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Criticare non assolutizzare gli errori. Documento di un gruppo di prigionieri (Kamo)

Il primo compito che si presenta di fronte ad una sconfitta rilevante è senza dubbio la ricerca degli errori commessi. Il sopra/sotto valutarli è pericoloso quanto l’ignorarli. Il coraggio di cui si devono armare le forze rivoluzionarie in questi frangenti è quindi prima di tutto ammetterne l’esistenza, per poi misurarne il peso e la profondità. Senza la critica-autocritica dell’esperienza vissuta, si negano gli strumenti stessi d’intervento nella realtà concreta. È stato questo l’obiettivo alla base della ritirata strategica lanciata dalle BR nell’82; aprire un profondo dibattito che nella ricerca delle cause ed errori alla base della sconfitta registrata, ponesse rinnovate basi per il rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria su fondamenta più solide. Un obiettivo carico di grosse responsabilità, che non basta coraggiosamente perseguire, ma che richiede anche la capacità di farlo. Se il merito è stato quello di assumersi la responsabilità di farlo, l’indubbio demerito consiste nella mancata capacità di indirizzarlo, stabilirne i limiti oltre i quali la critica-autocritica cambia forma, si trasforma. Ma questo è sintomo di maturità generale delle forze rivoluzionarie, non semplicemente di una singola organizzazione, vista la mancanza di proposte alternative concrete e/o indirizzi chiari di dibattito, ed è un rischio costantemente presente in momenti di disorientamento. Fatto sta, che tale debolezza ha aperto la porta alle più svariate (ma non certo nuove) analisi critiche, alcune stimolanti, altre troppo superficiali. Ma tra tutte, va decisamente respinta quella che fonda la sua tesi nell’assolutizzazione degli errori soggettivi rispetto alla condizioni oggettive. Secondo tale tesi, la causa dominante andrebbe ricercata principalmente negli errori commessi dall’avanguardia rivoluzionaria, nella completa inadeguatezza di un«impianto teorico-politico», in sintesi nella concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, cioè nella lotta armata per come è stata concepita e costruita. Un impianto teorico politico inadeguato, perché concepito al di fuori del carisma marxista-leninista, per giunta macchiato di maoismo terzomondista. Un errore che si scopre sarebbe partorito con la nascita delle BR stesse, prendendo la forma della guerra di lunga durata, della strategia della lotta armata come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria.

A questo punto, pur non essendo questo il luogo, nell’intento di questo semplice intervento, dove chiarire meglio e per l’ennesima volta il concetto della strategia della LA, urge ugualmente aprire una piccola parentesi per eliminare confusioni e/o identificazioni superficiali spesso presenti nel dibattito affrettato. Va distinta la LA come concezione politico-militare della lotta rivoluzionaria, come sintesi teorico pratica dell’agire rivoluzionario, in una parola, come strategia, dalla LA nel suo parziale aspetto di «forma di lotta».

Le BR hanno contribuito sensibilmente alla definizione del concetto di lotta politico-militare, sottolineando decisamente l’importanza strategica dell’unione simbiotica dei due aspetti. Presi separatamente, sfuggono da qualsivoglia carattere rivoluzionario, assumono aspetti di fenomeni più o meno consoni alla società odierna. Insieme diventano la condizione necessaria, senza la quale non ha senso parlare di lotta rivoluzionaria, ma non solo a questo ci si è limitati. E’ stata anche determinante una differenza qualitativa, in sintonia con l’esigenza di tutta una fase a tutt’oggi valida. «È la politica che guida il fucile», sintetizzando con questo semplice aforismo, il carattere di dominanza dell’aspetto politico su quello militare per tutta la fase precedente al dispiegamento delle forze rivoluzionarie. E questo è stato rispettato. A chi per esempio sostiene criticando e criticandosi, che l’azione militare ha preso il sopravvento in momenti come quello dell’attacco alla controrivoluzione, passato attraverso le iniziative contro magistratura, polizia e i suoi apparati, va ricordato cosa s’intende per attacco al cuore dello stato, perché o l’hanno dimenticato o non l’hanno mai completamente compreso. Il cuore dello stato è prima di tutto una politica che prende forma attraverso progetti (politico-economico-militari) ben precisi e non s’identifica nei soli soggetti politici intesi in senso proprio. Non s’identifica solo nel governo, nell’esecutivo, nei partiti politici ma anche e non solo in altri apparati statali, come è stato per gli apparati della controrivoluzione alla fine degli anni ’70, quando il cuore dello stato era rappresentato anche dal progetto di annientamento e ridimensionamento rispettivamente delle forze rivoluzionarie e delle lotte operaie e proletarie. Un progetto dispiegatosi nelle diverse sfere (economico-politico-militari); basta semplicemente rammentare lo spostamento di poteri a beneficio della magistratura di cui ancora oggi se ne smaltiscono gli squilibri.

Chiudendo qui la parentesi e ritornando al discorso iniziato, sentendo valutare così pesantemente gli errori soggettivi, sembra quasi che questi nascano nel nostro cervello, originino dentro di noi. Con maggior volontà, più impegno e qualche lettura in più, saremmo riusciti a piegare queste ostinate condizioni oggettive. Se avessimo spiccato il famoso «salto al partito», oggi voleremmo verso la rivoluzione, l’Italia non sarebbe al quinto posto (almeno secondo gli indici parziali degli economisti borghesi) nella graduatoria dei paesi più industrializzati e l’economia mondiale navigherebbe nella recessione incontrollata. No, non è certo questo lo scenario determinabile da un corretto intervento delle forze rivoluzionarie in Italia.

Senza trascendere in posizioni agnostiche tipo «sarebbe ugualmente andata così» o ricorrere al destino, bisogna riconoscere i limiti di sviluppo che ha ed avrebbe comunque incontrato l’iniziativa rivoluzionaria, per quanto possente, nel quadro nazionale e internazionale.

Una chiarezza e maturità superiore a quelle dimostrate, ci vedrebbe mantenere oggi una posizione difensiva in condizioni migliori, con maggiore forza e stabilità, non sarebbe poco, ma nulla di più, sempre una posizione difensiva delle forze rivoluzionarie registreremmo. E per un semplice motivo. La struttura del modo di produzione capitalistico (MPC), vive fisiologicamente in specifiche e bene determinate fasi cicliche e meccanismi strutturali (come le controtendenze); tra questi, i cicli di ristrutturazione e le guerre sono indispensabili al capitalismo per superare le proprie fasi di crisi. Pensare di eliminare, impedire che si risolvano le manifestazioni stesse del capitalismo, significa rivoluzione immediata. Impedire completamente lo sviluppo dei processi di ristrutturazione o la guerra imperialista, è possibile solo con la conquista del potere politico e la trasformazione socialista del modo di produzione; situazione tanto determinata e determinante, quanto rara. Ciò che più frequentemente si ripete è invece la lotta atavica e cruenta contro queste manifestazioni strutturali del MPC, dall’esito scontato, ma dal grado di realizzazione tutt’altro che determinato.

È appunto dal grado di resistenza che sviluppa la lotta di classe, dalla capacità di contrastarne la realizzazione, che si misura la consistenza dell’organizzazione di classe. Le forze rivoluzionarie possono e devono dirigere la fisiologica resistenza di classe che automaticamente si sviluppa contro queste piaghe capitaliste cercando di conquistare posizioni migliori. E’ questo che va misurato per comprendere il grado reale degli errori commessi. E’ in questi limiti che va analizzato l’operato delle forze rivoluzionarie, definendo in pratica lo spettro d’intervento possibile dentro le condizioni date. Confondendo i due aspetti e i limiti che li distinguono, si confondono i termini stessi dell’analisi critica di un’esperienza. Tutto e niente può essere causato dall’errore soggettivo, così come dalle condizioni oggettive, se si fa confusione. Nessuno vuole negare gli errori commessi e sono svariati. Vanno ricercati, analizzati, compresi e superati. Ma va altrettanto pesato il loro valore rispetto alle condizioni oggettive, pena la svendita, cosciente o meno, di un’esperienza, l’abbandono frettoloso proprio della materia che l’ha determinata e sostenuta. È abbastanza chiaro a tutti, che il momento dello sviluppo dell’attacco padronale attraverso i 61 licenziamenti e l’autunno caldo, si è verificato nel pieno dell’affermazione delle forze rivoluzionarie e delle stesse BR, segno evidente che, anche se non ottimali, le condizioni oggettive minimali per lo sviluppo del processo di ristrutturazione produttiva di questa portata, esistevano. I padroni (FIAT in testa), l’hanno compreso ed hanno giocato la loro carta risultata poi vincente. Non si può riduttivamente affermare che sono stati solo costretti dallo sviluppo internazionale del processo produttivo e dell’economia, e dalla conseguente necessità di raggiungere almeno livelli concorrenziali. Sono in parte stati costretti, ma hanno anche valutato la loro percentuale probabilità di successo, che si calcola analizzando condizioni oggettive non certo solo relative alle lotte di classe in Italia, dentro una valutazione complessiva di condizioni necessarie di carattere nazionale ed internazionale, di cui le lotte rappresentavano un aspetto importante ma non l’unico. Dimostrando così, quanto le condizioni oggettive erano complessivamente molto meno favorevoli di come le forze rivoluzionarie le descrivevano, influenzate dalla lettura superficiale e troppo localista dei pur promettenti avvenimenti. La dose di soggettivismo e meccanicismo dimostrati dalle forze rivoluzionarie e la loro analisi teorica sono dovute ad una incompleta ed imprecisa proprietà di applicazione dei principi del marxismo-leninismo e del materialismo dialettico, più che ad una loro esaltazione e/o teorizzazione. La positività oggettiva leggibile nello sviluppo della crisi e delle lotte di classe che allora emergevano, ha avvolto, nascondendola, l’esigenza di una lettura dialettica delle prospettive di sviluppo, delle possibili soluzioni della congiuntura. La lettura degli avvenimenti, per come si presentavano a prima vista, ha preso la mano all’analisi metodico-astratta, costringendola al ruolo di supporto degli sviluppi pratici, negandone di conseguenza la funzione dialettica che la lega ai fenomeni reali osservabili. Un po’ come la sola osservazione di un esperimento di laboratorio può ingannare il fisico che si attiene alla semplice analisi del fenomeno empirico. Ma di carenze inquadrabili nel processo di crescita e sviluppo delle forze rivoluzionarie si tratta, prova ne sono le continue battaglie politiche perseguite contro queste ed altre tipiche deviazioni (come l’estremismo) dell’82. Gli errori si commettono sempre, anche se non sempre si giustificano o si considerano inevitabili. Ma va decisamente operata una distinzione tra quelli perseguiti e trasformati in vera e propria dottrina politica e lo spettro di quelli possibili, stante tutta una serie di condizioni oggettive, tra cui quella della maturità delle forze rivoluzionarie non è indifferente; L’esperienza è maestra indispensabile e qualcuno, troppo frettolosamente caduto nel dimenticatoio, sottolineava l’importanza di essere rossi, ma anche la necessità di essere esperti. Le forze rivoluzionarie devono costantemente imparare a comprendere ed applicare le leggi ed i meccanismi che regolano il movimento della materia sociale per essere in grado di intervenire trasformandola nel senso dovuto. Tutto sommato, il movimento comunista è veramente ancora oggi nella fase della pubertà. Le sue malattie infantili vanno e possono essere curate ma non vanno confuse con deformazioni patologiche. C’è profonda differenza tra terapia e trapianto, tra cura e sostituzione. Guardando alla storia di questo paese, nessuno può negare, come spesso si è detto, che le forze rivoluzionarie sviluppatesi alla fine degli anni ’60 siano nate orfane. Intendendo così sottolineare il vuoto lasciato dalla sinistra italiana, che sulla spinta della rivoluzione d’Ottobre, aveva timidamente prospettato un percorso rivoluzionario bloccatosi alla fine della seconda guerra con l’abbandono anche formale della via rivoluzionaria. Loro sì che hanno visto le condizioni oggettive trasformarsi in concreta occasione rivoluzionaria quando, dopo l’attentato a Togliatti, mezza Italia era letteralmente in mano alla classe operaia ed al proletariato. Non siamo certo stati figli della lotta rivoluzionaria e/o partigiana. La memoria storica (di cui oggi si riesuma l’importanza) non è certo stata lo strumento lasciatoci in eredità, proprio perché questa non è data principalmente dalla lettura dei testi di storia o da memorie autobiografiche, ma vive e si riproduce nell’azione continua delle forze rivoluzionarie. È questa che è mancata, proprio perché, dopo la seconda guerra mondiale, le forze rivoluzionarie italiane sono scomparse praticamente dalla scena politica con tutta la loro seppur limitata esperienza. Tant’è che il nostro punto di riferimento s’è spostato identificandosi nella eroica lotta del popolo vietnamita, nella lunga marcia cinese alla conquista del potere politico, nelle esperienze guerrigliere dell’America Latina. Ma il vuoto rivoluzionario lasciato in eredità, la mancanza anche solo di tentativi di sistematizzare la politica rivoluzionaria, di sviluppare continuità attiva del processo rivoluzionario, ha sortito l’effetto di trasformare la memoria storica in ricordo nel senso più statico della parola.

La mancata continuità, anche in condizioni oggettive sfavorevoli, ha trasformato la memoria storica in caratteri immobili, ordinati per righe dentro altrettanti ben rilegati libri di storia invece che in pratica rivoluzionaria, ciò, che è ancor più valido oggi, alla luce dell’esperienza accumulata in questi ultimi abbondanti tre lustri. Insomma, è questo un vuoto che pesa e che va inserito nella valutazione dell’esperienza trascorsa, come un elemento concreto, fa parte dello stato oggettivo in cui le forze rivoluzionarie hanno rilanciato l’iniziativa agli inizi degli anni settanta. Un altro argomento che spesso viene esposto a sostegno della «incapacità soggettiva» delle forze rivoluzionarie e delle BR in particolare, è il cosiddetto mancato «salto al partito», ma non solo. È stato perentoriamente affermato che tale mancato passaggio ha rappresentato l’immagine del declino delle forze rivoluzionarie. Con maggior volontà e un pizzico di «decisionismo» in più, il partito oggi sarebbe realtà, ed a quanto sembra avrebbe risolto in positivo gli attuali problemi. Ma è davvero così semplice? Non è insensato nutrire seri dubbi. Prima di tutto, bisognerebbe ben stabilire come e quando si costruisce un partito, ma non uno qualsiasi, parlo di quello rivoluzionario. Non è certo per decreto che si «istituisce», non basta volere il partito perché «ce n’è bisogno». Di questi partiti se ne possono fondare un paio al giorno. Come l’organizzazione rivoluzionaria nasce dall’esigenza di proseguire e prospettare un processo rivoluzionario al di sopra dei flussi e riflussi dei movimenti di massa, così un partito rivoluzionario nasce dalla necessità di organizzare delle avanguardie rivoluzionarie, che nel dare soluzione alle aspirazioni di classe, indichino e seguano coscientemente un percorso rivoluzionario. Proprio per questo, allora si affermava che il processo di costruzione del partito passava attraverso la capacità di coagulare attorno a questo obiettivo le avanguardie rivoluzionarie e di organizzare interi settori di classe. Il partito si costruisce su questo banco di prova teorico-pratico. Non può essere frutto esclusivo della mente di alcune avanguardie illuminate che se ne fanno carico in uno slancio di volontarismo. Non è come andare al bagno quando scappa. Ma è la formalizzazione materiale del livello superiore d’organizzazione raggiunto dalla classe in generale. Un partito politico, come forma d’organizzazione, è la manifestazione statica materializzata dello sviluppo della coscienza, capacità e forza d’organizzazione di una o più classi. Le lotte di classe sono la materia in movimento, un partito ne è la loro misura concreta. Esse sono in continuo movimento, il partito è li fermo a rappresentarle nelle loro diverse fasi di sviluppo. Il partito rivoluzionario è a maggior ragione una fedele trasposizione del livello d’organizzazione e maturazione raggiunti dalle forze rivoluzionarie. Ora i soliti teorici della «perfezione soggettiva», sostengono che il compito inevaso è stato proprio quello di non dare risposta alla domanda di direzione proveniente dalla parte più avanzata del movimento rivoluzionario, le avanguardie più coscienti. Quindi se il partito deve essere specchio del grado di sviluppo delle forze rivoluzionarie dovremmo notare una marcata tendenza di queste ad organizzarsi in partito, partendo proprio dall’esigenza di unire le avanguardie rivoluzionarie nel compito di rappresentare gli interessi generali della classe. Ma se analizziamo le forze rivoluzionarie di allora, quasi tutte le avanguardie presenti nelle varie organizzazioni, tranne che in parte delle BR, da PL ai nuclei di MPRO ad altri gruppi armati, tutto richiedevano, fuorché direzione intesa come costruzione di un’istanza organizzata fatta partito, non solo come semplici parole d’ordine o indicazioni.

Si teorizzavano specie di partiti-massa, partiti-non partiti, organizzazioni orizzontali, evitando come la peste la stessa caratteristica fondamentale del partito rivoluzionario leninista che lo rende organizzazione concreta del processo rivoluzionario: il centralismo democratico. Le forze rivoluzionarie, fortemente ideologizzate nell’illusione di rendere più «comunista», più «paritetica» l’organizzazione di classe, in realtà ne perseguivano la negazione attraverso l’apologia dell’anarchismo, libertà e parità decisionali inesistenti quanto irreali. Come chiedere ad un bambino cosa farà da grande appellandosi alla libertà di scelta. Invece di comprendere i differenti livelli di coscienza, se ne teorizzava la parità inesistente e denigratoria. Come si può costruire un partito rivoluzionario quando le forze rivoluzionarie stesse ne negano nei fatti l’esistenza? Non è certo un nucleo di avanguardie, come quelle che rappresentavano il cuore delle BR, che avrebbe potuto e dovuto sostituirsi a queste condizioni oggettive, emanando decreti di fondazione metafisici. E neanche dando semplicemente risposta alla «richiesta di direzione» con le sole parole d’ordine «giuste» e indicazioni politiche, quando queste non sono sostantivate dalla forma d’organizzazione che può renderle concrete e realizzabili. L’invito, in conclusione, è quello di leggere questa e ogni altra esperienza politica valutando meglio le condizioni reali in cui si è determinata a suo tempo. E la strada non è certo quella che si percorre con gli occhi impressi dai fotogrammi degli avvenimenti susseguitisi (sarebbe fin troppo facile per chiunque) o con l’esigenza di sostanziare «nuove strategie» costruite sul cadavere dell’esperienza passata. L’obiettivo principale di un’analisi autocritica è la ricerca, comprensione ed appropriazione degli errori commessi, non è il sostegno ad una tesi o linea politica costruita precedentemente. Così la critica-autocritica diventa mezzo d’affermazione dei propri paradigmi, non strumento indispensabile di comprensione ed intervento nello scontro di classe. Stesso e identico metodo usato ultimamente da alcuni prigionieri politici nel lanciare quella che chiamano «battaglia per la libertà». Non si può certo affermare che l’esperienza rivoluzionaria vissuta in questi anni sia stata una «critica pratica» (come scritto nella prima lettera ad esempio) o che abbiamo contribuito all’attuale sviluppo della società italiana. Non eravamo certo dei riformisti radicali un po’ troppo violenti. Abbiamo lottato per costruire un percorso rivoluzionario tutt’ora in cammino, che portasse alla conquista del potere politico e all’abbattimento di questo stato e dei rapporti di produzione che rappresenta e sostiene, non certo per migliorarne i rapporti economico-sociali. Ed era obiettivo dichiarato a suon di proclami. Non ci siamo certo legittimati, e non è mai stato nelle intenzioni delle forze rivoluzionarie presenti, nell’opera di miglioramento della società italiana o nella lotta per il rispetto dei diritti del «cittadino». Ma nella lotta contro questo stato in qualità di rappresentanti/avanguardie di una classe ben precisa. È bene ricordarlo, vista la facilità con cui alcuni rimuovono i «ricordi». Non abbiamo certo lottato per salire sul podio e ricevere dallo stato la medaglia della corsa al contributo al progresso… capitalista! Tale lettura dell’esperienza è incomprensibile, a meno che l’obiettivo non sia quello di trasformare il nostro passato in nota di merito al nostro «cattivo comportamento».

Le forze rivoluzionarie, la legittimità, la valorizzazione del loro passato, se la sono conquistata nella lotta contro le forze reazionarie dei borghesi, e non è una novità storica il tentativo di chiudere in «gabbie giuridiche», in articoli del codice penale, le lotte rivoluzionarie e proletarie con l’intento palese di occultarne il carattere politico. Non siamo né i primi né gli ultimi soggetti politici ad essere rinchiusi nella categoria dei criminali. Non è una novità. La novità, o meglio la curiosità, sta nel presentare un tentativo di eliminazione (dello stato) come un’azione di salvataggio. Va bene, la dialettica può molto, ma per cortesia!

L’unica spiegazione credibile per comprendere una tale operazione, sta evidentemente nell’obiettivo di conquistare il pubblico (che non è certo rappresentato dal proletariato) nell’operazione «battaglia per la libertà». Ma prima di continuare, va preposta una piccola precisazione sul concetto di battaglia politica, visto che anche questo, quando fa comodo, diventa un «ricordo». Una battaglia, da che mondo è mondo, implica un rapporto di scontro, fisico o verbale che sia, e non certo per il significato letterale rintracciabile in un comune vocabolario, ma per come se lo è conquistato nella lotta di classe stessa. Qui lo scontro non sembra apparire come l’azione determinante e determinata, a meno che non si voglia confondere con le pur ovvie e storiche differenze tra i soggetti in questione. Due parti possono arrivare al confronto, trattativa, tregua o qualunque altra forma di dialogo o mediazione pur essendo radicalmente diverse, senza che ciò assuma il carattere di scontro politico. È per questo, che il carattere della citata iniziativa più che di battaglia assume l’aspetto di una richiesta di libertà. Dignitosa, questo sì, ma di richiesta si tratta.

Certamente molte miglia la divide dalla dissociazione e dal pentimento, ma non può essere spacciata per ciò che non rappresenta. Sarebbe opera di scarsa chiarezza e manifestatrice d’intenti differenti da quelli dichiarati. Che un gruppo o un’area di prigionieri avanzi tale richiesta manifestando l’indisponibilità a rinnegare il proprio passato e se stessi, non presenta particolari problemi o «scandali» politici. Quello che la rende inaccettabile politicamente, anche per chi sostiene analisi e scopi differenti da quelli degli estensori, è il tentativo maldestro di nasconderne la vera natura dietro una tinta politica, composta da presunti contributi del movimento rivoluzionario allo sviluppo della società attuale dietro inesistenti movimenti, che oggi all’esterno lottano per la liberazione dei prigionieri (a meno che non si voglia identificarli con qualche comitatino di amici, parenti e conoscenti sparsi), dietro, per l’appunto, sedicenti battaglie politiche.

Tutto questo stona quanto meno con i propositi dichiarati di correttezza e limpidezza della proposta; prima ancora che nel merito il confronto diventa impraticabile per vizio di metodo.

Kamo (1)

Settembre 1987

 

(1) Lo pseudonimo scelto da un gruppo di prigionieri non ha, evidentemente, nulla a che vedere con il nome del «Kamo-Laboratorio di comunicazione antagonista» di Bologna.

L’unico processo di liberazione possibile: rivoluzione sociale. Carcere di Voghera – Documento delle prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli

Che il progetto di soluzione politica sancisca una ormai raggiunta confluenza di interessi tra stato imperialista e quel ceto politico che, generatosi dentro il processo di rivoluzione sociale di questi anni, si prepara ora a farsi esso stesso stato, dovrebbe chiarire da sé che si tratta di un progetto controrivoluzionario. Creare il deserto politico della mediazione senza fine intorno alla radicalità delle trasformazioni poste alla base della rivoluzione sociale nella metropoli imperialista, stabilizzare la sua impossibilità imponendo in tutto lo spazio/tempo della produzione di vita quale unico punto di vista quello alienante del capitale imperialista è compito dello stato.

L’obiettivo della borghesia imperialista e del suo stato è «risolvere» le contraddizioni portate a maturazione dal processo rivoluzionario negli ultimi vent’anni e liquidare la guerriglia quale unica possibilità di orientamento e prospettiva reale perché rottura senza appello di questo sistema.

Trasformare il processo vitale di questa rottura in morte storiografica, in normazione e governo dei conflitti e quindi in nuovo prodotto per l’alienazione sociale è il compito che si sono assunti in questa fase di consolidamento della penetrazione del sistema imperialista in questo paese tutti quelli che promuovono e dialogano intorno alla «soluzione politica».

Il nostro intervento, che pure ha come obiettivo il contribuire a smascherare fino in fondo la natura controrivoluzionaria di un progetto, di chiarire quali interessi reali ne sono la causa profonda, di valutare le componenti in gioco, di tracciare una netta linea di demarcazione tra comunicazione rivoluzionaria e mediazione senza fine, nasce dalla consapevolezza che è improrogabile per noi, indipendentemente dai progetti controrivoluzionari, l’apertura di un confronto al nostro interno. Un confronto che riesca cioè a strutturare gli elementi di forza conquistati in questi anni dalla guerriglia e li ponga come base di un nuovo salto di maturazione in grado di affermare e orientare la rivoluzione nel centro imperialista.

È evidente che la posta in gioco è il futuro del processo rivoluzionario, parlare al passato ha poco senso ormai. Chi in questi anni si è prodigato negli attacchi alla guerriglia, sostenendo che invece di accelerare o favorire il processo rivoluzionario lo arrestasse, si è sbagliato. La risposta è nel vuoto che si è creato intorno ai movimenti di opposizione che pure hanno tentato di organizzarsi: in assenza di un orientamento strategico nulla si può muovere!

Ora è tempo di concentrare le nostre forze e di camminare il più in fretta possibile, di aprire nuove strade. Sappiamo che è un cammino che non faremo «soli» perché nuovi movimenti, nuove forze, si stanno liberando dall’oscurantismo della cappa imperialista. Scegliamo la strada più difficile, quella della ricerca della verità fuori dai codici, perchè sarà la più semplice per farci capire, per ristabilire un campo di comunicazione dei rivoluzionari.

Occorre però ricollocare dialetticamente la guerriglia nello sviluppo delle condizioni oggettive e soggettive maturate. Un riadeguamento del quadro di riferimento, del nostro sistema concettuale, di impianto e orientamento strategico della guerriglia in questo paese, che non può limitarsi ad un «riaggiornamento» delle condizioni in cui «oggettivamente» si esprime lo scontro di classe, lasciando ad una sorta di automatismo il modellarsi della forma della soggettività rivoluzionaria.

Solo una forte determinazione soggettiva è in grado oggi di costruirsi gli strumenti adeguati di lettura della realtà, oscurata dalla cappa dell’alienazione che sta diventando l’unico momento unificante dei rapporti generati dal capitale. Solo costruendo valori radicalmente opposti è possibile un processo di liberazione sociale.

 

La rivoluzione sociale: processo di ricomposizione e di liberazione del proletariato internazionale

Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (MPC) in sistema imperialista globale, la crisi epocale che questo sviluppo genera e riproduce in modo allargato per intensità ed estensione, la contraddizione insanabile insita nel rapporto sociale capitalistico che crea la guerra più «strutturalmente condizionante» quella tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, per noi si riassume nella tendenza alla rivoluzione.

È la tendenza alla rivoluzione che noi intendiamo costruire, rafforzare, orientare, accelerare.

E intendiamo affrontare, per quanto ci riguarda, i passaggi centrali della costruzione del processo rivoluzionario qui nel centro imperialista, nel cuore del dominio reale che irradia nell’intero globo terrestre, insieme al rapporto sociale capitalistico, le contraddizioni generate dalla sua crisi interna e la controtendenza a questa crisi che si traducono in nuove forme del dominio estese su tutto il globo.

In questo senso il primo passaggio indispensabile è ricollocare la realtà italiana non più come il «risultato» della divisione generale del mondo dominato dall’imperialismo dopo la II guerra mondiale, ma la «risultante» della scalata della borghesia imperialista di questo paese all’interno delle leggi universalizzanti del capitale imperialista, fino a farla diventare un tutt’uno nel sistema imperialista.

Per sistema imperialista globale intendiamo la struttura dei rapporti di produzione e la divisione del lavoro a livello globale, nonché il governo delle condizioni della loro riproduzione. Tali rapporti comandati e modellati dal capitale multinazionale definiscono il carattere sempre più unitario della formazione economico sociale e sono il risultato, e nello stesso tempo il presupposto, della continuità dello sviluppo capitalistico.

Rappresentano la specificità dello sviluppo del capitale in quelle aree del mondo in cui storicamente si sono condensate le condizioni migliori di concentrazione della produzione e dei capitali e quindi di socializzazione e massimo sviluppo delle forze produttive: le aree metropolitane del centro.

In queste aree è stato quindi storicamente possibile creare le massime condizioni di valorizzazione e quindi di accumulazione del capitale, fino allo sfruttamento di ogni attività umana per velocificare l’intero ciclo di rotazione del capitale, ristrutturando ogni sfera della formazione sociale, intensificando il processo di sottomissione e sussunzione del lavoro al capitale, in altre parole fino all’approfondimento del rapporto di sfruttamento e alienazione. Ma sono anche il livello di massima esplicitazione della crisi profonda che attanaglia il capitale nel suo sviluppo. Ed è in queste aree del mondo che si è condensato lo scontro di classe, come critica al rapporto sociale capitalistico di produzione caratterizzando il processo di liberazione del proletariato come rivoluzione sociale.

Intendiamo dire che un processo di liberazione di energia trasformatrice è alla portata delle condizioni di scontro di classe maturate. Uno scontro che, per le caratteristiche stesse del processo di penetrazione capitalistico, ha investito tutte le regioni e tutte le ragioni della vita sociale.

Un processo rivoluzionario che è quindi, letteralmente, una guerra senza quartiere tra borghesia imperialista e proletariato mondiale, il quale spinge a farsi classe rivoluzionaria mettendo in discussione le ragioni di un dominio in ogni dove, tendendo al rovesciamento del modo di produrre stesso, attualmente segno della completa disumanizzazione della natura e snaturalizzazione dell’uomo.

Questa evidenza da sola non basta. Deve farsi consapevolezza che il procedere della rivoluzione non può costituire il fattore di ulteriore sviluppo delle forze produttive considerate così come si presentano (neutrali), in quanto in esse è inscritto il codice del capitale.

Se di modelli si può parlare, quello della rivoluzione sociale non prevede automatismo tra rovesciamento dei rapporti di produzione e rimodellazione delle forze produttive, bensì costituisce la critica radicale dell’imperativo dello sfruttamento che ha alienato tanto i rapporti sociali quanto la dialettica tra essi e le forze produttive.

La rivoluzione sociale è quindi l’affermazione di un processo di lunga durata che nel suo sviluppo esprime e fa vivere i caratteri della transizione al comunismo senza mediazioni o pause di sorta.

 

Processi di integrazione e ridefinizione degli stati

Sono le condizioni di sviluppo del sistema imperialista globale, improntate dai rapporti capitalistici generatisi e allargatisi poi dentro le aree metropolitane, a rompere i confini degli Stati Nazione e ad imporre nuove forme dello stato.

Stato la cui sovranità e universalità è stata messa in discussione proprio da quelle forze imperialiste che l’hanno prodotto e sostenuto. È lo sviluppo delle forze produttive ad aver contribuito a far saltare le frontiere nazionali, prima di tutto all’interno delle aree metropolitane (che ora si presentano come poli omogenei per l’intensità del rapporto di capitale e per la qualità di contraddizioni che esprimono Europa, USA, Giappone) e poi in tutte le aree del globo. Le nuove forme dello stato sono emerse in tutta la loro evidenza nella crisi di valorizzazione che ha investito le aree metropolitane negli anni ’60-’70 e che ha imposto (anche a fronte della massificazione dei processi produttivi e dello scontro di classe che vi si era generato), insieme a nuovi rapporti di produzione (informatizzazione, automazione, frammentazione dei processi) un nuovo rapporto tra produzione e riproduzione del capitale.

Ed è in quegli anni di crisi di ristrutturazione che l’evoluzione degli stati in Stati Imperialisti delle Multinazionali agli ordini dei capitali più forti (USA in testa), ha guidato il processo di integrazione delle aree metropolitane in un unico sistema di produzione, governando la ristrutturazione selvaggia che ha investito tutto il modo di produrre dell’Occidente capitalistico innanzitutto e imposto a livello globale nuovi rapporti tra periferia e centro. Lo stato imperialista ha, per così dire, pianificato la rottura dei confini dello stato nazione rimodellandosi nei processi di transnazionalizzazione del capitale multinazionale, cioè nei processi in cui si produce, riproduce e circola il capitale.

Oggi lo stato imperialista, che continua a mantenere la sua funzione principale, cioè quella di garantire le condizioni di riproduzione del capitale o, in altri termini, di «mediare» lo scontro di classe, è interno alla contraddizione principale di questo scontro: borghesia imperialista/proletariato internazionale. Contraddizione che assume assoluta priorità rispetto agli antagonismi interimperialisti.

L’attivazione degli stati imperialisti sul fronte della «guerra al terrorismo internazionale» intesa come guerra alla rivoluzione del proletariato mondiale, rappresenta la strategia integrata degli stati imperialisti in guerra. Inutile ricordare quanto lo stato italiano ne sia protagonista.

Non è tutto. Come abbiamo visto l’aggiungere il termine imperialista allo stato non significa esclusivamente qualificare e definire la sua «politica estera» in campo economico, politico e militare. Significa innanzitutto rimodellare al proprio interno il rapporto tra produzione e riproduzione dei rapporti sociali, si ridefinisce cioè il ruolo della politica e delle istituzioni tradizionali del controllo e della riproduzione sociale che da sempre erano state concepite come «sovrastruttura». Alla militarizzazione più imponente mai concepita e prodotta a difesa di un modo di produzione (NATO, armi nucleari di tutti i tipi, eserciti supertecnologicizzati e corpi speciali antiguerriglia, ecc.), il cui interesse strategico per la continuità del sistema imperialista è centrale, si affianca un apparato politico/coercitivo sofisticatissimo, teso al controllo e governo di ogni forma di autonomia della classe, la cui apparente «leggerezza» e «democraticità» mascherano il mutamento profondo che è in atto nei paesi capitalisti occidentali. Lo stato nella metropoli va oltre il ruolo sovrastrutturale di regolatore dello scontro di classe, strutturandosi nel movimento del capitale, della sua riproduzione. Le sue istituzioni divengono veicoli di strategie articolate e flessibili, in grado di dare «risposte» ad ogni domanda sociale organizzata, e nello stesso tempo si pongono come contenitori del sapere sociale complessivo da trasformare e trasferire in quella che ora è forse una delle condizioni principe del processo di valorizzazione del capitale: il monopolio della scienza, che è scienza «disponibile» per il capitale, per la borghesia imperialista, il cui uso contro l’uomo e la natura, è evidente a tutti.

Stato e scienza, tradizionalmente luoghi neutrali da «occupare» per avviare il processo di transizione ad un nuovo modo di produrre (quello rivoluzionario), divengono strutturali (e quindi non neutrali) al capitale multinazionale nella misura in cui gli sono indispensabili per procedere nel suo processo di sottomissione e sussunzione delle forze produttive.

Solo cogliendo fino in fondo la non neutralità assoluta che ormai permea tutti i rapporti sociali, è possibile comprendere la vera natura dello stato oggi e il fatto che non è possibile azzerare nella «mediazione politica» lo scontro di classe.

Ed è in questo contesto che lo stato imperialista è oggi in grado di neutralizzare quei movimenti rivoluzionari che si fondano e tendono alla presa del «potere», assolutizzando solo alcuni dei suoi aspetti (politiche repressive, asservimento economico, coinvolgimento nelle «politiche» di guerra dell’imperialismo) e non cogliendo l’essenza del rapporto sociale che vuole riprodurre. Di più, nella misura in cui la politica rivoluzionaria, non riuscendo a svelare le reali condizioni dello scontro tra le classi, non riesce nemmeno più a capire qual è il suo referente, la sua estraneità alla classe diviene assoluta e tende a farsi in qualche modo stato essa stessa. Progressivamente assume il punto di vista del capitale: l’imperialismo e per esso lo stato imperialista se ne serve per far tacere il proletariato mondiale e le sue avanguardie.

 

Un «ceto politico» si fa stato!

Abbiamo ritenuto necessarie queste premesse per collocare questo progetto nelle strategie controrivoluzionarie dell’imperialismo oggi, per riuscire anche a cogliere la dialettica di questo scontro che non è mai determinata, in ultima istanza, dalla volontà unilaterale di una delle parti e, nel caso specifico, dello stato imperialista.

Per progetto di soluzione politica ci riferiamo all’operazione messa in moto dal «ceto politico» che si è generato all’interno delle BR in questi anni e che ha coscientemente guidato la propria estraneazione dal processo rivoluzionario e dalla classe a piccoli passi, coltivandosi uno spazio «privilegiato» in nome di un sapere/potere succhiato e scorporato dalla militanza rivoluzionaria, fino a farsi esso stesso stato.

Parliamo di ceto politico per identificare quel gruppo di ex militanti che, sfruttando il ruolo avuto all’interno di un’organizzazione combattente, si sentono in qualche modo legittimati ad aprire il «negoziato» con lo stato. Una sorta di autolegittimazione che vorrebbe rovesciare contro tutti i prigionieri comunisti, le forze guerrigliere e il movimento rivoluzionario, il ruolo avuto nella storia delle BR, scegliendo sulla testa di tutti la resa di alcuni.

Un’operazione che ha aperto un terreno di mediazione a largo raggio con lo stato, il cui obiettivo dichiarato è: chiudere il ciclo storico che ha generato le lotte e la guerriglia, liberazione dei soggetti che se ne sono fatti carico, dichiarare la fine della «guerra». Un’operazione che nel momento stesso in cui è stata «pensata» è divenuta terreno specifico dello stato imperialista.

Non è difficile cogliere la confluenza di interessi tra lo stato e il farsi stato di un ceto politico. L’approfondimento del dominio da un lato e l’incapacità di assumere, dentro la politica rivoluzionaria, le nuove condizioni dello scontro dall’altro, si traducono in una caduta verticale di identità rivoluzionaria: deporre la critica delle armi, la lotta armata, ai piedi dell’impero del dominio reale; assumere il punto di vista del capitale, nel momento stesso in cui si legittima il suo stato come «mediatore» dello scontro di classe e quindi deporre anche le armi della critica, la lotta di classe.

Non solo, lo stato imperialista diviene l’attore principale, il fattore attivo ed attivizzante di questa operazione. Se ne fa proprio terreno specifico all’interno delle ormai ben consolidate strategie controrivoluzionarie che in Italia, a fronte dell’avanzamento del processo rivoluzionario, hanno trovato strade originali sia negli anni precedenti privilegiando il piano dell’attacco politico-militare (arresti di massa, repressione generalizzata, pentitismo, dissociazione), sia negli anni recenti di consolidamento e ulteriore penetrazione nel tessuto sociale: rifondazione delle strategie del controllo sociale, nel senso di una loro progressiva integrazione, strutturalità alle condizioni di riproduzione del ciclo capitalistico. Strategie che sono penetrate in ogni ambito (integrazione nelle metropoli, scuole, salute, carcere…) al loro apparente «efficientismo», all’alleggerimento fa da contraltare il sempre più evidente segno antiproletario di approfondimento del controllo sociale.

In questo senso il progetto di soluzione politica per sua natura e per la natura delle parti in gioco oltrepassa immediatamente il terreno specifico della negoziazione tra ex rivoluzionari e stato e va in cerca di interlocutori possibili nei movimenti di classe «strangolati» dentro la velocificazione delle trasformazioni in atto nella società italiana. Diviene «produzione ideologica», qualcosa di più di «mediazione politica». È produzione qualificata, visto che a farsene carico è proprio quel ceto politico che ancora gode di spazi di legittimità nel movimento in cerca di una propria identità.

Il problema dello stato non è certo chiudere un ciclo, visto che le profonde ristrutturazioni che ha operato a tutti i livelli hanno già nei fatti chiuso le contraddizioni specifiche degli anni ’70.

Il problema è usare un’esperienza che si è fatta scienza del controllo nel modo più efficace contro il riprodursi dell’opposizione ad ogni livello di espressione della classe. In questo senso lo stato ha immediatamente iscritto un’operazione come questa dentro il suo progetto più complessivo di rifondazione della politica (riforma istituzionale, nuovo codice, ecc.), dando il via libera e riesumando per l’occasione vecchi cadaveri della politica di stato, mass media e staff di esperti, politologi, giuristi, ecc., attivando un dibattito teso al rafforzamento del suo volto «democratico»:

  1. Riconoscimento dell’autorità dello stato imperialista «mediatore» dello scontro di classe.
  1. Attacco alla soggettività rivoluzionaria: cancellare cioè la possibilità, l’idea stessa della rottura rivoluzionaria, senza appelli distruggendone l’identità.
  1. Creare un terreno di assorbimento per quei movimenti che esprimono contenuti politici in cerca di una propria identità rivoluzionaria e dei possibili punti critici di rottura. Identità e contenuti di rottura che vivono già in embrione cercando di impedire così che essi individuino le possibilità reali e il loro terreno di comunicazione rivoluzionaria, offuscando la critica con l’ideologia della sconfitta e con l’unicità del messaggio che esprime in maniera martellante l’impossibilità del cambiamento rivoluzionario.
  1. Giocare immediatamente a livello internazionale, quindi nella reale dimensione dello scontro, la capacità di governare le contraddizioni anche al livello più alto, quello imposto dalla guerriglia.
  1. Prevenire l’estendersi di contraddizioni i cui effetti, proprio per la natura dello scontro immediatamente internazionale, vedrebbero il progressivo integrarsi dell’esperienza rivoluzionaria italiana nell’esperienza europea e mondiale – quindi molto meno governabile.

Abbiamo parlato di operazione a «largo raggio» perché in quest’anno abbiamo verificato come intorno alla proposta iniziale si sia attivato il successivo adeguamento, in forme diverse, di più componenti del composito mondo dei prigionieri politici: trattativa/amnistia/rifondazione della sinistra.

Non vogliamo entrare nel merito di un dibattito che non ci appartiene e che riteniamo, nel migliore dei casi (rifondazione della sinistra) fuorviante per il movimento rivoluzionario italiano. Ci preme soprattutto rilevare come lo stato non si accontenti mai di una sola vittoria ma che voglia andare fino in fondo: fare arretrare complessivamente il dibattito rivoluzionario, distogliendo l’attenzione dai problemi reali dello scontro oggi e ricacciandoli indietro di trent’anni… altro che «liberazione degli anni ’70»!

Riteniamo che, se mai sono esistiti in fasi precedenti, oggi più che mai non esistono spazi politici, momenti neutrali nello scontro in cui azzerare il rapporto di guerra che genera tutti i rapporti sociali. Riteniamo che questa operazione nel suo complesso e le articolazioni che vuole esprimere siano di natura profondamente controrivoluzionaria e che vadano svelate in ogni ambito nel dibattito rivoluzionario in cui vengono «infiltrate» idee infami mascherate per «buon senso» o, peggio ancora, «senso della realtà».

 

Nella tendenza alla rivoluzione costruire i fronti rivoluzionari

Affermare il nostro punto di vista non basta. Con la guerriglia deve affermarsi il punto di vista della rivoluzione qui nel centro imperialista. E’ qui che, affondando le sue radici nella lotta di classe del proletariato metropolitano, sta prendendo forza la consapevolezza che l’unica possibilità di squarciare la realtà alienata della metropoli è quella di rifiutarla nella sua totalità, senza tappe intermedie in cui è possibile stabilizzare le conquiste della classe, ma andando sempre più a fondo; attaccando e smascherando tutti i volti dell’imperialismo che per i proletari della metropoli significa la realtà dell’alienazione in tutte le sue articolazioni.

La nostra esperienza rivoluzionaria e la nostra identità guerrigliera sono parte integrante di questa consapevolezza, ma lo abbiamo anche imparato da tutte quelle esperienze rivoluzionarie del mondo dominato dall’imperialismo che pur essendo riuscite a mettere in discussione uno degli aspetti del dominio, il potere politico-militare, ora continuano a subirne gli aspetti più devastanti, fino ad essere costretti a rivedere il contenuto stesso di liberazione che li aveva animati. Questa è forse la crisi di maturazione più grossa che la rivoluzione a livello globale sta attraversando.

Siamo consapevoli che solo mettendo all’ordine del giorno la necessità/possibilità di trasformazione radicale di tutti i rapporti sociali nel centro dell’imperialismo si possa dare avvio ad un processo dialettico di confluenza delle più diverse pratiche rivoluzionarie, anche dei paesi del sud del mondo, cioé la possibilità di superare le strettoie imposte dall’accerchiamento imperialista e di sconfiggere l’imposizione della parzialità delle trasformazioni sociali o il loro arretramento. Confluire verso un’unica direttrice: liberare energia trasformatrice dell’uomo a livello mondiale premessa di uno scambio tra eguali tra uomini liberi ed integri.

Lo sviluppo in Europa del fronte rivoluzionario ha individuato il terreno possibile di avanzamento per tutti: la consapevolezza cioè che, nella tendenza alla rivoluzione del proletariato mondiale, guerriglia e lotte di liberazione si muovono all’interno di un unico fronte e sono la base di partenza per lo sviluppo di una strategia che abbia come obiettivo ultimo la distruzione del sistema imperialista globale.

 

Avanzamento per tutti perché:

– orientando strategicamente il processo rivoluzionario nella distruzione dell’imperialismo, individua possibilità reali per la costruzione di un processo unitario in cui ognuno, partendo dalla propria posizione specifica, con la propria identità soggettiva e storica, abbia come prospettiva il cambiamento rivoluzionario, il superamento di questo modo di produzione avviando concretamente la transizione al comunismo. Un grande processo unitario che si muove e si sviluppa nei «poli omogenei» per qualità di contraddizioni che esprimono: sia «oggettivamente» per l’integrazione raggiunta dal capitale nel suo complesso (politico-economico-militare, di eleborazione di strategia di controllo sociale…) nell’area europea occidentale e per l’unitarietà di condizioni di esistenza e di scontro vissute dal proletariato e dai suoi movimenti; sia «soggettivamente» per il salto di qualità e consapevolezza espresso dalle esperienze guerrigliere che hanno assunto e imposto questa dimensione dello scontro.

– Concentrando nel contenuto unificante dell’antimperialismo la critica rivoluzionaria si apre la possibilità di affrontare l’imperialismo nella sua complessità, superando il ruolo che gli si è affidato riduttivamente finora quale « politica generale di tendenza alla guerra» separata dalle contraddizioni reali sulle quali si sviluppa la lotta di classe.

L’imperialismo è lo sviluppo del capitalismo in questa epoca e la lotta antimperialista è critica globale a questo sviluppo.

– Definendo l’imperialismo come salto del dominio reale, come struttura dei rapporti sociali capitalistici che lottano per la loro stessa riproduzione in modo contraddittorio per definizione, perché strutturati sul rapporto di guerra che vive al loro interno, si individua il processo di costruzione di un fronte di classe (coscienza rivoluzionaria della classe per sé) come processo di unità nella lotta, all’interno della metropoli imperialista. Un fronte delle lotte che pur muovendosi con forme, tempi e gradi di consapevolezza diversi hanno una base comune di partenza e un comune punto d’arrivo: rovesciare questa struttura di rapporti sociali, favorendo così lo sviluppo di un campo della comunicazione rivoluzionaria tra le diverse esperienze, legate ed unificate dalla qualità della critica sociale liberando una scienza della trasformazione che ricompone la classe e rimodella il rapporto tra uomo e natura.

– Dando vita ad un processo rivoluzionario che nel momento stesso in cui si anima e si esprime, lega le ragioni sociali del proletariato metropolitano alle condizioni di oppressione e di sfruttamento del proletariato internazionale: un processo in cui la coscienza di classe è coscienza immediatamente internazionalista.

Il quadro delle contraddizioni è oggettivamente maturo anche in Italia per dare vita ad un processo rivoluzionario fondato sulla dimensione immediatamente internazionale dello scontro, ma non ancora si è reso «soggettivamente» esplicito per la guerriglia e i movimenti rivoluzionari italiani.

 

Consapevolezza critica e unità devono colmare i ritardi

La nostra debolezza non è misurabile negli avanzamenti dello stato, nelle sue vittorie politico-militari che hanno fortemente ridimensionato la guerriglia, non è misurabile nell’indubbia capacità di intervento a più livelli nella complessità sociale che sta dimostrando di saper mettere in campo muovendosi per linee interne alla classe, governando e prevenendo le contraddizioni.

L’indebolimento e il disorientamento vanno ricercati innanzitutto guardando al nostro interno.

Negli anni ’80 sono venute meno tutte le condizioni su cui credevamo fosse ancora possibile costruire la strategia del processo rivoluzionario «in questo paese» (staccare l’anello debole, presa del potere politico, centralità della classe operaia). Nella dimensione assolutizzante della «politica rivoluzionaria» a fronte delle prime battaglie perse, la guerriglia italiana non ha voluto o saputo guardarsi dentro per trovare la forza di rompere i propri orizzonti, i propri confini ideologici e organizzativi. Ha quasi sempre scelto la strada dell’autoconservazione, trascinando nei propri limiti anche quei movimenti che lungo tutto il corso degli anni ’80 hanno tentato di riorganizzarsi a partire dalle nuove condizioni di scontro, caratterizzandosi sia come movimenti di lotta antimperialista che come movimenti di resistenza alla ristrutturazione della metropoli integrata. Inevitabilmente si è approfondita la divaricazione tra avanguardia e classe, evidenziando una crisi di progettualità così profonda da non riuscire più ad individuare il proprio referente di classe, il soggetto della rivoluzione nella metropoli.

Una caduta verticale di identità che anche all’interno dei prigionieri comunisti ha aperto lacerazioni profonde. Anche qui l’assolutizzazione della «politica rivoluzionaria» come coscienza esterna, linea di costruzione del partito, ha prodotto una costante delega dei soggetti imprigionati (ostaggi dello stato) alla soggettività che pensava, agiva, viveva fuori dal carcere, separando ulteriormente la lotta dalla linea politica, indebolendo l’autonomia e la consapevolezza dei militanti prigionieri. Il rifiuto del carcere imperialista, la lotta contro le strategie della differenziazione e della disarticolazione messe in atto in questi anni dallo stato, si è ridotta a resistenza individuale nel migliore dei casi. D’altra parte si è invece assolutizzato il carcere imperialista come terreno specifico di lotta di un settore di classe (il proletariato prigioniero) di cui i prigionieri comunisti costituivano l’avanguardia. Anche in questo caso, a fronte delle strategie di normalizzazione e controllo avviate, la lotta finalizzata e settorializzata è ridotta a resistenza.

Diversi modi di concepire il carcere imperialista che sono determinanti per il permanere del settarismo, della divisione ideologica, dello scontro su concezioni e impianto che rischiano di far perdere il senso, il cuore della militanza rivoluzionaria. Per noi prigionieri comunisti più che mai la parola d’ordine deve essere unità nella lotta e nella chiarezza degli obiettivi, in altre parole dobbiamo guidare la ricomposizione della nostra identità nell’assunzione del livello di scontro che si sta aprendo a tutti i livelli. Obiettivo comune all’intero movimento rivoluzionario.

Costruiamo il fronte di lotta guerriglia /movimento rivoluzionario/prigionieri comunisti. Abbiamo parlato di ritardi che non nascondiamo perché già contengono il segno del superamento.

Anche per noi ha assunto assoluta priorità la contraddizione borghesia imperialista/proletariato internazionale, rimodellando complessivamente la concezione della guerriglia. Una priorità che vive ancora in modo contraddittorio perché esprime la profondità e la radicalità del salto di maturazione in atto, e non solo perché si è trattato di rivoluzionare il nostro impianto, ma perché deve riuscire ad affondare le sue radici dentro un sapere rivoluzionario costruito da contenuti viventi del proletariato in lotta.

Dobbiamo trasformare l’assunzione di questa priorità in progetto rivoluzionario in grado di orientare e rafforzare lo scontro di classe, individuando i passaggi necessari e valorizzando il patrimonio di esperienze che già esistono. Queste le coordinate:

– la guerriglia è una conquista irrinunciabile all’interno delle lotte rivoluzionarie in Italia, non ha bisogno di rilegittimarsi rincorrendo la realtà contraddittoria dei movimenti in questa fase. Ha il compito invece di aprire all’intero movimento rivoluzionario italiano la prospettiva di un processo rivoluzionario interno alla strategia di fronte rivoluzionario.

– Un orientamento strategico che nella realtà dello scontro oggi individua la necessità di costruire un fronte di lotta in cui guerriglia/movimenti rivoluzionari/prigionieri comunisti, trovano i possibili momenti di unità nella critica all’ imperialismo, alle sue articolazioni nella nostra realtà. Momenti che non devono significare l’appiattimento dei contenuti, men che meno delle forme di espressione.

– L’apertura di un confronto serrato all’interno del movimento rivoluzionario italiano con l’obiettivo di rompere l’accerchiamento politico e ideologico cui è sottoposto da anni, espropriato di finalità proprie e contenuti di rottura da un sistema sofisticato di assorbimento. Conquistare cioè il senso rivoluzionario delle lotte che faticosamente sta esprimendo. In altre parole si tratta di rompere il limite di compatibilità che le vorrebbe tutte riconducibili all’interno di un antagonismo «pilotato», controllabile.

Ci sembra che il limite più grosso sia l’incapacità di trovare il filo conduttore che lega la critica rivoluzionaria a tutti gli aspetti dell’alienazione e dello sfruttamento nelle metropoli.

La critica alla scienza, al lavoro, alla produzione nociva, al ruolo dei centri di ricerca, alle università integrate nei processi di valorizzazione capitalistico, al nucleare, allo squilibrio uomo-natura, che pure sono passaggi concreti di presa di coscienza, deve riuscire a fare emergere la complessità anche nella particolarità della lotta ad un aspetto del dominio (settoriale).

Non si tratta solo della forma d’espressione, ma della qualità e della profondità della critica che sorregge la pratica.

Legare dunque in un’unica direttrice la critica: quella all’imperialismo come massima espressione del dominio del capitale in questa fase, nella lunga marcia dello sviluppo della coscienza e della pratica del movimento rivoluzionario italiano.

Sviluppare la coscienza critica antimperialista nel processo rivoluzionario mondiale.

 

Prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana

Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli

 

Voghera, settembre 1987

Quale «liberazione degli anni ’70». Carcere di Novara – Documento di Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana

Siamo compagni della guerriglia, prigionieri nel «Blocco B» del carcere speciale di Novara.

Prendiamo la parola in quanto parte attiva del movimento rivoluzionario, intorno ad alcune questioni oggi decisive nel suo dibattito.

Già da alcuni mesi il movimento si trova di fronte ad un’operazione politica centrata sulla parola d’ordine «liberiamo gli anni ’70». A farsene portavoce sono alcuni prigionieri che hanno militato nelle Brigate Rosse. Attorno ad essi si è messo in moto il solito collaudato meccanismo: incontri con esponenti politici democristiani, socialisti, radicali, lettere aperte, interviste, tabelline di sconto pena preparate dai centri giuridici dei partiti, la mobilitazione del ceto politico da anni parassita sul movimento, promozione di assemblee, preparazione di fumose campagne per la cosiddetta «battaglia per la libertà»…

Ma qual è il senso di tutto ciò? E soprattutto quali gli obiettivi e quale la regia?

Cosa si intende per «liberazione degli anni ’70» è detto a chiare lettere: «si tratta di chiudere un ciclo, di esplicitare che la guerra è finita».

L’obiettivo dichiarato attorno a cui Curcio e Moretti hanno aggregato una discreta area di prigionieri è quello di sfruttare la disponibilità di stato e partiti a prendere in considerazione i destini di tutti quei prigionieri che si distaccano dalla militanza rivoluzionaria e si fanno portatori di un messaggio pacificatorio.

Curcio, Moretti e soci si sono convinti che lo stato starebbe rifondando i suoi dispositivi e le sue politiche di controllo sociale in senso «riformista» e che questo aprirebbe le porte ad una trattativa. La soluzione politica sarebbe realizzabile perché funzionale al rafforzamento di questa rifondazione del controllo sociale oggi in Italia.

È chiaro che Curcio, Moretti e tutti i loro soci, dal primo all’ultimo, sanno benissimo che sul tavolo di questa trattativa loro possono far valere solo la presunzione di riuscire a veicolare e ad imporre questo terreno all’interno del dibattito rivoluzionario: tra i prigionieri, nel movimento antagonista e nelle stesse forze guerrigliere.

Un’operazione che produrrebbe inevitabilmente un ennesimo stravolgimento del tessuto di solidarietà e di comunicazione, delle discriminanti di classe, dei contenuti di lotta che costituiscono l’esistere concreto del movimento rivoluzionario.

Lo sanno benissimo, e sono disposti a tutto ciò pur di guadagnarsi uno spiraglio di scarcerazione e uno spazio nello scenario politico borghese.

Per questo la loro iniziativa è una scelta di collaborazione, per quanto in guanti bianchi, con lo stato.

Che la regia che muove tutta questa operazione non sia loro, ma saldamente in mano allo stato, è fuori da ogni dubbio.

È lo stato infatti che non solo possiede le chiavi che sono l’ambìto premio dei nuovi soluzionisti, ma che, inoltre, avendoli agganciati al suo carro, può determinare ogni piega del contesto entro cui questa gente si muove.

E per stato intendiamo esattamente quel personale, quelle istituzioni e quelle politiche che concretizzano l’«interesse generale» del sistema sociale capitalistico.

Le posizioni di Curcio e Moretti erano chiare da tempo, erano da anni fuori da ogni dibattito. I loro traffici e i loro contatti con personaggi delle cricche democristiane duravano da tempo. Ma solo quando lo stato ha deciso di fare di questi loschi e un po’ miserabili maneggi una vera e propria operazione controrivoluzionaria, la loro «battaglia di libertà» ha preso slancio politico.

Da anni all’interno delle strategie di annientamento delle forze rivoluzionarie è divenuta stabile la ricerca e la pressione per condurre singole persone e interi gruppi di prigionieri a farsi «interlocutori dello stato» in una varietà di posizioni, dalla delazione alla disponibilità a propagandare il punto di vista e gli interessi della «pacificazione imperialista».

Una strategia di questo tipo può espandere i suoi effetti unicamente sfruttando le contraddizioni e i limiti presenti nel movimento rivoluzionario per inserirvisi e renderli laceranti.

In questo senso la natura generale della cosiddetta «battaglia di libertà» va ricercata nel quadro di quelle operazioni di infiltrazione ideologica funzionali all’attacco per linee interne al movimento rivoluzionario.

L’attacco per linee interne non nasce oggi. È una dinamica permanente che cerca di volta in volta una traduzione congiunturale rispetto agli specifici caratteri dello scontro. È componente stabile delle strategie controrivoluzionarie.

È nell’attuazione di queste dinamiche che lo stato ha determinato e imposto il terreno e i termini politici di questa operazione. Ne ha costruito le condizioni manovrando la composizione dei prigionieri nelle carceri, l’organizzazione di incontri e interviste, l’attivazione dei media, promuovendo l’integrazione delle iniziative e degli «interessi particolari» delle varie frazioni borghesi.

Ma prima di proseguire nell’analisi dell’iniziativa controrivoluzionaria in questa fase dello scontro di classe in Italia, è importante fare un sintetico riferimento ad un contesto più ampio in cui essa trova origine.

L’intero sistema imperialista è attraversato da processi di ristrutturazione globale: sul terreno economico per la rideterminazione di una nuova divisione tecnica e sociale del lavoro, sul terreno politico per la rifondazione del sistema degli stati imperialisti, sul terreno delle strategie e pratiche di guerra per l’imposizione di un «nuovo ordine imperialista».

Processi generati dal tentativo di uscire dalla crisi di valorizzazione del capitale con l’approfondimento ed estensione del rapporto di sfruttamento capitalistico. Si ridisegna così su scala sovranazionale – e anche in Italia – il quadro dello scontro di classe, producendo nuove e più profonde contraddizioni.

Attorno a questi nuovi processi infatti si sono sviluppati significativi movimenti di lotta dai caratteri internazionalisti e antimperialisti che stanno toccando ogni angolo del pianeta – dal Centroamerica al Sud-Est Asiatico, dal Medio Oriente all’Africa Australe… all’Europa Occidentale.

In particolare nell’area mediterranea e nel polo europeo si è sviluppata l’esperienza delle campagne antimperialiste della guerriglia e dei movimenti di lotta in Europa Ovest e della guerriglia e dei movimenti di liberazione del proletariato rivoluzionario e delle componenti nazionali arabe.

La realtà italiana è attraversata direttamente dalle nuove dinamiche e contraddizioni del sistema imperialista. Sono i processi di stretta integrazione del capitale e dello stato italiano nel sistema imperialista, i nuovi ruoli che essi svolgono all’interno dell’area europea e mediterranea che impongono nuovi livelli di controllo e gestione delle contraddizioni di classe.

In questo contesto diventa fondamentale per lo stato sviluppare un’azione preventiva tesa a spezzare ed impedire il processo di rifondazione del movimento rivoluzionario in Italia attorno a questa nuova dimensione internazionale ed antimperialista dello scontro.

È così che nasce una rinnovata iniziativa di controrivoluzione preventiva che si è dispiegata in particolare quest’anno articolandosi, come è caratteristica ormai stabile di questo tipo di operazione, su due piani: uno di repressione e annientamento diretto, l’altro di infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.

L’aspetto repressivo si è sviluppato in più direttrici: contro le organizzazioni guerrigliere, contro il movimento, contro i prigionieri.

L’iniziativa antiguerriglia ha segnato un salto di qualità nel nuovo livello di integrazione e coordinamento sovranazionale fra gli stati imperialisti contro il «terrorismo internazionale» in cui l’Italia ha assunto un ruolo di capofila. Le principali operazioni sono state attuate così – per la prima volta – da unità operative e di intelligence congiunte tra Italia e Francia senza problemi di confini e di legislazioni differenti.

Intanto da mesi carabinieri, UCIGOS e magistratura sono impegnati a colpire ogni area e centro di comunicazione di movimento che non accetti la «pacificazione di stato». Il carattere politicamente mirato e contemporaneamente il suo raggio d’azione nazionale segnano un nuovo livello stabile delle strategie di controllo e «desertificazione» del movimento.

Contro i prigionieri, infine, un nuovo livello di pressione e di controllo si è aperto e sviluppato in crescendo nell’arco di un anno attraverso la legge Gozzini, la reimposizione della censura generalizzata, il taglio e la selezione dei colloqui e dei rapporti con l’esterno, con la integrazione delle misure e del trattamento all’interno delle direttive del Comitato Interministeriale per la Sicurezza.

L’altra faccia di questa iniziativa a largo raggio è costituita da quella vera e propria operazione di infiltrazione ideologica che è la cosiddetta «liberazione degli anni ’70».

Prima di entrare nel merito del contenuto specifico di questa «battaglia di libertà» è utile completare il quadro dei riferimenti guardando sinteticamente alle esperienze di soluzione politica della guerriglia attuate da altri stati imperialisti.

È un terreno di connessione che ci mette in grado di analizzare compiutamente la collocazione di questa ennesima iniziativa soluzionista nella complessità delle pratiche controinsurrezionali degli stati imperialisti.

È bene ricordare che le prime esperienze significative nell’affiancare alla pura repressione dispositivi di soluzione politica in funzione preventiva furono attuate negli USA nella prima metà degli anni ’70 contro le organizzazioni rivoluzionarie e guerrigliere delle Black Panthers e dei Weatherman.

In RFT a più riprese l’iniziativa antiguerriglia negli anni ’70 si è incentrata anche sull’utilizzo di singole figure di ex guerriglieri tipo Mahler, Baumann o Klein che si prestavano a lanciare messaggi di rifiuto della lotta armata. Nell’84 invece attorno a Schneider e Wackernagel ci fu il tentativo più grosso di costruire un’area di prigionieri disponibili ad una trattativa con lo stato mascherata da amnistia.

In Spagna la trattativa per la resa e deposizione delle armi di un’ala dell’ETA politico-militare in cambio di una amnistia è durata all’incirca dall’80 all’84 e portò alla distruzione e dispersione politica delle aree investite da questa iniziativa.

Dovunque insomma il terreno della trattativa per la soluzione politica costruita e giustificata nel ricatto sui prigionieri si è rivelato per quello che è: controrivoluzione preventiva per la distruzione e dispersione del patrimonio e delle aggregazioni rivoluzionarie. Dovunque le componenti rivoluzionarie più consapevoli hanno lottato contro di essa.

a torniamo ai contenuti e alle caratteristiche specifiche di questa «battaglia di libertà». Per coglierli nella loro pienezza bisognerà necessariamente distinguere i diversi ambiti in cui essi si riflettono: verso la guerriglia, verso il movimento rivoluzionario e verso lo scontro sociale in generale.

Questo progetto nasce dopo l’esaurimento delle operazioni di dissociazione avviate dal ’79 in poi (gruppo «7 Aprile», Prima Linea, Franceschiniani).

Rispetto ad esse stabilisce un nesso di continuità e di superamento.

Come i dissociati anche i neo-soluzionisti blaterano di «esaurimento delle ragioni sociali» che hanno permesso la nascita e lo sviluppo della guerriglia in Italia.

A differenza di Negri, Bignami e Franceschini, Curcio e soci si affannano a dire che rifiutano il terreno formale dell’abiura per attestarsi su quello della difesa della loro storia ormai conclusa.

Ancora, i neo-soluzionisti a differenza dei dissociati non vogliono rimanere intrappolati nella dimensione di risocializzazione carceraria come terreno principale di lealizzazione.

Il loro tentativo è quello di agganciare segmenti di movimento proletario e di guerriglia alla politica soluzionista. Ed è su questo terreno che sono da subito chiamati a dimostrare la loro affidabilità.

Pretendendo di parlare direttamente al movimento rivoluzionario e all’area della guerriglia devono necessariamente darsi contenuti e linguaggi meno rozzi del «rifiuto della politica» che caratterizzava l’altra infornata di porci collaboratori.

Rispetto alla guerriglia questo progetto, facendo leva sul ricatto delle condizioni dei prigionieri e sulle contraddizioni e limiti esistenti, deve riuscire a veicolare i punti di vista del disfattismo e della resa. Curcio, Moretti e l’accozzaglia che li circonda e li protegge vogliono porsi come depositari esclusivi dell’esperienza storica delle Brigate Rosse per rappresentarne la resa.

Una rappresentazione sintetizzata nel messaggio «prendere atto che la Lotta Armata è stata una manifestazione reale delle contraddizioni di classe in questo paese, accettare un criterio di responsabilizzazione collettiva e infine ammettere che quello scontro è finito», e che dovrebbe trovare legittimazione nell’agitare la parola d’ordine «libertà per i prigionieri degli anni ’70».

La valenza politica di «delegittimazione» delle aree di guerriglia esistenti è perfettamente sintetizzata dal Manifesto, il portavoce privilegiato di tutte le campagne di dissociazione e soluzione politica, che così commentava i vari interventi che hanno fatto eco a quello di Curcio e Moretti: «depongono e fanno deporre le armi, delegittimano senza urli e condanne ma con un giudizio politico impietoso i residui frammenti esterni».

È evidente pure come nel contesto attuale dello scontro rivoluzionario in Europa Occidentale la rappresentazione della resa delle Brigate Rosse pretenda di proiettare il suo messaggio delegittimante verso le attuali esperienze guerrigliere di quest’area; non a caso è continuo il riferimento dei neo-soluzionisti alle «mutate condizioni internazionali».

Riguardo al movimento di lotta e comunicazione antagonista che sta lentamente crescendo in questi ultimi anni, essi premono affinché l’attenzione si concentri sul contenuto mistificante della loro iniziativa. Agitano la «bandiera degli anni ’70» svuotando quella esperienza del contenuto strategico che può rafforzare la lotta rivoluzionaria oggi. Così in realtà essi propongono solo un terreno alienante di introiezione perpetua di errori e sconfitte ostacolando il consolidamento e l’avanzamento del confronto attorno alle questioni fondamentali che seguono le nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario. In ciò danno spazio a quel ceto politico che della endemizzazione delle pratiche di movimento e della loro gestione come rappresentanza ufficiale ha fatto la sua strategia ed il suo ruolo parassitario, e che oggi, non a caso, ha immediatamente assunto e fatto proprio questo dibattito.

Infine è chiaro anche come, verso lo scontro sociale in generale, questa ennesima soluzione politica si presti a farsi gestire dai più svariati operatori politici e culturali come esempio lampante della validità di quei contenuti di «lealismo», di «trattamento differenziato», di «individualizzazione», di «premi-punizioni» che sono il cuore delle strategie di controllo e dello stesso codice capitalistico nelle fabbriche, nei quartieri, nelle carceri delle metropoli.

Come abbiamo visto, l’obiettivo di questa operazione è il presente, non il passato. È il ciclo rivoluzionario che si sta aprendo, non quello che si dice si sia chiuso.

Questa operazione è una trappola tesa ad un movimento rivoluzionario che si sta rifondando, in una fase in cui cerca di superare limiti e contraddizioni del passato e inizia a maturare, anche se con difficoltà, una nuova consapevolezza e una nuova pratica.

Per questa ragione, con questa operazione e i suoi protagonisti non è possibile alcuna complicità, nessuna ambiguità, nessuna tolleranza, l’unico terreno concepibile è quello della lotta.

Affrontare questa questione per noi è tutt’altro che dialettizzarsi con essa, non esistono spazi per una sua «riconversione di sinistra». In questa ottica si può solo rimanere imbottigliati in una subalternità suicida.

Lotta significa in primo luogo contribuire a chiarire nel movimento rivoluzionario il senso, gli obiettivi e la natura di classe di questo attacco ed il ruolo dei suoi protagonisti. Per espellere quindi questa operazione ed i soggetti che se ne fanno portatori da ogni ambito del movimento rivoluzionario.

In secondo luogo significa contribuire a rafforzare quegli elementi di nuova acquisizione che in questo ultimo periodo sono emersi sia a causa dell’impatto delle nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario sia per il riferimento che hanno costituito l’iniziativa e le proposte della guerriglia e dei movimenti più significativi espressisi in Europa.

In questi ultimi anni hanno cominciato a condensarsi nell’area della guerriglia elementi di riflessione e di dibattito intorno alla messa in discussione dei limiti di impianto della pratica passata per una ridefinizione della strategia guerrigliera nelle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario.

In questo periodo è anche sensibilmente cresciuta la mobilitazione e le iniziative di lotta antagonista attorno alle contraddizioni strategiche che caratterizzano questa fase dello scontro: i processi di guerra, il ruolo giocato dall’innovazione tecnologica e dalla produzione di ricerca scientifica nei processi di ristrutturazione ed intensificazione dello sfruttamento, il complesso militare-industriale, il nucleare, ecc.

E, ancora, è vissuta nella più recente esperienza del movimento rivoluzionario una tensione sempre più forte a ricercare supporti, nuovi livelli di comunicazione, terreni di lotta comune a livello internazionale: a collocare cioè la propria lotta all’interno del quadro di scontro dell’intera area europea e mediterranea.

Dai primi momenti di pratica offensiva e di mobilitazione nelle nuove condizioni dello scontro che hanno avuto significativo sviluppo dall’inizio di quest’anno, in particolare attorno al «Vertice dei 7», in diversi poli metropolitani, si avverte sempre più la possibilità di dare una nuova dimensione progettuale rivoluzionaria a queste iniziative.

Rafforzare gli elementi nuovi emergenti nel processo rivoluzionario significa da qui in poi sviluppare confronto e dibattito unitario intorno a questi nodi così da costruire una più organica consapevolezza collettiva adeguata a sostenere l’ulteriore avanzamento del concreto processo e pratica rivoluzionaria che abbiamo di fronte.

Un dibattito ed una pratica di lotta in primo luogo intorno alla necessità di superare un’analisi dell’imperialismo come «politica generale», separata dal concreto quadro di contraddizioni su cui si sviluppa la lotta di classe.

La critica all’imperialismo deve essere la critica al capitalismo di quest’epoca: i processi di integrazione su scala internazionale di tutte le determinazioni fondamentali della produzione capitalistica, i processi di concentrazione capitalistica su scala planetaria, il ruolo investito dalla innovazione tecnologica e dalla informatizzazione nei processi produttivi, la sussunzione totale della produzione scientifica alle ragioni del capitale, l’aver funzionalizzato alle proprie leggi e alle proprie esigenze ogni ambito e struttura sociale… Tutto ciò esprime una nuova dimensione qualitativa dell’imperialismo moderno ed esige quindi un adeguamento della critica rivoluzionaria ad esso.

Ne deriva che le dinamiche della crisi e i processi di ristrutturazione della produzione capitalistica, le loro strategie di regolazione, le determinazioni politiche e i processi di guerra, i rapporti di forza e i terreni su cui si condensano acquistano una dimensione di carattere globale.

Il quadro delle contraddizioni di classe è fortemente segnato da questa dimensione internazionale: in parte sono già direttamente espressione di questa dinamica sovranazionale o ne sono comunque fortemente influenzate.

Ciò significa che una prospettiva rivoluzionaria deve riuscire a comprendere e definire termini e contenuto di un percorso di emancipazione dal dominio-sfruttamento capitalistico di ogni attività umana; deve misurarsi concretamente come orizzonte strategico e come direzione e carattere internazionale della lotta. Deve cioè riuscire a concretizzare una strategia capace di porsi come referente di classe, come obiettivi di lotta, come prospettiva a queste condizioni dello scontro.

Alla comprensione del quadro e caratteri dell’imperialismo con cui siamo costretti a misurarci si dovrà affiancare nel dibattito rivoluzionario e nella prassi una comprensione dei passaggi che abbiamo di fronte come premessa di concreto avanzamento dell’iniziativa rivoluzionaria.

Passaggi che potremmo sintetizzare con una «parola d’ordine» nata all’interno e nel vivo della ricca esperienza del movimento rivoluzionario tedesco di questi ultimi anni e che vogliamo raccogliere: lottare uniti!

Pensiamo che «lottare uniti» in questa fase delicata del movimento rivoluzionario italiano voglia dire misurarsi su alcuni nodi che ci permettono di fare un salto in avanti.

– Il primo è quello di riuscire ad individuare i terreni di lotta attorno ai quali concentrare come consapevolezza collettiva la mobilitazione e l’iniziativa rivoluzionaria in un processo organico che superi i livelli di frammentarietà. E questi terreni non possono che essere quegli obiettivi di lotta che condensano i rapporti di forza su scala internazionale e globale che scaturiscono dalle dinamiche di integrazione capitalistica: la guerra imperialista, la ristrutturazione dei processi produttivi e dell’insieme della formazione sociale, il ruolo dell’informatizzazione e dell’innovazione tecnologica in entrambi.

– In secondo luogo nel costruire le nostre lotte e le nostre iniziative nel quadro dei movimenti di lotta, della guerriglia europea e della lotta antimperialista nell’area mediterranea. Si tratta di ricostruire l’iniziativa rivoluzionaria e il movimento stesso all’interno del confronto, della comunicazione e del coordinamento resi possibili dalla qualità omogenea presente nei processi rivoluzionari nel polo europeo, nell’area mediterranea e nel quadro complessivo dello scontro mondiale.

– E ancora, questa nuova qualità dello scontro pone immediatamente ogni processo di lotta, ogni sua determinazione di fronte alla contraddizione globale prodotta dal dominio imperialista ed è costretta a prenderne consapevolezza, se non vuole essere distrutta come identità antagonista dai meccanismi di integrazione e annientamento che tale rapporto produce. Questa è la base che permette di costruire e sviluppare una nuova dialettica tra i diversi livelli di espressione dell’iniziativa rivoluzionaria (guerriglia, lotta antagonista e mobilitazione di massa) in un processo unitario che non appiattisca i diversi gradi di consapevolezza e progettualità, ma li riconnetta in un quadro unitario di lotta.

– All’interno di questo quadro infine l’esperienza italiana potrà portare avanti quel processo di riqualificazione della prospettiva e dell’iniziativa rivoluzionaria e, al suo interno, della guerriglia come progetto strategico; individuando sempre più anche i processi pratici di rifondazione sulla base delle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario oggi.

Ci sembra siano questi alcuni attuali passaggi di un dibattito possibile nel movimento italiano oggi, per una ripresa rivoluzionaria che segni un avanzamento nella lotta, nella coscienza e nell’organizzazione. Per contribuire attivamente alla definizione di una strategia rivoluzionaria internazionale, per essere frazione dello scontro mondiale.

Questo è il senso, questo vuol dire secondo noi imparare a lottare uniti oggi.

Questo è anche il senso in cui si muovono le esperienze rivoluzionarie più significative in Europa occidentale, e la proposta di costruzione del fronte rivoluzionario come unità del processo rivoluzionario in questa area, come unità – nel differente spessore che esprimono – della guerriglia, del movimento e dei prigionieri, come unità sui terreni strategici della lotta rivoluzionaria.

Noi, come prigionieri della guerriglia, come parte viva del movimento rivoluzionario, intendiamo dare il nostro contributo all’avanzamento del processo rivoluzionario e al confronto unitario che si sta sviluppando e si svilupperà nei prossimi mesi tra le forze rivoluzionarie per costruire assieme il nostro futuro.

Concretamente per noi significa:

– affrontare il terreno di lotta del carcere imperialista che in questa fase si sviluppa attorno alla lotta alla legge Gozzini, perno della strategia di differenziazione attuata contro i prigionieri.

– Lottare contro l’operazione controrivoluzionaria della «soluzione politica della lotta armata».

– Contribuire alla costruzione di questo dibattito unitario tra tutti i rivoluzionari e all’approfondimento dei temi strategici che esso ha di fronte.

Questi tre terreni si saldano in un unico contenuto costituendo il senso attorno a cui è possibile oggi sviluppare la militanza e identità rivoluzionaria dei prigionieri fuori da ogni logica riduttiva e settaria.

In questo nostro contributo si esprime già una precisa tensione in questa direzione condensando punti di vista ed esperienze anche diverse che in questa nuova qualità dello scontro riescono a realizzare un significativo momento unitario senza peraltro cadere in inutili appiattimenti.

 

Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana

 

Novara, agosto 1987

Il confronto deve partire dalla realtà. Carcere di Cuneo – Documento di alcuni comunisti prigionieri

Gli undici interventi sulla «battaglia di libertà» pubblicati sul Bollettino 28 rappresentano un primo giro d’interventi che avranno ripercussioni sul futuro del movimento rivoluzionario. Sgombriamo però il campo dai falsi problemi. Se i partiti decidessero un’amnistia riguardante i fatti di lotta armata degli anni ’70-’80 senza chiedere contropartite, non ci opporremmo in alcun modo alla decisione. Ci spiegheremmo la decisione anche guardando ai precedenti: amnistia del 1932 (1) e quella concessa a Castro (2). E come i comunisti italiani nel ’32 e come Fidel Castro ci attiveremmo nel ridare forza al processo rivoluzionario tenendo conto naturalmente delle contraddizioni oggi presenti e delle difficoltà in cui versa il movimento rivoluzionario. Ma tra il «non rifiutare» l’amnistia e sostenere la «battaglia di libertà» ci sembra passi una notevole differenza. L’operazione di Curcio chiamata «battaglia di libertà» va attaccata e ne spiegheremo i motivi. Prima di tutto le tesi politiche. È dall’83 che Curcio attacca non solo il patrimonio politico di questi anni ma l’intero patrimonio politico dei comunisti. Con i documenti dell’83 Curcio si è guadagnato l’attenzione e l’apprezzamento dell’Avanti ma anche la dura critica dei comunisti (3). Curcio è la classica figura di rivoluzionario che giunge a posizioni compatibili con l’organizzazione borghese e aggiunge il suo nome al lungo elenco di rivoluzionari assorbiti dalla classe dirigente, rinnovando quel fenomeno che va sotto il nome di trasformismo (4).

 

La «battaglia di libertà»

Con la prima lettera di aprile si è aperta in parte del movimento la discussione sulla liberazione dei prigionieri politici. Questa è stata anche l’occasione per riparlare pubblicamente degli anni ’70-’80 e del ruolo svolto dalla lotta armata.

È una discussione interessante che non a caso ha fatto emergere precise critiche a Curcio. Va anche detto però che questa area non ha la forza per far decollare una battaglia politica per la liberazione dei prigionieri.

Non abbiamo nemmeno visto alcun movimento di massa muoversi a sostegno della «battaglia di libertà». Tantomeno abbiamo visto scendere in campo intellettuali pronti a sostenere le ragioni di uno scontro che potrebbero ritenere esaurito…niente di tutto questo. Eppure la questione è montata rimbalzando da un mass media all’altro e sull’onestà intellettuale e sull’indipendenza dei mass media non c’è nessuno disposto a scommettere una lira. Su quali forze conta allora la «battaglia di libertà»? È ovvio che queste forze vengono direttamente dai partiti interessati ad una soluzione del problema dei prigionieri politici. Non abbiamo quindi nessuna intenzione di essere parte attiva in questa falsificazione. Preferiamo chiamare le cose con il loro vero nome e questa «battaglia di libertà» non è altro che una contropartita alla liberazione. Contropartita data con le teorie anticomuniste di Curcio e con l’offerta di delegittimare le iniziative rivoluzionarie che dovessero verificarsi dopo la liberazione dei prigionieri. C’è molta presunzione nelle dichiarazioni dei liquidazionisti, non tanto nel pensare che lo stato possa concedere la libertà quanto nel ritenere delegittimabile un’iniziativa rivoluzionaria che si muove su contraddizioni reali. In realtà i liquidazionisti sono pronti a tracciare un solco tra il passato e il futuro del movimento rivoluzionario. Questa frattura rischia oggi di essere avvertibile da alcuni per le difficoltà in cui versa il movimento rivoluzionario, ma diventerà inesistente una volta che il processo rivoluzionario riprenderà vigore.

Data la demagogia che vela il reale rapporto tra la «battaglia di libertà» e gli interessi borghesi, è facile che Curcio esca conservando agli occhi delle masse le sembianze del rivoluzionario capace di ingaggiare una «battaglia» usando le sole forze della ragione. Questa «battaglia» si pone quindi anche come ricostruzione di una «figura rivoluzionaria» prodotta e distribuita dai mass media ad uso e consumo di massa. Dobbiamo quindi fare tutto il possibile per squarciare il velo di questa mistificazione.

 

Ci troviamo di fronte anche altri diversi problemi. Molti compagni sottovalutano la pericolosità dell’operazione condotta da Curcio e credono che basti decretarne l’espulsione dal movimento rivoluzionario per sventare ogni pericolo. In realtà non è così semplice. Curcio ha ricompattato intorno a sé ex compagni provenienti da diversi spezzoni dell’esperienza BR. La maggioranza dei prigionieri ex BR-PCC con in testa la Balzerani, oltre a fornire ridicole argomentazioni sull’impossibilità della ripresa del processo rivoluzionario, continuano ad ergersi spavaldamente a difesa dell’esperienza BR. Questi individui si sentivano di difenderla tanto quando attaccavano Curcio e gli altri compagni, quanto ora che sono saliti sul carrozzone di Curcio e continuano ad attaccare gli altri compagni. Ma al di là di questi fatti che sembrano tratti da una farsa, ci preoccupa la confusione che determineranno in molti compagni. Dovremmo tenerne conto e soprattutto dovrebbero tenerne conto quei compagni che continuano a conferire alla lotta armata proprietà taumaturgiche, esentandosi dal fare i conti con la realtà e dal ricercare i necessari passaggi per uscire da questa situazione di crisi. Alcuni di questi compagni che si guardano bene dal fare i conti con la realtà, ripropongono pari pari, se non in forma più grave, le concezioni errate del passato. L’ultima trovata è l’immissione nel dibattito della teoria della destabilizzazione mai circolata nell’organizzazione BR. Le BR infatti hanno teorizzato e praticato la «disarticolazione» delle strutture e dei progetti nemici, in funzione di uno sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro paese. La «destabilizzazione» (non viene affermato esplicitamente ma è sottinteso) ha alla sua base la completa sfiducia nelle possibilità del proletariato del nostro paese di svolgere una funzione nel processo rivoluzionario. Questi compagni pensano come se fossero un gruppo di rivoluzionari in un paese ad economia forte e senza forti contraddizioni sociali e, impossibilitati a fare la rivoluzione nel proprio paese si candidano al servizio delle rivoluzioni in altri, proponendosi l’unica pratica possibile: la «destabilizzazione». Non ci sembra però che in Italia ci siano le condizioni sopraddette. Accusare i compagni di liquidazionismo non significa avere una posizione politica pratica. Non esaurisce i nostri compiti. La proposta di Curcio ha ingenerato confusione. La liberazione dei prigionieri politici è un problema sentito nel movimento. La «battaglia di libertà» fa misurare i compagni con la debolezza del movimento di fronte al problema, ma dall’altra parte dimostra che l’alternativa è la rinuncia. Se non prevale una corretta posizione che si misuri con la discussione in ballo, il rischio è che una parte del movimento cada nelle mani di Curcio e che i comunisti non partecipino con la propria posizione, utilizzando tutti gli strumenti, alla discussione sui prigionieri politici e sugli anni settanta, lasciandola così ai mass-media.

Occorre inoltre distinguere tra la critica alla «battaglia di libertà» e la posizione da tenere nei confronti di una amnistia emanata dallo stato. Posizione che nel movimento non potrebbe essere che quella di sostenere un’amnistia senza contropartite e senza discriminazioni verso i compagni. Solo così si danno contorni netti ed inequivocabili alla questione. Dobbiamo anche tenere conto che una maggiore confusione ingenererà nella classe l’immagine di Curcio irradiata dai mass-media, anche perché crediamo che i proletari non conoscano i termini della battaglia politica svolta in passato contro il capo liquidatore. Ma cosa può sostenere un compagno all’interno di una situazione di classe di fronte alla campagna martellante dei mass-media sull’amnistia? Che è contrario a che escano i prigionieri? O denunciare Curcio e presentare le cose come sono: un’operazione per discriminare i compagni? Ci sembra che non ci sia altro da fare che tenere quest’ultima posizione e sostenere la liberazione senza contropartite e senza discriminazioni. Non crediamo che lo stato sia disposto a liberare i compagni che attaccheranno la «battaglia di libertà», ma così facendo, se avremo lavorato tenacemente nel movimento e nelle situazioni di classe, apparirà evidente a tutti la differenza tra le posizioni liquidazioniste e quelle dei compagni. Solo così si può pensare di rovesciare contro Curcio e i suoi sostenitori l’operazione che hanno montato. Solo così gli si potrà impedire di usufruire dell’immagine del «capo rivoluzionario sconfitto ma indomito» comunicata dai mass-media.

Questa ennesima ondata di transfughi dal movimento rivoluzionario impone sempre più l’esigenza di trovare una unità tra compagni, di riprendere la discussione. Se a nessuno sfugge la gravità della situazione nazionale e internazionale, c’è ancora il buio sui passaggi necessari per uscire dalla crisi del movimento rivoluzionario. Le organizzazioni sono drammaticamente ridotte dal punto di vista della loro forza politica. Il movimento rivoluzionario è in generale ridotto a poco. Il problema lotta armata/riproduzione dei quadri sembra un serpente che si morde la coda. In alcuni si è affermata l’errata convinzione che senza la lotta armata non ci sia riproduzione di quadri e che la lotta armata possa svilupparsi indipendentemente dal corso della lotta di classe. Questo criterio secondo noi non ha validità. Se non si consolida il radicamento nel proletariato, se non si rispetta il principio dello sviluppo per linee interne alla classe, regolando ritmi e livelli di iniziativa alle proprie forze e a quanto esprime la lotta di classe, non ci sarà mai un rafforzamento, non si uscirà dalle secche. Quando si parla di analisi concreta della realtà concreta, non ci si riferisce solo all’analisi della crisi del modo di produzione capitalista, che è condizione fondamentale, ma anche allo stato della soggettività. Una adeguata rete di compagni, un partito rivoluzionario che goda di prestigio e in particolare una radicale lotta di classe: nelle attuali condizioni questo è tutto da costruire e crediamo debbano essere gli obiettivi al centro del nostro lavoro in questa fase. Oggi non c’è una organizzazione, una struttura che possa assumersi il compito di aggregare attorno a sé le varie esperienze e contribuire alla formazione della necessaria forza soggettiva. Ricercare l’unità dei compagni è allora il primo passo da fare. Sappiamo bene quanto sia lunga la strada per giungervi. Esistono differenti e radicate impostazioni che nell’immediato non è possibile accordare. Si potrebbero però muovere i primi passi se il confronto partisse dai problemi concreti che ci troviamo di fronte. Ricercare allora parole d’ordine e posizioni concrete comuni contro le posizioni curciane è una prima occasione per verificare quanto questo sia possibile oggi.

 

Alcuni comunisti prigionieri

 

Cuneo, ottobre 1987

(1) L’amnistia fu concessa nel decennale del regime fascista. Anche se la situazione economica nazionale era alquanto critica, il regime intendeva dimostrare di sentirsi sicuro. Inoltre la polizia politica aveva raggiunto una elevata capacità di vigilanza e repressione da non temere la liberazione di un centinaio di comunisti. Secchia usufruì dell’amnistia anche se, arrivato a casa, fu arrestato di nuovo e inviato al confino.

(2) Il regime di Batista decise di sbarazzarsi di Castro e degli altri per impedire collegamenti tra rivoluzionari e popolazione. Fidel Castro fu amnistiato dopo due anni dall’assalto al Moncada, dove morirono un centinaio di persone.

(3) Oltre alle prese di posizione delle OCC, uscì il libro “Politica e Rivoluzione” che spiega i caratteri antimarxisti delle tesi di Curcio.

(4) Al riguardo vale la pena di citare Gramsci “… dal 1815 in poi un piccolo gruppo dirigente è riuscito metodicamente ad assorbire tutto il personale politico che i movimenti di massa di origine sovversiva esprimevano … assume una portata imponente nel dopoguerra quando pare che il gruppo dirigente tradizionale non sia in grado di assimilare e dirigere le nuove forze espresse dagli avvenimenti”.

La nostra memoria storica: la scelta di rottura radicale con lo Stato. Carcere di Voghera – Documento di Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu

Questo contributo, traendo spunto dalla radicale contrapposizione al progetto di soluzione politica, è il frutto di un primo reale confronto fra compagne provenienti da diverse componenti politiche e inevitabilmente risente di tutti i limiti che ciò comporta.
Questo intervento vuole però essere un effettivo momento di confronto, dentro e fuori dal carcere, con tutte le esperienze rivoluzionarie e con tutti quei compagni che, al di fuori di ogni logica settaria e riduttiva, intendono portare avanti un processo rivoluzionario.
E così, in Italia esistono prigionieri politici.
Riconoscimento un po’ tardivo di un conflitto di classe – che si vorrebbe seppellire – la cui frattura radicale deve essere necessariamente riassorbita prima che qualche nuovo evento dalle sfumature incontrollabili ne ricucisca una continuità, anche solo ideale.
Magnanimo gesto, dallo stile vagamente militare, con cui si usa – fra galantuomini – offrire una dignità agli eserciti aggiogati e sconfitti. O meglio, ai loro capi.
Peccato che chi, come noi, ha sempre pensato all’organizzazione rivoluzionaria come ad un processo collettivo – senza personalismi né primedonne – non riuscirà mai a scambiare il carcere imperialista con la piazza di un mercato: non vuole svendere né essere venduto.
Liberazione degli anni ’70 in cambio di un ritorno alla «normalità democratica» di una società pacificata. Rientro – per «ambedue» le parti – nelle regole del gioco; accidentalmente accantonate per un duro ma indispensabile lasso di tempo.
Tra il combattente e il disertore, l’incorruttibile e il rinnegato, esiste quindi una terza via?
Sembra la fine di un’epoca. Un’epoca di speranze e di sogni di chi voleva «fare la rivoluzione». Ora siamo diventati grandi e con molto realismo politico dovremmo constatare che un’altra società è impossibile: il capitalismo è l’unica forma di società pensabile.
Altro che pura e semplice delegittimazione della guerriglia, quello che ci chiedono è di sostenere che il comunismo è impossibile!
Tricolore italiano e bandiera a stelle e strisce si allineano armonicamente – nell’ambito del più generale quadro di cooperazione e integrazione europea – nel sostituire l’accusa di terrorismo alla vecchia accusa di comunismo; terroristi sono coloro che combattono gli interessi strategici e i «valori» delle democrazie occidentali.
Originariamente nata per contenere e annientare la spinta dei popoli in lotta per la loro liberazione e autodeterminazione, la strategia imperialista della controguerriglia classica ha dovuto sottilmente evolversi per combattere chi, dall’interno dei paesi del suo centro, minava le fondamenta del suo dominio indiscusso. Combinare azioni militari ad operazioni politiche, economiche e psicologiche tese a costruire ogni possibile scenario di legittimazione del potere esistente. Prima la sconfitta militare, poi un’operazione politica che – intervenendo direttamente nel campo delle idee – frantumi ogni ricostruzione di progettualità radicale e convinca anche i più dubbiosi a servirsi tutt’al più delle armi della critica nell’ambito della più civile convivenza.
Non essendoci montagnards, come in Vietnam, si usa – con intelligenza – la crema, ben disponibile, dei prigionieri politici. Chi meglio di loro? L’altra faccia della medaglia di una strategia controrivoluzionaria ben conosciuta.
Annientamento, accerchiamento, isolamento dei rivoluzionari in tutti i continenti e cooptazione di tutte le possibili forze, da quelle socialdemocratiche a quelle – perché no? – ex-combattenti, in un progetto che crei presupposti per impedire a qualsiasi livello ogni possibile rottura politica a favore delle forze rivoluzionarie e spezzi sul nascere ogni tentativo di unificazione di una strategia politico-militare per la liberazione proletaria.
Proprio adesso che si cominciavano a riconoscere positivamente le prime forme di unità del processo rivoluzionario in Europa occidentale e le tematiche internazionaliste e antimperialiste recuperavano anche da noi una posizione centrale nella strategia rivoluzionaria!
Combinando i frutti della nostrana controrivoluzione preventiva – dispiegata dalla metà degli anni ’70 in poi – con la ricca esperienza controrivoluzionaria internazionale, gli ultimi esperti di un personale politico imperialista italiano hanno finemente elaborato questo splendido gioiello che porta il nome di soluzione politica. Progetto che sarà senz’altro oggetto di un rinnovato plauso da parte delle democrazie occidentali e frutterà notevoli vantaggi interni a chi se ne è fatto promotore.
Esempio di futura solida stabilità, basata sul sapiente dosaggio delle controparti e sull’oculata prevenzioni delle prossime contraddizioni.
Se non è possibile un pieno consenso che almeno si incanali il dissenso in binari ben definiti oltre i quali non è lecito andare. E si tolga definitivamente di mezzo ogni intralcio che potrebbe frapporsi al nuovo ciclo espansivo e di guerra degli anni ’90.
Come è naturale, pare persino stupido ricordarlo, questo ambizioso progetto rischierebbe di risultare scarsamente efficiente se non trovasse la piena e opportunistica partecipazione di tutti quei prigionieri, capi e gregari, che abbiano qualcosa da mercanteggiare.
Resisi inermi, i grandi cervelli della «passata e improponibile» rivoluzione usano ora la loro intelligenza per cercare di rendere plausibili – senza le armi – i loro passati progetti di trasformazione della società.
Da «biechi assassini terroristi» a soggetti politici della trasformazione «democratica». E se no, perché mai uno Stato che non è indietreggiato – non ha trattato – di fronte al dispiegarsi della giusta violenza comunista avrebbe ora la presunzione di arrivare alla conciliazione?
A che cosa servono questi incanutiti ex-combattenti?
Non certo a riempire la mancanza di una certa retorica resistenziale nelle osterie, né a trasferire alle nuove generazioni eroiche epopee ricche di abnegazione e di alti ideali. Più semplicemente, questa controparte deve assolvere a una funzione che le è specifica.
E quale sarebbe questa funzione se non quella di convincere le nuove generazioni che non hanno il diritto di battere la strada della lotta armata per il comunismo, se non quella di usare la testimonianza del proprio reinserimento sociale come garanzia che di più non si può tentare!
Ma oggi, svolgere una funzione di ammortizzatore delle prossime conflittualità sociali è compito estremamente oneroso, è da veri intelligenti riformisti! È avere la presunzione di riuscire là dove ha fatto buca il PCI con la sua politica disinvolta nel non tutelare neanche i restanti e risicati interessi di classe.
Ben gravoso compito e ben magro spazio si è ricavato chi aveva in mente la presa del potere!
Vista l’autorevolezza dei nomi, si potrebbe pensare ad un’improvvisa epidemia di demenza. Specie per alcuni, è sintomo di ben scarsa serietà dire una cosa oggi e il contrario l’indomani, di punto in bianco!
Purtroppo invece questa faccenda – che si vorrebbe a lieto fine – altro non è che una vecchia tara che ogni movimento rivoluzionario può trovarsi tra i piedi ogni qual volta la realtà mostra sensibilmente di scostarsi da vecchi schemini ormai incapaci di comprenderla per intero.
È lo sclerotismo di chi «per valorizzare» un’esperienza, la svende. L’arroganza di chi nega che una grossa esperienza rivoluzionaria per andare avanti deve rinnovarsi continuamente. La rinuncia a superare quei limiti di un impianto teorico-politico che ci permettano di ridefinire un’ipotesi di guerriglia in un paese del centro imperialista come il nostro.
Ecco quindi improvvisi voltafaccia, ecco spuntare noiose e stanche vie pacifiche al socialismo costrette a logoranti logiche di opposizione senza nessuna possibilità di sbocco reale se non il completo asservimento alle politiche imperialiste. Degenerazione di un vecchio modo di fare politica, non più riproponibile per una guerriglia in un paese del centro europeo.
Ma poiché questa ci sembra la tendenza ed è un progetto, serio, che ha delle buone gambe su cui marciare – al di là che avvenga o meno la liberazione fisica dei prigionieri – è bene giudicarlo in tutte le sue conseguenze, immediate e future.
Del resto, se vogliamo guardare la soluzione politica sotto un altro aspetto possiamo senz’altro rifarci alla storia. Può succedere infatti che in particolari momenti – carichi di forti tensioni internazionali e di pericolosi segnali che possono preludere ad improvvise trasformazioni sulla scena politica o a incontrollabili evoluzioni guerrafondaie – la confusione ideologica si faccia più intensa ed esiste la seria possibilità che forze fino a ieri rivoluzionarie decidano di archiviare la lotta armata e imbocchino la strada dell’opposizione politica legale, alleandosi con forze i cui programmi immediati convergano.
L’intento è solitamente quello di dividere il fronte borghese in nome della salvaguardia della pace, della democrazia e della tutela degli interessi di classe. La conseguenza più diretta è ovviamente l’abbandono di ogni linea politica rivoluzionaria – tattico o definitivo che sia – e la cancellazione più totale di ogni seria prospettiva antimperialista, fatto salvo il mantenimento di parole d’ordine del tutto ideologiche ed ininfluenti.
Il tutto, in passato, si è inserito in un clima fortemente nazionalista, sciovinista, quando non addirittura razzista – bianco, diremmo oggi -.
Può anche succedere che – in periodi di grosse trasformazioni gravide di incognite per il futuro ma rigonfie di compromessi e mistificanti mediazioni – scaturiscano tesi assurde ed utopistiche secondo le quali i caratteri stessi dell’imperialismo sono talmente mutati che i rapporti e gli scambi internazionali sarebbero improntati ad uno sviluppo economico e sociale equamente distribuito, in barba ad ogni legge dell’accumulazione capitalistica. Tesi che, come si è già verificato storicamente, giudicando il compromesso tra socialismo e capitalismo un accordo molto serio e affidabile, hanno portato niente altro che a un pacifismo radicale e a una totale rinuncia dell’ideologia rivoluzionaria.
Come è ovvio, l’improvvisa amnesia della sostanza stessa dell’imperialismo, di ogni legge fondamentale del modo di produzione capitalistico non può che fare equivalere lo sviluppo dell’economia e del progresso scientifico ad uno sviluppo sociale e quindi ad una rinnovata democrazia.
Alla democrazia si richiamano, a quanto pare -seppur sotto una moderna veste «riformista»- anche i nostri ex-compagni. Democrazia che, beninteso, sarà tale solo dopo la loro liberazione. Punto questo essenziale, per cui si prendono addirittura la briga di chiudere un ciclo storico; chiusura, sia ben chiaro, che non può che corrispondere alla loro personale liquidazione della strategia della lotta armata.
L’astrazione dall’effettivo andamento del capitale multinazionale e dalle diverse contraddizioni che esso produce è evidente. E opportunistiche e mirate sono le loro letture della realtà, furbescamente mutilate delle grosse contraddizioni internazionali che vanno via via emergendo. Letture della realtà che prescindono completamente dalla sopravvivenza di interi popoli – ridotti ad «aree di mercato» – e dal loro diritto a vivere in una società autodeterminata.
Bisognerebbe magari chiedersi il perché di questa eurocentrica – o meglio italiota – dimenticanza e a chi, caso mai, potrebbe giovare. Quindi, per questi ex-rivoluzionari, il MPC si sarebbe rinnovato in modo così sostanziale da riuscire a coniugare efficacemente le richieste degli strati sociali più sfruttati e marginalizzati dalla riduzione della base produttiva con le contraddittorie ma ferree leggi dell’accumulazione capitalista, le esigenze della guerra imperialista, con quelle del proletariato internazionale. Superati a sinistra, in questa ottimistica visione, dalla stessa sinistra non socialdemocratica che hanno sempre snobbato; la quale, oltre ad essersi mobilitata per le navi nel Golfo Persico, si sta chiedendo quale democrazia possa mai vivere, quale equilibrio possa mai avere una società in cui un terzo dei suoi membri è escluso da ogni promozione sociale, marginalizzato e privato di un realistico futuro; quale governabilità possa garantire uno stato che è costretto a «sganciarsi» da una così grossa fetta di popolazione -con cui tuttavia deve «convivere» – facendone un soggetto da controllare, poiché gli si pone oggettivamente contro.
In realtà, non di chiusura di un ciclo storico si deve parlare ma di una grossa svolta avvenuta tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80; un passaggio che, nel tentativo di superare la crisi, apre una nuova fase di sviluppo capitalistico a cui si vorrebbe ora necessariamente coniugare un nuovo concetto di stato «efficiente». Una svolta alla luce della quale le laceranti contraddizioni emerse non appaiono come semplici intralci congiunturali, bensì come preoccupanti sintomi di una situazione fondamentalmente inedita e gravida di incontrollabili conseguenze. E quanto forte sia stato considerato l’urto delle lotte degli anni ’70, e quanto sia passato in eredità come fonte di preoccupazione costante da evitare in futuro, lo abbiamo ben potuto vedere negli ultimi anni di emergenza.
Fossimo davvero già in una società totalmente «trasformata», non ci sarebbero tutti questi problemi.
In realtà siamo ancora in un periodo di transizione, in cui operano vecchie forme all’interno di altre totalmente nuove, la cui evoluzione è peraltro tutt’altro che scontata. Bisognerebbe quindi ragionare su quali forme il capitale vada assumendo, quali mutamenti – anche istituzionali – debbano ancora intervenire e finalmente quali ostacoli gli si frappongono e quali siano in generale le contraddizioni che caratterizzano questa trasformazione. Discussione, questa, aperta a tutti i compagni, a cui vogliamo indicare solo i fenomeni più evidenti; pienamente convinte che l’attacco alla soluzione politica passa attraverso la ripresa di un confronto collettivo che sappia misurarsi con le attuali condizioni oggettive inscrivendole nella dimensione internazionale dello scontro di classe e nella riproposizione della strategia della lotta armata in continuità con i cardini fondamentali delle BR, ma su basi più mature e interne all’evolversi della guerriglia in Europa occidentale.
Tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 nel panorama socio-economico italiano – così come a livello internazionale – sono avvenuti profondi mutamenti, dovuti ai passaggi della crisi che ha investito tutto il mondo occidentale. Il tentativo di risolvere tale crisi ha imposto – sulla base della necessità dei capitali multinazionali più forti, USA in testa – la ridefinizione di tutti i fattori economici-politici e sociali indispensabili alla riproduzione del sistema capitalista stesso. Ridefinizione che è avvenuta attraverso un movimento di ristrutturazioni senza precedenti che doveva necessariamente coinvolgere e rendere interdipendente l’economia nel suo complesso, là dove all’esportazione di capitali si unisce direttamente l’esportazione e la necessaria riproduzione del MPC stesso. Imporre questa ristrutturazione significava per l’Italia rimanere nel novero dei paesi industrializzati. Una grossa posta in gioco a cui non si poteva certo rinunciare.
Questo comportava innanzitutto dispiegare una forte controrivoluzione preventiva con cui cercare di distruggere – con tutti i mezzi, anche con la tortura – le BR, allora all’offensiva, decapitando il movimento rivoluzionario. E contemporaneamente innescare una repressione generalizzata che è passata attraverso l’espulsione delle avanguardie più significative – cardine dell’organizzazione proletaria – nei poli industriali, con gli arresti di massa, fino alla militarizzazione dei territori metropolitani.
Con un clima di deterrenza generale si intendeva disorientare e isolare le avanguardie più combattive minando il tessuto sociale di tradizionale solidarietà proletaria e incrinando la stessa identità di classe, con l’intento di far passare – con o senza il consenso – il progetto della borghesia imperialista che prevedeva, insieme a migliaia di licenziamenti, la completa sconfitta politica della classe.
La rottura della solidarietà rivoluzionaria è passata anche attraverso il fenomeno degli infami e dei dissociati in un’ottica di divisione dei prigionieri comunisti e di delegittimazione della guerriglia, con il reinserimento nell’ambito borghese degli ex-rivoluzionari. Progetto che raggiunge ora il suo apice con la proposta di soluzione politica. Da allora la controrivoluzione preventiva non solo non ha mai cessato di funzionare, ma l’intero apparato politico-militare è diventato molto più raffinato: non colpisce più nel mucchio, ma tende ad individuare, isolare e annientare quelle forze rivoluzionarie che possono fungere da polo intorno a cui si riorganizza il movimento antagonista. Nello stesso tempo ha operato una ridefinizione di tutti gli apparati che servono ora anche come controllo politico e prevenzione sul movimento. Da una parte repressione e annientamento e dall’altra infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione nell’ambito borghese dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.
L’inizio del processo di ristrutturazione in Italia ha anche indirizzato la politica revisionista e sindacale sfociata poi nel patto sociale. Tale politica ha di fatto investito una parte della classe in un rapporto di delega al PCI e ai sindacati che si facevano direttamente garanti di un’«equa» contrattazione. Questa contrattazione – propagandata alla classe come necessario «riformismo» con cui limitare gli eccessi più direttamente antiproletari della ristrutturazione – poneva le basi per una sconfitta ideologica, oltre che politica, delle pratiche di lotta proletaria e di fatto sanciva la definitiva accettazione delle norme capestro su cui si reggeva la ristrutturazione: espulsione di forza lavoro, mobilità, flessibilità, premialità agganciata alla produzione, ecc. Venivano colpite, quindi, le conquiste di classe ottenute con le lotte del decennio precedente e si tentava di inglobare lo scontro con il proletariato all’interno di mediazioni politiche/istituzionali; in tal modo le lotte portate avanti dall’autonomia di classe perdevano a poco a poco non solo la storica combattività organizzata, ma scivolando di fatto su un terreno «sovversivo», venivano ricacciate sulla difensiva.
Segmentando e parcellizzando il ciclo produttivo -attraverso l’introduzione di alte e sofisticate tecnologie – si è segmentata e frammentata anche quella composizione del proletariato tipica della grande fabbrica tayloristica. Questo mutamento della composizione di classe ha portato l’avanguardia rivoluzionaria alla ricerca di un riadeguamento dell’impostazione politico-militare, essendo cambiato il referente di classe e più esteso lo scontro.
Nel frattempo la politica revisionista e il patto sociale si qualificavano come solido banco di prova per arrivare ad un possibile coinvolgimento della classe nella partecipazione alla ripresa economica e nello stesso tempo – là dove questo non risultava possibile – funzionavano come ammortizzatore sociale per dilazionare nel tempo il temuto inasprirsi dello scontro. Una gestione politica dello scontro di classe che si dimostrerà tanto più essenziale con la crisi del welfare state e con l’estendersi della ristrutturazione al terziario. La stessa DC, il PSI e lo Stato nel suo insieme sono infatti chiamati oggi ad intervenire sotto una moderna veste «efficientista» in relazione alle richieste e al malcontento di quei settori – non immediatamente legati al ciclo produttivo – che erano fino a ieri al riparo dai costi della ristrutturazione, cercando di mantenere il carattere corporativo di tali lotte come elemento di costante divisione della classe.
Alcuni effetti della ristrutturazione sono stati contenuti grazie al risorgere dell’imprenditoria del lavoro sommerso e precario che, scavalcando a piè pari lo statuto dei lavoratori, riassorbiva una parte di f-l espulsa dal ciclo produttivo; in questo modo non si è stabilito un notevole scompenso nella redistribuzione della ricchezza, ma si è però affermato un vuoto di tutela e di garanzia nell’occupazione.
L’effetto più devastante della ristrutturazione è però la massiccia disoccupazione che si è ormai affermata come carattere strutturale, decisamente non riassorbibile. Questione questa a cui, al di là delle belle parole, nessuno sa porre rimedio.
In quegli stessi anni, la politica estera italiana – nel suo classico indirizzo di mediazione improntato alla «cooperazione e allo sviluppo» – assumeva un protagonismo davvero insolito e riusciva ad agganciare, soprattutto con l’esportazione di media tecnologia, quei paesi alla ricerca di una via di sviluppo nazionale. Questo contribuiva a riportare i profitti a livelli competitivi e di conseguenza permetteva di ridefinire gli equilibri interni, tamponando le contraddizioni più laceranti che andavano via via emergendo. Praticamente, l’utilizzo del neo-colonialismo sui paesi della periferia per assorbire i conflitti interni in funzione di un maggior consenso e stabilità sociale.
Le esigenze del capitale multinazionale vengono fatte pagare sia ai paesi dipendenti sia al proletariato del centro. Questa è anche la funzione dello Stato imperialista italiano come «mediatore sociale». Infatti all’intensificazione del potenziale produttivo e all’innegabile progresso scientifico che se ne può prospettare non corrisponde – nelle finalità capitaliste – un conseguente sviluppo sociale e una migliore qualità della vita. Al contrario, uno dei motivi che determinerà gli eventi futuri sarà il tentativo a lungo termine da parte dei paesi a capitalismo avanzato, di mantenere la loro preminenza – proprio sulla base del possesso dell’alta tecnologia – nella produzione e nei mercati mondiali e questo non potrà che avvenire a spese dei paesi dominati e del proletariato.
Con la ridefinizione dei rapporti di forza nettamente a favore della borghesia imperialista, il ruolo di media potenza imperialista dell’Italia esige ora da una parte, la completa sconfitta di ogni ipotesi rivoluzionaria, dall’altra, una gestione politica del governo delle contraddizioni sociali improntata al contenimento delle spinte più antagoniste e al loro riassorbimento all’interno di un quadro di mediazioni politiche teso ad ottenere il massimo di pace sociale conseguibile e il massimo di divisione del fronte proletario. Mediazioni politiche che sono sostanzialmente operazioni di controllo politico e di cooptazione all’interno del sistema borghese. Di fatto, si fa in modo di rendere latente e frammentaria ogni opposizione antagonista mascherando con una nuova e moderna veste «riformista» quello che è ormai uno stabile e rafforzato neo-autoritarismo in senso nettamente antiproletario.
Fa certamente parte di tale gestione politica anche il progetto di soluzione politica. Progetto che può dare allo Stato imperialista italiano le possibilità di apparire ufficialmente «democratico» – in quanto dimostra di essere riuscito ad «armonizzare» anche le più laceranti contraddizioni di classe – e talmente «forte» da potersi permettere di liberare coloro che gli avevano dichiarato guerra.
La liberazione degli anni ’70 passa quindi attraverso la dichiarazione di sconfitta delle BR, la totale distruzione di ogni identità rivoluzionaria, l’annientamento di ogni possibile ipotesi di radicale trasformazione della società! Sia ben chiaro che la posta in gioco non è solo il passato, ma il presente e il futuro: mettendo un’ipoteca su una futura ipotesi rivoluzionaria che non potrà che essere collegata alla guerriglia in Europa occidentale.
A questo si prestano gli ex-rivoluzionari che propagandano qualsiasi tipo di soluzione politica: a creare le basi perché chiunque, d’ora in poi, prenda un’arma in mano in nome di una possibilità di liberazione proletaria venga crivellato di piombo con il loro legittimo consenso! Un innalzamento dello scontro di classe che coinvolgerà non solo le avanguardie combattenti ma tutto il movimento rivoluzionario, tutto il proletariato! Cosa del resto già riscontrabile ora: mentre si propaganda la soluzione politica avvengono decine di arresti nel movimento rivoluzionario!
L’attuale gestione dei rapporti di forza va infatti letta nel quadro più generale dell’evolversi della crisi – in cui già si preannuncia un’ondata recessiva – e delle tensioni internazionali che ne possono conseguire. Fattori, questi, che fanno presagire che in futuro sarà sempre meno possibile qualsiasi negoziazione, con il rischio di un inasprimento delle attuali conflittualità di classe e di una polarizzazione sempre maggiore tra stato e società.
La crisi iniziata nel ’73 era infatti crisi del modo di accumulazione, cioè crisi del fordismo. Fordismo inteso anche come modello di regolazione politico-economico-sociale, a cui corrispondeva lo stato sociale. Modello a cui faceva riscontro una visione di apparente emancipazione evolutiva del proletariato: otto ore di lavoro, aumento di un relativo benessere, servizi sanitari, scuola ed educazione ecc. Ma oggi, con l’imposizione della ristrutturazione, tale modello è andato in crisi lasciando il posto ad una concezione improntata alla flessibilità e all’individualizzazione. Caratteri, questi, che non riescono a fornire una visione promettente e convincente dell’attuale sistema di vita e che stridono fortemente con la passata identità collettiva improntata alla tradizionale solidarietà di classe. La particolarità italiana consiste tra l’altro nel fatto che il patto sociale è avvenuto quando il fordismo era già in piena crisi. Quindi la cooptazione del sindacato e del PCI si è verificata in un momento in cui lo Stato mirava già ad un forte ridimensionamento del peso politico di queste organizzazioni operaie. Questo è accaduto in tempi ravvicinati così che si sono sovrapposte due differenti concezioni, due modi di vita diversi, frutto dell’accavallarsi di contraddizioni vecchie e contraddizioni nuove, sovrapposizione che può avere tutti gli elementi per spingere alla ricerca di una nuova identità sociale. Una ricerca che potrebbe alimentare il rifiuto dell’oppressione e del nuovo tipo di sfruttamento e alienazione che questo sistema impone. E potrebbe anche raggiungere la piena coscienza dell’imposizione ideologica e culturale che si ripercuote sull’intera società e che ha svuotato di ogni significato il concetto di autodeterminazione del destino collettivo e quello di riappropriazione della ricchezza e del sapere.
Da una parte infatti la ridefinizione in senso imperialista della società è il carattere portante delle «democrazie occidentali» che si reggono sulla proprietà privata, sul carrierismo, il managerialismo e sull’individualismo rampante degli yuppies; dall’altra, avendo questo sistema ormai raggiunto l’apice della decadenza e della putrefazione, da questo periodo di transizione potrebbe scaturire la possibilità di una critica radicale alla società capitalistica che si regge sulla violenza di questo modo di produzione e funzionalizza alle leggi e alle esigenze capitaliste ogni struttura sociale. Critica radicale che porta con sé, come necessaria conseguenza, lo sviluppo di una coscienza organizzata per una totale liberazione dei vincoli imposti.
Le condizioni oggettive dunque esistono, sono le condizioni soggettive che stentano a maturare!
Ed è proprio approfittando di questo che lo Stato ha deciso di recidere profondamente – per mano dei suoi ex militanti – la memoria storica delle BR per sancirne definitivamente l’illegittimità e passare all’effettivo consolidamento dei rapporti di forza ottenuti. Si sta preparando infatti anche il riadeguamento istituzionale del nuovo ruolo assunto dallo Stato imperialista italiano all’interno del contesto internazionale. Tra breve giungerà il tempo di dare corpo al progetto della grande riforma: una vera e propria «democrazia» occidentale con un’agile e snella procedura decisionista che faccia velocemente passare le politiche antiproletarie e guerrafondaie che sono d’obbligo per uno Stato che intende pienamente assumersi le strategie di guerra nella direzione dell’imposizione di un nuovo ordine economico mondiale.
E quale migliore presentazione per la «rifondazione» di tale Stato che mandare la sua marina militare nel Golfo Persico?
Un passo avanti in concreto con il vecchio continente che si prepara necessariamente per il 2000, fermamente deciso a salvaguardare la sua ripresa economica, assumendosi un ruolo di punta all’interno del sistema imperialista occidentale.
L’incertezza e l’indecisione di un anno fa, quando gli USA bombardarono Tripoli e Bengasi, hanno lasciato il passo alla necessità, anche per l’Italia, di prendere parte insieme a tutto il «mondo libero» occidentale alla gestione diretta del controllo politico-militare di un’area in cui si giocano interessi vitali per l’imperialismo.
Scavalcato l’ONU – organismo ormai inadeguato alle attuali mire aggressive imperialiste – non poteva che essere ridimensionata anche quella diplomatica politica estera italiana, troppo spesso accusata di essere filo-araba, mediterranea, «terzomondista».
Una politica finora essenziale per l’Italia, ben vista anche dagli USA, in quanto era stata usata per arrivare là dove la Casa Bianca non poteva spingersi senza compromettere con la sua ingerenza il delicato equilibrio tra il sostegno agli immediati interessi di Israele e la formazione di blocchi regionali filo-imperialisti che avevano il compito di scardinare la Lega Araba.
Una politica di mediazione che, per quanto ben disposta alla trattativa, non aveva mai vantato grandi successi nelle ipotesi negoziali di pace: sono più di 40 anni che il popolo palestinese chiede una patria ed ha avuto in cambio solo infami massacri!
E dove erano i nostri abili diplomatici quando – nell’82 – l’imperialismo sionista faceva 25000 morti in Libano? Oggi si dimostra quanto la «nostra volontà di pace» debba passare attraverso la pressione e il ricatto delle armi per arrivare a definire «nuove ipotesi negoziali» che collimino con gli interessi dell’Occidente imperialista!
E su quest’ultimo punto – è ormai fuori dubbio – tutti convergono, lasciando intravedere nel gran polverone sollevato fra falchi e colombe governative, soltanto interessi funzionali alla logica di partito.
E da Taranto e da Augusta la flotta è partita, il maggiore dispiegamento operativo di forze della Marina dalla II Guerra Mondiale.
Nel mentre si sancisce il principio di un coinvolgimento attivo dell’Italia in una situazione bellica, si prende sempre più il largo dai tradizionali confini della NATO, contribuendo a ridisegnare nel Mediterraneo una grande via di comunicazione fra la base di Norfolk, nell’Atlantico e quella di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano. E intanto si modifica l’attuale assetto del Mediterraneo facendo emergere la qualità di pilastro europeo della NATO nell’assumersi in pieno una politica strategica militare che è necessaria al sistema imperialista. Strategia che fu nettamente accelerata e potenziata – dagli USA – dopo la caduta dell’amico Scià e la vittoria della rivoluzione iraniana e che ha dovuto subire un altro veloce e brusco riadeguamento quando, con l’assalto alla caserma dei marines di Beirut, gli americani presero doppiamente coscienza di quanto forte e dilagante fosse la determinazione a combatterli.
Da allora in poi il «terrorismo» venne considerato vera e propria minaccia militare rivolta innanzitutto contro gli USA – depositari dei «valori» delle «democrazie» occidentali – e, come tale, da combattere innanzitutto con la forza della distruzione militare. Da qui, i primi attacchi ai cosiddetti «santuari del terrorismo» e l’indiretto e minaccioso avvertimento a chi non li perseguita in quanto tali. In pratica: dar fiato alla ripresa economica occidentale imponendo ovunque il modello di sviluppo capitalistico con una politica di pressioni e ricatti a quei paesi che non si sottomettono e nel contempo cercare di ridimensionare l’URSS in una regione chiave per gli interessi imperialistici.
O meglio, per dirla con le parole di Reagan: «recuperare l’Iran – ad ogni costo – al campo occidentale» con il dispiegamento militare di ben 90 unità navali! E con il rischio – concreto – di innescare un’escalation le cui dinamiche incontrollabili potrebbero essere risolte in termini di rapporti di forza a livello mondiale. Ma sono dinamiche, queste, che sembrano non interessare i nostri politici: celebrato in fretta e furia l’ultimo anniversario della morte di Filippo Montesi – mandato a morire in Libano – hanno subito arruolato nuovi giovani eroi con cui tenere alte le bandiere del nostro mondo occidentale.
Mille dollari al mese possono forse rimediare al 70% del malcontento fra i marinai, ma come spiegare – a livello pubblico – questo irrazionale scontro fra le grandi potenze tecnologiche marittime occidentali e i barchini urlanti di «fanatici infedeli»?
Interrogativo questo, a cui nessuno – volendo cercare nella direzione giusta – sembra trovare una ragionevole risposta: non certo la DC, che schiacciata fra due poli, sembra obbedire a una volontà superiore. Non certo il PSI che, dall’alto del suo neo-nazionalismo-laico, allude chiaramente ad una politica militare europea, del resto… è in perfetta linea con Sigonella: le navi italiane nel Golfo… sono lì per controllare le due super-potenze!
E in quanto al PCI, sembra un po’ confuso dall’incorreggibile enfasi ecclesiastica che gli ha rubato le piazze riempiendo le sagrestie. Cavour e la Crimea, nazionalismo garibaldino e insane nostalgie tripoline; anche l’interventista stampa borghese – goffamente intrappolata fra una mina Valsella e un elmetto Zanone – non sa più cosa tirar fuori ad agguerrita difesa di un sistema bianco, ricco, capitalista e violento!
Tutta la «nuova Italia» irrefrenabilmente invasata da una folle sindrome occidentale sputa un razzismo così astioso e uno sciovinismo così viscerale che sembra davvero aver paura di quella forza – la Rivoluzione iraniana – per niente affievolita in 7 anni di guerra e il cui rischio più immediato non sta nell’alta tecnologia militare bensì nel dilagante contagio che può sprigionare. Spinta propulsiva che potrebbe trascinare popoli interi, rischiosa – per gli occidentali – perché dall’interno di una lontana ideologia – non etichettabile né comprensibile secondo i canoni della nostra «civiltà» – fa esplodere quei caratteri rivoluzionari che immediatamente si trasformano in una rivolta contro l’Occidente e il suo sistema di aggressione e di dominio.
Rivolta verso la quale il segno di un benché minimo cedimento da parte occidentale può diventare una vittoria che può dar fuoco a tutta la regione, nella speranza di una possibile e totale liberazione dall’ipoteca imposta da un sistema incivile, basato sullo sfruttamento, sulla violenza e sull’espropriazione di ogni carattere di cultura e civiltà tradizionali.
Una lotta, che se dovesse risultare vincente, ribalterebbe i cardini di una ripresa dell’economia occidentale, facendo paurosamente barcollare quei rapporti di forza che l’imperialismo si è faticosamente consolidato in quest’ultimo decennio. Una vittoria che si rifletterebbe immediatamente sul proletariato – e sulle forze rivoluzionarie – dei paesi del centro europeo accelerando l’esplosione delle contraddizioni di classe e rivitalizzando la speranza di una possibile liberazione proletaria. Una vittoria che l’imperialismo occidentale non intende certo permettere e i cui tentativi indomiti devono essere prontamente ridimensionati tramite questo dispiegamento delle forze navali militari nel Golfo Persico e attraverso l’attivo e ormai dichiaratamente aggressivo ruolo delle potenze europee a fianco degli USA.
E i soluzionisti, nel loro individualismo opportunista, ci vorrebbero far credere che lo Stato italiano si è trasformato e, in un naturale adattamento evolutivo «riformista», ha risolto ogni contraddizione in maniera signorilmente illuminata! Sì, lo Stato italiano si è trasformato – in quest’ultimo decennio – ma in senso attivamente imperialista! Ma senz’altro non se ne possono opportunisticamente accorgere coloro che – in cambio della loro liberazione dalla patrie galere – si offrono alla Stato come nuova classe politica che sostituisca l’ormai screditata sinistra socialdemocratica.
È vero che la lotta armata ha visto la sua nascita e il suo sviluppo in condizioni molto diverse, ma oggi che – a differenza di due decenni fa – siamo saliti di grado nella gerarchia imperialista, il nostro compito è proprio quello di ricollocare la strategia della lotta armata all’interno delle condizioni oggettive e soggettive che in questo momento stanno maturando. Questo significa anche saper dare il giusto peso a quelle tensioni che, vivendo ancora nella loro potenzialità, travalicano i classici confini tra capitale e lavoro – così come venivano intesi negli anni ’70 – e si manifestano con larghi gruppi interclassisti, a grossa componente proletaria, le cui richieste mettono definitivamente in discussione le scelte che la borghesia imperialista deve mettere in atto per sostenere il suo assetto.
Tensioni che esprimono contenuti che si oppongono alla guerra imperialista, al riarmo, al nucleare, alla politica di riadeguamento sociale, per una nuova e diversa qualità della vita. Contro l’urbanizzazione selvaggia per la ricerca di nuovi spazi sociali, contro un confuso senso di alienazione capitalista per un’identificazione collettiva che sconfigga l’«individualismo di massa», contro le potenze militari nel Golfo Persico a fianco degli USA, per un più significativo e reale internazionalismo proletario. Sul proletariato e sulle avanguardie europee pesa l’impegno rispetto a quale esistenza si vogliono far portatori nei confronti dei restanti tre quarti del mondo: scelta che non può avvenire se non nella ricerca di una nuova identità rivoluzionaria organizzata.
Al di là di questo esiste solo la realtà già vissuta per oltre due secoli: essere il braccio aggressore verso altri proletari e carne da cannone nella difesa della «pace» della borghesia imperialista! Il movimento «per la pace» ha già verificato la sua impotenza ad incidere concretamente nelle scelte riarmiste: non solo la vendita di armi è uno dei più grossi affari su cui si regge la borghesia imperialista ma i progetti Eureka e SDI sono in piena fase operativa.
L’irrompere della guerriglia europea in questo quadro ha impresso una nuova svolta ad una situazione che sembrava destinata ad esaurirsi e ad un movimento che sembrava potesse essere condizionato alle esigenze dei partiti socialdemocratici: orientando correttamente l’asse strategico dell’intervento rivoluzionario non verso la «lotta per la pace» ma contro la guerra imperialista, contro l’aggressività del blocco occidentale e i suoi effettivi preparativi bellici! È da questi contenuti e dalla loro possibilità di aggregazione intorno ad una lotta che sia critica radicale alla società capitalista, che ci sembra possibile uno sviluppo ed una crescita di un’identità rivoluzionaria che sia in grado di forgiare il suo futuro.
Sono queste, ci sembra, le più grosse diversità con gli anni ’70, diversità che non possono essere appiattite solo perché non vivono ancora caratteri dirompenti, né liquidate in nome di una presunta e presuntuosa mancanza di ricezione della nostra «memoria storica» che dovremmo far acquisire noi, una volta fuori di galera…
La nostra memoria storica non è fossilizzabile nelle condizioni oggettive e soggettive degli anni ’70, ma passa attraverso la presa di coscienza di una rottura radicale con lo Stato: la guerriglia. Il nostro patrimonio storico, per essere acquisito, deve maturare all’interno di lotte diverse che diventano un’unica lotta grazie al loro fine comune. Lotte che possono e devono essere organizzate politicamente e ricollegate a quelle che si esprimono negli altri paesi del centro europeo.
La riproponibilità delle linee fondamentali della nostra esperienza passa attraverso la ricostruzione di un processo rivoluzionario che nel quadro di un reale internazionalismo proletario diventi pratica unificante e concreta e combatta in un fronte antimperialista contro il nemico comune del proletariato del centro e della periferia: l’imperialismo occidentale!
Diversamente, pensare di rinchiudere e di isolare la lotta di classe all’interno dei confini nazionali, significa non capire – tanto più in un clima di tendenza alla guerra – che un’identità nazionale nella metropoli è possibile solo in quanto sciovinista, bianca, razzista. È possibile solo in quanto identificazione con l’imperialismo! La caratteristica della guerriglia nella metropoli è stata proprio quella di connotarsi fin da subito come scontro diretto tra forze rivoluzionarie e Stato.
E non è possibile – oggi – affrontare la questione dello Stato senza affrontare – nella pratica! – i livelli di integrazione politica, economica e militare sovranazionali e le istituzioni in cui si sedimentano. Quegli organismi cioè in cui vengono decise e coordinate le politiche economiche antiproletarie, le strategie controrivoluzionarie e gli apparati politico-militari di guerra che hanno la loro massima sintesi nella NATO!
Tanto meno oggi, con l’arrogante ed aggressiva esibizione intimidatoria delle potenze navali europee a fianco degli USA nel Golfo Persico.
Ed è questa la dimostrazione tangibile di come qualsiasi conflitto di interessi – in materia monetaria, economica o in politica estera – venga direttamente superato, al livello militare più alto, quando sono in gioco interessi ben più grossi, vitali per la sopravvivenza e la riproduzione stessa del sistema imperialista. Condizione, questa, che pone sotto ben diversa luce la possibilità di staccare un anello dalla catena imperialista, per quanto «debole» esso sia e per quanto il massimo di condizioni oggettive si coniughi con il massimo di capacità soggettive dei combattenti comunisti che dirigono un forte scontro di classe.
Data la forte integrazione e interdipendenza politica, economica e militare, pare infatti inverosimile che possa essere tollerata qualsiasi tendenza centrifuga dal sistema di interessi e di divisione internazionale del lavoro dettato dall’imperialismo senza che essa venga contrastata o recuperata con ogni possibile pressione politica o con la forza militare. È chiaro quindi che – secondo noi – affrontare correttamente e concretamente i nodi di fondo di una strategia politico-militare che possa risultare vincente nel nostro paese, significa affrontare correttamente e concretamente la crescita e lo sviluppo di un fronte antimperialista. Fronte antimperialista inteso non come momento tattico o mera affermazione di solidarietà del tutto ideologica, ma come condizione strategica, unica prospettiva di vittoria contro il nemico comune: l’imperialismo occidentale.
Solo così le forze rivoluzionarie e il proletariato nelle metropoli – pur nella specificità di ciascun paese e nel rispetto delle caratteristiche peculiari di ciascun processo rivoluzionario – possono portare avanti la loro lotta.
Solo così si può arrivare ad un definitivo ribaltamento dei rapporti di forza a favore del proletariato per una radicale trasformazione della società.
L’Europa infatti in quanto centro imperialista, non solo concentra le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalistico che oppongono il proletariato alla borghesia, lo Stato alla società, ma è un punto nodale in cui si intersecano le linee di demarcazione Nord/Sud – Est/Ovest.
È da qui che deve venire la forza politica, economica e militare per risolvere i conflitti interni ed esercitare pressioni, ricatti e aggressioni contro quei paesi che non si sottomettono al modello di sviluppo capitalistico. Dipende quindi in modo decisivo dalle forze rivoluzionarie dell’ Europa Occidentale, da un’effettiva guerra di lunga durata nel nostro paese, se l’imperialismo non potrà trovare un entroterra pacificato da cui far partire i suoi progetti di guerra e di rapina, i suoi attacchi alle condizioni di esistenza, di lavoro, di vita, contro tutto il proletariato.
Con questo si deve misurare la ripresa della guerriglia nel nostro paese!
Con questo si deve misurare ogni comunista, ogni sincero rivoluzionario che intenda contribuire ad una radicale trasformazione della società.

Laura Braghetti, Fernanda Ferrari, Caterina Francioli, Inge Kitzler, Patrizia Sotgiu

Carcere di Voghera, settembre 1987

La linea di demarcazione. Carcere di Cuneo – Documento di Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

«…Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “andiamo nel pantano!”

e se si comincia a confonderli ribattono: “che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà di invitarvi a seguire una via migliore?”

Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto noi pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano, e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.

Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la grande parola di libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso». Lenin, Che fare?

 

La controrivoluzione lubrifica le sue armi

L’annunciata campagna d’autunno a favore della «soluzione politica» copre l’ambiziosa intenzione di assestare alla guerriglia il colpo decisivo.

Chi vuol dare «soluzione» al problema dei prigionieri politici si propone in realtà di arrivare alla soluzione finale del problema della guerriglia. Liquidare la guerriglia in Italia: questo è l’obiettivo che accomuna tutte le componenti coinvolte nell’operazione, e su cui convergono oggettivamente le linee più contraddittorie, la cui reciproca distanza va misurata solo in relazione al «far politica» necessario per conseguire l’identico scopo.

Ma appiattire ogni posizione non rende però un buon servizio alla battaglia politica contro la «soluzione»: alcune tesi sono più insidiose di altre, vanno attaccate proprio mentre si propongono di creare un movimento «di massa» che le copra, legittimandole.

Oggi c’é chi dal carcere appoggia la guerriglia e chi invece lavora per il suo disarmo ideologico e politico-militare: questo è l’unico valido criterio di giudizio che i rivoluzionari devono adottare in un momento difficile e complesso che vede i più variegati polveroni teorici incapaci di occultare la reale portata della posta in gioco, ma più che sufficienti – e lo si è verificato in questi mesi – a seminare veleni ideologici, dubbi, incertezze e una paralizzante confusione. In particolare la pausa di riflessione che vari compagni hanno ritenuto opportuno prendere prima di pronunciarsi con chiarezza, è stata cinicamente utilizzata per accreditare la falsità di un attendismo generalizzato, preludio all’appiattimento sulle tesi della «soluzione politica» di tutte le componenti «più serie» dei prigionieri comunisti.

Ora non è più tempo di attese né di ambiguità.

La linea di demarcazione tra noi e il nemico di classe va rideterminata in modo netto, senza equivoci o ulteriori ritardi. Le prime dichiarazioni pubbliche contro la trattativa infame con lo stato avviata ai margini del Moro-ter, hanno rotto il silenzio inchiodando alle loro responsabilità quanti pensavano di poter continuare ad agire tranquillamente contro la guerriglia, contro le Brigate Rosse, in assenza di una decisa opposizione tra i prigionieri. Ma non basta. Se è vero che più si dispiega trovando compiacenti interlocutori e più la «battaglia di libertà» aperta da Curcio e colleghi si denuncia da sola al movimento rivoluzionario mostrando la miseria, l’opportunismo e la vigliaccheria di un ceto politico che vende il suo fallimento personale come il fallimento dell’intera esperienza della lotta armata, è altrettanto vero che, come ogni campagna intrapresa dal nemico, la «soluzione politica» deve essere contrastata, inceppata, sabotata.

Prima di tutto va attaccato a fondo l’alibi della «irreversibilità» con il suo corollario di disgregazione e disfattismo sparsi a piene mani. Da troppe parti l’analisi concreta della situazione concreta è stata svilita a banale buon senso bottegaio e la verifica dei rapporti di forza in campo ridotta a giustificazionismo a posteriori di scelte già prese.

Indossati per l’occasione i panni di un accorto e puntuale uso della tattica, gli aderenti alla presunta ala sinistra del soluzionismo sostengono che la tendenza è irreversibile perché la trattativa andrebbe comunque in porto; tanto vale adeguarsi, seguire la corrente per deviarla al momento opportuno traendone almeno dei vantaggi utili per tutta la «sinistra di classe».

Noi di irreversibile possiamo constatare solo il progressivo slittamento di queste tesi nel campo delle posizioni che stanno oggettivamente portando al disarmo della guerriglia.

Ma, in generale, sono evidenti i guasti provocati da una concezione che vuol dipingere quanto sta accadendo fra i prigionieri come una sorta di destino ineluttabile, che coinvolgendo tutti non evidenzi le responsabilità di nessuno, permettendo a chiunque – col solo fatto di starsene zitto – di aggregarsi al carrozzone soluzionista senza compromettersi con l’una o l’altra cordata. Questa è stata la carta giocata con abilità veramente dorotea dal gruppo iniziale dei soluzionisti, cervello politico dell’intera operazione.

Il tandem Curcio-Moretti, grazie alla perfetta conoscenza della situazione di relativa debolezza dei prigionieri comunisti all’indomani di una serrata battaglia politica culminata in una nuova scissione delle Brigate Rosse, ha potuto venire allo scoperto proprio contando sul «né aderire né sabotare» che la maggioranza dei compagni sembrava nelle condizioni di esprimere come massimo livello di coscienza.

Come è ormai noto l’asse portante della «soluzione politica», cioè il concreto terreno di incontro con le forze borghesi interessate o direttamente coinvolte nella trattativa, può essere riassunto con la formula: far pesare il carcere sull’esterno, il passato della lotta armata contro il suo presente e il suo futuro. Si vuol buttare sul piatto della bilancia dell’impegnativa fase che la guerriglia sta attraversando tutto il carico della presunta autorevolezza dei «capi storici». Costoro, dall’alto del piedistallo di personaggi «giustamente famosi» (costruito dalla propaganda borghese e purtroppo in parte assunto da errate concezioni presenti nel movimento rivoluzionario) sanciscono che un ciclo storico di lotte politico-sociali, a cui apparterrebbe per intero l’esperienza delle BR, ha ormai esaurito il suo corso, pretendendo così di togliere ogni legittimità ai comunisti che continuano a impugnare le armi. Appropriatisi indebitamente delle chiavi del patrimonio d’organizzazione (quella continuità che è stata anche la forza delle successive rotture operate dalla guerriglia) le vogliono mettere all’asta aggiudicandole alla controrivoluzione e, subito, a quell’arco di forze trasversale all’intero sistema dei partiti in grado di garantire la loro liberazione. Forse più smaliziati di certi loro interlocutori, che in periodo elettorale hanno creduto pagante confondere queste chiavi politiche con chiavi metalliche di un archivio segreto, i soluzionisti sono consapevoli dei limiti di una autorevolezza non politicamente sostanziata. Da anni esclusi dal dibattito rivoluzionario, estranei ad ogni componente od area organizzata, forti solo di un carisma prefabbricato, Curcio e Moretti dovevano coinvolgere da un lato militanti ancora legati a vincoli organizzativi e comunque rappresentativi di linee esistenti, dall’altro ostentare di parlare a nome di tutti i prigionieri.

Infatti, per quanto famoso possa essere, un piccolo gruppo di arresi resta sempre tale e nessuna presa di distanza morale dall’abiura può evitargli di essere identificato come l’ultimo acquisto della dissociazione, specie in presenza di spezzoni dell’apparato statale che con scarsa preveggenza si accontenterebbero di incanalarlo in questo vicolo cieco.

L’avvio della manovra ha avuto l’esito che conosciamo.

Il logorroico florilegio di lettere apparse sul manifesto, suggella l’avvenuta crescita di peso contrattuale nei confronti dello stato della cordata Curcio-Moretti. La prima tappa è superata; Moretti dimostra di non aver millantato credito sostenendo in una intervista all’Espresso (un po’ in anticipo, ma i tempi appaiono accuratamente concertati) di avere in tasca l’adesione di chi solo poco prima era fra quanti rivendicavano l’azione politico-militare attuata dalle Brigate Rosse tutt’altro che… esaurita! Ma c’è dell’altro: l’aver finalmente arruolato alcuni militanti già organizzati nelle BR/PCC permette ai soluzionisti di far intravvedere allo stato, dopo tanto fumo, l’arrosto che stanno cucinando. Ora infatti la speranza di riuscire a condizionare dal carcere la guerriglia non è solo affidata al ricatto ideologico che toglie ai combattenti il retroterra della legittimazione attraverso la cesura della continuità ( i «capi storici» che disconoscono i «nuovi terroristi»). Il ricatto sull’esterno diventa direttamente politico, una aperta pressione operata da chi si suppone possa avere più concreta voce in capitolo.

Eppure è proprio all’apice del successo pubblicitario che l’area della «soluzione», giunta alla maggiore espansione numerica, mostra tutta la sua debolezza politica.

Nascono le prime divisioni interne, la corsa dei vari soggetti a differenziarsi per mantenere con la «reciproca autonomia» la possibilità di giocare su più tavoli. Il manifesto pubblica un intervento di alcuni prigionieri che vogliono estromettere Curcio dalla gestione della storia e auspicano che «la sinistra nella sua accezione più ampia» si faccia carico della vertenza, superando quella «miopia» che in passato la portò invece a favorire la dissociazione. Si tratta di una posizione che, come abbiamo accennato e come analizzeremo meglio, non cambia per niente il giudizio dal punto di vista rivoluzionario sui contorsionismi ideologici di questi neotogliattiani in relazione al disarmo politico della guerriglia. Del resto è proprio la Rossanda a riconoscere che la patina di sinistra di certe tesi, pur essendo ancora un tantino ostica da digerire, copre solo in superficie l’implicito allineamento sulla parola d’ordine «la guerra è finita, tutti a casa». Ma il fiato corto dei soluzionisti alla vigilia della loro campagna d’autunno non nasce certo da queste contraddizioni, relative ad un campo contro cui vogliamo accelerare la costruzione di una polarizzazione rivoluzionaria fra i prigionieri comunisti che intendono appoggiare fino in fondo la guerriglia, le Brigate Rosse.

Caduta la fragile impalcatura della rappresentatività di Curcio e Moretti, portavoce solo di se stessi e dei liquidazionisti, denunciati pubblicamente i termini tecnici delle offerte democristiane ai conciliaboli di Rebibbia, tutt’altro che scontata la disponibilità di spezzoni di movimento alla possibilità di gestirla da sinistra, la «soluzione politica» oggi è in difficoltà, ma non è stata battuta nei presupposti, nelle implicazioni immediate e nei guasti che può ancora produrre in prospettiva.

Con il nostro intervento ci proponiamo di fornire nuovi spunti di riflessione alla battaglia politica da ingaggiare con il massimo impegno contro questo ennesimo attacco della borghesia e dei suoi ventriloqui alla guerriglia. La necessità di prendere posizione in tempi brevi e la convinzione che il dibattito aperto troverà in futuro spazi e strumenti per crescere costruttivamente, ci impongono di concentrare l’attenzione solo su alcuni aspetti. Sarebbe sbagliato, oggi, pretendere di esaurire un discorso tutto da sviluppare.

 

«Soluzione politica» e democrazia compiuta

Una prima domanda. Ma è possibile? È possibile che una sera il telegiornale diffonda la dichiarazione del Ministro di Grazia e Giustizia annunciante la scarcerazione dei «capi storici» delle Brigate Rosse?

Il modo corretto di impostare la questione non è se ma perché potrebbe essere possibile. La risposta sta tutta nella natura dello stato imperialista di questo scorcio di anni ’80, vista in relazione alle nuove caratteristiche del conflitto sociale dentro il quadro dei rapporti di forza generali scaturiti dalla sostanziale vittoria della ristrutturazione.

Rispondere significa delineare uno scenario i cui elementi principali sono già tutti presenti nella situazione politica e sociale odierna, sottesi da dinamiche economiche ormai affermatesi in tendenze di lungo periodo, confermate e non smentite dalle oscillazioni cicliche che semmai ne accentuano visibilmente la costante peculiarità. Che la forma stato attuale, ibrido prodotto dell’intreccio fra obsolescenza istituzionale della repubblica post fascista e crisi divenuta cronica del sistema di potere democristiano, si stia avviando a rappresentare una camicia di forza per gli obiettivi strategici della borghesia imperialista italiana, è un fatto troppo noto perché valga la pena di suffragarlo con qualche autorevole citazione confindustriale.

Sul punto di concludersi un breve ciclo relativamente favorevole – e già divenuto aureo nella apologetica craxiana d’uso corrente – i tradizionali vincoli strutturali dell’economia si stanno riproponendo ad un grado tanto più elevato quanto si è accresciuto il ruolo del paese nel complesso del sistema imperialista. Questi vincoli sono tutti riconducibili alla sfera statale di regolazione del rapporto fra l’incremento dei livelli di integrazione competitiva nei confronti delle altre economie imperialiste e la gestione delle condizioni sociali e politiche che lo rendono ottimale. E’ un ruolo sempre più contraddittorio dal momento che le politiche economiche neoliberiste, che nel resto d’Europa hanno drasticamente ridisegnato il rapporto stato/società, trovano in Italia un preciso limite di applicazione nell’adattamento alle particolari caratteristiche del patto sociale (uniche, nell’intero occidente, per storia, funzione e articolazione) che ha consentito da più di 40 anni la riproduzione della sostanziale stabilità del sistema anche nei momenti congiunturalmente più difficili per la borghesia. Il patto sociale che ha favorito l’integrazione contraddittoria del proletariato nelle istituzioni attraverso la mediazione della sinistra storica, è continuamente ridiscusso dai rapporti di forza originati dalle successive fasi della lotta di classe, ma non può essere denunciato, nella sua sostanza, da una borghesia seppur fortissima, nemmeno in presenza del minimo di espressione dell’autonomia della classe e della massima contrazione del suo peso generale nella sfera politica.

Esemplare di questa realtà è l’attuale relazione stato/padroni/sindacato da un lato e PCI/partiti borghesi dall’altro.

Nelle recenti e maggiori vertenze industriali, originate dalla versione italiana della privatizzazione di importanti comparti produttivi già pubblici o a partecipazione statale, i padroni – per voce di Romiti – hanno detto chiaramente che le stesse ragioni che li condussero a strappare al sindacato l’enorme potere accumulato negli anni ’70, oggi impongono di tenere artificialmente in vita la sua funzione di mediazione/controllo, pur essendo la realtà del rapporto capitale/proletariato tale da consentire direttamente l’applicazione della legge capitalistica classica della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro.

Il superamento – nei fatti – dell’ipotesi di patto neocorporativo come regolatore istituzionalizzato di uno degli aspetti del patto sociale, dimostra solo che il contrappeso contrattuale della sinistra storica nei confronti dei suoi partners borghesi si è ulteriormente affievolito. Il che non smentisce certo che il problema della riqualificazione del ruolo di governo e contenimento dell’antagonismo proletario di PCI e sindacato debba comunque essere ridefinito – anche formalmente – nella prospettiva del suo più organico inserimento nelle future politiche statali di pacificazione imperialista del fronte interno.

Allo stesso modo la riduzione del welfare è la strada obbligata per contenere il debito pubblico crescente, eterna fonte di spinte inflazionistiche che obbligano a ricorrenti aggiustamenti recessivi in ovvio contrasto con le esigenze espansive di una borghesia imperialista tutta proiettata nell’acquisizione di nuovi spazi di mercato, ma trova un confine nella capacità della sinistra di ammortizzare socialmente gli inevitabili squilibri che da tale riduzione derivano, in presenza di un tasso di disoccupazione strutturalmente ineliminabile.

Napolitano che si mostra sdegnato più perché il PCI non è stato cooptato preventivamente nell’iter decisionale della scelta interventista, che per lo stesso invio della marina militare nel Golfo Persico, è una bella fotografia dello stesso problema visto in un’altra dimensione politica.

L’installazione dei missili americani non avvenne forse grazie al sostanziale avallo del PCI? E la mistificazione del carattere di «missione di pace» a proposito del contingente italiano a Beirut non fu costruita forse con l’apporto decisivo dei revisionisti? L’accettazione dell’«ombrello protettivo» della NATO, la svolta dell’EUR, il coinvolgimento anche militare nell’attacco alla guerriglia e nella repressione dei movimenti antagonisti, la pianificazione della cercata (e ottenuta) sconfitta operaia al referendum sulla scala mobile, sono tutti esempi dell’articolazione sul versante del lealismo istituzionale, di quel patto sociale varato con l’inserimento di Togliatti fra i padri costituenti della repubblica.

Altro che blocco progressista messo alle strette dalla svolta reazionaria! L’opera gentilmente prestata dai revisionisti allo stato imperialista deve trovare un riflesso gratificante anche sul piano politico formale, pena l’incepparsi di un meccanismo prezioso e indispensabile in un futuro che è già agitato da venti di guerra.

Il necessario aggiornamento del patto sociale negli anni’90 dovrà portare il PCI a poter votare «i crediti di guerra» per la repubblica democratica, come fecero i socialisti tedeschi nel ’14 per il Kaiser, senza perdere gli attuali legami di massa.

Le modalità politiche di questo processo si intrecciano così con lo scioglimento di un altro nodo fondamentale, tutto interno questa volta alla crisi di rappresentatività partitica delle esigenze dirette della borghesia imperialista e di cui il contrasto cronico tra le forze di maggioranza indica solo il sintomo più superficiale.

La ristrutturazione del welfare, la sua contrazione e riadeguamento, sono una garanzia strategica imprescindibile per il sostegno dello stato alla espansione concorrenziale di un’economia necessariamente sbilanciata sull’esportazione. Ma l’aggiornamento del welfare è un passo irrinunciabile per i piani della borghesia che si scontra da tempo con la crisi del sistema di potere democristiano, incapace di autoriformarsi in quanto tradizionalmente basato sul controllo delle leve di formazione della spesa pubblica oltre che sui meccanismi finanziari di erogazione del credito, fonti insostituibili di riproduzione della sua piattaforma di consenso interclassista e – insieme – ammortizzatori sociali di collaudata efficacia. La lotta per l’efficienza dell’azienda Italia contro le distorsioni del parassitismo clientelare è da anni un luogo comune – e terreno di incontro con la sinistra – la facciata propagandistica di una critica di fondo che coinvolge tutti i partiti, evidenziando la contraddizione fra i costi di mantenimento della lottizzazione partitocratica, ovvero la «costituzione reale» odierna, e i vantaggi della modernizzazione del sistema politico in funzione di una rifondazione dello stato nel senso voluto dal grande capitale. La fatiscenza istituzionale dello schema democratico post fascista (ruolo dell’esecutivo subordinato alla tripartizione dei poteri, sistema bicamerale, sistema elettorale proporzionale, rapporto centralismo/autonomie locali ecc.) è accelerata dal divaricarsi di questa contraddizione. Il riadeguamento dei partiti, sul doppio binario della ristrutturazione interna efficientista, moralizzatrice e modernizzante e dell’acquisizione pubblica dei temi della riforma istituzionale, marcia così sui tempi della ricerca concorrenziale del riconoscimento di interprete generale più affidabile della borghesia imperialista.

La seconda repubblica, dunque, è matura. La sua costruzione dipende dalla velocità di questa dinamica. La seconda repubblica coronerà il processo di formalizzazione sul terreno politico-giuridico-istituzionale di una realtà già data nelle sue linee economiche e sociali essenziali, risultato – come abbiamo ripetuto più volte – della sconfitta subita dalla classe con il dispiegarsi della controffensiva statale e padronale dell’inizio anni ’80. E quale migliore inizio per ratificare solennemente l’avvio di un nuovo corso dell’Italia imperialista finalmente messasi alla pari ad ogni livello del ruolo che già le compete, che la definitiva chiusura della sgradevole parentesi dei «terribili» anni ’70?!?

Ecco che la nostra domanda d’apertura ha così trovato risposta.

La legittimazione storica della seconda repubblica si costruirà dimostrando di aver ricomposto le contraddizioni e archiviato i problemi ereditati dalla prima. Non sarà uno stato socialdemocratico né, tantomeno, fascista. Sarà la democrazia compiuta in un paese del centro imperialista nell’epoca dei concreti preparativi per la guerra. Per questo è possibile leggere in filigrana nella «soluzione» tutte le categorie politiche, ideologiche e culturali fondanti il nuovo ordine che la borghesia ci sta allestendo. La «soluzione politica» allora non è solo il proseguimento del progetto di disgregazione per linee interne della guerriglia iniziato con l’uso degli infami e proseguito con quello dei dissociati. È un’operazione di ampio respiro, su cui si misura anche la capacità delle forze politiche candidate a governare i passaggi della ristrutturazione istituzionale e che dalla liquidazione della guerriglia si propongono di trarre il miglior attestato di affidabilità che si possa esibire agli occhi del grande capitale. È anche, fin da ora, terreno di scontro/incontro tra queste forze, non affare privato dei democristiani. La gestione iniziale della DC, incerta, contraddittoria e presto trasformata nella solita serie di ricatti incrociati e di facili speculazioni pre-elettorali, dimostra piuttosto la lunga strada che il partito di Piccoli e Cavedon deve ancora compiere per rivelarsi all’altezza della situazione. È un progetto controrivoluzionario che richiede la partecipazione diretta e indiretta di tutti i protagonisti che stipuleranno il nuovo patto costituzionale, PCI compreso. Il ministro, che potrà dare in televisione l’annuncio della sua conclusione, non potrà certo essere un ministro qualsiasi di un governo qualsiasi.

 

«L’alternativa di sinistra» e la sua sterzata a destra

Si può forse pensare di dare un autentico carattere di sinistra alla «soluzione politica»?

Tutto nasce da un equivoco: il ritenere che l’attaccamento ai valori, principi ed all’ideologia m-l, basti di per sé a definire il campo dei comunisti rivoluzionari. Il fatto è che l’elemento politico-ideologico se non si lega e realizza in una teoria-prassi che concretamente opera quale inimicizia e rottura radicale degli assetti borghesi, scade in una mera coscienza politica, imbelle e non necessariamente rivoluzionaria. La strategia della lotta armata, l’unità del politico e del militare (fin da subito e non in chissà quale futuro), è il modo di essere comunisti rivoluzionari in un paese imperialista. Fuori da una tale concezione possono anche esserci «bravi compagni», ma che muovendosi su un terreno tutto politico, vengono per così dire assorbiti nell’ambito di una conflittualità convenzionata che, in quanto tale, non determina alcuna rottura rivoluzionaria.

Se i contenuti e le proposte del gruppo Curcio sono solamente evidenti nel porsi fuori e contro il movimento rivoluzionario, in maniera diversa si pongono invece quelle tesi che possono inquadrarsi in un tentativo di «gestione da sinistra» della questione dei prigionieri politici. Ci riferiamo alla lettera apparsa sul manifesto a firma di un gruppo di prigionieri che dichiarano di riconoscersi «in quella parte delle BR che si denomina UCC» (come se le BR fossero divise in correnti).

Lo scritto – che la Rossanda inserisce a pieno titolo nella rassegna di posizioni interessate ai problemi sollevati da Curcio – sembra mosso da una preoccupazione: riportare la questione della prigionia politica nell’ambito di una battaglia che riguardi tutta la sinistra. Una battaglia che «può costituire un momento importante di quel generale rilancio della sinistra…». I «nostri» vogliono così differenziarsi dal discorso di Curcio, ritenuto pericoloso in quanto tutto interno ad una logica che favorirebbe «l’offensiva conservatrice delle forze eternamente al governo».

Ma cosa implica l’apparentemente lodevole tentativo di riproporre la problematica della prigionia comunista il Italia? In una fase in cui è evidente l’assenza di un forte movimento di classe capace (come negli anni ’70) di considerare la liberazione dei prigionieri comunisti una parte integrante della più vasta lotta contro lo stato, non si comprende proprio quale possa essere questa sinistra interessata a vedere i rivoluzionari imprigionati come un patrimonio da liberare, e attraverso cui riscattarsi dalla bassa marea di questi anni. Certo è che nella sinistra, anche quella cosiddetta di classe, molti sono stati i settori e le forze interessate a dare soluzione al problema dei prigionieri politici: dal PCI, al manifesto, passando per DP ed alcune aree del sindacato, si è assistito a svariati interventi che con fare più o meno possibilista guardavano con attenzione ad una proposta di amnistia. Ma questi non erano certi atti di disinteressata generosità, né tantomeno frutto di un atteggiamento per così dire unitario che li portavano a difendere una serie di forze anche rivoluzionarie, per far fronte comune contro la «svolta reazionaria».

L’attenzione nei nostri confronti è invece dettata dalla storica logica riformista di ritagliarsi maggior spazio e potere contrattuale all’interno della società e dello stato borghese, cercando di essere «i patroni» ora dei movimenti di massa, ora delle lotte, ora delle varie emergenze, fino all’attuale nodo dei prigionieri politici. Così come nei confronti delle avanguardie di lotta operaie e proletarie l’appoggio viene fornito finché esse non acquistano una reale autonomia e non mettono in discussione la pace sociale, allo stesso modo l’eventuale «interessamento» per le avanguardie combattenti imprigionate presuppone il loro concreto abbandono della lotta armata.

Rivolgersi alla sinistra, storicamente interna al sistema borghese e che da svariati decenni non rappresenta più gli interessi storici e generali del proletariato reprimendone (anche militarmente) le spinte antagoniste, era un suicida gioco al ribasso già, se operato tatticamente, 20 anni fa. Oggi ha il significato di totale subalternità alle regole dettate dalla democrazia borghese. E allora: contrapporre una gestione di sinistra a quella che Curcio e la DC vogliono imprimere alla «soluzione» e chiamare tutta la sinistra a raccolta su questa base, non significa forse rappresentare di fatto l’altra faccia della medaglia? La stessa medaglia!

Sia chiaro che la liberazione dei comunisti non può essere delegata a nessuna forza operante nel rispetto della legalità borghese o che si muove entro una sorta di conflittualità democratica.

Solo un movimento rivoluzionario che combatte e lotta radicalmente contro l’ordine della borghesia può far propria la liberazione di quei prigionieri comunisti che rappresentano una parte inscindibile del suo patrimonio. Sia infine chiaro che la ventilata amnistia, che a non pochi ha fatto perdere la testa, oggi non può che passare per l’abbandono della lotta armata, cioè per un attestato di fedeltà alle leggi «democratiche». Che lo si faccia alzando il pugno o abbassando la cresta è per la borghesia questione assai relativa.

Tutte le argomentazioni di questa posizione nascono da un quadro di fondo che fa proprie tesi estranee a quei punti forti (e fermi) che la teoria rivoluzionaria ha espresso in oltre 15 anni di esperienza.

Una delle questioni su cui la lettera al manifesto si dilunga è l’affermazione che ci si trova di fronte a una «offensiva conservatrice» diretta dalle forze borghesi storicamente antiproletarie (DC in testa). La contrapposizione a questa offensiva dovrebbe rappresentare l’occasione per un rilancio della sinistra. È questa una visione della società borghese che pensavamo superata da svariati decenni, cioè da molto prima della morte di uno dei suoi più insigni ispiratori: Togliatti. È la visione di un sistema borghese al cui interno vi è un blocco conservatore e reazionario espresso dalla DC e un altro progressista e di sinistra in conflitto con il primo. Che all’interno dello stato esistano diversi schieramenti in relativa contraddizione è cosa fin troppo nota. Sono contraddizioni spesso profondamente laceranti, ma mai antagoniste, essendo riflesso di forze altrettanto responsabili e compartecipi della riproduzione del sistema capitalistico. Riformismo e conservatorismo son l’uno la ruota di scorta dell’altro, combaciano nell’articolare un sistema statale in grado di dosare sapientemente controllo, repressione e assorbimento delle contraddizioni di classe, di integrarsi all’imperialismo occidentale mantenendo una pur relativa autonomia, di favorire e incentivare i processi di ristrutturazione generale promuovendo lo sviluppo imperialista con la sua penetrazione e sfruttamento delle aree della periferia.

Riformismo e conservatorismo (o progresso e reazione? O democrazia conseguente e clerico-fascismo?… tanto per utilizzare categorie proprie dell’area teorica di riferimento dei «nostri») si scontreranno/incontreranno anche per giungere a quella ridefinizione istituzionale ormai necessaria per garantire ad un grado più elevato, negli anni ’90, tutto quanto abbiamo prima accennato. Su questa univocità di intenti si regge quel patto sociale che dal dopoguerra si è creato in Italia tra le forze della sinistra storica e la borghesia e che sta alla base della solidità della democrazia borghese. Non ci scordiamo, per non andare troppo lontani e sforzandoci di adottare la stessa visione del gruppo Gallinari & C., che la cosiddetta «svolta reazionaria» non poteva dispiegarsi senza la complicità di PCI e sindacato, che la resero possibile attuando quell’altra svolta (quella dell’EUR) responsabile di aver fatto pagare alla classe tutti i costi di una feroce ristrutturazione. In realtà, visto che il loro appello alla sinistra, intesa esplicitamente in «senso ampio» (includendo anche il PCI), vorrebbe porsi come elemento catalizzatore di un ipotetico fronte ampio del… progresso contro la canea reazionaria, l’unica cosa chiara della loro proposta diviene quindi che la guerriglia va sacrificata (oppure congelata, il che non cambia molto) sull’altare dell’unità con le sinistre, o al limite concepita quale arma da utilizzare per ultima ratio contro la reazione per la difesa della «democrazia»! Ma anche al di fuori dei partiti storici della sinistra con chi altri vorrebbero dialogare? Approfondire il rapporto con la Rossanda e DP? oppure privilegiare la variopinta (di muffa e incrostazioni opportuniste) area del vecchio gruppismo emmellista? Ovvero rivalutare, dopo averlo combattuto per anni, un arco di forze caratterizzato da una pratica imbelle e codista diretto da un ceto politico che è potuto sopravvivere nella democrazia borghese anche grazie al viscerale attacco alla lotta armata in generale e alle BR in particolare e spesso approdato ad un attivo fiancheggiamento della dissociazione? La strategia della lotta armata fin da subito si pose come elemento di rottura con questa sinistra. Che senso ha oggi volerle ridare peso, attenzione e legittimità? O si è vittime di una incurabile miopia ultratatticista che impone di ritrovare terreni di incontro con i Brandirali di oggi e le Rossanda di sempre, o al contrario si spera di essere ritrovati da costoro per esserne legittimati! Del resto il discorso dei «nostri» può portare ancora più lontano (dalla strada della rivoluzione, è chiaro!). Dal concetto di svolta reazionaria a quello di rifondazione e unità della sinistra a quello del più ampio fronte contro la conservazione si arriva, seguendo un filo a piombo, al concetto di movimenti popolari e di blocco storico. Qui il referente diretto non sono più i settori rivoluzionari del proletariato, i soggetti politici e le aree sociali da inseguire si ampliano, diventando appunto un blocco storico. Ma i blocchi storici sono sempre stati un raggruppamento eterogeneo-interclassista composto da figure sociali notoriamente antagoniste agli interessi politici del proletariato, che in alcune congiunture ne possono favorire lo sviluppo sociopolitico per usarlo quale massa di manovra. La contraddizione principale è così spostata dallo scontro proletariato/borghesia al contrasto tra blocco progressista e blocco conservatore. Di questo passo, a quando la proposta del «patto fra produttori»? o dell’alleanza «capitale-lavoro contro la rendita»? o dell’appoggio alla piccola e media industria nazionale contro lo strapotere delle multinazionali? Ma Gallinari & C. se ne sono accorti? La loro lettera contiene in nuce tutti gli elementi di progressiva degenerazione revisionista che lo stesso PCI ha maturato in decenni!! Eppure, sostengono di non voler abbandonare il patrimonio delle BR e riaffermano sdegnati la distanza dall’abiura e dalla dissociazione, volendo rivolgersi a settori capaci di organizzare la mobilitazione di un movimento di massa sulle loro tesi. Dal punto di vista teorico una tale posizione non fa che arretrare di più di 20 anni il dibattito nel movimento rivoluzionario, riproponendo grottescamente l’anacronistico ciarpame togliattiano, ancor più banalizzato da improrogabili (per loro!) urgenze tattiche. Dal punto di vista politico l’esistenza stessa della guerriglia si pone come un ostacolo insormontabile per i loro obiettivi. È ovvio allora che queste tesi tendano oggettivamente a inserirsi fra quelle che ne auspicano la conclusione. La realtà si incaricherà di deluderle!

 

La perestrojka dei pragmatisti

Nel composito e variegato campo della «soluzione politica» e del disarmo della guerriglia un discorso a parte merita quel gruppo di prigionieri che con puntualità camaleontica è passato (nel volgere di breve tempo) dall’appoggio e sostegno alle iniziative della guerriglia, all’apologia di Curcio e del peggiore disfattismo. Su questo gruppo di elefanti in via di addomesticamento va fatta una breve premessa onde evitare facili e disoneste strumentalizzazioni. Qualcuno infatti potrebbe essere indotto a legare l’indecoroso tonfo del gruppo in questione con l’impianto teorico-politico delle BR/PCC, mostrandone così la fragilità stessa, e la sua inadeguatezza. Diciamo subito che una tale operazione oltre ad avere il fiato corto, altro non farebbe se non portare ulteriore acqua al putrido mare del liquidazionismo.

Fatta questa premessa, va chiarito, che il corpo di tesi con cui oggi questi signori tentano di giustificare l’adesione alla «soluzione politica», è del tutto estraneo al patrimonio teorico e politico delle BR stesse. Le tesi in questione sono in realtà il frutto di un percorso teorico distorto che nel suo divenire si è progressivamente ma significativamente estraniato dalle direttrici strategiche della guerriglia.

È il caso ad esempio di teorizzazioni sostanzialmente vicine ad una versione aggiornata della «quinta colonna». Che in due parole si può sintetizzare nel seguente assunto: in una fase di assenza dei movimenti antagonisti, di debolezza delle forze rivoluzionarie, di tenuta e ripresa dell’imperialismo, la possibilità di dare impulso e sviluppo ad un processo rivoluzionario è legata all’andamento immediato delle contraddizioni internazionali in particolare tra il campo socialista e quello imperialista. Si tratta allora di legarsi a queste dinamiche favorendo il campo socialista la cui avanzata si riflette automaticamente (in termini di ricaduta positiva) in ogni processo rivoluzionario nazionale. Alla fin fine nel quadro di questa analisi la contraddizione tra est ed ovest viene assunta ad immediatamente determinante nello spostamento dei rapporti di forza generali tra proletariato internazionale e borghesia imperialista, tra rivoluzione e controrivoluzione. L’inadeguatezza e i rischi di degenerazione di tale impostazione sono notevoli. Così infatti si va a ricondurre il proprio avanzamento all’andamento per così dire ciclico dello scontro tra est e ovest, a questo (di fatto) vengono subordinate le sorti di una forza rivoluzionaria in questa fase. E così oggi, che il new-deal gorbacioviano ha dato impulso ad una nuova fase di «distensione» (per altro congiunturale) e di «apertura» verso l’ovest, allineando (più o meno ordinatamente) ad una tale politica alcune forze o stati del campo antimperialista (vedi OLP sull’opzione della conferenza internazionale, oppure la Siria), in questo quadro, e con una ritenuta debolezza della guerriglia e dei movimenti di classe, il passo ad «allinearsi» diventa molto breve… come infatti è stato per il gruppo inizialmente citato.

Sullo sfondo di certe tesi (quelle sopradette) vi è un approccio metodologico che, per le sue conseguenze nefaste, crediamo non sia affatto irrilevante sottoporre a critica. Nel particolare ci si riferisce ad un metodo materialistico-dialettico che nella pur giusta e necessaria battaglia contro il dogmatismo e lo schematismo libresco presenti nel movimento rivoluzionario, è alla fine sconfinato nella estremizzazione opposta, assolutizzando (de facto) l’analisi concreta della situazione concreta, piegando così alla mera realtà immediata (o congiunturale) il campo dell’analisi, del necessario e del possibile… insomma siamo al pragmatismo!!

L’analisi delle tendenze generali e obbligate dell’imperialismo, delle contraddizioni storiche tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, della lunga durata di una strategia di guerriglia, venivano per così dire relativizzate in virtù del primato della realtà concreta e di una viscerale avversione a quel determinismo che invece rappresenta l’essenza stessa del marxismo.

Tutto questo non può che portare ad una accentuazione/sopravvalutazione delle dinamiche immediate che ritenute centrali, vengono così rese autonome e slegate (recise) dalle tendenze storiche generali. Ad esempio la relativa ripresa dell’economia capitalistica mondiale (tanto enfatizzata dalla borghesia ma ormai al tramonto), e la timida apertura dei mercati dell’est viene quasi scambiata per un nuovo ciclo espansivo dell’imperialismo. Quando invece i suoi effetti non possono che essere temporali ed effimeri, se inquadrati non solo nell’epocale senilità dell’imperialismo, ma e soprattutto nella crisi generale storica apertasi attorno agli anni ’70.

Oppure, per fare un altro esempio chiarificatore, il discorso di un’avvenuta distensione e pacificazione a livello internazionale e interno. Anche questa congiuntura distensiva (pur relativa e assai precaria) se così si può chiamare, non può essere disgiunta dalle tendenze generali della fase storica apertasi da oltre un decennio; una fase attraversata da tali e laceranti contraddizioni, che i conflitti, le guerre, le rivoluzioni diventano passaggi obbligati. Si confonde, per usare una metafora militare, la pausa tra un combattimento e l’altro con la presunta fine delle ostilità.

Per concludere si può senz’altro affermare che l’arco di tesi qui sinteticamente affrontato, si distacca fortemente da quella che è la teoria-prassi della strategia della lotta armata in un paese del centro imperialista. Detto questo, il gruppo di donne e uomini fino a ieri interni alla guerriglia, al di là di una patina rivoluzionaria che cerca di mantenersi, in realtà sostiene anch’esso la sporca operazione di disarmo e isolamento politico e ideologico della guerriglia e del movimento rivoluzionario. Sia chiaro che d’ora in poi ce li troveremo contro nel mentre, con il buon senso dei giusti, e il realismo dei vecchi saggi difenderanno il trattato di resa, la pacificazione sociale… contro i «vuoti irriducibilismi».

Che se ne tornino pure a casa, i loro nomi e la loro fine non potrà che accantonarsi nell’ammuffito ripostiglio dei vecchi quadri!… dove l’unica attenzione che riceveranno sarà quella della… rodente critica dei topi.

 

Dal crollo delle ragioni alle ragioni del crollo

Sullo sfondo di quanto abbiamo sostenuto fino ad ora resta il problema delle motivazioni profonde che stanno alla base del desolante panorama offerto dal crollo di tanti ex rivoluzionari. Un crollo che va assumendo le proporzioni del tramonto definitivo di una certa generazione di militanti e che non può essere liquidato – come pure si sarebbe tentati di fare, specie di fronte a certi comportamenti – con il facile ricorso a categorie che esulano dall’analisi politica, rientrando in altre discipline scientifiche.

È necessario fare qualche passo indietro: nella riflessione su questi anni di lotta armata dobbiamo sottolineare ancora una volta l’elemento di rottura davvero epocale che la guerriglia ha rappresentato nel processo rivoluzionario, entrando nel merito di ciò che ha permesso questa rottura e di quanto essa ha irradiato nei passaggi successivi.

Questo elemento di rottura è stato la «fusione» del politico e del militare. L’uso della violenza rivoluzionaria era sempre stato concepito come uno strumento tattico dalle organizzazioni proletarie d’avanguardia, uno strumento come molti altri, che «si tirava fuori» solo in alcune fasi, dispiegandosi compiutamente solo in quella insurrezionale e diventando elemento strategico nella guerra civile, in cui la dominanza passava al militare come fattore determinante di vittoria.

In dialettica con questi diversi passaggi si ponevano gli altri aspetti della politica del partito proletario. Così, a grandi linee, la codificazione del rapporto tra il politico e il militare nell’impianto terzinternazionalista.

Con l’assunzione della strategia della lotta armata questo rapporto trova una dimensione totalmente nuova e originale. La fusione del politico e del militare dà al partito, che ingaggia sin dall’inizio la lotta armata come strategia per la presa del potere, una connotazione altrettanto originale: nasce il partito comunista combattente.

Le BR, che già dal loro sorgere si muovevano «da partito», danno tutto il segno di questa originalità, di questa rottura irreversibile nella storia del movimento operaio e comunista italiano.

Alla luce dei recenti avvenimenti riteniamo che quanto abbiamo ricordato, e che pure ogni compagno dovrebbe conoscere a memoria, non sia stato ancora compreso in tutta la sua portata. Non solo: lo squallore della «soluzione politica» è l’ultimo episodio che ci fa pensare come anche chi questa rottura epocale l’assunse facendola propria (da un punto di vista soggettivo) e chi addirittura la promosse, l’abbia interpretata come una assunzione più «formale» che «sostanziale».

Se questo è vero, attraverso un’altra lente troveremmo migliore lettura di quanto può apparire superficialmente indecifrabile, cioè di come una buona parte di un’intera generazione di militanti di allora sta arrivando, seguendo i sentieri più vari, allo stesso traguardo: il crollo.

Con questa chiave di lettura non pretendiamo di esaurire tutte le «motivazioni profonde» dei cedimenti a cui stiamo assistendo, ma ogni altra spiegazione deve tener ben presente questo aspetto.

E allora «storicizziamo» schematicamente, come pare vada di moda oggi, ma con intenti opposti a quelli degli imbalsamatori della lotta armata.

Ricordiamo il quadro di dinamiche oggettive e soggettive da cui emerse quella rottura. A cavallo degli anni ’60-70 fu la classe a ritenere esaurita, nel ruolo di rappresentante generale e storico dei propri interessi, la sinistra istituzionale. Una maturazione di consapevolezza frutto di dinamiche oggettive proprie del grado di sviluppo del MPC nel loro intrecciarsi ad altri fattori interni e internazionali.

1) Nei cicli produttivi delle grandi fabbriche del nord, l’incontro fra l’operaio professionale, con la sua eredità resistenziale mai sradicata del tutto dal PCI, e la forza-lavoro di riserva meridionale, strappata dal suo contesto sociale nella fase espansiva del boom, dotata di un bagaglio di cultura contadina antistituzionale incontrollabile per la sinistra storica.

2) L’impatto di questa realtà con quella studentesca, espressione delle contraddizioni nate dalla scolarizzazione di massa in rapporto al mercato del lavoro, che pone in discussione radicalmente tutto l’apparato ideologico e si dimostra l’elemento consapevole – dal punto di vista soggettivo – di quante potenzialità quella fase di crisi degli assetti sociali, economici, politici conteneva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari.

3) I riflessi della lotta internazionale contro l’imperialismo (Vietnam, paesi della periferia) e contro il fascismo (Grecia, Spagna, Portogallo), l’onda lunga guevarista della Rivoluzione cubana e la Rivoluzione culturale cinese.

È un periodo di grande disordine sotto il cielo in cui, tra l’altro, la contraddizione tra gli elevati livelli di scolarizzazione e il massimo livello di alienazione della grande fabbrica spinge oggettivamente il proletariato – nei suoi settori più avanzati – all’assunzione soggettiva della necessità di ricomporre il lavoro intellettuale con quello manuale, un obiettivo comunista maturo che si rifletterà in modo dirompente anche nel processo di formazione delle avanguardie di classe. Sostanziare l’acquisizione di questo elemento traducendolo nella sfera dell’attività rivoluzionaria significava già porre le condizioni dell’unità del politico e del militare, significava fare il primo passo per riscattare la violenza rivoluzionaria dal suo orizzonte tradizionale nella storia del movimento comunista – la tattica – collocandola in una prospettiva strategica. Pena il riassorbimento in tempi più o meno brevi nel quadro istituzionale. I gruppi e gruppetti che si formarono, non riuscendo a comprendere qual era la strada da imboccare e tentando livelli di mediazione con questo passaggio obbligato, finirono per riprodurre una versione più estremista di quanto avevano già rappresentato per la classe PCI e PSI. Anche Togliatti, utilizzando la sinistra del PCI, per più di un decennio riuscì a prendere per il culo i proletari con le astuzie del «doppio binario», simulando la possibilità di ricostruire l’apparato militare da mettere in campo in vista della leggendaria «ora x». I gruppi ne fecero la serissima parodia organizzando i servizi d’ordine. Anche chi propugnava le idee più avanzate (ma dentro la stessa visione del processo rivoluzionario, da Potere Operaio alla prima LC e, meglio ancora, dai GAP alla XXII Ottobre) non poteva che equivocare, oscillando dalla «militarizzazione» del movimento al rinverdimento di vecchi allori resistenziali con concezioni da braccio armato di tutta la sinistra. E dove questa contraddizione non trovò «rientro» produsse lacerazioni e accelerò la fuga nell’opportunismo di tanti sessantottini.

I soli a capire la necessità del salto da operare furono i compagni che diedero vita alle Brigate Rosse, che ruppero verticalmente con quanto sino ad allora era stato concepito e praticato nel processo rivoluzionario in Occidente a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, prolungando politicamente la rottura orizzontale già operata dai settori più avanzati della classe. Vediamo meglio. La nascita della lotta armata, storicamente definita in un quadro di condizioni ovviamente peculiari ma frutto della maturazione delle dinamiche di un’intera epoca, seppe interpretare dal suo sorgere, anzi, con, il suo sorgere, la necessità di trasporre su un piano più elevato -quello strategico- le spinte delle avanguardie dello strato di classe allora più combattivo e tendenzialmente egemone sull’intero proletariato. Spinte che pure alludevano alla questione fondamentale della presa del potere politico, ma che – di per sé – non esaurivano l’inverarsi di tutte le condizioni richieste per definire una data congiuntura come effettivamente rivoluzionaria. Ma questa «trasposizione» non può essere identificata con le caratteristiche della situazione contingente che la resero possibile (inizio anni ’70) e quindi condannata a condividere la sorte del progressivo affievolirsi e spegnersi del presunto «clima rivoluzionario» di quel periodo.

Fu un salto di qualità che approdò alla concezione della guerra rivoluzionaria di lunga durata nella metropoli imperialista e non certo al prolungamento soggettivista e «in altre forme» di una insurrezione abortita, o – peggio – alla copertura militare dell’antagonismo di una specifica figura proletaria destinata (ABC del marxismo-leninismo!), come tutte quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno, ad estinguersi o trasformarsi nelle successive fasi di sviluppo del MPC.

La guerriglia fu una svolta epocale che ha significato per gli autentici comunisti un’acquisizione irreversibile, perché ha indicato al proletariato l’unica strada vincente per la conquista del potere politico in un paese del centro… al proletariato come classe e non all’operaio massa, cioé a uno specifico referente protagonista di un momento ritenuto rivoluzionario, da paragonarsi all’operaio della manifattura per la Russia del ’17 o all’operaio professionale per l’Ordine Nuovo di Gramsci. Il fatto che oggi l’operaio massa della grande fabbrica, dopo la vittoria della ristrutturazione, abbia mutato il ruolo che occupava nella composizione proletaria, il fatto che esista l’addetto ai robot mentre le foto degli scarriolanti delle bonifiche padane sono conservate nei musei della «cultura contadina», non smentisce ma conferma la continuità della lotta di classe e il ruolo che in essa hanno i comunisti, per lo meno fino a quando questi ultimi non scambieranno l’ascesa dei titoli azionari con l’uscita dell’imperialismo dalla crisi generale e storica che conduce alla guerra. Questo lo evidenziamo per ricordare a chi legge la voluta imbecillità di tesi ricalcate dai pezzi di colore di Giorgio Bocca e che legano la fine congiunturale di un ciclo di lotte offensive di una particolare figura proletaria alla fine della strategia della lotta armata. Voluta imbecillità. A meno che, sino da allora, non si sia frainteso a livello macroscopico quanto si stava facendo, confondendo «strategia» con «tattica». Una assunzione «sostanziale» e non «formale» delle categorie fondanti della guerriglia non avrebbe certo lasciato spazio ad un «equivoco» del genere, protrattosi negli anni successivi in tutta una serie ben conosciuta di deviazioni nel rapporto partito/masse.

Il partito comunista combattente è un partito nuovo e diverso da tutte le esperienze organizzative che l’hanno preceduto, non è uno strumento che si possa piegare a una prassi che la sua stessa esistenza dimostra di aver radicalmente superato, così come l’originalità della sua strategia non può essere ridotta a una sinergia di tattiche ereditate da altri impianti. La soggettività rivoluzionaria organizzata nella strategia della lotta armata per il comunismo non opera come un qualsiasi partito della sinistra storica proteso ala ricerca di una maggioranza sociale o di un’ampia influenza su di essa da spendere come peso contrattuale nella coabitazione con le forze borghesi entro la cornice vincolante delle istituzioni democratiche. Il partito comunista combattente è vettore di una strategia capace di articolarsi nelle tappe di un processo rivoluzionario senza appiattirsi sulle diverse congiunture, determinando la tattica e non risultandone determinato.

A distanza di anni, e ci siamo soffermati sul passato per parlare del futuro, chi vuole inchiodare le BR agli anni ’70 inchioda se stesso a una estraneità storica dalla guerriglia; conferma nei fatti, pur avendo – magari – sempre sostenuto il contrario, una concezione fuorviante e distorta del partito comunista combattente e dei suoi compiti; una militanza segnata fin dall’inizio da contraddizioni accantonate e mai ricomposte al punto da esplodere alla prima proposta democristiana veramente allettante.

I militanti che hanno indossato solo ideologicamente i panni del guerrigliero sopra abiti tratti da vecchi guardaroba, ora si trovano nudi di fronte al loro fallimento o esibiscono senza ritegno la consunta tenuta da braccio (e per di più disarmato!) dell’intera sinistra. Alla fine della loro parabola hanno di nuovo separato il politico dal militare. Storicizzato (e archiviato) il militare, usano il politico come categoria borghese operante entro i limiti della «conflittualità democratica», strumento di trattativa… garanzia di scarcerazione.

 

La fine e l’inizio

I nemici della guerriglia stanno sbagliando i loro calcoli. I giornalisti in divisa e i carabinieri in doppiopetto, gli esponenti dei partiti, il personale istituzionale, stanno condividendo lo stesso equivoco di fondo. La guerriglia non è un esercito borghese che, abbandonato o tradito dai suoi generali, si sbanda al punto da ridursi a fenomeno eliminabile con un fortunato rastrellamento poliziesco. Ne siamo perfettamente consapevoli proprio mentre partecipiamo alla battaglia politica contro la «soluzione» per sconfiggere l’ultimo più articolato e insidioso progetto di liquidazione della guerriglia in Italia. La situazione attuale, in quanto rimette in luce vecchie e recenti incrostazioni teoriche, vecchie deviazioni riproposte e aggiornate, impone lo scioglimento di nodi ben conosciuti, rappresentando così l’occasione decisiva per rivitalizzare il dibattito nel movimento rivoluzionario e, per quanto ci riguarda direttamente, fra i prigionieri comunisti che appoggiano la guerriglia in generale e le BR/PCC in particolare.

La strategia della lotta armata trae forza dalla continuità della sua esperienza per uscire dalle secche del continuismo e affrontare le tappe del processo rivoluzionario negli anni ’90 in un paese del centro imperialista. La storia delle Brigate Rosse si conferma ancora una volta irriducibile alle distorte letture di parte, vitalmente refrattaria a chi vuole «conservarla» per svenderla, a chi pretende di «trasformarla» per diluirla nel pantano socialdemocratico, a chi sogna di confezionarla in un accattivante pacco dono da anni ’70 pronto per l’immissione nell’industria culturale postmoderna. È un processo che si arricchisce giorno per giorno costruendosi nella lotta di classe, rafforzandosi nelle sconfitte e alimentandosi della materia sociale in movimento.

L’esperienza delle Brigate Rosse è un’arma che continueremo a impugnare. Perché la rivoluzione sa appendere i quadri storici al muro e trovare la strada per la vittoria.

 

Adriano Carnelutti, Giuliano Deroma, Carlo Garavaglia, Ario Pizzarelli

 

Cuneo, settembre 1987.

Tribunale di sorveglianza di Firenze – Dichiarazione del militante delle BR-PCC Roberto Morandi allegata agli atti dell’udienza del 11.02.2005 per ricorso al provvedimento di 41 bis

Lo stato vorrebbe avere la pretesa di infliggere una qualche sconfitta politica alle BR-PCC ed alla classe in generale. Cercando con questo provvedimento di 41 bis di usare i militanti BR ed i militanti rivoluzionari prigionieri come ostaggi su cui fare pressione e con il fine di impedirli ad intervenire politicamente nei cosiddetti “processi alle BR”, di annullare il dato politico che in realtà va ben al di là del rapporto prigionieri/stato, rappresentato dal rilancio della lotta armata. Come se agendo sui prigionieri in qualità di ostaggi da parte dello stato, si riuscisse a liquidare il peso che l’intervento combattente delle BR ha avuto, ed ha, nello scontro rivoluzionario e di classe in questo paese. Ma questa azione evidentemente non può cancellare quanto il rilancio della strategia della lotta armata rappresenti oggi nei rapporti di forza generali. Tra le classi uno svantaggio strategico per la borghesia ed invece un vantaggio altrettanto strategico per il proletariato. Tutto ciò inoltre in un contesto in cui le contraddizioni ed i conflitti di classe si vanno sempre più acuendo e polarizzando sul piano interno, per effetto di una crisi i cui costi la borghesia vuole puntualmente rovesciare sulle spalle della classe. Come sul piano internazionale dei rapporti tra imperialismo ed antimperialismo, se da un lato sempre più si è sviluppata la necessità di imprese belliche ed aggressive da parte dell’imperialismo, in particolare del suo polo dominante USA, dall’altra la resistenza e la guerriglia dei popoli libanese, palestinese, afghano e irakeno, ha impedito il rafforzarsi e stabilizzarsi nell’area della controrivoluzione e degli interessi imperialisti. Così come la resistenza di questi popoli ai disegni imperialisti ha reso più instabile e contraddittoria la coesione della catena imperialista su tutti i fronti di guerra. Avendo pure un netto riflesso sulla situazione del “fronte interno” ai paesi imperialisti in generale, ed in particolare a quelli della coalizione anglo-usa-italiana e dei volenterosi che invasero l’Iraq, non consentendo una costante e stabile mobilitazione di massa a sostegno della guerra di aggressione all’Iraq e all’Afghanistan. Una condizione storico generale che impone sicuramente agli stati imperialisti di rinsaldare il governo del conflitto politico e di classe interno e impedire che vada a saldarsi con le istanze antimperialiste espresse dai popoli aggrediti, come nello specifico del rapporto Rivoluzione/Controrivoluzione di questo paese. Lo stato deve agire su più “fronti interni”, dato il significato concreto che il rilancio dell’iniziativa politico-militare delle BR-PCC da all’avanzamento della lotta sul terreno del potere e per il potere della classe e delle sue avanguardie rivoluzionarie che su questo si dispongono. È chiaro in quale clima politico e sociale, dopo le misure “antiterrorismo internazionale”, perse dal governo con il consenso bipartisan di tutte le forze politiche-istituzionali, questo provvedimento di 41 bis contro i militanti BR e rivoluzionari catturati dal 2003 ad oggi, si collochi! Il dato di fatto è però che se la soggettività politica della borghesia pensava ad una controrivoluzione assestata, per cui le condizioni storiche e politiche in cui i conti con la strategia della L.A. E della lotta per il potere della classe fossero regolati una volta per tutte, con il rilancio invece della L.A quale strategia che consente all’avanguardia rivoluzionaria di esercitare ruolo di direzione ed organizzazione della classe rispetto allo scontro, si è dovuta amaramente ricredere. Così, pur nelle mutate condizioni politiche dello scontro, si è verificato che la strategia della lotta armata è motore capace di modificare a favore della classe il quadro dello scontro e dei rapporti di forza a fronte di un doppio processo controrivoluzionario, che sul piano internazionale modificava a favore dell’imperialismo equilibri e rapporti tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, e sul piano interno nei rapporti rivoluzione/controrivoluzione e classe/stato, pareva essersi definitivamente assestato. Quadro dello scontro che si è modificato per come si è qualificato il rilancio della L.A. Cioè di attacco al cuore dello stato, inteso come progetto antiproletario e controrivoluzionario, con cui la borghesia si rapporta ai nodi centrali dello scontro che la oppongono al proletariato. Progettualità che viene individuata riaffermando i criteri che permettono l’attacco allo stato intervenendo nel vivo dello scontro e che sono del patrimonio rivoluzionario più avanzato quello espresso dalle BR-PCC e cioè di centralità selezione e calibramento. Centralità del progetto dominante, selezione del personale perno dell’equilibrio a suo sostegno e calibramento ai rapporti di forza interni ed internazionali, nonché allo stato delle forze rivoluzionarie e proletarie e alla loro disposizione sulla lotta armata. Criteri che, unitamente ai principi politico-organizzativi-strategici, come quelli di clandestinità, compartimentazione e centralizzazione delle direttive-decentramento delle responsabilità politiche e politico-organizzative che consentono alla guerriglia di praticare la strategia della L.A. come strategia adeguata d impattare e distruggere le forme politiche attuali del dominio della borghesia sul proletariato nei paesi imperialisti e sostenere lo scontro, come processo di guerra di classe prolungato con la borghesia e il suo stato, cosicché dall’attacco si abbia il massimo vantaggio politico per il proletariato e la propria organizzazione rivoluzionaria in questa fase dello scontro, come in generale di ritirata Strategia e di ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie, dove il dato politico predomina sull’aspetto militare sino al momento della rottura rivoluzionaria, consentono all’iniziativa rivoluzionaria di incidere dove si formano i rapporti di forza e politici nello scontro tra le classi, quale conseguenza del danneggiamento dovuto all’attacco militare portato al progetto e agli equilibri politico-sociali intorno ai quali si vengono a stabilire tali rapporti. E con ciò sviluppare il processo di costruzione del partito Comunista Combattente. Progettualità che esprime il rapporto politico tra la classe e lo stato e che è rappresentata come centralità della rimodellazione economico-sociale dei rapporti e relazioni tra le classi in senso neocorporativo e di riforma istituzionale dello stato. Ed è proprio rispetto al danneggiamento inflitto allo stato che con la linea espressa le BR hanno rafforzato le istanze di autonomia della classe e ristabilito una dialettica storica con queste, in virtù del peso che le BR hanno assunto nello scontro di classe del paese, per l’opzione praticata e proposta a tutta la classe quale unica rispondente alle necessità politiche e strategiche del proletariato di un’ alternativa rivoluzionaria alla crisi economica sociale e politica della borghesia imperialista e alla sua offensiva antiproletaria, controrivoluzionaria e bellicista volta ad aumentare lo sfruttamento della classe operaia, del proletariato metropolitano e a rafforzare il proprio dominio. Per cui i settori ed avanguardie di classe nella loro resistenza hanno trovato maggior forza per rompere le gabbie neocorporative, quale conseguenza del rafforzamento generale delle istanze di autonomia poste nello scontro, trovando le condizioni per riprendere l’iniziativa di lotta proprio intorno al danno pitico subito dalla borghesia per merito dell’iniziativa rivoluzionaria. Un dato politico che ha fatto sì che il rilancio rafforzasse la resistenza proletaria e le sue istanze autonome, nonostante i tentativi dell’esecutivo di riversare i successi della controguerriglia nei confronti delle BR-PCC sull’intero campo di classe e rivoluzionario per farlo arretrare e poter riprendere l’offensiva contro di esso. È questo il risultato mancato che sostanzia l’impotenza politico-strategica dello stato e della borghesia. A questo dato lo stato e la sua controrivoluzione si devono per forza rapportare nel cercare di riadeguarsi e recuperare lo svantaggio sofferto nei confronti della classe e della sua avanguardia rivoluzionaria, ma trovandosi di fronte a un dato di rilevanza strategica, lo stato deve far pesare al massimo i risultati conseguiti solo sul terreno della controguerriglia negli ultimi tempi e dare il massimo risalto controrivoluzionario ai “processi alle BR” cercando di utilizzare in qualità di ostaggi i militanti BR e rivoluzionari prigionieri e propagandando ancora una volta l’ennesima e supposta sconfitta storica delle BR. Ma non essendo stato sufficiente tutto questo nel cercare di divaricare la proposta delle BR dalla classe, e avendo un bilancio dei processi in forte passivo per lo stato, si cerca oggi un ulteriore affondo nell’attacco politico all’Organizzazione attraverso questo provvedimento di 41 bis segno evidente che l’intervento politico dei militanti BR e rivoluzionari in prigionia ai processi, è stato all’altezza di rappresentare e sostenere gli avanzamenti e attestazioni storiche conseguite dalla guerriglia con il rilancio della lotta armata, riaffermando con ciò la propria identità rivoluzionaria in modo sempre più adeguato sottraendosi al ruolo di ostaggio che lo stato utilizza contro la classe, cercando oggi di nascondere la propria attuale debolezza politica generale nel voler agire sui militanti prigionieri, non potendo incidere sui processi storici nel ristabilire l’assestamento controrivoluzionario precedente al rilancio stesso. Quindi rispetto a questo provvedimento di 41 bis e all’utilizzo dei prigionieri come ostaggi è necessario riaffermare la propria identità rivoluzionaria e il sostegno alla propria organizzazione e ciò facendo prendere posizione contro tale provvedimento come atto della ricerca di legittimazione e di un consenso alle politiche dominanti da parte della borghesia imperialista che non possono essere trovati nella realtà dello scontro di classe. Per cui lo stato borghese si riduce alla battaglia contro i mulini a vento della criminalizzazione delle parole politiche dei prigionieri che disconoscono la sua legittimità storica e politica. Una battaglia illusoria perché i processi reali si svolgono fuori dalle mura delle prigioni, sono di carattere politico storico e segnati dall’approfondirsi della crisi dell’imperialismo. E sul piano storico proprio il rilancio della lotta armata dimostra di come le politiche controrivoluzionarie sugli ostaggi perseguite sino ad ora e oggi lo stesso si può dire per questo provvedimento di 41 bis, siano state armi spuntate che non possono fermare il processo rivoluzionario. Per cui pensare di poterlo fare attraverso i militanti BR e rivoluzionari in prigionia usati come ostaggi e attaccarli nell’espressione della propria identità politica, in quanto sono soltanto le “figure” pubbliche della rivoluzione è puramente velleitario e ulteriore riprova del fallimento politico da cui questo provvedimento deriva.

 

Il militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente Roberto Morandi

 

Da un militante BR processato in Svizzera. Documento di Antonio De Luca messo agli atti

L’iniziativa dei compagni della RAF contro Tietmeier, uno dei principali artefici della formazione delle politiche economiche comunitarie, ha rimesso al centro il nodo politico di fondo con cui si devono confrontare oggi tutte le organizzazioni combattenti della nostra area geopolitica indipendentemente se le loro finalità strategiche siano la liberazione nazionale o la dittatura del proletariato: lo sviluppo ed il consolidamento del Fronte Antimperialista Combattente (FAC) in quanto politica di alleanza tra le forze combattenti dell’area.

La necessità del salto politico al FAC si pone oggi in termini soggettivi a partire dal grado di sviluppo dell’imperialismo sia dal punto di vista economico che, e soprattutto dal punto di vista delle politiche di coesione, che impongono la necessità della costruzione di quei livelli di unità e cooperazione che permettano di incidere sulle politiche dominanti dell’imperialismo, pur senza esaurire con questa attività il complesso del lavoro che ogni organizzazione combattente porta a-vanti relativamente ai suoi obiettivi strategici ed alle caratteristiche storiche e sociali del proprio paese.

Infatti anche l’attività delle BR non si esaurisce nell’attività di attacco all’imperialismo, ma lega questa attività all’attacco al cuore dello stato, cioè l’attacco alle politiche dominanti dello stato che nelle congiunture sono atte a determinare nel paese equilibri politici tra classe e stato funzionali all’attuazione dei programmi della frazione dominante della BI (Borghesia Imperialista), che in questa congiuntura si riconducono all’attacco del progetto demitiano di riformulazione e rifunzionalizzazione dei poteri dello stato e dei suoi apparati.

Attacco che mira, in ogni congiuntura, a disarticolare l’iniziativa del nemico favorendo l’ingovernabilità delle tensioni di classe per rovesciarle sul terreno della guerra civile di lunga durata contro lo stato, dando prospettiva allo scontro di classe.

Attività che può svilupparsi solo a partire da un criterio offensivo, che nella metropoli significa immediatamente organizzazione della lotta armata, in quanto unico terreno praticabile in questa fase storica per lo sviluppo di un processo rivoluzionario, questo a causa dello sviluppo delle forme di dominio della BI, che fin dal secondo dopoguerra con lo sviluppo delle politiche di controrivoluzione preventiva divenute strutturali all’agire degli stati, ed a fronte di profonde modificazioni sociali date dalla proletarizzazione della maggioranza della popolazione nei paesi del centro imperialista, hanno reso impraticabile la politica dei due tempi con l’accumulazione di forze sul terreno politico da rovesciare sul terreno militare al momento opportuno, rendendo così necessario sviluppare il processo rivoluzionario fin dall’inizio in un rapporto di guerra, accumulando e disponendo le forze su questo terreno, costruendo su questo terreno la dialettica con le varie componenti dello scontro di classe, un processo che si sviluppa in termini non lineari, secondo le leggi della guerra, che può quindi avere avanzamenti o subire arretramenti, in relazione al procedere dello scontro.

Questo processo, oggi, nella metropoli, si scontra con l’imperialismo e le sue crescenti esigenze di stabilità e coesione, che producono tra l’altro una tendenziale omogeneità delle forme di dominio della BI che vanno nel verso di un approfondimento della democrazia rappresentativa (borghese) che da sempre è “il miglior involucro del capitale”, esigenze il cui aspetto puramente repressivo nei confronti delle forze rivoluzionarie europee e mediorientali, non è che quello più evidente di quanto oggi sia inutile e perdente pensare di potersi incuneare e sfruttare le contraddizioni tra gli stati imperialisti. La necessità del FAC si dà oggi in quanto prassi offensiva che mira alla disarticolazione delle politiche dominanti dell’imperialismo per determinare quelle condizioni di instabilità politica nell’area funzionali al procedere del processo rivoluzionario a livello nazionale.

Perciò per le BR e la RAF si è posto fin dall’inizio e in termini soggettivi il problema della ricerca di un primo livello di unità (concretizzatosi nel testo comune diffuso dai compagni della RAF dopo l’iniziativa contro Tietmeier, partendo non da considerazioni ideologiche, ma dai problemi politici relativi all’organizzazione dell’attacco su cui maturare i livelli di unità successivi. Questo perché organizzare il FAC significa organizzare l’attacco, non si tratta di un modello rivoluzionario o di una categoria ideologica.

Obiettivo del FAC è dunque determinare una condizione di ingovernabilità dell’area, cosa differente dall’impedire il processo di integrazione e coesione in atto a livello internazionale, anche perché la stessa attività rivoluzionaria (oggettivamente o soggettivamente antimperialista) è uno degli elementi che contribuiscono allo sviluppo di questo processo di integrazione, poiché l’attacco all’imperialismo produce come conseguenza non una separazione tra i vari stati, ma al contrario produce una risposta sempre più unitaria e centralizzata.

Un processo questo che si sviluppa e ridetermina di volta in volta in relazione alle necessità imposte dall’evolvere della crisi ed all’andamento della contraddizione est/ovest, che è quella dominante nel mondo, su cui maturano le tappe della tendenza alla guerra, cosa questa comunque da non intendersi né come progetto pianificato dall’inizio alla fine, né come portato oggettivo e meccanico prodotto da un certo livello di crisi. Questo anche per chiarire che una cosa è la contraddizione est/ovest, su cui maturano i passaggi della tendenza alla guerra, un’altra è la contraddizione imperialismo/antimperialismo, il cui unico legame è dato dalla sovrastruttura ideologica con cui uno dei due blocchi si presenta, questo perché la BI non fa la guerra al proletariato e ai popoli del Terzo Mondo, ma si limita a sfruttarli (trovandolo molto più conveniente) imponendo il proprio ordine dove necessario, cosa questa diversa dalla guerra intesa come controtendenza necessaria per ridare slancio all’accumulazione capitalistica. Anche se questo elemento interviene nelle relazioni tra i blocchi nella misura in cui a partire dalle sconfitte subite sul campo dalla BI ad opera delle guerre di liberazione nazionale, ha concorso a modificare l’approccio globale dell’imperialismo nei confronti dell’altro blocco, evoluzione relativa anche allo sviluppo del capitale le cui esigenze (legate all’approfondimento della crisi) rendono oggi vitali per l’imperialismo tutti gli angoli del mondo.

Ed è questo insieme di fattori (di cui quello dominante è la contraddizione est/ovest) che produce questo processo di coesione e concentrazione politica tra i paesi imperialisti, del quale un passaggio significativo è stato il recente accordo sugli euromissili, che al di là del folklore pacifista ha rappresentato un salto di qualità sul terreno della concertazione politica dei paesi imperialisti nei confronti dell’altro blocco segnando un’altra tappa della tendenza alla guerra, nella misura in cui ha messo le basi per una politica di riarmo centralizzata nella NATO e, basata sul convenzionale in quanto permette un più grosso immobilizzo di capitali delle armi nucleari essendo legata ai settori tecnologicamente più avanzati. Politica di riarmo che non è il prodotto dell’asservimento del potere politico al complesso militare-industriale, ma una politica economica che in periodi di crisi dà la possibilità ai capitali a più alta composizione organica di continuare la produzione dirottandola verso settori improduttivi a spese dello stato.

A fianco di questo processo di coesione di carattere generale che ha prodotto all’interno del blocco un equilibrio politico subordinato e funzionale alle scelte della riconosciuta leadership USA, se ne sviluppa un altro più specificatamente europeo che produce la formazione delle politiche per la coesione europea che hanno determinato l’accrescersi dell’attivismo europeo nell’area, riflesso anche del parziale riequilibrio economico tra USA ed Europa.

Politiche che si sviluppano su diversi piani.

Quello economico con la formazione di politiche economiche atte a favorire la formazione di nuovi monopoli in grado di sostenere la concorrenza del mercato mondiale, che tendono tra l’altro a rimodellare il rapporto nord/sud in relazione al grado di sviluppo raggiunto dal capitale (rimodellazione che non può comunque avvenire al di fuori del ridimensionamento del blocco socialista con la ridefinizione delle aree di influenza).

Quello politico/diplomatico, che ha prodotto una diplomazia europea fortemente integrata che costituisce l’ossatura dell’attivismo europeo nell’area sia nel portare avanti una linea politica unitaria, che per l’elaborazione di queste linee.

Quello militare in cui assume un’importanza particolare la rifunzionalizzazione in atto del fianco sud della NATO, in nome del quale è stato deciso il riavvicinamento tra Grecia e Turchia imposto d’autorità dalla CEE, che ha portato al rischieramento degli aerei di Torrejon in Italia seguito alla “vittoria” referendaria, che si trasformeranno in volo da aerei USA in aerei NATO, rischieramento che mette in evidenza tanto l’ambizione italiana di ritagliarsi un ruolo da “anello forte” nel Mediterraneo, quanto la sempre più diretta assunzione della NATO nelle questioni della regione, vedi anche l’appoggio indiretto, dato con l’invio di navi tedesche nel Mediterraneo, alle spedizioni nel Golfo Persico, ecc.

Quello dell’antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione e coordinamento degli apparati repressivi, ed un’omogeneizzazione degli strumenti legislativi che ha prodotto tra l’altro lo spazio giuridico europeo, la definizione e messa in atto di iniziative politiche controguerrigliere come la soluzione politica.

Questo complesso di fattori si riflette al di fuori dell’Europa (oltre che al suo interno) concretizzandosi in iniziative politiche tese in questa fase alla stabilizzazione dell’area, come obiettivo funzionale non tanto in termini economici attraverso una ripresa degli investimenti garantiti dalla stabilità politica (ipotetica) dell’area, come al limite potrebbero far pensare i propositi di “piano Marshall” per il Medio Oriente (legato alla conferenza internazionale di “pace” del piano Shultz, e quindi al riconoscimento da parte araba di Israele), oppure i progetti integrati per il Mediterraneo della CEE o altro, poiché anche questi aspetti economici sono funzionali all’acquisizione di migliori rapporti di forza da parte dell’imperialismo nei confronti dell’altro blocco.

In questi tentativi di stabilizzazione l’Europa si distingue per il suo attivismo diplomatico tanto nei confronti degli arabi che di Israele più volte richiamato alla necessità di una sua opportuna acquisizione di uno status diplomatico più consono al ruolo che tendenzialmente è chiamato a svolgere nell’area, cosa questa per cui si è esibito anche Cossiga con il suo show in Israele con cui legittimava nei fatti la repressione sionista nei territori arabi occupati.

Un progetto di stabilizzazione che è poi il progetto politico dominante dell’imperialismo nell’area, che trova il suo maggiore ostacolo nella lotta antimperialista condotta dal popolo palestinese e libanese, sulla cui pelle, nei fatti, deve passare.

 

– Costruire alleanze antimperialiste per rafforzare e consolidare il fronte antimperialista combattente nell’area!

– Sostenere la guerra del popolo palestinese e libanese contro l’oppressione imperialista e sionista!

– Organizzare le forze intorno alla costruzione del partito comunista combattente per attrezzare e dirigere il campo proletario nello scontro prolungato contro lo stato per il potere!

– Attaccare, disarticolare il progetto politico demitiano di riformulazione dei poteri e delle funzioni dello stato!

– Su questi termini di programma costruire l’unità dei comunisti per la costruzione del partito comunista combattente!

– Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!

 

Antonio De Luca – militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Firenze – Dichiarazione dei militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente Maria Cappello e Fabio Ravalli

Il rilancio che le BR hanno operato in questi anni di ritirata strategica dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria, le prospettive politiche che questo ha aperto sia sul terreno del rapporto classe/stato che sul terreno dell’antimperialismo, ha determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario. Un movimento consapevolmente prodotto e calibrato dalle BR rispetto ai rapporti di forza generali fra le classi e al rapporto imperialismo/antimperialismo.

L’elemento di forza di questo rilancio è costituito dal fatto che si è forgiato all’interno delle condizioni della controrivoluzione degli anni ’80, quindi con delle caratteristiche di crescita il cui portato politico si è reso subito tangibile nel dispiegamento pratico della attività rivoluzionaria per la sua capacità di dialettizzarsi in termini di direzione/organizzazione con le istanze più mature dell’autonomia di classe, di costituire cioè il catalizzatore delle componenti rivoluzionarie e proletarie vive del paese; nel contempo di proporsi, sul piano dell’antimperialismo, come forza rivoluzionaria autorevole, non solo per il contributo già operato su questo terreno, ma soprattutto per il contributo al rafforzamento e consolidamento della politica del Fronte combattente antimperialista. Questo il dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha indotto lo stato a ridefinire contromisure per contrastare il portato politico della proposta delle BR al movimento di classe, al proletariato. Più precisamente, misure che siano in grado di “gravare” e divaricare il terreno alle aspettative che si sono create nell’ambito operaio e proletario.

Il processo alle “BR toscane” si inserisce in questo quadro. Un processo contro le BR letteralmente costruito: attraverso la ricattabilità (purtroppo) della condizione proletaria, si è agito sulla debolezza di alcuni per elevarli al “rango” di collaboratori, in modo da avere una base materiale al fine di determinare una pagante deterrenza politica e militare nei confronti di quei compagni e componenti proletarie che si dialettizzano con la proposta rivoluzionaria, o che comunque non accettano supinamente la pubblicistica della controguerriglia. Una costruzione che, in ultima istanza, obbedisce al dettato politico democristiano di: sempre e comunque prevenire. L’attività delle BR è sullo sfondo e a questa ci riferiamo, come militanti delle BR-PCC, e rivendichiamo la giustezza e l’interezza di questa attività e segnatamente l’attacco contro Lando Conti, uomo di punta nelle politiche di riarmo nonché caldeggiatore degli interessi sionisti. Un attacco che ha segnato una tappa importante per la definizione politica/programmatica e la costruzione/consolidamento del FCA (Fronte Combattente Antimperialista) come marcatamente dimostra l’attacco, su base politica unitaria tra RAF e BR, contro Hans Tietmeyer.

Come le leggi della guerra dettano, con la cattura di alcuni militanti, lo stato batte la grancassa per avere dei risultati politici da poter ribaltare su tutti i piani dello scontro: dal messaggio spicciolo che i carabinieri sono più forti, alla ratifica politica suggerita dai servizi che nulla più esiste, alle pressioni giudiziarie sui militanti dell’organizzazione catturati, e in special modo sui militanti rivoluzionari al fine di romperne l’omogeneità e la tenuta.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Fabio Ravalli

 

Firenze, 25/11/1988

Costruire e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista. Roma, processo per Insurrezione – Dichiarazione comune di Brigate Rosse e Rote Armee Fraktion letta in aula dai militanti delle BR-PCC Sandro Padula e Francesco Sincich il 4.4.89

Il processo per “insurrezione” si configura come un momento della politica controrivoluzionaria dello stato ed aspira ad essere un processo alla guerriglia, alle Brigate Rosse, all’esistenza stessa di una progettualità rivoluzionaria.

Abbiamo già dichiarato che la nostra posizione in questo processo è quella di militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente e perciò siamo qui unicamente per sostenere la linea, la pratica e il progetto rivoluzionario della nostra organizzazione.

Oggi, nelle nuove condizioni imposte dallo scontro di classe a livello interno ed internazionale, la costruzione ed il consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista nell’area (Europa occidentale, Mediterraneo, Medio oriente) è parte integrante della linea e della pratica delle BR/PCC.

Indebolire e destabilizzare l’imperialismo vuol dire creare le condizioni per lo sviluppo dei processi rivoluzionari nell’area. Per questo motivo la RAF e le BR hanno stabilito un’unità d’azione ed hanno diffuso una dichiarazione comune, che espone i contenuti politici e programmatici della convergenza raggiunta e testimonia del livello di maturità conseguito dalle forze rivoluzionarie che combattono in quest’area.

Sulla base delle direttrici fondamentali di questa dichiarazione comune la nostra organizzazione, le BR/PCC, opera per stabilire più ampi livelli di alleanza antimperialsta con le forze rivoluzionarie.

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Sandro Padula, Francesco Sincich

 

Roma, 4.4.89

 

Riportiamo qui di seguito la dichiarazione comune RAF/BR-PCC.

 

Per le forze rivoluzionarie il salto alla politica del fronte per portare lo scontro alla durezza necessaria è necessario e possibile.

Per questo è necessario che tutte le posizioni ideologiche-dogmatiche che ancora oggi esistono all’interno delle forze combattenti e dei movimenti rivoluzionari in Europa occidentale siano combattute e sconfitte, perché dividono i combattenti e perché queste posizioni non possono raggiungere il livello di cui c’è bisogno per portare le lotte e gli attacchi alla durezza politica necessaria.

Le differenze storiche nello sviluppo e nell’impianto politico delle singole organizzazioni, le differenze (secondarie) nell’analisi eccetera, non possono e non devono essere d’ostacolo alla necessaria unificazione delle molteplici lotte e delle attività antimperialiste in un attacco cosciente e mirato al potere imperialista.

Non si va verso la fusione delle singole organizzazioni in un’unica organizzazione: il fronte in Europa occidentale si sviluppa in un processo di conoscenza diretto e organizzato, sulla base dell’attacco pratico, in questo maturano i momenti più stretti di unità tra le forze combattenti.

L’organizzazione del fronte rivoluzionario combattente significa organizzazione dell’attacco, non è né una categoria ideologica, né un modello rivoluzionario. Al contrario si dirige verso lo sviluppo della forza politica e pratica che combatte adeguatamente il potere imperialista, che approfondisce la frattura nella metropoli imperialista e matura un salto di qualità della lotta proletaria.

La nostra esperienza comune dimostra come sulla base della decisione soggettiva è possibile per ogni organizzazione, nonostante le differenze e contraddizioni esistenti, sviluppare in avanti il fronte; nella discussione comune noi non abbiamo mai perso d’occhio l’elemento unitario dell’attacco contro l’imperialismo.

L’Europa occidentale è punto cardine nello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista.

L’Europa occidentale è per il suo carattere storico, politico e geografico il punto in cui si intersecano le tre linee di demarcazione: Stato/società, Nord/Sud, Est/Ovest.

L’aggravamento della crisi del sistema imperialista e la diminuzione della potenza economica degli Usa sono i motivi principali che, insieme con altri fattori politici, portano a una relativa perdita di peso politico degli Usa e che spingono avanti lo sviluppo del processo di integrazione economica, politica e militare del sistema nel suo insieme.

In questo contesto aumenta la funzione dell’Europa occidentale nel management imperialista della crisi.

Sul piano economico: l’Europa occidentale esplica un piano di politica economica organico all’interno del management imperialista delle crisi come cuscinetto e supporto contro le contraddizioni economiche;

– sul piano militare: l’accelerazione dell’integrazione politico-militare all’interno della Nato con il progetto di riarmo politico economico nella nuova strategia militare imperialista per il confronto con l’Est e con interventi politico-militari integrati contro i conflitti che si acutizzano nel Terzo mondo, in prima linea contro la regione di crisi del Medio oriente;

– sul piano controrivoluzionario: il riarmo e l’integrazione delle polizie e dei servizi segreti contro lo sviluppo del fronte rivoluzionario, contro le lotte rivoluzionarie nel loro complesso e contro l’allargamento e l’inasprimento degli antagonismi di massa; la riorganizzazione e l’integrazione per l’intervento politico mirato contro la guerriglia, per esempio il progetto di “soluzione politica” in diversi paesi dell’Europa occidentale;

– sul piano politico-diplomatico: i progetti di “dialogo politico” per disinnescare i conflitti e consolidare la posizione di forza imperialista.

Queste iniziative hanno anche la funzione di intensificare il processo di formazione politica dell’Europa occidentale all’interno del sistema nel suo complesso. Questi piani sono legati tra loro e spingono in avanti la formazione politica dell’Europa occidentale; un movimento da cui nessun paese è escluso.

Nessuna forza rivoluzionaria combattente, nella sua attività rivoluzionaria, deve trascurare questi fatti.

Questi elementi politici formano il quadro nel quale il fronte in Europa occidentale è necessario e possibile.

Il livello storicamente raggiunto dalla controrivoluzione imperialista ha mutato sostanzialmente il rapporto nel confronto tra imperialismo e forze rivoluzionarie. Ciò significa essere coscienti del crescente peso della soggettività nello scontro di classe e di ciò, che il terreno rivoluzionario non può essere puro riflesso delle condizioni oggettive.

L’attacco del fronte europeo occidentale all’attuale progetto strategico della formazione politica, economica e militare dell’Europa occidentale mira all’indebolimento del sistema imperialista per determinare un’ampia crisi politica.

La nostra offensiva comune si dirige:

– contro: la formazione della politica economica e monetaria dell’Europa occidentale, che è concepita nel sistema imperialista nel suo insieme come cuscinetto e supporto contro l’acuta erosione economica e che, in coordinamento con la politica degli Usa e del Giappone sulla pelle delle masse nella metropoli e nel Terzo mondo, vuole imporre gli interessi di profitto e di potere delle banche e dei consorzi multinazionali e che vuole impedire il crollo del sistema finanziario internazionale;

– contro: la politica della formazione dell’Europa occidentale, che mira al rafforzamento delle posizioni imperialiste, come l’attuale intervento nella regione del Medio oriente sulla pelle dei popoli palestinese e libanese per stabilizzare questa regione.

L’attacco unificato alle linee strategiche della formazione dell’Europa occidentale scuote il potere imperialista.

Organizzare la lotta armata in Europa occidentale.

Costruire l’unità delle forze rivoluzionarie combattenti nell’attacco: organizzare il fronte.

Lottare insieme.

 

Rote Armee Fraktion – Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

 

Settembre 1988