anch’esso in rapido e continuo aumento per le ondate di arresti che si susseguono ormai da tempo;

– uno strato di avanguardie del movimento di classe entrato in carcere in seguito alle periodiche campagne di criminalizzazione del movimento, articolato in una complessa dialettica nei confronti della lotta armata.

In un arco di dieci anni, e specialmente in questi ultimi tempi (a partire dall’aprile scorso sono entrati in carcere circa 600 compagni, accusati di far parte delle Occ e del Mpro!) questo strato è cresciuto enormemente, sino a raggiungere proporzioni di massa tali da determinare in Italia una situazione “cilena”. Del resto, non è un mistero per nessuno che ci sono molti più prigionieri politici oggi in Italia che durante il fascismo.

La difficoltà pratica di isolare un numero così vasto e in costante aumento di prigionieri costringe il potere ad accrescere il numero delle carceri speciali e a sperimentare nuovi sistemi di differenziazione multipla e di scomposizione, per rompere l’unità e la forza oggettiva. La fase attuale è caratterizzata proprio da questa sottile opera di divisione, dispersione e concentrazione dei prigionieri, attraverso un’analisi politica della loro esperienza e dei loro comportamenti, sin dal primo ingresso in carcere. La differenziazione scatta quindi subito e conosce successivamente tutta una serie di gradi diversi che non passano solo e sempre attraverso le condizioni materiali di carcerazione. Un elemento sempre più importante in questo quadro, infatti, è dato dalla composizione dei singoli “speciali”, attentamente calibrata dagli esperti dell’antiguerriglia. Lo scopo per cui i compagni delle Occ e le avanguardie del proletariato prigioniero vengono raggruppati in un certo modo e in certe carceri è per lo più quello di esercitare su di loro uno stretto controllo politico che individui eventuali tensioni e fratture al loro interno, che ne scopra i canali che li legano con l’esterno, che fornisca elementi di conoscenza sulla consistenza e sulle strategie delle Organizzazioni che in Italia si muovono nell’area della lotta armata e sui loro collegamenti.

Il grande passo avanti che il potere ha indubbiamente fatto in questo senso nell’ultimo anno deriva certamente, in parte non trascurabile, dal tipo assai sofisticato di sorveglianza a cui quei compagni sono sottoposti. Ciò pone naturalmente il problema della particolare delicatezza dei rapporti interno-esterno, e pone anche un problema tutto “interno”: se il potere ormai è capace di determinare secondo i suoi fini la composizione dei vari campi, è chiaro che in qualche misura riesce a condizionare indirettamente anche la composizione e la struttura stessa delle istanze di lavoro politico e di combattimento che i compagni prigionieri costruiscono dentro le carceri. Per fare un esempio, il potere ha attentamente valutato cosa comportasse il concentramento a Palmi di tanti noti compagni della nostra O. E Palmi è infatti a tutt’oggi il caso più chiaro e nuovo di carcere-laboratorio, approntato apposta per le Brigate Rosse. Ma lo è, per es. anche Trani, in cui da sempre la direzione mira alla disgregazione politica dello schieramento proletario alimentando in tutti i modi le fratture tra i componenti delle varie Occ. Il che avviene in parte anche a Messina e, con modi e contenuti diversi, anche a Cuneo.

Ma all’estremo opposto della differenziazione, ben presente a tutti i proletari prigionieri, c’è l’Asinara. Cioè il massimo della capacità terroristica e dell’annientamento fisico che il potere in questa fase riesce ad esprimere.

Dopo la battaglia del 2 ottobre dell’anno scorso, durante la quale la sezione speciale era stata completamente distrutta dai compagni, sull’Asinara è tornata a concentrarsi gran parte della strategia del potere rispetto al settore carcerario. Da una parte ripartivano i lavori di ristrutturazione che hanno portato oggi la sezione speciale a poter accogliere una settantina di prigionieri, in condizioni particolari di isolamento per blocchi di due celle assolutamente separati uno dall’altro. Dall’altra, hanno continuato a starci dai quindici ai venti prigionieri, attraverso un lento ma continuo gioco di trasferimenti, in condizioni ai limiti della sopravvivenza. In questo modo l’Asinara torna a rappresentare il punto più alto del progetto complessivo di annientamento, il cuore strategico del progetto imperialista nel carcerario. Ed è insieme il modello ultimo di un percorso che ha altri punti di forza; per es. a Novara, dove tanti proletari hanno sperimentato sulla loro pelle la scientifica brutalità che avrebbe dovuto portare alla loro distruzione psico-fisica, oppure, in passato, a Favignana, prima che le epiche battaglie condotte dal Comitato di Lotta costringessero il potere a chiudere la sezione speciale.

Perciò la strategia differenziata vive all’interno di una linea unitaria che sempre più tende a caratterizzare le carceri speciali come campi di concentramento per prigionieri di guerra, nei quali si delinea la scelta imperialista di realizzare una forma di annientamento alternativa all’esecuzione sommaria sul campo di battaglia. Ma, se i campi vogliono essere l’anello forte della controrivoluzione sul piano dei rapporti di forza militari, essi sono anche, politicamente, l’anello debole. Per due motivi fondamentali:

– il potere, nonostante gli enormi sforzi e l’incredibile concentrazione di risorse che dedica al settore, non riuscirà mai a risolvere in via definitiva il problema dei prigionieri di guerra, in presenza di una guerriglia che si estende sempre più. Né dieci né cento campi di concentramento potranno di per sé risolvere un problema che dipende dai rapporti di forza esistenti sul piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione;

– per i proletari il carcere speciale, nelle sue strutture e nelle sue condizioni di vita, concretizza il massimo possibile di antagonismo sociale e politico: diventa perciò punto di aggregazione e crea, attraverso le esperienze dell’avanguardia rivoluzionaria, omogeneità nei livelli di coscienza. Il movimento dei proletari prigionieri trova in esso la sua forza e le sue forme organizzate più avanzate: finché il movimento di lotta nei campi sarà mantenere l’offensiva, nessun anello del carcerario potrà essere pacificato!

La pratica della differenziazione trova in questa contraddizione irriducibile il suo limite storico. Nessuna differenziazione o separazione o isolamento possono cancellare la profonda e indivisibile unità che lega le avanguardie prigioniere con il proletariato metropolitano e con l’intero movimento rivoluzionario; non possono tagliare le radici che le legano al movimento di classe; non possono evitare che lo stesso antagonismo che le ha prodotte si riproduca con determinazione e chiarezza politica sempre maggiore proprio là dove la natura dello scontro in atto si rivela nelle sue forme estreme. È questa avanguardia, perciò, che assume il ruolo di referente principale dell’O. Nel carcerario, ed è insieme ad essa che va condotto l’attacco ai progetti d’annientamento della controrivoluzione imperialista.

 

Cattura e tortura

Nell’ultimo anno l’importanza del settore carcerario ha fatto un grande salto in avanti, su un punto specifico. Ci riferiamo qui non tanto al gran numero di compagni imprigionati, che pure è un elemento nuovo e fondamentale per cogliere i termini dell’attuale congiuntura, ma a ciò che avviene al momento della cattura e nei mesi appena successivi. Abbiamo visto i risultati delle torture e dei pestaggi. Sappiamo dell’isolamento nelle caserme dei CC, magari dentro containers metallici costruiti apposta. Sappiamo degli interrogatori “speciali”, della costruzione di figure più o meno artificiali di “pentiti”, del coinvolgimento in campagne terroristico-psicologiche di parenti e amici. In una parola, la cattura e l’immediata gestione della cattura, con ogni mezzo possibile, anche il più feroce, si iscrivono ormai interamente in una logica di guerra: si definiscono in ogni loro aspetto come azioni militari che lo stato imperialista cerca di rovesciare col massimo di efficacia distruttiva possibile contro le Occ e il movimento rivoluzionario nel suo complesso. Noi dobbiamo cogliere in ciò alcuni importanti elementi di novità. Soprattutto due:

– rispetto ai corpi dello Stato, la cattura dei compagni con quel che la precede e la segue rappresenta il momento di maggior integrazione tra quella parte della magistratura che abbiamo definito “magistratura di guerra” e l’esercito. Pratiche di isolamento, interrogatori, allargamento ad ondate successive delle operazioni richiedono infatti una collaborazione strettissima e organica, che oltrepassa ormai tutti i tradizionali confini istituzionali, tra quella parte della magistratura che si è riciclata in funzione della guerra civile e le forze militari che questa guerra conducono. Per non fare che un esempio, sarebbe certo interessante considerare in questa luce i comportamenti “integrati” della magistratura torinese e dei CC nell’operazione che, facendo perno su Peci, ha “costruito” la strage di via Fracchia e, successivamente, la morte del compagno avv. Arnaldi;

– rispetto ai compagni, il fatto che la cattura non concluda ma al contrario allarghi e approfondisca, attraverso la sua gestione militare, i termini di un rapporto complessivo di guerra, fa saltare o perlomeno definisce in modo nuovo la vecchia separazione fra “esterno” e “interno”. Ciò significa che l’O. deve costruire la sua linea di combattimento nel settore carcerario innanzitutto come coerente prosecuzione dei livelli più alti di attacco agli uomini e alle strutture dello Stato, in una logica di disarticolazione e rappresaglia adeguate alla natura nuova dello scontro. L’isolamento e la tortura dei compagni subito dopo la cattura, infine, sono sempre più spesso la prima tappa della strategia differenziata, e quella più feroce e insidiosa per gli effetti devastanti che cerca di ottenere contro l’intero movimento rivoluzionario.

 

Il circuito delle carceri normali (grandi giudiziari metropolitani e periferici) e il proletariato extra-legale.

Il circuito delle carceri normali e in particolare i grandi giudiziari metropolitani raccolgono la massa del proletariato prigioniero, con la funzione specifica di controllare e regolamentare ampie fasce del proletariato metropolitano.

Questo circuito ha storicamente costituito e continua a costituire, nonostante tutti gli interventi messi in opera dallo Stato, l’anello debole del settore carcerario, perché il potere è costretto a mantenere al suo interno strati diversi del proletariato metropolitano, contraddicendo il principio della separazione che è alla base della strategia differenziata, e perché non può impedire la concentrazione pericolosa di grandi masse proletarie.

Come dicono i compagni prigionieri, la composizione di classe dei grandi giudiziari rispecchia sempre più la stratificazione del proletariato nei poli metropolitani, e ciò significa che aumenta sempre più il numero dei prigionieri che vive la propria carcerazione in termini di diretto antagonismo di classe. Questi proletari, infatti, fanno parte di un preciso segmento di classe: il proletariato extra-legale, che vive come determinazione particolare del proletariato marginale, cioè di quella parte di proletariato costituita da strati diversi, tutti caratterizzati dalla posizione di marginalità rispetto alla struttura produttiva.

A questo proposito va fatta una precisazione rispetto alla Ds 78, nel senso che il proletariato extra-legale non nasce solo tra coloro che sono definitivamente espulsi dal processo produttivo – cioè gli emarginati -, ma al contrario attraversa tutti gli strati che compongono il proletariato marginale. Nelle condizioni di particolare disgregazione prodotte dalle stesse leggi dello sviluppo capitalistico, incrementate oggi dall’inesorabile meccanismo della crisi, si sviluppa il fenomeno del passaggio da emarginato, disoccupato, lavoratore nero, precario, sottopagato… a extra-legale: questa è la via di chi non trova più alcuna possibilità di vendere la propria forza-lavoro e deve svenderla sottomettendosi alle più dure e distruttive condizioni di sfruttamento, e nell’illegalità di massa trova o allarga le sue possibilità di sopravvivenza. In questo senso l’illegalità di massa è la traduzione diretta, nei comportamenti di un preciso strato di classe, dell’antagonismo irriducibile prodotto dalle leggi dell’accumulazione capitalistica: accumulazione crescente di ricchezza da una parte, accumulazione crescente di miseria dall’altra. Per questo, l’extra-legalità non definisce solo un insieme di comportamenti soggettivi, specchio della disgregazione che li ha prodotti, ma nel loro insieme e in tendenza esprime un’oggettiva collocazione di classe determinata da un identico bisogno di reddito, e una contrapposizione sempre più netta allo Stato che della accumulazione capitalistica è il garante sul piano politico come quello militare, come ogni proletario incarcerato ha ben imparato a sue spese.

È proprio nel carcere che per questo strato si può compiere il salto dalla disgregazione soggettiva alla prima formazione di una coscienza di classe. Mentre all’esterno questi strati non riescono a trovare alcun punto reale di aggregazione, e anzi spesso approfondiscono i termini oggettivi e soggettivi della loro marginalità, nel carcere, all’opposto, le comuni e dure condizioni di vita, l’uguale rapporto nei confronti del potere costituiscono una potente spinta a processi di socializzazione e politicizzazione. Il carcere, per questo segmento di classe, diventa il momento di maggior socializzazione, veicolo di coscienza politica, organizzazione e lotta. Storicamente, le lotte nelle carceri hanno trasformato i “detenuti” in “proletari prigionieri”! E tutto ciò, a dispetto delle mille pratiche di differenziazione, di regolamentazione, di controllo con le quali il potere inutilmente cerca via via di soffocarne la crescita politica.

L’analisi non può tuttavia fermarsi a questo punto: è senz’altro vero, e va sottolineato con forza, che il carcere rappresenta l’unico punto di aggregazione per questo strato. Ma ciò non deve far saltare direttamente alla conclusione che si debba allora rovesciare il corretto rapporto che parte dal territorio, e cioè dalla situazione di classe propria di questo strato, per arrivare al carcere. Non si tratta cioè di teorizzare un ruolo autonomo per il proletariato extra-legale, e per di più costruito sul carcerario, anche se le sue forme storicamente date di aggregazione sono esistite per così dire “al negativo”, in esclusiva funzione dell’istituzione carceraria. E’ proprio qui che va operato un rovesciamento dialettico. Senza negare la spinta antagonistica verso la società borghese che caratterizza questo strato, e le concrete possibilità di politicizzazione che riesce a maturare nel carcere, è necessario ribadire che la sua collocazione di classe non è definita dalla illegalità o dal carcere, ma dalla collocazione di marginalità rispetto ai rapporti di produzione. Inoltre. È fondamentale considerare che la durata assai diversa del soggiorno in carcere-spesso breve e ripetuto – e dunque la particolare “mobilità” alla quale questo strato è soggetto, lo distingue dagli altri strati costituiti da avanguardie del movimento di classe e da prigionieri di guerra destinati, secondo il potere, a morirci dentro. Il rapporto dell’O. con questo strato si pone dunque correttamente nell’ottica complessiva del rapporto con gli altri strati del proletariato metropolitano diversi dalla classe operaia, e quindi della ricomposizione del proletariato metropolitano a partire dalla situazione strutturale in cui esso vive (il quartiere, la borgata..). Se è dai rapporti di produzione che si deve partire per una giusta individuazione della posizione oggettiva di ciascuna componente del proletariato, è altresì necessario, per una analisi che voglia afferrare il fenomeno nella sua complessità, cogliere tutta la ricchezza delle sue determinazioni, e dunque anche le forme specifiche della soggettività. Ma il fatto che il grande carcere metropolitano faccia spesso emergere quella soggettività antagonista che è sempre presente nei comportamenti del proletariato extra-legale, non significa che noi dobbiamo costruire la nostra linea di intervento solo dentro il carcere, e che dobbiamo limitarci, per fare un esempio significativo, a una pratica di reclutamento basata su una esperienza carceraria frammentaria e disgregata. E’ chiaro che il reclutamento entro questo strato di classe è sempre possibile, ma è altrettanto chiaro che esso non è una linea politica. Il vero problema è un altro.

Si tratta di costruire una linea di intervento nel proletariato marginale all’esterno del carcere, a partire dai suoi reali livelli di coscienza e lotta politica: una linea che possa diventare concreta in un programma immediato, e che dia espressione e forma organizzata ai bisogni di questo strato di classe.

Le forze rivoluzionarie devono aggredire il carcere metropolitano dall’esterno, quale parte fondamentale del sistema di controllo sociale sul territorio, e anello di quella catena che va dagli uffici di collocamento giù giù fino alla rete degli sbirri di quartiere. La lotta dentro il carcere deve raccogliere e potenziare i contenuti della lotta esterna! In questo modo l’aggregazione che il carcere produce non resta fine a se stessa, ma diventa strumento di reale antagonismo di classe; mentre la maturazione politica che in carcere ha luogo può rovesciarsi nel sociale, radicandosi in forme stabili di organizzazione e di lotta. Ci sembra questa la via per costruire nuove possibilità di attacco alle grandi carceri metropolitane: una via che non si fida solo delle grandi esplosioni spontanee, ma cerca di arricchirle di precisi contenuti di classe. Così sarà possibile mettere realmente in crisi la funzione di questo potente strumento di controllo e repressione dei bisogni proletari.

In questa prospettiva, infine, occorre considerare che questo tipo di carcere costituisce il primo anello della differenziazione, e che le lotte che in esso si sviluppano rompono, per le loro caratteristiche di massa, gli equilibri assai delicati di questa strategia. Ne è direttamente colpita, infatti, l’efficienza stessa di tutto l’apparato carcerario, e dunque anche l’efficienza e la funzionalità del circuito speciale, che può essere gestito solo sulla base della completa pacificazione di quello normale.

Liberazione dei prigionieri e guerra alla strategia differenziata.

La controrivoluzione preventiva ci costringe a riconsiderare i termini della questione carceraria e a ridefinire i nostri compiti dopo il salto di qualità compiuto dal potere nel ’79. Il carcere imperialista, proprio perché costituisce l’anello terminale della pratica dell’annientamento, è diventato uno dei punti più alti della ristrutturazione dello Stato: il punto in cui si condensa gran parte della strategia di guerra dell’imperialismo in Italia.

La possibilità per la borghesia di far arretrare il processo rivoluzionario trova, come abbiamo visto, un momento fondamentale in questo anello, in gran parte dell’avanguardia politico-militare del proletariato dovrebbe essere neutralizzata, e in cui una parte ancora più vasta del proletariato marginale dovrebbe essere controllata, regolata, pacificata.

L’analisi sin qui fatta evidenzia la complessità dei problemi che l’O. si trova davanti, nel formulare il suo programma d’intervento. Ma dall’analisi stessa emergono pure, con chiarezza, quegli elementi attorno ai quali l’O. può e deve costruire una stabile e unitaria linea di combattimento.

Innanzitutto, accettare di avere più di tremila avanguardie in carcere per un movimento rivoluzionario in Italia, e di avere centinaia di militanti in carcere per qualsiasi organizzazione rivoluzionaria combattente, significa farsi strangolare politicamente ancor prima che militarmente. Di qui, occorre costruire la capacità di raccogliere la sfida e di sfidare a nostra volta lo Stato sul terreno in cui oggi questo gioca tanta parte della sua forza e della sua credibilità. Ed è dunque anche su questo terreno che si misurerà la capacità della nostra organizzazione di agire da partito, articolando nel settore la linea strategica di attacco al cuore dello Stato.

Ciò comporta una linea di combattimento caratterizzata non solo dalla stabilità e dal livello militare che di fatto oggi la guerra impone, ma anche una linea profondamente unitaria rispetto al movimento dei proletari prigionieri. Una linea che abbia cioè la capacità di coniugare l’attacco al potere carcerario con le lotte dei proletari prigionieri stessi, e con la loro analisi della congiuntura al riguardo. Perché è proprio a partire da un patrimonio comune di analisi che può essere concretamente individuato di volta in volta il cuore politico del nemico.

In questo senso è importante capire che darsi una linea unitaria significa essenzialmente due cose:

– realizzare volta per volta, come si è detto, il massimo di unità possibile con i proletari prigionieri, sia per quanto riguarda l’aspetto concreto dei loro programmi di lotta, che per quanto riguarda il loro vivente patrimonio di esperienze e analisi politiche, che va discusso, verificato e fatto proprio dall’intera organizzazione. Tutto ciò non è tuttavia un dato di partenza, ma il risultato di un preciso lavoro politico, che deve sviluppare e arricchire tutti i rapporti tra l’esterno e l’interno. Si tratta di realizzare anche qui un salto di qualità, collocando questo lavoro nel quadro di una vera e propria “costruzione di organizzazione”, che significa costruzione di militanti, di strutture, di reti di sostegno, finalizzati a questo scopo, attraverso i quali una linea di combattimento possa calarsi e vivere in modo non episodico e senza scollamenti.

– l’unità intesa come capacità di rapporto e di confronto continuo con i proletari prigionieri deve diventare, dialetticamente, anche un’altra cosa. Deve infatti diventare unità politica interna alla linea di combattimento, deve diventare prospettiva strategica unificante. In altre parole, i momenti più alti di attacco agli uomini e alle strutture del settore carcerario devono potenziare al massimo l’unità dialettica tra il contenuto politico generale (l’attacco al cuore dello Stato) con il contenuto concreto e particolare dell’attacco al settore specifico, secondo linee e obbiettivi specifici, e secondo parole d’ordine che sappiano sintetizzare ogni volta i contenuti politici propri di ogni congiuntura. Solo così le azioni militari di disarticolazione possono avere immediata dimensione ed efficacia politica, e coerenza strategica di fondo. Solo così non ci saranno salti o vuoti che dividano le piccole dalle grandi azioni, e che dividano le grandi azioni tra di loro, lasciandole scollegate e sospese nell’astrattezza che hanno tutti gli interventi che non riescono a dialettizzarsi con la realtà presente, a calarsi in essa. Realtà che, nel nostro caso, è quella complessa del settore carcerario, nel quale direttamente si scontrano le strategie dello Stato imperialista e l’irriducibile capacità di lotta e di analisi politica dei proletari prigionieri. E con tutto ciò, sempre, noi dobbiamo fare i conti, quando in questo settore facciamo qualcosa.

Sul piano dei contenuti generali dell’attacco, tenuto conto dell’esperienza militare e politica sin qui accumulata da noi e dai proletari prigionieri, sono punti centrali del nostro programma:

– la liberazione dei proletari prigionieri;

– la disarticolazione del carcere imperialista.

Tra liberazione e disarticolazione non esiste oggi una priorità o una subordinazione dell’una nei confronti dell’altra, se non nel senso assai preciso che la liberazione rappresenta il livello massimo della disarticolazione, e la disarticolazione è una delle condizioni della liberazione. Esse non devono dunque più definire l’una il programma strategico (la liberazione) l’altra il programma tattico (la disarticolazione), quasi che tra le due ci fosse una sorta di gradualismo o di rapporto meccanico. In realtà, dato il livello ormai raggiunto nel settore dallo Stato imperialista, esse devono vivere in stretta unità dialettica nella nostra pratica di combattimento: saranno le condizioni oggettive, le possibilità concrete che definiranno di volta in volta quale momento privilegiare, e quindi la tattica da seguire. Importante non è dunque di per sé la diatriba: liberazione sì, liberazione no (col rischio di correre dietro, senza alcuna chiarezza e capacità di direzione politica e in modo del tutto episodico, a ogni progetto in merito), oppure l’altra: distruzione sì, distruzione no… importante è capire fino in fondo che la controrivoluzione preventiva ha assunto nel settore carcerario la forma della strategia differenziata e che la strategia differenziata costituisce il cuore – strategico, appunto – di tutte le pratiche di annientamento che a vari livelli lo Stato mette in opera contro il proletariato prigioniero. Sì che noi dobbiamo assumere in questa congiuntura la parola d’ordine generale: guerra alla strategia differenziata, per la liberazione del proletariato prigioniero e per la disarticolazione del carcere imperialista.

Questo comporta una scelta: quella di concertare l’attacco contro i punti forti della ristrutturazione carceraria, e quindi di avere come punto centrale di riferimento le carceri speciali, nelle quali si realizza oggi il massimo della differenziazione e della strategia di annientamento. È da queste carceri, del resto, che negli ultimi anni sono venute le esperienze più alte e significative di lotta (Favignana, Asinara, Termini Imerese), ed è contro questo circuito che va oggi rovesciato il massimo di capacità distruttiva che l’O. può esprimere.

I percorsi della disarticolazione sono pressoché infiniti, come ci insegna la pratica dei Comitati di Lotta, e non sta a noi tentare di elencarli, o di spiegare come essi, caso per caso, possano far vivere nell’immediatezza dello scontro il contenuto strategico ultimo: la liberazione e la distruzione di tutte le galere!

Nel concreto, è ormai ben chiara davanti a noi, nel suo preciso significato politico, una serie di obiettivi, contro i quali va portata una linea d’attacco coerente, che deve tradursi in uno stato d’assedio stabile del carcerario secondo il principio: “colpire al centro e logorare e disarticolare la periferia”. Ciò vuol dire: colpire i vertici del Ministero di Grazia e Giustizia; i vertici della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, i vertici delle agenzie imperialiste nazionali e internazionali che in stretta collaborazione reciproca hanno guidato e guidano la ristrutturazione nel settore carcerario, elaborando le direttive generali e le tecniche più criminali e sofisticate con le quali controllare e annientare il proletariato prigioniero; colpire i direttori delle singole carceri e l’intero staff di esperti che a vario titolo applicano quelle direttive, e collaborano quotidianamente alla loro elaborazione e al loro aggiornamento; colpire la magistratura di guerra e i CC, che in modo sempre più integrato conducono le loro campagne di guerra, e si incaricano in prima persona dell’isolamento e della tortura dei compagni catturati e tra cui si annidano i gruppi operativi speciali; colpire i nuclei che assicurano la militarizzazione attorno alle carceri e nel territorio circostante; colpire il corpo degli agenti di custodia, a partire dal Comando centrale e dai Comandi Regionali, e in particolare il sistema dei marescialli e dei brigadieri, ai quali spetta di tradurre le direttive superiori in pratica giornaliera di sorveglianza, di spionaggio, di violenza; colpire il grande carcere metropolitano nei suoi uomini e nelle sue strutture, quale primo anello della catene della differenziazione, attuata scientificamente in forme multiple nei suoi bracci e nelle sue sezioni, e quale generale strumento di controllo e distruzione dell’antagonismo proletario. Colpirlo, per destabilizzare l’intero sistema della differenziazione e metter in crisi anche il circuito degli “speciali”.

Oggi, questa linea di attacco dà corpo alla nostra strategia di disarticolazione del settore e di liberazione dei proletari prigionieri, ed è dunque tutt’altra cosa da un “programma inventato”, perché in essa si riassumono e si moltiplicano le esperienze e le indicazioni di lotta che sono ormai patrimonio della nostra O. A questa linea hanno dato contributi determinanti i proletari prigionieri i quali l’hanno articolata entro i contenuti del Programma Immediato e l’hanno calata nelle forme organizzative dei Comitati di Lotta. Ma – quel che più conta – l’hanno fatta vivere attraverso gli attacchi disarticolanti che hanno saputo portare contro le carceri speciali, e in particolare contro una di queste, che rappresenta il punto più alto della ristrutturazione, il cuore della strategia differenziata, quella in cui l’isolamento e la tortura sono tornate a distruggere fisicamente, nel modo più diretto e brutale, i prigionieri che vi sono rinchiusi: l’Asinara. La nostra linea deve dunque trovare là il suo punto materiale di coagulo, oggi storicamente acquisito alla coscienza di tutti i proletari prigionieri nei suoi contenuti immediati e nella sua portata strategica. Dobbiamo perciò raccogliere la parola d’ordine: chiudere con ogni mezzo l’Asinara!, e farla vivere da subito come contenuto unificante dei nostri attacchi. Solo così le lotte per il Programma Immediato negli atri campi potranno riavere l’ampiezza e il respiro di un attacco complessivo alla strategia dello Stato imperialista. Solo così, insieme ai proletari prigionieri, potremo cominciare a realizzare concretamente il nostro programma.

È proprio questa capacità di assediare stabilmente il carcere dall’interno e dall’esterno, e di colpire il cuore del progetto nemico in modo da impedire alla strategia differenziata di funzionare, che ci permette di mettere all’ordine del giorno il contenuto centrale e irrinunciabile del nostro programma: la liberazione di tutti i proletari prigionieri!

Guerra alla strategia differenziata, per la liberazione del proletariato prigioniero e per la distruzione del carcere imperialista!!

 

3) L’unica transizione è per il comunismo

Nel sistema imperialista delle Multinazionali i rapporti di produzione capitalistici non caratterizzano più il sistema dominante, ma sono ormai estesi, generalizzati su scala planetaria. Questo richiede un profondo riadeguamento nella teoria comunista, che sia il riflesso di questa comprensione: l’unica transizione possibile è ormai quella verso il comunismo.

In passato, il programma di transizione si traduceva in una serie di mediazioni rese, oltre che necessarie, possibili dalle leggi dello sviluppo storico nell’ambito del capitalismo. La liberazione delle forze produttive vedeva il suo primo passo nella loro emancipazione, ossia nel loro sviluppo. E questo sia prima che dopo la presa del potere da parte delle forze rivoluzionarie. La strategia del socialismo elaborata dai comunisti è stata sostanzialmente tutto questo, la risposta a simile questione.

È per esempio assurdo andare a vedere nei tentativi di realizzazione della società socialista (Urss dei primi anni, la Cina fino alla sconfitta della rivoluzione culturale) un particolare modello economico diverso dal capitalismo, con una diversa funzione delle categorie di valore, mercato, accumulazione. La socializzazione dei mezzi di produzione vedeva il suo primo passo nella statalizzazione: quindi in pratica nella realizzazione di un contraddittorio capitalismo di Stato. E questo, ovviamente, a prescindere da alcune idealizzazioni teoriche sulla transizione di allora, che qui stiamo mettendo in discussione; a prescindere dalle diverse tattiche con cui si è portata avanti l’accumulazione per formare l’industria di base, ecc. Ciò che storicamente ha contraddistinto la transizione socialista (dopo la presa del potere) sta soprattutto nella sovrastruttura: nel potere politico che assicura il processo – ancora capitalistico, anche se contraddittorio – di sviluppo delle forze produttive, evitando che questo processo rafforzi la vecchia classe dominante sotto nuove forme. Dunque ciò che in teoria definisce il socialismo come fase transitoria è la dittatura del proletariato, con il suo corollario: “mettere in piedi uno Stato costituito in modo che cominci subito a sparire e non possa fare a meno di sparire” (Lenin).

A maggior ragione si riscontra questo carattere di “mediazione” nel programma rivoluzionario di transizione prima della presa del potere. Basti pensare al carattere della rivendicazione sindacale, salariale o normativa che sia. Nella teoria socialista, l’operaio scopre il suo ruolo di merce, afferma i suoi bisogni materiali in un’ottica di classe: ma a partire dal fatto che è possibile uno spazio socio-economico nell’ambito dello sviluppo capitalistico, ambito che si traduce per gli operai in modifiche della professionalità, nella sua modernizzazione.

Ma oggi i sindacati non sono istituzioni del capitale solo per la logica evoluzione delle loro storiche vocazioni trade-unioniste; i revisionisti non hanno smesso di essere riformisti per un repentino tradimento. Il trade-unionismo e il suo corrispettivo politico, il riformismo, erano ancora delle politiche operaie, per quanto non rivoluzionarie e coincidenti con un settore della borghesia. È che oggi, invece, non esiste più lo spazio sindacal-riformista inteso per quel che è realmente, non solo ideologicamente: briciole da dare alla classe via via che aumenta la torta del capitale. Non c’è dunque nessuno spazio socio-economico dove, all’interno di questa società, si possa realizzare un interesse proletario che nella sua ambiguità politica, ma non per questo meno concretamente compiuto, prefiguri al tempo stesso la società futura. Tutti i temi della transizione vivono già nell’immediatezza dello scontro di classe, sono inscindibili dalla lotta per i bisogni immediati del proletariato. I quali, a loro volta, per essere affrontati, non si possono scindere da una visione comunista, che nella sua tattica d’organizzazione e di lotta sappia tradursi in una via che rompa gli attuali rapporti di produzione. Di conseguenza, non c’è nessun programma di “sapore socialista” realizzabile in questa società, basandosi su una piattaforma più avanzata di quella della classe dominante o della “opposizione” Pci-sindacati: istituzioni queste ormai addette a rappresentare le istanze borghesi dentro il proletariato. Il programma proletario richiede la rottura dei rapporti di produzione: deve diventare un programma comunista, e non più “progressivo” rispetto a una presunta timidezza evoluzionista di un riformismo che è morto. La transizione al comunismo si pone quindi come necessità storica, vissuta come tale da milioni di uomini. Ma questa transizione a una società comunista possiede le basi materiali per essere oltre che necessaria anche possibile?

A differenza del ’17 sovietico o del ’49 cinese, nella metropoli imperialista contenuto e forma della rivoluzione proletaria coincidono perfettamente. Ciò significa che qui è effettivamente data la condizione materiale per eliminare, insieme al rapporto di capitale, anche la maledizione del lavoro sfruttato. Sono date cioè le condizioni materiali per il passaggio epocale dalla “comunità illusoria” alla “comunità reale”, dalla divisione del lavoro al pieno sviluppo dell’individuo sociale.

Certo, come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando passo a passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è il risultato ultimo: ma questa negazione è qui immediatamente transizione rivoluzionaria al comunismo.

L’enorme sviluppo delle forze produttive capitalistiche costituisce la base contraddittoria di questo processo. Mentre, infatti, sapere scientifico e applicazioni tecnologiche sono ostinatamente usati per distillare plusvalore e controllare la classe operaia, la dinamica interna del sistema spinge inesorabilmente verso trasformazioni “impensabili” per la borghesia imperialista. E quei rapporti di produzione e quella rielaborazione delle forze produttive che la classe dominante è costretta a impedire sono condizioni imprescindibili di superamento della crisi e della liberazione proletaria.

In questa contraddizione si forma ed emerge il proletariato metropolitano come soggetto rivoluzionario, come espressione sul terreno politico dei rapporti sociali di produzione in gestazione, latenti, possibili, costretti ad esercitare una pressione virtuale sui rapporti di produzione operanti.

Rapporti di produzione in gestazione che, tuttavia, interiorizzandosi in ciascuna avanguardia proletaria, ne rimodellano in continuazione la struttura della coscienza alludendo a una trasformazione radicale: all’uomo sociale, collettivo, ricomposto nelle sue molteplici pratiche. Rapporti sociali di produzione in gestazione il cui carattere radicalmente rivoluzionario è fondamento del programma di transizione al comunismo e che, perciò, definiscono la pratica della ribellione, anche armata, per la loro instaurazione, come la forma di esistenza sociale più avanzata oggi possibile nella metropoli imperialista.

Tutto questo rende, nelle attuali condizioni storiche, la transizione al comunismo necessaria e possibile. Quando diciamo “possibile” non intendiamo che sia realizzabile qui e oggi qualche frammento di comunismo, o nelle pratiche di riappropriazione delle merci o in una sorta di riorganizzazione individuale del lavoro, ecc. Questo finisce per essere soltanto una parodia del comunismo. Intendiamo dire invece che la transizione al comunismo è oggi possibilità materiale di guardare il presente con gli occhi del futuro, di vedere in ciò che esiste ciò che sarà, ed è anche possibilità di fissare, attraverso la critica del modo di produzione capitalistico, i contenuti del programma di transizione. Ciò d’altra parte non può avvenire senza fissare nel contempo il percorso storico – che attraversa una intera epoca – che la sua realizzazione presuppone.

La concezione del potere proletario armato è il punto dal quale dobbiamo partire. Il sistema del potere proletario armato, nella sua ambivalenza: Partito Combattente e Organismi di Massa Rivoluzionari – nell’evolversi dello scontro di classe cresce e si afferma accumulando il potenziale proletario. Il potere proletario armato è esercizio di potere che trova il suo compimento nella conquista e nella distruzione dello Stato borghese, cioè nel pieno dispiegamento della sua forza nella forma della sua dittatura. La categoria politica della dittatura del proletariato è e rimane un problema fondamentale del cammino per la trasformazione comunista della società.

Non si tratta di concepirlo come un momento magico che, basta aspettare, prima o poi arriverà, ma come l’esercizio pieno e dominante di un potere politico che ha soppiantato quello della borghesia. Quello che oggi affermiamo è che la dittatura del proletariato non è un momento di passaggio per la realizzazione di qualche conquista “socialistica” (mediata cioè dalla necessità dell’accumulazione capitalistica), ma è condizione per una diretta e immediata transizione al comunismo.

 

Potere proletario armato, dittatura proletaria per la transizione rivoluzionaria al comunismo!

Infatti, pur immaginandolo in un contesto storico più avanzato, che senso avrebbe oggi proporre piattaforme socio-economiche di carattere generale? Quella dei sindacati e dei revisionisti, per esempio, non chiedono poco: chiedono niente e contro i proletari. Compito dei comunisti è dunque un altro.

In ogni situazione specifica vissuta dai proletari, la lotta per gli interessi immediati, per soddisfarli, è qualcosa di diverso da ieri. Compito dei comunisti è di cogliere questo “diverso”. C’è un unico bisogno che obiettivamente accomuna questi interessi, ed è ormai il bisogno politico del comunismo. Lo sviluppo dell’organizzazione del lavoro produce solo controllo e disoccupazione, mentre il problema operaio, ormai, è il superamento della divisione del lavoro. La nocività mortale nasce da impianti moderni: l’unica soluzione complessiva sta in un diverso rapporto dell’uomo con la produzione e la natura.

Questi interessi, per andare avanti, hanno perciò bisogno di una capacità politica che sappia far emergere la necessità del comunismo in ogni situazione particolare, e dunque in forme d’organizzazione che costruiscono il potere proletario, e nella loro capacità di rovesciare gli attuali rapporti di produzione.

La funzione del partito è di essere questa “capacità politica” di far vivere la lotta in ogni situazione di classe come parte di un programma generale di transizione al comunismo; essere con la propria pratica d’avanguardia e con le sue indicazioni a livello di massa il punto di riferimento che riesce a dare questo significato concreto a ogni specifica situazione di classe.

 

4) Organizzare le masse proletarie sul terreno della lotta armata per il comunismo. Costruire i nuclei clandestini di resistenza.

Le condizioni di vita e di lotta delle masse sono molto cambiate. Dobbiamo sbarazzarci degli schemi che abbiamo ereditato da una tradizione politica adeguata a una vecchia situazione storica, che ora è bruscamente cambiata. Come abbiamo già detto, non c’è più alcun sbocco riformista alle tensioni e alle lotte che il proletariato esprime. La prima conseguenza è che si è chiusa la possibilità dell’autonomia di classe di (…) come per il passato la contraddizione fra due strategie capitalistiche. In particolare la contraddizione sindacato-padronato, che oggi è ricomposta (pur con numerose sbavature) all’interno di un’unica strategia controrivoluzionaria, dove gli uni e gli altri si trovano sostanzialmente uniti nel realizzare la ristrutturazione.

Il secondo aspetto concerne la natura della repressione.

Il suo carattere preventivo è sempre stato rivolto, soprattutto, alla possibilità di estensione delle lotte. Rispetto alla singola lotta, la repressione in genere è arrivata dopo, invece che prima, per impedire che le cose diventassero troppo serie per l’assetto del dominio. Solo allora la repressione era rappresentata direttamente dallo Stato, poiché dalle concezioni derivate dalla libera concorrenza sul mercato, esso si manifestava formalmente neutrale nel rapporto diretto operai-capitale, almeno finché la situazione restava “normale amministrazione”: quando riguardava cioè la contrattazione del prezzo della forza-lavoro (nei limiti del necessario sviluppo della professionalità) e non il potere.

L’autonomia della lotta di classe si è dunque storicamente determinata, in un lungo periodo, come capacità proletaria di “forzare” le possibilità offerte dalla stessa “legalità” del sistema. Quindi oggi, ogni lotta, seppur parziale e circoscritta, può nascere solo se si riesce a scavalcare (o a eludere) l’insieme degli impedimenti sindacali-padronali-statali che le si frappongono. E quando la spontaneità delle masse riesce a creare (battendo il sindacato, ecc.) le condizioni di unità su cui sviluppare la lotta per i bisogni immediati, questa lotta raggiunge istantaneamente un tetto. Essa si configura immediatamente come scontro di potere rispetto al quale il movimento di massa stenta a mantenere l’offensiva. Sebbene lo scontro di potere viva oggettivamente nella sua immediatezza, non esistono ancora i livelli di organizzazione sufficienti a poterlo interpretare. Su questo piano il movimento di massa è pressoché all’anno zero.

Accade quindi che le iniziative di lotta intraprese dai vari segmenti di classe, che, seppur con varia intensità e frequenza, percorrono tutto il proletariato, si arrestano di fronte alla possibilità-necessità di affrontare “disarmati” lo Stato imperialista. Il culo di sacco cui la controrivoluzione preventiva sembra avere imbottigliato l’autonomia proletaria è però solo apparente.

In realtà, la soggettività proletaria comincia a misurarsi e a realizzarsi su questo nuovo terreno. Ed è qui che va valutato il suo carattere offensivo, poiché offensivo può essere solo ciò che si forma sulle novità della fase attuale. Se di fronte allo sfascio completo delle forme organizzate tradizionali del proletariato sono scomparse persino le istanze politiche più elementari, se viene permessa e considerata legale solo la lotta che non serve in alcun modo ai proletari, è scomparso rapidamente e definitivamente il vecchio, ma altrettanto rapidamente ha cominciato a nascere il nuovo. I proletari più coscienti e combattivi, le vere avanguardie delle masse, hanno cominciato a misurarsi con il problema che si pone sul tappeto: ricostruire, nelle nuove condizioni, la capacità del movimento di massa di riprendere l’offensiva.

In questo senso va valutata la vasta mobilitazione che si è verificata quasi ovunque nel movimento di classe (dalle grandi fabbriche ai quartieri), intesa a riallacciare, a partire dalla clandestinità, i fili di una rete proletaria che sappia riappropriarsi delle capacità di lotta e di antagonismo che le mutate condizioni avevano distrutto nella vecchia forma.

Il carattere di massa di questi primi momenti di organizzazione sta in questo: sono la prima espressione organizzata e stabile dei caratteri offensivi della resistenza di massa alla ristrutturazione. In quanto forme organizzate della resistenza alla ristrutturazione che si materializza nell’immediato di ogni situazione di classe rappresentano il massimo dell’offensiva oggi esprimibile dalle masse. E’ un fiore destinato a crescere per la ricchezza del terreno su cui nasce. In tutti i momenti di lotta aperta che si sono verificati di recente (dagli scioperi Fiat, Alfa, ecc.. alle lotte dei lavoratori dei servizi, alle esplosioni sociali tra i proletari del Sud) si è espressa una componente antagonista che ha mantenuto e ricreato una continuità dello scontro in mille episodi di resistenza quotidiana alla ristrutturazione. Questi comportamenti sono diventati un immenso fenomeno di “riorganizzazione sotterranea” di migliaia e migliaia di proletari che la controguerriglia psicologica deve riconoscere, seppur con le parole velenose della mistificazione. In realtà, questo fenomeno apre la possibilità di lottare stabilmente nella fase della controrivoluzione preventiva, poiché non si tratta di un arroccamento in difesa dei livelli precedenti, ma di un adeguamento a quelli nuovi con una capacità autonoma di organizzazione. L’agitazione e la propaganda clandestina, le mille piccole azioni combattenti; il sabotaggio continuo alla struttura produttiva e di controllo, la pressione e l’accerchiamento contro le gerarchie militarizzate, il rigetto e il crescente isolamento degli apparati sindacal-revisionisti, sono il dato caratteristico fondamentale della lotta di classe in quest’ultimo periodo. Cogliendo questo dato essenziale, dobbiamo lanciare nel movimento di classe la parola d’ordine: costruire i nuclei clandestini di resistenza, in quanto embrioni degli organismi che nascono dalle masse e, per il modo offensivo di collocarsi nello scontro, gli organismi di massa del potere proletario. Ciò che dà valore a questa parola d’ordine non è tanto la consistenza numerica che i nuclei possono avere, ma il fatto che sanno unire già oggi in una pratica di massa il politico al militante in forme clandestine, interne a un processo di resistenza di massa alla ristrutturazione.

Questo perché nella fase attuale solo la lotta armata può esprimere compiutamente l’antagonismo proletario: è la sola strategia che nelle attuali condizioni storiche possa dirsi rivoluzionaria. Ne consegue che la costruzione del Partito Comunista Combattente non può darsi separando il politico dal militante, come separazione dei due aspetti.

Questo, deve essere chiaro, vale anche per gli Organismi di massa Rivoluzionari. Nella guerriglia, in cui non c’è separazione fra una fase politica (precedente) e una militare (presa del potere), gli organismi rivoluzionari delle masse non sorgono alla vigilia dell’insurrezione, ma nel corso di un intero periodo storico in cui la crisi economica e politica si accentua e la lotta armata si intensifica, e si caratterizzano insieme come organismi politico-militari. Anche per quanto riguarda la clandestinità delle varie forme che l’organizzazione assume all’interno delle masse, cogliamo un segno dell’avanzata nella costruzione del potere proletario. Il concetto di clandestinità è legato a una concezione politica offensiva dello scontro e dell’organizzazione che deve guidarlo. Clandestinità vuol dire organizzarsi perché la lotta non si fermi alla prima ventata repressiva, altrimenti è solo la repressione a stabilire il tetto del programma rivoluzionario e chi lo deve condurre. È chiaro altresì che le forme che assumono i momenti di organizzazione delle masse non sono legate a uno schema rigido e immutabile, ma al contrario si modellano a seconda delle condizioni particolari, delle specifiche possibilità che i vari movimenti presentano.

Ma non dobbiamo confondere la forma con la sostanza. E nella sostanza noi dobbiamo vedere con chiarezza che il “nuovo” sta proprio nell’estendersi e nel rafforzarsi della rete sotterranea dentro il tessuto proletario, il sedimentare di primi momenti di organizzazione stabile quali punti di partenza di organismi propri delle masse che si misurano con la capacità di combattere la ristrutturazione, e di costruire il potere proletario armato.

Ma non si può ridurre il problema dell’organizzazione delle masse a un problema esclusivamente organizzativo. Si tratta di definire i contenuti di un programma che tende a riunificare la classe, che sia fin da subito mobilitante. Che cosa vuol dire questo? Nelle masse vivono tensioni, lotte, espressioni multiformi di antagonismo generate dalla crisi, che hanno la loro origine nelle condizioni materiali quotidianamente vissute. “Gli uomini si pongono, in genere, solo i problemi che possono affrontare e risolvere”, e non c’è dubbio che le masse proletarie questo fanno, e lo fanno spontaneamente, senza l’intervento di nessuno. Ma se le contraddizioni affrontate giorno per giorno dalle masse proletarie generano la lotta spontanea, il processo che porta alla elaborazione del programma immediato su cui mobilitare e farle combattere non è altrettanto spontaneo e automatico.

Va capito innanzitutto che il punto di partenza è la lotta spontanea (a volte soltanto tensioni, esplicite o latenti), perché in essa vi sono gli elementi politici, i contenuti specifici del programma immediato valido per i diversi strati del proletariato metropolitano. Non c’è dunque da inventare niente su questo piano, ma bisogna invece cogliere con intelligenza politica quel che già esiste nella spontaneità delle masse e trasformarlo in progetto lucido e coerente, in piattaforma politica unificante sulla quale imperniare la costruzione dei livelli di mobilitazione delle masse e delle articolazioni del potere proletario.

Facciamo un esempio: Alfa Romeo, reparto verniciatura. Nei mesi scorsi, gli operai di questo reparto hanno sviluppato una lotta sul salario: in concreto, volevano il passaggio automatico di categoria. La lotta è stata dura perché questa esigenza non rientra né tanto né poco nei piano di ristrutturazione di Massaccesi e, quindi, ci si è trovati contro tutto l’apparato controrivoluzionario: la direzione, il sindaco, e infine la digos. Le Brigate Rosse si sono dialettizzate con tutta la fabbrica, e con questa lotta in particolare, con un insieme di iniziative politico-militari di propaganda armata (opuscolo n.8, azione Dallera, ecc.).

Nella lotta della verniciatura, che indubbiamente coglie uno dei nodi della ristrutturazione, vive anche materialmente uno dei contenuti operai affermatesi in dieci anni di lotta: l’aumento uguale per tutti. Questa parola d’ordine, sempre presente in tutte le lotte per il salario, è intesa a riunificare la classe, a rompere l’artificiosa stratificazione operaia ottenuta dal padrone attraverso la differenziazione salariale. Non solo, ma vediamo che, pur interpretando un bisogno reale e immediato (più soldi), allude a una società diversa, fondata su altri principi. Una società in cui il valore del lavoro non si misura con il denaro con cui ti pagano, ma in cui, al contrario, ribaltati i rapporti di produzione, si può e si vuole vivere fra uguali, secondo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Non si creda che questa interpretazione della lotta della verniciatura sia una “forzatura”, un voler mettere un cappello politico troppo grande a una lotta troppo piccola.

È l’insieme di queste cose che i comunisti devono saper leggere e valorizzare nella lotta spontanea delle masse. Occorre rielaborare i contenuti di ogni lotta contro la nocività, i ritmi, per il salario,ecc, per metterne in evidenza lo scontro di potere, la carica sovversiva che li anima contro i rapporti di produzione. Da questa operazione politica nasce il programma immediato, che parte sì dalla spontaneità, ma la trasforma in movimento organizzato e cosciente. Senza questa operazione politica la spontaneità nasce e muore, rinasce e rimuore, come sempre è avvenuto, e non produce affatto né programma né altro. D’altro canto, senza programma immediato è impossibile che nascano, si sviluppino e diventino potenti gli organismi di massa rivoluzionari. Se oggi cominciano a esistere gli embrioni di questi organismi (i Nuclei Clandestini di Resistenza), essi troveranno le ragioni della loro esistenza e della loro evoluzione solo in un Programma Immediato, che sappia essere sintesi politica e proposta mobilitante in dialettica con le condizioni di vita delle masse. Occorre quindi farsi carico, da parte del partito Comunista Combattente, per ogni segmento di classe e approfondendo l’analisi delle lotte rivista alla luce della necessità di elaborare i programmi immediati, della capacità immediata di ciascuna componente di lottare per i propri bisogni. In altri termini, il programma immediato non è un programma economico-rivendicativo, ma un programma politico che fa vivere le esigenze e i contenuti generali dello scontro in stretta aderenza alle necessità immediate che questo scontro esprime in ogni concreta situazione di classe.

Con chi si elabora un programma immediato? Sono i proletari più attivi e combattivi delle masse che devono essere mobilitati in questo lavoro. È all’interno della costruzione degli organismi di massa rivoluzionari che la dialettica deve essere sviluppata a questo scopo. Il compito del partito deve essere quello di favorire, sollecitare, supportare la sua azione, la sua iniziativa militante, la definizione chiara, esplicita, concreta degli elementi che costituiscono il programma immediato. Favorire, sollecitare, supportare la mobilitazione possibile per il suo raggiungimento. Il compito della Brigata di fabbrica, di quartiere, di campo è principalmente questo. Il militante delle Brigate Rosse deve oggi qualificarsi nella classe come dirigente attivo di questo processo.

Lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione si gioca essenzialmente su questo terreno. Per la guerriglia, vuol dire conquistare e mobilitare le masse sul terreno della lotta armata per il comunismo. Per lo Stato imperialista, annientare questa possibilità. Il Partito Comunista Combattente misurerà quindi la sua capacità di essere tale principalmente nel ruolo che saprà giocare nella direzione di questo complesso lavoro: nella capacità che avrà di legare indissolubilmente e strategicamente il programma generale di transizione al comunismo con i programmi immediati e con gli organismi che ne sono i portatori.

“Brigate” e “Nuclei clandestini di Resistenza” non sono dunque rispettivamente espressioni della “strategia” e della “tattica” della rivoluzione, ma articolazioni strategiche di un unico processo di costruzione del potere proletario armato. Nella dualità che assume il processo di costruzione del potere proletario, i Nuclei Clandestini di Resistenza non sono organismi di partito. Mentre le Brigate sono gli embrioni del partito come cellule politico-militari, i Nuclei sono gli embrioni di massa del potere proletario.

Le brigate raccolgono quella parte dell’avanguardia di classe che porta avanti il programma generale rappresentato dall’agire di partito; i Nuclei tendono a raccogliere l’avanguardia di classe nel suo complesso (e quindi nelle sue varie componenti non solo sociali ma anche politiche), per essere espressione del programma generale nella realizzazione dei programmi immediati. Ossia, strategia applicata a una particolare situazione di classe del proletariato. La dialettica esistente fra questi diversi livelli autonomi è quella esistente fra i due momenti inversi: dal generale al particolare per gli embrioni degli organismi di massa rivoluzionari. E’ lo stesso tipo del rapporto che c’era – per fare un paragone – tra Soviet e Partito Bolscevico. Ma l’analogia si ferma qui, perché oggi, in una situazione storica molto diversa di “capitalismo maturo”, mutano gli obiettivi, i quali perdono il loro carattere intermedio rispetto allo sviluppo capitalistico che allora si presentava come necessario. Muta quindi il loro carattere spesso “difensivo” dal punto di vista proletario: mutano ancora, quindi, come abbiamo visto, le caratteristiche di questi organismi, che non scindono il politico dal militante.

 

Il lavoro di massa delle Br nell’attuale congiuntura

Via via che la guerra di classe avanza, via via che cresce il movimento rivoluzionario, si evolve e cambia la fase in cui si connota lo scontro. Non c’è mai staticità o ripetitività nello scontro, ma dialettica, che sposta continuamente in avanti la contraddizione: la classe abbatte e supera le vecchie barriere, conquista e si attesta a un nuovo livello. L’organizzazione rivoluzionaria, il Partito, deve saper adeguare la sua linea politica alle nuove esigenze, deve ridefinire la sua funzione partendo sempre da una strategia complessiva, ricalibrando i compiti che deve assolvere. Ciò gli è possibile solo tenendo ben chiari e fermi i propri riferimenti strategici, solo se sa reinterpretare alla luce delle nuove esigenze i propri principi politico-organizzativi. L’insieme dei principi politico-organizzativi dell’Organizzazione non deve essere un corpo imbalsamato esposto in una bacheca di cristallo, perfettamente conservato ma irrimediabilmente morto. Deve essere al contrario materia viva, sostanza cromosomica che modella l’Organizzazione nella sua evoluzione, che le consente di mutare e di crescere mantenendo inalterati i caratteri distintivi fondamentali. A partire da queste considerazioni, è necessario ridefinire e qualificare una struttura essenziale e insostituibile del nostro lavoro: il Fronte di massa.

Nella teoria dell’organizzazione delle Br i Fronti di Combattimento rispondono all’esigenza “di elaborazione e omogeneizzazione dei programmi di lavoro e di lotta in settori specifici”. Questo, nella fase della propaganda armata (dove i compiti principali erano, ricordiamo in sintesi: radicare la necessità della lotta armata, disarticolare il progetto di costituzione dello Sim, costruire il Partito Comunista Combattente come indispensabile determinazione del potere proletario), ha dato origine a due strutture centralizzate di lavoro e direzione politica: il Fronte di lotta alla controrivoluzione e il Fronte logistico. Il lavoro di massa dell’O., in quanto finalizzato ai compiti sopraddetti, percorreva tutto il corpo dell’O.; trovava impulso e proposizione da una parte, e centralizzazione dall’altra, nelle Colonne e nei due Fronti. Il lavoro di massa, pur non avendo strutture sue proprie (oltre alle Brigate, ovviamente), anzi proprio per questo, riusciva a essere presente in tutte le strutture dell’O. e trovava in esse la centralizzazione necessaria. Propaganda armata e lavoro di massa in questo schema organizzativo, essendo due funzioni strutturalmente integrate, si compenetravano perfettamente senza che vi fossero frapposti steccati organizzativi. Questo era l’unico modo corretto per risolvere dialetticamente la necessità di far nascere e attecchire la lotta armata, e di lavorare nella classe per organizzare l’avanguardia del partito.

Ora ci troviamo in una fase in cui possiamo definire i compiti dell’O, per semplicità di sintesi, in una parola d’ordine: conquistare le masse alla lotta armata; organizzare le masse in un articolato sistema di potere proletario armato. Il lavoro di massa dell’O. punta allora a qualcosa di più e sostanzialmente diverso che per il passato. Non si tratta cioè di una semplice estensione quantitativa o geografica, ma di un’evoluzione qualitativamente diversa. Non muta affatto il rapporto tra l’O. e il movimento, anzi la funzione del partito si rafforza e acquista ancor più valore: muta invece la qualità politica delle finalità e degli obiettivi del nostro lavoro di massa. Il nostro programma punta a organizzare strati di classe per la guerra civile, a favorire la nascita e la crescita degli organismi di massa rivoluzionari, in dialettica con il programma generale, ecc. Questo conferisce al lavoro di massa dell’O. non solo una grande importanza (questa l’ha sempre avuta), ma una connotazione del tutto nuova che non può più essere compresa entro lo schema organizzativo della fase precedente. Si tratta infatti di articolare la linea politica dell’O. in riferimento specifico alle diverse componenti del proletariato metropolitano, in aderenza ai loro bisogni immediati e strategici, alla dinamica particolare dei diversi momenti di lotta, ecc. Si pone quindi la necessità di approfondire l’analisi e l’elaborazione politica dal punto di vista di strati omogenei di classe (omogenei per condizione oggettiva), di produrre gli indirizzi politici in un’ottica di riunificazione dei programmi di lotta e di ricondurre questi a una strategia generale, tenendo conto della complessa dialettica esistente tra Partito e movimento. Il lavoro di massa dell’O. deve pertanto essere centralizzato in apposite strutture che possano assolvere a questo compito. Il fronte di massa deve costituirsi come struttura centrale dell’O., nella medesima concezione che caratterizza sia il Fronte di lotta alla controrivoluzione che il Fronte logistico, i quali nell’attuale congiuntura conservano appieno la loro validità e la loro funzione. Dovendo centralizzare il lavoro di massa che l’O. svolge all’interno delle varie componenti di classe, le articolazioni del Fronte di massa sono conseguenti alla capacità che si avrà di penetrare e radicarsi all’interno di ogni componente proletaria. In questa prospettiva, possiamo già individuare e realizzare delle valide articolazioni, suddividendo il Fronte di massa in tre settori fondamentali:

 

  1. Settore Classe operaia e fabbriche.

2 .Settore lavoratori dei servizi.

3 .Settore proletario marginale.

 

5) La guerriglia nella fase di passaggio dalla propaganda armata alla guerra civile imperialista.

Non siamo più nella fase della propaganda armata e non siamo ancora in quella della guerra civile antimperialista. La fase della propaganda armata è contraddistinta da questo: la guerriglia con la sua iniziativa politico militare disarticola politicamente il nemico di classe. Avviene cioè che la guerriglia, individuando il “cuore pulsante” del progetto nemico, sferra i suoi attacchi per mettere a nudo di fronte ai proletari la sua natura, i suoi intenti, la sua inconciliabilità di interessi, e così facendo “batte la strada”, “apre la pista” al movimento proletario. Collocandosi al punto più alto della contraddizione tra borghesia e proletariato, costituisce per quest’ultimo il punto di riferimento sul piano strategico; si traduce sul piano politico nella massima espressione dell’antagonismo di classe; apre dei varchi nella gabbia dell’oppressione capitalistica, così che la governabilità politica dei rapporti di produzione ne esce irrimediabilmente infranta, e prefigura la possibilità della distruzione definitiva del potere della borghesia. La guerriglia infrange la “pax imperialista”, fa vivere al suo punto più alto lo scontro di potere in cui si esprime l’antagonismo della classe, dimostra che i tempi della rivoluzione proletaria sono maturi, e che questa non può essere recuperata neppure con tutte le mistificazioni di cui è capace la borghesia imperialista. In questa fase, pur essendo minoritaria, la guerriglia riesce ad essere l’interprete dei bisogni politici della maggioranza. Pur essendo come forza militare dispiegata ben poca cosa, riesce in quanto materializzazione organizzata della più alta coscienza proletaria, a conquistare spazi politici entro cui la lotta delle masse può avanzare. Disarticolazione politica vuol dire soprattutto questo.

Inoltre l’attacco guerrigliero, nella misura in cui è veramente indirizzato contro l’aspetto principale della contraddizione, provoca uno sconquasso fra le file nemiche: ne acuisce le contraddizioni interne, divarica le differenti tendenze delle varie componenti del suo fronte, impedisce il ricomporsi dei conflitti intercapitalistici, rende tutto l’apparato ancora più disfunzionale. La fase della propaganda armata si contraddistingue quindi per l’esistenza della lotta armata come strategia possibile per il comunismo, e la guerriglia in sostanza propaganda se stessa. La tattica viene definita non tenendo in alcun conto i rapporti di forza militare, perché è scontato che essi pendono in modo soverchiante dalla parte del nemico, e il compito principale della guerriglia è quello di esistere: esistere come fatto politico.

La fase della guerra civile dispiegata è quella in cui la lotta armata costituisce il fronte della lotta principale della iniziativa delle masse. La mobilitazione delle masse si articola prevalentemente sul terreno della guerra, lo scontro di potere non è più solo proiezione politica dell’antagonismo di classe e prefigurazione di rapporti di forza possibili, ma è capacità di imposizione della forza proletaria che distrugge il potere borghese, e attraverso la costruzione del sistema di potere proletario armato ribalta i rapporti di produzione esistenti. La fase della guerra è quella in cui le forme organizzate del potere proletario hanno la capacità di inchiodare il nemico senza via di scampo, di operare per la sua distruzione, di eroderne ogni spazio di agibilità politica e militare. La tattica in questa fase è principalmente determinata dai rapporti di forza militari (intendendo per militari i livelli di organizzazione costruiti, la loro capacità di mobilitazione delle masse, la disponibilità e il grado di capacità al combattimento raggiunto, ecc.), che diventano la determinazione principale del “fare politica” delle masse.

Abbiamo detto che non siamo ancora in una situazione di guerra civile dispiegata, pur essendo esaurita la fase in cui la propaganda armata era l’unica dimensione in cui la strategia della lotta armata potesse vincere. Ciò significa che ci troviamo in un momento di passaggio, che stiamo vivendo un periodo in cui le masse si approprieranno della lotta armata, un periodo in cui dovranno avvenire profonde trasformazioni, radicali innovazioni, nel modo di “fare politica” (nel senso di incidere nei rapporti di forza) del movimento di classe. Ci troviamo nel momento iniziale della formazione degli organismi del potere proletario. Dire che non siamo ancora in piena guerra civile significa affermare che siamo all’inizio di un processo politico-militare che conquisterà nella sua interezza il proletariato alla lotta armata, intorno alla quale ogni segmento di classe potrà essere riunificato e mobilitato, edificando gli organismi della dittatura del proletariato. E’ quindi chiaro che non si verificherà alcun spostamento significativo nel senso della guerra civile se non attraverso una avanzata, passo dopo passo, delle condizioni soggettive, di coscienza, di organizzazione, che permetta al movimento di classe di trasformarsi in movimento di massa rivoluzionario e, in definitiva, di fare la guerra. Perché la guerra può essere fatta solo da grandi masse, e non dalla organizzazione guerrigliera, per quanto forte e organizzata essa possa essere.

Qual è allora il compito della guerriglia in questo periodo che è a cavallo tra due fasi? Prima di tutto deve mantenere la funzione di propaganda armata: deve però proiettarla in modo diverso che nel passato. Lo scopo della propaganda armata ora deve essere quello di conquistare stabilmente gli spazi politici, i terreni di scontro in cui l’iniziativa possibile delle masse si possa incanalare, su cui la spontaneità della classe si trasforma in Programma Immediato, su cui la resistenza “naturale” alla ristrutturazione diventa offensiva e quindi istanza di potere. La propaganda armata deve cioè essere rivolta non più solo a “battere la pista” al movimento, ma a spianare, definendolo, il campo di battaglia, dove le varie componenti di classe combattono per la conquista del Programma Immediato.

Laddove i proletari lottano per i propri bisogni, laddove le contraddizioni particolari enucleano i contenuti dell’iniziativa proletaria seppur informale o solo potenziale, l’azione di propaganda deve tendere a interpretare l’elemento di programma che dalla lotta stessa emerge, deve ricondurre i contenuti che si agitano nei momenti di scontro dentro un progetto unitario che ne elevi la capacità sovversiva e rivoluzionaria. L’azione di propaganda armata deve quindi essere di guida, perché si pone avanti (non sopra!) al movimento di massa, ma nello stesso tempo deve essere di supporto alla capacità e possibilità di mobilitazione e di combattimento del Movimento Proletario di Resistenza Offensivo. Deve essere il vero, effettivo, concreto punto di riferimento al quale le forze impegnate alla costruzione organizzata di nuovi rapporti di forza con il nemico non guardano con astratto interesse e simpatia, ma per avere indicazioni valide nella loro condizione e praticabili nell’immediato.

Questo ancora non basta. La propaganda armata deve avere la funzione di esplicitare, facendoli vivere nello scontro, gli obiettivi della trasformazione sociale di cui i comunisti sono portatori. Deve cioè essere rivolta a propagandare con chiarezza i principi, i contenuti, la logica e la teoria che stanno a fondamento della società che i comunisti vogliono costruire.

Qui facciamo una parentesi, per chiarire un modo di intendere questa funzione che riteniamo sbagliata. Taluni credono che essere comunisti voglia dire possedere una ideologia perfettamente costruita, seguendo i sacri testi del marx-leninismo, da tenere gelosamente custodita e accessibile solo ai pochi eletti che sono i membri del Partito.

Per cui quest’ultimo illumina di tanto in tanto la scena buia dello scontro di classe (alcuni lo fanno poco; altri dicono che bisogna farlo molto) con i portentosi raggi di un “comunismo” progettato a tavolino, sognato e prefigurato come la più rara delle astrazioni. Questo modo di intendere la questione porta a ridurre il problema della transizione al comunismo a una specie di dipinto psichedelico perfettamente pennellato con i colori dei sogni, che raffigura una società perfetta, idilliaca, altamente desiderabile per ciascuno perché ciascuno può pensarla come vuole. Questo porta a grandi discorsi vuoti, che non sono nient’altro che lo sfogo alle frustrazioni (e sono tante!) che la società capitalistica ci regala, e che ciascun proletario si porta dietro. Questo modo depravato di intendere la teoria comunista ha generato sin dal nascere del movimento operaio la più sciocca e inoffensiva delle deviazioni del marx-leninismo: l’ideologismo dogmatico, settario e gruppettaro.

Noi crediamo invece che una società che muore – e la società capitalistica è in piena agonia – ha già in sé, nei soggetti sociali che la affossano, i nuovi valori che sostituiscono i vecchi, le nuove concezioni che stanno alla base di un nuovo mondo da costruire, così come le vecchie concezioni stavano alla base del mondo che scompare. Ma anche questo non si percepisce metafisicamente: vive nella lotta di classe, non al di fuori di essa. Ed è nella lotta che vive seppur solo come aspirazione, come negazione che nello stesso tempo proietta la possibilità di costruzione, il comunismo come “il movimento reale che modifica il presente stato di cose”. Compito del partito è quello di essere la coscienza organizzata anche di questo, di saperlo volere e raccogliere nel suo rapporto con le lotte del movimento reale, di legarlo, con la sua capacità teorica di progettare, al disegno complessivo, non astraendo mai neppure per un istante dalla dinamica sociale che lo produce, di ributtarlo al movimento trasformato in arma potente se impugnata dai proletari che combattono. Inoltre bisogna tener conto che viviamo in questa società e non in un’altra, del tutto ipotetica, e quindi ne siamo il prodotto: siamo “uomini vecchi” e non “uomini nuovi”. I comunisti devono affrontare la battaglia ideologica contro le vecchie concezioni trasformando anche se stessi e gli altri non con intimistiche elucubrazioni, ma come un aspetto della lotta di classe e in essa ricercarne le verifiche.

Ritornando alla propaganda armata, è evidente che non è sufficiente fare “propaganda di comunismo” semplicemente con qualche slogan alla fine dei volantini, o anche parlandone tanto, ma legando il programma generale di transizione al comunismo ai programmi immediati della classe, con uno sforzo di interpretazione politica, con una operazione di partito. In questa fase la propaganda armata deve collocarsi con puntualità nella dialettica che deve esistere tra programma generale e programmi immediati. Al di fuori di questo esiste solo fantasia e astrazione, che come è noto sono cose diverse dal materialismo dialettico.

Se la propaganda armata è ancora uno dei compiti principali dell’O, pur rivista nella nuova luce, si dice anche che è cominciata la fase della guerra civile. Non c’è dubbio che il nemico è già pienamente sul terreno della guerra d’annientamento, mentre il fronte proletario antimperialista non si è ancora costituito. Significa allora prima di tutto che la guerra non è possibile rifiutarla. Il livello di scontro è dato, e chi pensa che sia possibile tornare indietro prima ancora che un opportunista è uno sciocco.

Che significa accettare la guerra nella attuale fase di passaggio? Non è accettare lo scontro frontale: accettare questa logica è un suicidio politico e militare. Nell’attuale contesto ciò si riduce in pratica alla sola logica del colpo su colpo e della sola rappresaglia. E’ una riduzione militarista dei termini dello scontro che si traduce sul piano politico in una forma di arroccamento. Infatti siamo all’inizio di una fase di transizione e non alla sua fine, e il passaggio del movimento di resistenza proletaria a movimento di massa armata non è un fatto spontaneo: in esso dunque dovrà qualificarsi tutta la capacità politica di costruzione del Partito Comunista Combattente. Dobbiamo passare all’offensiva, accettando il livello della guerra, ma sui terreni scelti dalla guerriglia. Tutta la partita si gioca nella capacità guerrigliera di operare questa selettività!

Se il regime ha inferto colpi al movimento di classe e alle sue avanguardie combattenti, non è affatto il momento di stare sulla difensiva, ma al contrario, di sferrare colpi dieci volte maggiori e più terrificanti nelle file della borghesia. Ma l’azione distruttiva . E sempre meno simbolica – vive militarmente in un programma politico di disarticolazione: se assume questo carattere distruttivo anche sul piano politico, è perché si pone come “punto di forza” di una possibile iniziativa di massa. Avviene perciò attraverso una selezione dei terreni politici dello scontro, dove la priorità è data dal loro carattere interno ai bisogni, alle lotte, alle tensioni delle masse proletarie.

Accettare la guerra, attaccare il cuore dello Stato, far vivere i contenuti di distruzione e disarticolazione militare sviluppano una linea di massa che dialettizzi i contenuti specifici dei programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo!

In questo complesso lavoro organizzare le due diverse determinazioni del potere proletario: il Partito Combattente e gli Organismi di Massa Rivoluzionari!

È evidente che questo è un compito difficile, ma non sono accettabili semplificazioni di sorta. La molteplicità degli aspetti che deve avere la politica della guerriglia non può essere ridotta a una sola valenza, che non sia in stretta connessione con le altre. Ogni scorciatoia conduce irrimediabilmente e in un tempo brevissimo alla sconfitta. Mentre se si accettano con coraggio i complessi compiti che spettano oggi alla guerriglia, l’avanzata, seppur lenta e faticosa, sarà inesorabile, la vittoria sicura.

 

“Per i capitalisti crisi vuol dire guerra imperialista e controrivoluzione preventiva, per i proletari vuol dire rivoluzione proletaria, la sola che può seppellire la vecchia società che muore e già oggi costruisce nella lotta l’unico futuro possibile: il comunismo.”

“Dobbiamo accettare la guerra e attaccare il cuore dello Stato, facendo vivere i contenuti di distruzione dentro una linea di massa che dialettizzi i programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo”.

 

Brigate Rosse

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

Campagna D’Urso – comunicato n.5

ORGANIZZARE LA LIBERAZIONE DEI PROLETARI PRIGIONIERI.

SMANTELLARE IL CIRCUITO DELLA DIFFERENZIAZIONE.

COSTRUIRE E RAFFORZARE I COMITATI DI LOTTA.

CHIUDERE IMMEDIATAMENTE L’ASINARA.

 

A tutto il movimento rivoluzionario. Ai Proletari Prigionieri, agli Organismi di Massa Rivoluzionari del Potere Proletario dentro le carceri.

In questi giorni abbiamo ascoltato opinioni e giudizi, sul sistema carcerario e sui kampi speciali; sembra che tutti o quasi abbiano qualcosa da dire sulle squisitezze del sistema carcerario italiano. Tutti meno gli unici che hanno il diritto di dire la loro: i Proletari Prigionieri. Eppure sono loro che vivono sulla propria pelle l’infame politica dell’annientamento imperialista; sono loro che subiscono l’isolamento verso l’esterno, la differenziazione interna, le sevizie e le torture dei sadici aguzzini. Gli unici che hanno diritto di parola, e gli unici che devono essere ascoltati sono i Proletari Prigionieri. Questo diritto se lo sono conquistato in anni ed anni di lotta e di combattimento. Noi abbiamo riconosciuto nel grande movimento delle carceri una parte essenziale del movimento rivoluzionario, nei contenuti delle sue lotte un grande patrimonio della lotta armata per una società comunista.

Da anni l’esplosione della rabbia proletaria contro le carceri ha cessato di essere sporadica ed episodica e si è trasformata in programma lucido e cosciente. Proprio la lotta per il perseguimento degli obiettivi immediati di questo programma ha fatto si che il criminale progetto che la borghesia imperialista ha per le carceri non ha avuto successo ma stia affogando nella sua stessa infamia. Il programma dei Proletari Prigionieri ha potuto essere così incisivo ed efficace perché sono sorti gli organismi che lo hanno guidato. Gli Organismi di Massa Rivoluzionari, che in ogni kampo dirigono la mobilitazione e i momenti di scontro, sono per noi le irrinunciabili articolazioni del potere proletario armato. Mentre stiamo combattendo questa battaglia, sappiamo che essa non ha come interlocutori la banda democristiana ed i suoi lacchè, ma solo il movimento dei Proletari Prigionieri. Ad essi ci rivolgiamo e agli organismi del potere proletario armato dentro le carceri, perché sono state queste le uniche voci che ci interessa ascoltare.

La nostra iniziativa di partito è in stretto rapporto con il Programma dei Proletari Prigionieri e poiché ad esso ci riferiamo, rivolgiamo un appello al movimento dentro le carceri e alle sue espressioni organizzate perché esprimano, con chiarezza e la forza che gli è abituale, i termini del loro programma. Le BR, agendo da partito, sapranno uniformare l’attacco al cuore dello stato imperialista ai bisogni e alle aspirazioni del Proletariato Prigioniero.

Sapremo combattere contro il regime della repressione carceraria e batteremo l’ostinata politica di censura che non ci è possibile tollerare in alcun modo. La forza proletaria ha già

legalizzato nei fatti un potere antagonista a quello della borghesia, e negarlo col black-out dell’informazione è solo prova di inutile ottusità.

L’infame lager dell’Asinara, ciò che significa nel progetto politico del nemico, è già stato demolito pezzo per pezzo dai colpi dell’iniziativa dei Proletari Prigionieri. Ogni azione di combattimento di questi anni, condotta dentro le carceri, ha contribuito a distruggere l’Asinara come cardine del progetto di annientamento. Adesso bisogna cancellarla anche materialmente.

Questo luogo di tortura non deve più esistere, nessun proletario deve più esserci rinchiuso.

Leggiamo che da più parti si dichiarano cose strane su questo argomento: che il kampo dell’Asinara a questo governo non piace, che ha sempre pensato di smantellarlo, che è un pezzo che ha deciso di non utilizzarlo più, ecc. Le ipocrisie e le ridicole mistificazioni con cui si vuole inzuccherare il rospo che la lotta delle forze rivoluzionarie costringe la borghesia ad ingoiare non ci riguardano.

Sentiamo anche parlare di “decisioni amministrative”, di buone intenzioni in “tempi brevi” a “condizione che…”. Abbiamo già imparato cosa valgono le promesse dello Stato imperialista.

 

Abbiamo già sperimentato cosa vale la parola di questo regime, allorché liberammo Sossi quando era nostro prigioniero, mantenendo fede alla nostra parola.

Se c’è chi nei covi del potere crede che sia possibile fare trucchi e giocare cinicamente con i comunicati equivoci, costui si sta sbagliando e si scotterà le dita.

Siamo inguaribilmente materialisti e ci interessano solo le cose concrete; e l’unica cosa concreta che riguarda l’Asinara è: la sua chiusura immediata e definitiva.

 

PER IL COMUNISMO

BRIGATE ROSSE

 

28 dicembre 1980

 

Pubblicato in progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

 

Campagna Moro – Comunicato n. 9

ALLE ORGANIZZAZIONI COMUNISTE COMBATTENTI, AL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO, A TUTTI I PROLETARI.
Compagni, la battaglia iniziata il 16 marzo con la cattura di Aldo Moro è arrivata alla sua conclusione.
Dopo l’interrogatorio ed il Processo Popolare al quale è stato sottoposto, il Presidente della Democrazia Cristiana è stato condannato a morte. A quanti tra i suoi compari della DC, del governo e dei complici che lo sostengono, chiedevano il rilascio, abbiamo fornito una possibilità, l’unica praticabile, ma nello stesso tempo concreta e reale: per la libertà di Aldo Moro, uno dei massimi responsabili di questi trent’anni di lurido regime democristiano la libertà per tredici Combattenti Comunisti imprigionati nei lager dello Stato imperialista.

 

LA LIBERTA’ QUINDI IN CAMBIO DELLA LIBERTA’.

In questi 51 giorni la risposta della DC, del suo governo e dei complici che lo sostengono, è arrivata con tutta chiarezza, e più che con le parole e con le dichiarazioni ufficiali, l’hanno data con i fatti, con la violenza controrivoluzionaria che la cricca al servizio dell’imperialismo ha scagliato contro il movimento proletario.

La risposta della DC, del suo governo e dei complici che lo sostengono, sta nei rastrellamenti operati nei quartieri proletari ricalcando senza troppa fantasia lo stile delle non ancora dimenticate SS naziste nelle leggi speciali che rendono istituzionale e “legale” la tortura e gli assassinii dei sicari del regime negli arresti di centinaia di militanti comunisti (con la lurida collaborazione dei berlingueriani) con i quali si vorrebbe annientare la resistenza proletaria.

Lo Stato delle multinazionali ha rivelato il suo vero volto, senza la maschera grottesca della democrazia formale, è quello della controrivoluzione imperialista armata, del terrorismo dei mercenari in divisa, del genocidio politico delle forze comuniste.
Ma tutto questo non ci inganna. La ferocia, la violenza sanguinaria che il regime scaglia contro il proletariato e le sue avanguardie, sono soltanto le convulsioni di una belva ferita a morte e quello che sembra la sua forza dimostra invece la sua sostanziale debolezza. In questi 51 giorni la DC e il suo governo non sono riusciti a mascherare, neppure con tutto l’armamentario della controguerriglia psicologica, quello che la cattura, il processo e la condanna del Presidente della DC Aldo Moro, è stato nella realtà: una vittoria del Movimento Rivoluzionario, ed una cocente sconfitta delle forze imperialiste.
Ma abbiamo detto che questa è stata solo una battaglia, una fra le tante che il Movimento Proletario di Resistenza Offensivo sta combattendo in tutto il paese, una fra le centinaia di azioni di combattimento che le avanguardie comuniste stanno conducendo contro i centri e gli uomini della controrivoluzione imperialista, imprimendo allo sviluppo della Guerra di Classe per il Comunismo un formidabile impulso. Nessun battaglione di “teste di cuoio”, nessun super-specialista tedesco, inglese o americano, nessuna spia o delatore dell’apparato di Lama e Berlinguer, sono riusciti minimamente ad arrestare la crescente offensiva delle forze Comuniste Combattenti. A questa realtà la maggiore sconfitta delle forze imperialiste. Estendere l’attività di combattimento, concentrare l’attacco armato contro i centri vitali dello Stato imperialista, organizzare nel proletariato il Partito Comunista Combattente è la strada giusta per preparare la vittoria finale del proletariato, per annientare definitivamente il mostro imperialista e costruire una società comunista. Questo oggi bisogna fare per inceppare e vanificare i piani delle multinazionali imperialiste, questo bisogna fare per non permettere la sconfitta del Movimento Proletario e per fermare gli assassini capeggiati da Andreotti.

Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC, del governo e dei complici che lo sostengono e la loro dichiarata indisponibilità ad essere in questa vicenda qualche cosa di diverso da quello che fino ad ora hanno dimostrato di essere: degli ottusi, feroci assassini al servizio della borghesia imperialista.
Dobbiamo soltanto aggiungere una risposta alla “apparente” disponibilità del PSI. Va detto chiaro che il gran parlare del suo segretario Craxi è solo apparenza perché non affronta il problema reale: lo scambio dei prigionieri. I suoi fumosi riferimenti alle carceri speciali, alle condizioni disumane dei prigionieri politici sequestrati nei campi di concentramento, denunciano ciò che prima ha sempre spudoratamente negato; e cioè che questi infami luoghi di annientamento esistono, e che sono stati istituiti anche con il contributo e la collaborazione del suo partito. Anzi i “miglioramenti” che il segretario del PSI come un illusionista cerca di far intravvedere, provengono dal cappello di quel manipolo di squallidi “esperti” che ha riunito intorno a sé, e che sono (e la cosa se per i proletari detenuti non fosse tragica sarebbe a dir poco ridicola) gli stessi che i carceri speciali li hanno pensati, progettati e realizzati. Combattere per la distruzione delle carceri e per la liberazione dei prigionieri comunisti, è la nostra parola d’ordine e ci affianchiamo alla lotta che i compagni e il proletariato detenuto sta conducendo all’interno dei lager dove sono sequestrati e lo faremo non solo idealmente ma con tutta la nostra volontà militante e la nostra capacità combattente. Le cosiddette “proposte umanitarie” di Craxi; qualunque esse siano, dal momento che escludono la liberazione dei tredici compagni sequestrati, si qualificano come manovre per gettare fumo negli occhi, e che rientrano nei giochi di potere, negli interessi di partito od elettorali che non ci riguardano. L’unica cosa chiara e che sullo scambio dei prigionieri la posizione del PSI è la stessa, di ottuso rifiuto, della DC e del suo governo, e questo ci basta.

A parole non abbiamo più niente da dire alla DC, al suo governo e ai complici che lo sostengono. L’unico linguaggio che i servi dell’imperialismo hanno dimostrato di saper intendere è quello delle armi, ed è con questo che il proletariato sta imparando a parlare.

Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato.
PORTARE L’ATTACCO ALLO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI!

ATTACCARE LIQUIDARE DISPERDERE LA DC ASSE PORTANTE DELLA CONTRORIVOLUZIONE IMPERIALISTA!

RIUNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE!

Per il Comunismo

Brigate Rosse
P.S. – Le risultanze dell’interrogatorio ad Aldo Moro e le informazioni in nostro possesso, ed un bilancio complessivo politico-militare della battaglia che qui si conclude, verrà fornito al Movimento Rivoluzionario e alle O.C.C. attraverso gli strumenti di propaganda clandestina.

 

5 maggio 1978

Campagna Moro – Comunicato N.8

La risposta della Democrazia Cristiana

Alle nostre richieste del comunicato N.7 la DC ha risposto con un comunicato di due frasi. Di questo comunicato si può dire tutto tranne che è “chiaro” e “definitivo”. Nella prima frase la DC afferma la sua “indefettibile fedeltà allo Stato, alle sue istituzioni, alle sue leggi”. Che di questo Stato della borghesia imperialista la DC è il pilastro fondamentale non è una novità; le leggi dello Stato Imperialista la DC non solo le rispetta ma, scegliendosi di volta in volta i complici, le leggi le fa, le impone, e le applica sulla pelle del proletariato. Basta ricordare l’ultimo pacchetto di leggi speciali varate con un decreto del governo Andreotti con cui si sancisce il diritto delle varie polizie del regime di perquisire, arrestare, torturare, chiunque e dovunque, senza alcun limite alla propria ferocia. Per fare queste leggi la DC e il suo Governo hanno impiegato poco più di un quarto d’ora e i loro complici le hanno felicemente approvate. Quindi, la prima frase del comunicato della DC non dice con chiarezza assolutamente nulla rispetto alla nostra richiesta dello scambio di prigionieri politici. Da parte nostra riaffermiamo che Aldo Moro è un prigioniero politico e che il suo rilascio è possibile solo se si concede la libertà ai prigionieri comunisti tenuti in ostaggio nelle carceri del regime. La DC e il suo Governo hanno la possibilità di ottenere la sospensione della sentenza del Tribunale del Popolo, e di ottenere il rilascio di Aldo Moro: diano la libertà ai comunisti che la barbarie dello Stato imperialista ha condannato a morte, la “morte lenta” dei campi di concentramento.

Nessun equivoco è più possibile, ed ogni tentativo della DC e del suo Governo di eludere il problema con ambigui comunicati e sporche e dilatorie manovre, sarà interpretato come il segno della loro viltà e della loro scelta (questa volta chiara e definitiva) di non voler dare alla questione dei prigionieri politici l’unica soluzione possibile.

Da più parti ci viene chiesto di precisare in concreto quali sono i prigionieri comunisti a cui la DC e il suo Governo devono dare la libertà.
Innanzi tutto nelle carceri, nei lager di regime sono rinchiusi a centinaia dei proletari comunisti l’avanguardia del movimento proletario che lotta e combatte per una società comunista. Tra questi ci sono dei condannati alla “morte lenta”: sono quei compagni che nel seno della lotta proletaria hanno imbracciato il fucile, hanno scelto di porsi alla testa del movimento rivoluzionario e di costruire l’organizzazione strategica per la vittoria della rivoluzione comunista e l’instaurazione del potere proletario.

Mentre ribadiamo che sapremo lottare per la liberazione di tutti i comunisti imprigionati, dovendo, realisticamente, fare delle scelte prioritarie è di una parte di questi ultimi che chiediamo la libertà. Chiediamo quindi che vengano liberati: SANTE NOTARNICOLA, MARIO ROSSI, GIUSEPPE BATTAGLIA, AUGUSTO VIEL, DOMENICO DELLI VENERI, PASQUALE ABATANGELO, GIORGIO PANIZZARI, MAURIZIO FERRARI, ALBERTO FRANCESCHINI, RENATO CURCIO, ROBERTO OGNIBENE, PAOLA BESUSCHIO e, oltre che per la sua militanza di combattente comunista, in considerazione del suo stato fisico dopo le ferite riportate in battaglia, CRISTOFORO PIANCONE.
Chi cerca di vedere per il prigioniero Aldo Moro una soluzione analoga a quella a suo tempo adottata dalla nostra Organizzazione a conclusione del processo a Mario Sossi, ha sbagliato radicalmente i suoi conti.

A questo punto le nostre posizioni sono completamente definite e solo una risposta immediata e positiva della DC e del suo Governo data senza equivoci, e concretamente attuata potrà consentire il rilascio di Aldo Moro.
SE COSI NON SARA’, TRARREMMO IMMEDIATAMENTE LE DEBITE CONSEGUENZE ED ESEGUIREMO LA SENTENZA A CUI ALDO MORO E’ STATO CONDANNATO.
La DC e il suo Governo nel tentativo di scaricare le proprie responsabilità incaricano (ma anche in questo caso non vogliono essere chiari) la Caritas Internationalis a prendere “contatti”.
Noi allo stato attuale delle cose non abbiamo bisogno di alcun “mediatore”, di nessun intermediario. Se la DC e il suo governo designano la Caritas Internationalis come loro rappresentante e la autorizzano a trattare la questione dei prigionieri politici, lo facciano esplicitamente e pubblicamente.

Noi non abbiamo niente da nascondere, né problemi politici da discutere in segreto o “privatamente”.

Gli appelli umanitari

Alcune personalità del mondo borghese e alcune autorità religiose, ci hanno inviato con molto clamore appelli cosiddetti umanitari per il rilascio di Aldo Moro. Ne prendiamo atto ma non possiamo fare a meno di nutrire qualche sospetto; che cioè dietro il presunto spirito umanitario ci sia invece un concreto sostegno politico e propagandistico alla Democrazia Cristiana, e sia in realtà un “far quadrato” intorno alla cosca democristiana come sta avvenendo per tutte le componenti Nazionali ed Internazionali della borghesia imperialista e delle sue organizzazioni, da quelle americane e quelle europee.
Ora queste insigni personalità hanno tredici nomi di altrettanti uomini condannati a morte, e per la liberazione dei quali hanno la possibilità di appellarsi alla DC e al suo governo in nome della stessa “umanità”, “dignità cristiana” o altri “supremi ideali” ai quali dicono di riferirsi, dimostrando così la loro proclamata imparzialità ed estraneità ad ogni calcolo politico.
Sta ad essi ora dimostrare che il loro appello si pone veramente al di sopra delle parti e non è invece una turpe e subdola mistificazione, e che i nostri sospetti nei loro confronti sono soltanto dei pregiudizi.
LIBERTA PER TUTTI I COMUNISTI IMPRIGIONATI!

CREARE, ORGANIZZARE OVUNQUE IL POTERE PROLETARIO ARMATO!

RIUNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE!

Per il comunismo

Brigate Rosse

 

24 aprile 1978

Campagna Moro – Comunicato N.7

È passato più di un mese dalla cattura di Aldo Moro, un mese nel quale Aldo Moro è stato processato così come è sotto processo tutta la DC e i suoi complici; Aldo Moro è stato condannato così come è stata condannata la classe politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese, con le infamie, con il servilismo alle centrali imperialiste, con la ferocia antiproletaria. La condanna di Aldo Moro verrà eseguita così come il Movimento Rivoluzionario s’incaricherà di eseguire quella storica e definitiva contro questo immondo partito e la borghesia che rappresenta.
Detto questo occorre fare chiarezza su alcuni punti.
1 – In questo mese abbiamo avuto modo di vedere una volta di più la DC e il suo vero volto.

È quello cinico e orrendo dell’ottusa violenza controrivoluzionaria.

Ma abbiamo visto anche fino a che punto arriva la sua viltà.

Ancora una volta la DC, come ha fatto per trent’anni, ha cercato di scaricare le proprie responsabilità, di confondere con l’aiuto dei suoi complici la realtà di uno Stato Imperialista che si appresta ad annientare il movimento rivoluzionario, che si appresta al genocidio politico e fisico delle avanguardie comuniste. In Italia, come d’altronde nel resto dell’Europa “democratica” esistono dei condannati a morte: sono i militanti combattenti comunisti. Le leggi speciali, i tribunali speciali, i campi di concentramento sono la mostruosa macchina che dovrebbe stritolare nei suoi meccanismi chi combatte per il comunismo. Gli specialisti della tortura, dell’annientamento politico, psicologico e fisico, ci hanno spiegato sulle pagine dei giornali nei minimi dettagli (l’hanno detto, mentendo con la consueta spudoratezza, a proposito del “trattamento” subito da Aldo Moro, che invece è stato trattato scrupolosamente come un prigioniero politico e con i diritti che tale qualifica gli conferisce; niente di più ma anche niente di meno), quali effetti devastanti e inumani producano lo snaturare l’identità politica dell’individuo, l’isolamento prolungato, le raffinate ed incruente sevizie psicologiche, i sadici pestaggi ai quali sono sottoposti i prigionieri comunisti. E dovrebbe esserlo per secoli, tanti quanti ne distribuiscono con abbondanza i tribunali speciali. E quando questo non basta c’è sempre un medico compiacente, un sadico carceriere che si possono incaricare di saldare la partita.
Questo è il genocidio politico che da tempo e per i prossimi anni la DC e i suoi complici si apprestano a perpetrare. Noi sapremo lottare e combattere perché tutto ciò finisca, e non rivolgiamo nessun appello che non sia quello del Movimento Rivoluzionario di combattere per la distruzione di questo Stato, per la distruzione dei campi di concentramento, per la libertà di tutti i comunisti imprigionati.
L’appello “umanitario” lo lancia invece la DC. E qui siamo nella più grottesca spudoratezza. A quale “umanità” si possono mai appellare i vari Andreotti Fanfani, Leone, Cossiga, Piccoli, Rumor e compari?
Ma ora è arrivato il tempo in cui la DC non può più scaricare le proprie responsabilità politiche, può scegliersi i complici che vuole, ma sotto processo prima di tutto c’è questo immondo partito, questa lurida organizzazione del potere dello Stato. Per quanto riguarda Aldo Moro ripetiamo – la DC può far finta di non capire ma non riuscirà a cambiare le cose – che è un prigioniero politico condannato a morte perché responsabile in massimo grado di trent’anni di potere democristiano di gestione dello Stato e di tutto quello che ha significato per i proletari. Il problema al quale la DC deve rispondere è politico e non di umanità; umanità che non possiede e che non può costituire la facciata dietro la quale nascondersi, e che, reclamata dai suoi boss, suona come un insulto.

Nei campi di concentramento dello Stato imperialista ci sono centinaia di prigionieri comunisti, condannati alla “morte lenta” di secoli di prigionia. Noi lottiamo per la libertà del proletariato, e parte essenziale del nostro programma politico è la libertà per tutti i prigionieri comunisti.
Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della LIBERAZIONE DI PRIGIONIERI COMUNISTI.

La DC dia una risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre possibili.

La DC e il suo governo hanno 48 ore di tempo per farlo a partire dalle ore 15 del 20 aprile; trascorso questo tempo ed in caso di un’ennesima viltà della DC noi risponderemo solo al proletariato ed al Movimento Rivoluzionario, assumendoci la responsabilità dell’esecuzione della sentenza emessa dal Tribunale del Popolo.
2 – Il comunicato falso del 18 aprile.

È incominciata con questa lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica, la preparazione del “grande spettacolo” che il regime si appresta a dare, per stravolgere le coscienze, mistificare i fatti, organizzare intorno a sé il consenso. I mass-media possono certo sbandierare, ne hanno i mezzi, ciò che in realtà non esiste; possono cioè montare a loro piacimento un sostegno ed una solidarietà alla DC, che nella coscienza popolare invece è solo avversione, ripugnanza per un partito putrido ed uno Stato che il proletario ha conosciuto in questi trent’anni e nei confronti dei quali, nonostante la mastodontica propaganda del regime, ha già emesso un verdetto che non è possibile modificare.
C’è un altro aspetto di questa macabra messa in scena che tutti si guardano bene dal mettere in luce, ed è il calcolo politico e l’interesse personale dei vari boss DC. Come sempre è accaduto per la DC, i giochi di potere sono un elemento ineliminabile della sua corruzione, del suo modo di gestire lo Stato. Sono un elemento secondario ma molto concreto, e ci illuminano ancora di più di quale “umanità” è pervasa la cosca democristiana. Aldo Moro che rinchiuso nel carcere del popolo ormai ne è fuori, ce li indica senza reticenze, e nel caso che lo riguarda vede come in particolare il suo compare Andreotti cercherà con ogni mezzo di trasformarlo in un “buon affare” (così lo definisce Moro), come ha sempre fatto in tutta la sua carriera e che ha avuto il suo massimo fulgore con le trame iniziate con la strage di piazza Fontana, con l’uso oculato e molto personale dei servizi segreti che vi erano implicati. Andreotti ha già le mani abbondantemente sporche di sangue, e non ci sono dubbi che la sceneggiata recitata dai vari burattini di Stato ha la sua sapiente regia.
La statura morale dei democristiani è nota a tutti, rilevarla può solo renderceli più odiosi, e rafforzare il proposito dei rivoluzionari di distruggere il loro putrido potere. Di tutto dovranno rendere conto e mentre denunciamo, come falso e provocatorio il comunicato del 18 aprile attribuito alla nostra Organizzazione, ne indichiamo gli autori: Andreotti e i suoi complici.

 

LIBERTA’ PER TUTTI I COMUNISTI IMPRIGIONATI!

CREARE ORGANIZZARE OVUNQUE IL POTERE PROLETARIO ARMATO!

RIUNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE!
Per il Comunismo

Brigate Rosse

 

20/4/1978
Fonte: Archivio900

Comunicato per la liberazione di Renato Curcio

Il 18 Febbraio un nucleo armato delle BR ha assaltato e occupato il carcere di Casale Monferrato liberando il compagno Renato Curcio. Questa operazione si inquadra nella guerra di resistenza al fascio di forze della controrivoluzione che oggi nel nostro paese sta attuando un vero e proprio “golpe bianco” seguendo le istruzioni dei superpadroni imperialisti Ford e Kissinger. Queste forze usando il paravento dell’antifascismo democratico tentano di far credere che il grosso pericolo al quale si va incontro sia la ricaduta nel fascismo tradizionale. Per questa via esse ricattano le sinistre mentre attuano il vero fascismo imperialista. Siamo giunti cioè al punto in cui la drammatica crisi di egemonia della borghesia sul proletariato sfocia nell’uso terroristico dell’intero apparato di coercizione dello stato.

La campagna costruita ad arte e scatenata negli ultimi mesi in principal modo dalla DC sull’ordine pubblico lo dimostra. Le caratteristiche fondamentali di questo attacco controrivoluzionario sono due:
1) la volontà di ridurre ad una funzione neocorporativa il movimento sindacale e la sinistra;
2) la pratica di annientamento per via militare di ogni focolaio di resistenza.

La crisi di regime non evolve dunque verso la catastrofica dissoluzione delle istituzioni,ma al contrario gli elementi di dissoluzione sono gli anticorpi di una ristrutturazione efficientistica e militare dell’intero apparato statale. Il terreno di resistenza alla controrivoluzione si pone così come terreno principale per lo sviluppo della lotta operaia.
Il movimento operaio ha infatti di fronte a sé il problema di trasformare l’egemonia politica che già oggi esercita in tutti i campi, in un’effettiva pratica di potere e cioè deve porre all’ordine del giorno la necessità della rottura storica con la DC e della sconfitta della strategia del compromesso storico. Deve porre un primo piano la questione del potere, della dittatura del proletariato.
Compito dell’avanguardia rivoluzionaria oggi è quello di combattere a partire dalle fabbriche, il golpismo bianco in tutte le sue manifestazioni,battere nello stesso tempo la repressione armata dello stato e il neocorporativismo dell’accordo sindacale.
La liberazione dei detenuti politici fa parte di questo programma. Liberiamo e organizziamo tutte le forze rivoluzionarie per la resistenza al golpe bianco. Lotta armata per il comunismo

Brigate Rosse
Febbraio 1975

 

Fonte: Soccorso Rosso, Brigate Rosse, Feltrinelli, Milano 1976